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ITALO SVEVO: ‘LA COSCIENZA DI ZENO’

Haronne Ettore Schmitz (Aron Hector Schmitz), meglio conosciuto sotto il


pseudonimo d’Italo Svevo (Trieste, 1861 – Motta di Livenza, 1928), scrittore,
compositore di opere teatralia, saggi, romanzi, articoli per il giornale, fu,
insieme a Luigi Pirandello uno dei migliori scrittori italiani tra l’ottocento e il
novecento.

Lo pseudonimo di Italo Svevo è dovuto al fatto che cercava di conciliare le sue


due origini culturali: il tedesco e l’italiano. Da genitori di origine ebraica. Svolge
una parte dei suoi studi in la Germania. È in quel periodo che si avvicina ai
classici, leggendo Shakespeare tra gli altri autori, anche nel 1878, oltre a
ritornare a Trieste, lo stesso anno sogna di recardi a Firenze per potersi
avvicinare alla lingua di Dante, Petrarca e Bocaccio.

L’opera di Svevo è stata molto segnata dalla sua vita, sia personalmente che
linguisticamente, durante il processo di creazione delle sue opere, poiché il tono
autobiografico è molto marcato in gran parte di esse, come ad esempio in ‘La
coscienza di Zeno’. L’opera di Svevo è stata personalmente segnata perché i suoi
temi erano il rifflesso degli eventi che stavano accadendo nella vita dell’autore
in quel momento: il matrimonio con la moglie, innumerevoli sfide professionali,
i brutti tempi del suo matrimonio, la morte di due dei suoi fratelli, la morte di
suo padre (quello stesso anno ha pubblicato ‘Una vita’ dove per la prima volta
usa lo pseudonimo di Italo Svevo), ciò che stava accadendo al suo tempo...

Tutte queste ragioni della sua vita insieme all fallimento che ha avuto all’inizio
della sua carriera letteraria e a causa della situazione socio-storica del suo
tempo lo rendono un tempo senza fare letteratura e focalizzato sulla sua
capacità imprenditoriale. La usa opera, pertanto, resterà paralizzata fino a
nuovo avviso, è rimasta isolata dall’ambiente letterario italiano. Prima, i suoi
romanzi ruotavano sempre introno ai dettagli della vita quotidiana e della

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complessità delle motivazioni umane, poi esercitavano pochissima influenza fino
a quando, negli anni ‘70, riemersero.

Nel 1907 conobbe lo scrittore irlandese James Joyce, con il quale collaborò e lo
incoraggiò a continuare a scrivere, aggiugendo al suo interesse per la psiconalisi
che gli permise di continuare la sua carriera letteraria. Nel 1919 inizia a scrivere
‘La coscienza di Zeno’ che sarà pubblicara nel 1923, inoltre coincide con due
momenti storici importanti per gli italiani, la fine della Prima Guerra Mondiale e
l’inizio del regime fascista in Italia.

Come ho già detto, perché Svevo, conoscendo Joyce, si è interessato alla


psicoanalisi, ‘La coscienza di Zeno’ sarà un romanzo psicologico che utilizza uno
stile informale con un tono di ironia usando il dialetto locale con un grande
sforzo e impegno nel descrivere i pensieri, i sentimenti e i ricordi dei personaggi,
basati sulla vita stessa dell’autore. Ma... perché usa il dialetto locale? Ebbene,
Italo Svevo usa il dialetto locale perché molti dei problemi linguistici sono
associati al fatto che l’autore aveva un origine settentrionale triestino, allora ci
pone di fronte ad un uso molto vicino e diverso dell’italiano pieno di dialettici e
di germanismi. La toscanizzazione dello scrittore corrisponde ad un
apprendimento secondario, poiché la sua lingua madre è il triestino.

L’opera inizia con la prefazione e il preambolo dove si può vedere chiaramente


che inizia come una lettera firmata dal dottore (e che espone l’origine del libro),
lo psicoanalista che cura Zeno Cosini. A causa dell’interruzione del suo
trattamento sulla sua dipendenza dal tabacco e in modo di vendetta decide di
pubblicare le memorie che egli stesso aveva consigliato a Zeno si scrivere. I
capitoli successivi saranno quindi le memorie del protagonista (eventualmente
anche legate all’autore originale, Italo Svevo) e l’accumulo di verità e bugie. Un
romanzo autobiografico dove la psicoanalisi è un concetto importante e che,
attraverso di esso, si narra oltre il modo di spiegare la sua abitudine alla
sigaretta. È anche chiaro che ‘La coscienza di Zeno’ produce una polemica

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contro la psicoanalisi come forma di terapia, perché dice di essere molto noioso.
Inoltre la lettera S quando si riferesice al dottore potrebbe essere l’iniziale
dell’autore (Schmitz) o forse del padre della psiconalisis come lo era Sigmund
Freud.

All’inizio e per sottolineare il primo capitolo, il dottore suggerisce a Zeno di


iniziare a scrivere per isolare il suo pensiero e cercare di ricordare la sua
infanzia, a seguito di questo Zeno sta ricostruendo la propria storia che fa
appello alla sua memoria e sottolinea che è un uomo scontento della sua vita,
con la moglie, con glia ffari e che, a causa di questo ora è quello che è. In questo
modo arriviamo al primo capitolo, ‘Il fumo’ dove Zeno Cosini racconti fin
dall’infanzia il vizio che ha con le sigarette, in questo modo usa la psicoanalisi
per scoprire il perché della sua dipendenza dal tabacco. In ‘Il fumo’ inizia
quando lo stesso protagonista racconta i fatti che ha dovuto affrontare da
bambino, quando ha iniziato a fumare in tenera età e poi, ogni volta che si
fumava un sigaretta, si è promesso che era l’ultimo e non lo è mai stato. Rubava
anche le sigarette a suo padre, che morì nel capitolo successivo delle sue
memorie ‘La morte di mio padre’ dove analizza la cattiva relazione piena di
conflitti che aveva con suo padre, specialmente neio suoi ultimi respiri di vita.

A causa della morte di suo padre , sembra che tutto sia cambiato e che le
circostanze siano peggiorate per Zeno Cosini. La relazione del protagonista sulla
morte di suo padre è abbastanza distruttiva perché questo spiega perché Zeno
si sente come un essere umano limitato, visto che anche sua madre è morta.

Nel prossimo capitolo ‘La storia del mio matrimonio’, Zeno, racconta che il
matrimonio per lui è qualcosa per il rinnovamento personale, quindi cerca
disperatamente si sposare una donna (questo, forse, potrebbe servire come
motivazione per poter dimenticare la morte di un caro e rinnovare la sua
anima). Il protagonistas cerca disperatamente una donna da sposare e per
questo viene accolto nella casa di Giovanni Malfenti, che vedeva come figura

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paterna e aveva quattro figlie tra le quali a poco a poco è stato escluso per
diverse circostanze: erano molto giovani o erano brutte o erano fidanzate con
un altro uomo e quindi i sentimenti non erano ricambiati, a quest’ultima cercò
di conquistarla e addirittura le dichiarò il suo amore, nonostante fosse già con
Guido, che finalmente si crea la rivalità in un’atmosfera familiare e commerciale
tra questi due personaggi, Guido e Zeno.

Infine, Zeno, essendo respinto da Ada, chiede a un’altra delle suore, anche
senza successo, e finalmente lo propone ad Augusta e rimane con lei perché era
disposta a dedicagli la sua vita e il suo tempo. Per il protagonista, Augusta
rifflette la figura materna, poiché è femminile, dolce e tenera e inoltre cerccava
il conforto sicuro che le mancava nell’infanzia. Nonostante ciò, Zeno continuava
ad essere ossessionato dall’essere con Ada e gli dispiaceva che fosse con Guido,
anche se alla fine Zeno e Guido sembrano essere diventati amici. Anche se Zeno
fosse con Augusta, non gli impedisce di avere un’amante, Carla, che nel capitolo
successivo ‘La moglie e l’amante’ avranno una aventura.

Nel capitolo ‘La moglie e l’amante’ come ho appena detto, Zenno ha un’amante:
Carla. Zeno E Augusta finalmente si sposano come Guido e Ada. Si racconta che
nel suo viaggio di nozze, Zeno, fu coinvolto in una piccola malattia da cui non
doveva più riprendersi: la paura di invecchiare e la paura di morire. Originata da
una forma di gelosia per il fatto che se fosse morto, Zeno avrebbe pensato che
gli avrebbero trovato successore e avrebbero perso Augusta per sempre (lo
stesso era per Carla), anche se Augusta diceva di amarlo da quando l’ha
conosciuto.

La vita di Zeno dopo il matrimonio cambiò radicalmente, oltre che egli stesso
cercava molti fattoria di bellezza in altre donne, aveva un’ossessione per a
bellezza e i dettagli che trovava in altre donne. In questo capitolo, Giovanni
Malfenti muore mentre l’affetto di Zeno per Augusta e Carla aumenta. Anche
Zeno è venuto ad avere una figlia. Il simbolismo di questo capitolo sul

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matrimonio di Zeno ci insegna, ancora una volta, che nonostante Zeno e
Ausugsta si vogliano bene, Zeno è colui che è realmente malato mentalmente e
cerca Carla come rimedio per sfuggire alla noia della vita coniugale, finché un
giorno Carla disse insistentemente a Zeno che voleva conoscere Augusta, sua
moglie. Così, a causa di questa situazione, Zeno disse a Carla che l’avrebbe
informato quando sua moglie sarebbe uscita di casa e gli ha detto di andare nel
pomeriggio, ma non era Augusta ma Ada, che Carla, conoscendola e per la sua
bellezza, ha rotto la sua relazione con Zeno.

Nel capitolo ‘Storia di una associazione commerciale’ parla del patrimonio di


Guido nell’azienda commerciale che stavano trasportando insieme a Zeno, che
era già so cognato. Guido chiede aiuto a Zeno per gestire il suo patrimonio e
Zeno accetta non per bontà ma per vendetta perché ha avuto la fortuna di
sposare Ada ed è stato il suo rivale nell’amore.

Si immerge anche nei ricordi di quando lui e Guido lavoravano insieme con
Giovanni Malfenti. Mentre due persone venivano assunte per la società in cui
lavotava Guido e Zeno come aiutante, Ada invecchiava col passare del tempo,
perdeva belleza, e aveva anche due figli gemellei con Guido. Nel frattempo
Guido aveva un’amante: Carmen, una delle due persona che ha assunto per
l’azienda. Non solo anche ad Ada è stata diagnosticata una malttia che ha fatto
sì che Zeno pensasse di poter recuperare l’amore di Ada in qualche modo.

Nelle memorie di Zeno, Guido appare come un ‘inetto’ perché a causa della sua
inesperienza spreca la sua fortuna e inganna la moglie con Carmen mentre Zeno
ha la soddisfazione di essere incaricato da Ada per proteggere e aiutare suo
marito. Durante un’uscita di pesca Guido chiede a Zeno sulle diffferenze negli
effetti tra il veronal sodico e il veronal e Zeno risponde che il veronale sodico è
tossico ma l’altro non è. Nei momenti precedenti il giorno della pesca Guido
inizia a giocare alla Borsa e perde soldi, le scommesse diventano gradualmente
più distruttive e sembra che oltre al su matrimonio, il suo patrimonio stesse

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crollando. A causa di questo e per attirare l’attenzione di Ada si tenta di
suicidarsi fino a quando in realtà a causa di ingerire veronal muore. Più tardi
Zeno recupera le perdite che Guido generò.

Nell’ultimo capitolo, intitolato ‘Psicoanalisi’ ci troviamo di nuovo di fronte ai


commenti di Zeno, contrario alla pratica freudiana dell’analisis inconscia e
destinati ancora una volta alla ridicolizzacione del medico, doppio paterno per
eccellenza. Possiamo dire che l’ultimo capitolo di questa opera appartiene alla
vecchiaia del protagonista dove ricorda tutto quello che gli è successo nella vita.

Quanto al protagonista Zeno, possiamo dire che rappresenta ‘l’inetto’, che ha


molte difficoltà ad adattarsi socialmente ed è insoddisfatto con se stesso. La usa
insicurezza e il suo senso di inferiorità non sono altro che il fedele rifflesso dello
stesso autore, Italo Svevo. È quindi un personaggio spaventato che finisce per
trovare una vida d’uscita al suo disagio emotivo (come quando è avvenuta la
morte di suo padre). Questo personaggio piuttosto spaventato, tormentato e un
po’nevrotico rappresenta oltre all’immagine dell’anti-eroe, l’inetto. Si offre una
prospettiva della vita, da un lato dall’inettitudine e dall’alatto dall’analisi della
coscienza del eprsonaggio stesso. La capacità dei superare ha anche il suo
spazio, poichñe permette al personaggio di uscire dalla violenza e dal disprezzo
sofferto dal padre o addititura dal cognato Guido, entrambi murono durante
l’opera. Zeno scopre che non solo lui è malato, ma il suo tempo e la storia
perché quando è stato scritto ‘La coscienza di Zeno’ coincideva nel tempo prima
delo scoppio della Prima Guerra Mondiale come abbiamo già detto all’inizio
dell’analisis dell’opera.

Bibliografia:

 Svevo, Italo, La coscienza di Zeno. Edizione di riferimento: dall’Oglio,


Milano 1976, pubblicata 1923.

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 Martínez Garrido, Elisa, Alfonso Nitti: Il primo grande innetto della
narrativa italiana.
 Martínez Garrido, Elisa, Introducción a la conciencia de Zeno.

DINO BUZZATI: ‘IL DESERTO DEI TARTARI’

Dino Buzzati-Traverso (Belluno, 1906 – Milano, 1972), scrittore italiano, è stato


un grande rappresentante della narrativa surrealista che ha avuto, a Franz
Kafka al suo massimo esponente. Nacque nel seno di una famiglia benestante e
fin da molto giovante manifestò interesse per la scrittura, il disegno e la musica.
É importante anche la sua passione per la montagna, a cui a dedicato uno dei
suoi primi romanzi.

Tra altri opere, quella che ebbe più successo fu ‘Il deserto dei tartari’ in cui si
trattano un po’ temi come la solitudine dell’uomo incapace di sfuggire al proprio
destino. Inoltre risalta anche nella sua opera una raccolta in ‘I sessanta racconti’
dove possiamo trovare racconti come: ‘La goccia’, ‘L’uccisione del drago’ e
‘Racconto di Natale’ tra altri che approfondiscono la loro tendenza di mistero e
di angoscia del quotidiano o l’inspiegabile destino umano.

Durante il tempo che Buzzati scriveva ‘Il deserto dei tartari’ succedeva la
Seconda Guerra Mondiale, quindi la tematica bellica invase e preoccupava gli
scrittori italiani di quel tempo. Oltre alla sua tematica bellica, il deserto dei
tartari è formato da temi come la solitudine, la solitudine dell’anima o la ricerca
d’identità o addirittura la morte. L’immaginazione di Buzzati porta il
protagonista Giovanni Drogo ad affrontare un assurdo conflitto militare dove
l’enemico non arriva mai. I problemi esistenziali saranno la tonica di
quest’opera: la sicurezza come valore contrapposto alla libertà, alla
rassegnazione e alla post-adattamento come modo di dare continuità alla sua
vita dalla motivazione.

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‘Il deserto dei tartari’ è narrato, la maggior parte, in terza persona anche se a
volte il narratore onnisciente passa a farlo in prima persona, a volte al plurale
che si rivolge direttamente al lettore. Il romanzo trasmette la fugacità del tempo
(grande tema Buzzatiano) e la speranza legata al tempo, la temporalità.
L’argomento della fuga del tempo, della morte. È un romanzo che canta alla vita
militare, doverista, ma condanna la formazione assurda e il potere rituale. ‘Il
deserto dei tartari’ è una parola esistenziale di un uomo che cerca la fama e che
alla fine viene sconfitto, la vita lo porta altrove, non sarà destinato alla battaglia
eretico-patriarcala di legge militare, sarà destinato al grande momento, il
momento che dobbiamo guardare negli occhi la morte, quello sarà il momento
eroico che finalmente dovrà affrontare. Tutti i temi presenti nel romanzo sono le
ossessioni buzzatiane: la morte, il passare del tempo, la critica antimilitare,
l’incomprensione degli esseri umani, la solitudine...

Il romanzo inizia quando Giovanni Drogo diventa ufficiale e finalmente gli arriva
il suo giorno di esercitare nell’Accademia Militare e si dirige verso la fortezza
Bastiani, la sua prima destinazione. Durante il tragitto, il narratore fa brevi
descrizioni dei paesaggi e di ciò che il protagonista vede e sente, inoltre si rovlge
direttamente al lettore. Drogo è stato accompagnato quasi fino alla fine del suo
nuovo destino anche se la prima cosa che ha visto gli è sembrato sinistro e
inospitale. Ma Drogo, nella speranza di arrivare prest alla fortezza Bastiani, poi,
nel capitolo due, incontrò il capitano Ortiz, che seguì fino alla fortezza dove si
trovavano su n confine dove si trovava il deserto dei Tartari, un deserto di pietre
e terra asciutta. Nel capitolo tre Giovanni Drogo arriva alla fortezza e incontra il
comandante Matti con cui ha una conversazione con Drogo sulle prime
impressioni della fortezza e Drogo, il protagonista, gli fa capire che preferisce
rimanere in città perché la fortezza non era come si aspettava. Tuttavia, a Drogo
piaceva guardare attraverso la terrazza per osservare il paesaggio del desolante
deserto dei Tartari, il protagonista si domanda continuamente: che cosa ci sarà
oltre il deserto?

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La delusione, la tristezza e le alte aspettative che aveva riposto sulla fortezza
Bastiani furono sufficienti perché Drogo volesse tornare in città, in questo modo
molto sottilmente lo espresse al comandante Matti. Giovanni nella sua stanza,
aveva paura che non lo lasciassero andare. Più tardi incontra il sargento
maggiore Tronk e scrive una lettera a sua madre, sentendosi come un bambino,
esprimendogli come si sentiva, anche se gli dicevo tutto il contrario di come si
sentiva. Da quel momento fu l’inizio della fine della sua giovinezza. Poi riceve un
mantello di cui è orgoglioso, ma che allo stesso tempo gli sembra strano
indossarlo, così va da un sarto e cerca di averne un altro con più splendore per i
prossimi quattro mesi. Approfittando della visita del sarto, Drogo e il sarto
tengono una conversazione dove parlano della fortezza e degli eventi che
potrebbero verificarsi in essa (come una guerra), anche se non succede mai.

Gli amici di Drogo: Carlo Morel, Francesco Grotta, Max Lagorio e Pietro
Angustina festeggiano che Max Lagorio ha compiuto due anni nella fortezza ed
è tempo di partire per un altro luogo, però Pietro Angustina, che ha anche
compiuto due anni rimane.

Nel non capitolo Drogo, affascinato dalla bellezza e grandezza della fortezza,
decide di rimanere nella fortezza e di affrontare il suo destino. Anche se nel
capitolo successivo, Drogo credi di aver fatto qualcosa di nobile ed eroico
(rimanere), tuttavia, Drogo sentiva che tutti i giorni erano uguali, da quel
momento in poi si consumava la sua fuga dal tempo e si sentiva anche solo.

Nel capitolo undici, c’è un salto temporale piuttosto grande, quasi due anni,
ventidue mesi esatti. Il narratore porta il lettore verso la comprensione del
passare del tempo dove può accdere di tutto. Drogo ha fatto un sogno
soprannaturale su fantasmi e fate, ha avuto una sensazione come se fosse di
nuovo un bambino. Nonostante ciò, Drogo aveva un sentimento premonitore
come se ciò che aveva sognato sarevve accaduto in futuro. Soganava anche cose

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eroiche che probabilmente non si sarebbero mai avverate, ma lo serviva solo
per andare avanti, per poter continuare a vivere.

Sembrava che qualcosa si muovesse nella pianura, hanno dato l’allarme, ma in


realtà era solo un cavallo che misteriosamente si era fermato lì. Drogo pensava
che fosse un cavallor dei tartari, che erano nascosti da qualche parte, anche se
alla fine il cavallo apparteneva a un giovane che aveva iniziato nella fortezza, il
giovane Lazzari che fuggì e si nascoste dietro una roccio per poterlo recuperare.
Uscire dalla fortezza gli è costato la vita, visto che gli hanno sparato. A partire da
quel momento si scatenato una serie di fatti (come le spedizioni di Tronk e Matti
o la spedizione per delimitare una parte del confine perché non sapevano da
dove venisse il cavallo che è comparso nella fortezza) che fanno morire alcuni
amici di Drogo.

Il tempo continua a scorrere e Drogo torna in città e scopre che tutto è


cambiato; che i suoi amici ora sona molto impegnati. Sembra che nessuno abbia
sentito la sua mancanza. Sua madre muore e la solitudine inghiotte Giovanni
Drogo. Durante il viaggio di ritorno alla fortezza, Drogo, in fondo alla sua anima
è felice di non aver dovuto alterare il suo stile di vita.

Più tardi, negli ultimi capitoli, Giovanni Drogo, stanco e vecchio, comincia a
ammalarsi, gli anni passano e si verifica di nuovo la fuga del tempo. Il suo spirito
continua come il primo giorno, anche se ha sofferto alti e bassi e alcune
domande durante tutti questi anni. La sua salute peggiora e Simeoni lo tira fuori
dalla fortezza con l’inganno per mandarlo in città, presumibilmente per
riprendersi dall sua malattia. Tutto finiva, la sua vita finisce in un modo
miserabile e triste: solo nel mondo ed espulso dalla fortezza Bastiani, come se si
trattasse di un pazzo. Muore solo nella stanza di una locanda, dove combatte in
solitudine la sua ultima battaglia, la vera battaglia, lo scontro con la morte, il
momento eroico che dovrà affrontare. Drogo non evita la morte, ma la affronta,
affronta la sua fine.

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Come dice Leopardi, la vita passa e non sempre le nostre illusioni diventano
realtà, perché le cose che Drogo desiderava nella sua giovinezza non si erano
avverate. È qui che nasce un aspetto malinconico profondo che dà luogo a
questo romanzo.

Per concludere, lo spazio e il tempo del romanzo trascorrono in una fortezza


perduta, come immaginaria, che si trova di fronte al deserto dei tartari (come
ho già detto) e il momento in cui si svolge l’avventura è un momento in cui non
si può essere precisato, poiché non ci sono elementi che permettono la sua
posizione, anche se viene descritta con molti dettagli da parte della voce
narrante che fa immaginare al lettore come sarebbe la fortezza Bastiani. Il
tempo della narrazione, per quanto riguarda la durata dei tempi che avvengono
nel romanzo, è di circa trent’anni e si conclude con la morte di Drogo. Come ho
già detto in precedenza, il passare del tempo è uno dei temi principali in tutto il
romanzo, e come esempio di questo, c’è il capitolo dove Drogo torna in città per
vedere tutti i suoi cari e vede che tutto è cambiato.

Bibliografia

 Buzzati, Dino, Il deserto dei tartari, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.,


Milano, 1940
 Martinez Garrido, Elisa, Studi di teoria e storia della letteratura e della
critica, Riflessioni critiche sul dolore, sulla pietà e sugli animali in Dino
Buzzati, Pisa, Roma, 2012
 Martinez Garrido, Elisa, Crisi, potere e alterità nel Deserto dei Tartari. Di
nuovo sul rapporto Dino Buzzati-Franz Kafka.

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CESARE PAVESE: ‘LA LUNA E I FALÒ’

Cesare Pavese (Santo Stefano Belbo, 1908 – Torino, 1950) grande scrittore
italiano e grande rappresentante del neorealismo che inizia con Moravia e
termina negli anni’50 con la trilogia d’Italo Calvino.

Nasce in un paese di Le Langue molto vicino alla Francia e alle Alpi dove c’è una
zona agricola dedicata sopratutto al vino. Nato in campagna, contadino, ma si
transferì dopo la morte di suo padre a Torino dove morì e si suicidò. Pavese fa
poesia come narrativa, infatti nel 1936 inizia con ‘Lavorare stanca’ dove si
colloca, nella prima sezione, il racconto di ‘I mari del sud’ tra gli altri. Inoltre,
un’altra delle sue opere più importanti è stat ‘Feria d’agosto’ dove possiamo
collocare ‘Il mare’ e ‘La Langa’ tra gli altri. Il suo lavoro più significativo è quello
che ha fatto prima di morire ed è stato ‘La luna e i falò’ che analizzerò e
commenterò qui di seguito.

Durante tutta la sua vita, Pavese cercò di vincere la sua solitudine interiore, che
vedeva come una condanna e una vocazione allo stesso tempo. Si suicidò all’età
di 42 anni, lo stesso anno di pubblicazione de ‘La luna e i falò’ che fu l’ultimo
romanzo che scrisse prima di perdere la vita, nel 1950, quando l’Italia debuttò la
formula politica della Repubblica.

Anche se il tipo di testo è narrativo, il romanzo si trova nel punto intermedio tra
la prosa e la poesia. ‘La luna e i falò’ è considerata un romanzo senza tempo che

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trascorre nella terra dell’infanzia del protagonista (Le Langue), che è anche
quella della voce narrante e autore del libro. Luogo in cui le colline giocano
sempre un elemento simbolico legato alla maternità. I temi principali dell’opera
sono i conflitti della vita contemporanea, in particolare la ricerca della propria
identità attraverso il viaggio, il percorso dall’infanzia nella terra dove è nato
dopo il passare degli anni. Il disagio esistenziale e il destino tragico a cui il
protagonista si sente avocato.

Come vedremo in seguito, l’uso continuo di simboli e miti permettono all’autore


di compiere il viaggio alla ricerca delle sue radici attraverso il personaggio di
Anguilla. Radici in cui potersi aggrappare per evitare la solitudine e il destino
tragico che si sente avocato. ‘La luna e i falò’ è il romanzo dell’addio e in esso
rifflette l’autore l’addio a tutto e tutti coloro che lo hanno accompagnato nella
sua vita.

Il romanzo inizia con un monologo interiore del protagonistas, come un ricordo


dell’io narrante, dell’infanzia. Inizia un flashback del protagonista che passa
continuamente dal presente al passato più e più volte. Il protagonista fu
adottato da una famiglia con cui rimase fino a tredici anni, poi andò a vivere
nella fattoria della Mora dove incontrò Nuto, dove rimase a lavorare fino ai
diciotto anni quando partì per il servizio militare. Al protagonista piace ricordare
la sua infanzia e la sua giovinezza anche se ricorda con piacere la strada per
Canelli che per lui quelle colline erano la porta del mondo.

Nel capitolo due si verifica un salto nel tempo e si passa dal ricordo lontano
dell’infanzia ad un ricordo più recente, più fresco ed è che durante l’estate il
protagonista è in un albergo a Santo Stefano Belbo (luogo di provenienza dello
scrittore originale, Cesare Pavese) dove il suo amico Nuto veniva a trovarlo e
parlavano dei ricordi dell’infanzia e della fattoria della Mora. Nuto era l’amico
d’infanzia di Anguilla che segue in città e che aveva considerato un modello di
vita. È e rimane il suo punto di riferimento, l’unico con cui poter ricostruire gli

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eventi che sono accaduti mentre era via, ed è l’unica persona a cui chiede
consiglio. Nuto, in realtà, rappresenta l’alter ego del protagonista. Inoltre nei
capitoli precedenti tra Nuto e il protagonista, anche, paralano della fine della
guerra. Più tardi il protagonista si rende conto del forte calore che fa in agosto,
(il mese di agosto troppo caldo è molto importante per Pavese poiché uno dei
personaggi del suo racconto ‘Il mare’ si chiama Gosto), quando il suo amico
Nuto gli parla della capanna della Gaminella dove finalmente va e trova un
ragazzo (Cinto) sul pavimento che gli ha ricordato la sua infanzia. Cinto era un
bambino zoppo attraverso il quale Anguilla (il protagonista) rivive i primi anni
della sua vita, è il figlio della famiglia che attualmente vive nella casa dove ha
trascorso l’infanzia di Anguilla. Ha problemi fisici alla gamba e zoppica, il che
simboleggia la debolezza. Anguilla s’identifica con questo bambino nello stesso
momento in cui rappresenta la paternità fallita. All’improvviso, Anguilla, il
protagonista, si rende conto che arrivando alle coltivazioni del luogo aveva
cambiato tutto, le fattorie erano abbandonate o abitate da persone che non
conosceva anche se Cinto conosceva quei luoghi. Anguilla, il protagonista di
questo romanzo non è nato in città, è stato davvero un bambino abbandonato
in ospedale, che lo ha consegnato ad un matrimonio che riceveva in cambio una
piccola mensilità. Più tardi, lui stesso, chiede a Cinto se nella zona continuavano
a far i falò e poi chiede a Nuto se credeva alla luna e ai falò, Nuto gli diede una
risposta simile a quella che gli diede Cinto, poiché rispose che credeva nel
beneficio che i falò portavano al campo.

Nei capitoli precedenti, vengono svelati alcuni dettagli di Valino, il padre di


Cinto, un personaggio non molto rilevante ma non meno importante. Anguilla
rimane impressionato dal cambiamento che ha dato tutto. Per sottolineare, il
capitolo undici, il protagonista fa un percorso tra le disgrazie, inoltre nei capitoli
precedenti i temi come la guerra e la morte saranno molto presenti così come
parla Anguilla con il suo amico Nuto dei partigiani che erano dappertutto. Più
tardi, nel capitolo 14, il protagonista fa una confessione e cioè che dopo tanto

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tempo che andava da un posto all’altro, dice che era tornato solo per vedere le
persone che aveva conosciuto durante la sua vita ma che quelle persone non
c’erano più, quella circostanza ha fatto sentire che veniva da lontano e che il
mondo lo aveva cambiato completamente. La voce narrante racconta come
arrivò a lavorare come servitore nella fattoria della Mora, inoltre non fu anche
contadino perché lì stesso imparò ad esserlo grazie a Matteo, che aveva due
figlie della sua prima moglie: Silvia e Irene. Da parte della seconda moglie ebbe
un’altra figlia: Santa (Santina). Esse sono le tre figlie che vivevano nella tenuta
in cui Anguilla fu allevato. Tutte e tre muoiono durante la storia, ma sarà Nuto a
svelarne la storia. Per il protagonista Irene e Silvia erano intoccabili perché
avevano una grande bellezza. Inoltre, è da notare che Matteo fu colui che gli
promise una paga mensuale poiché stava facendo un buon lavoro e alla fine
gliela diede.

Più tardi, esattamente nel capitolo 17, Nuto e Anguilla continuano a parlare e
ricordano come si sono conosciuti (in quella conversazione possiamo notare
quello che ho già detto in precedenza, e cioè che Nuto era un chiaro esempio e
riferimento per Anguilla, come quando nel capitolo 19 lui vede Cinto con occhi
d’invidia, perché il protagonista aveva il sentimento di una paternità fallita,
come ho anche detto in precedenza). Molto vicino alla fine di ‘La luna e i falò’,
Anguilla menziona Rosanne con cui stava per sposarsi, anche se alla fine non è
successo (questa parte ci rivela che il protagonista soffre un po’ di mal d’amore).

Il protagonista, mentre comincia a raccontare la storia di due delle figlie di


Matteo, fantastica e ama la vita di Irene e Silvia perché si divertivano molto,
anche se alcune di loro, a volte, soffrivano per amore. Nel capitolo 25 si rivela
che Irene si ammalò di tifo anche se in seguito fu guarita perché era in cura.
Capitolo dopo capitolo, la voce narrante, continua a ruotare le storie dei
personaggi e in questo caso ci racconta un po’ più in dettaglio della sua vita
negli Stati Uniti e dopo il servizio militare parlando con Nuto, di nuovo.

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Come abbiamo già detto, Valino, il padre di Cinto era un uomo di cattivo
carattere e molto violento con quello che Anguilla ha detto a Nuto che
dovevano pensare al futuro di Cinto e far qualcosa per lui, Cinto fuggì dal padre
quando lui diede fuoco al fienile e uccise sua madre. Infine Cinto rimase alla
falgnameria di Nuto per imparare un mestiere e più tardi trovò un lavoro.

Poi, nel capitolo 28, dove si scopre che Irene alla fine non è morta di tifo, la voce
narrante continua a raccontare la storia delle tre sorelle. Silvi rimane in cinta e
muore durante il parto, Irene si è sposata e se n’è andata a Nizza con Arturo (il
ragazzo che ha sposato) per essere infine picchiata da lui e soffrire. Santa andò a
viviere a Canelli, più tardi quando cominciò la Repubblica fuggì per un po’ e poi
cotinuò a viviere a Canelli, andava a letto con le brigate nere, era come una
specie di spia che alla fine fu scoperta dai fascisti e fu giustiziata.

Per concludere, posso dire, dal mio punto di vista, che questo romanzo gioca
molto con i tempi e con le storie dei diversi personaggi che allo stesso tempo la
voce narrante conta attraverso la voce del protagonista rifflettendosi in Nuto
come se vedesse tuto da una finestra. Il protagonista è consapevole che le
persone che rimangono ancora sul posto che ha lasciato mantengono le sue
virtù e le sue stesse carenze come per se stesso, sono tutti ricordi sia dolci che
amari, di un passato dove vorrebbe tornare ma non può più. Inoltre il paesaggio
potrebbe essere considerate come un vero personaggio in quanto sottolinea
l’importanza che mantiene ciascuno dei luoghi descritti perché raffigurano
quadri pieni di texture, forma e colore. Pavese, attraverso la ekphrasi
(descrizione dettagliata di un oggetto artistico) evidenzia la bellezza delle terre
della sua amata infanzia.

Bibliografia:

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 Martinez Garrido, Elisa, Cuadernos de filología italiana - Cesare Pavese:
un classico del XX secolo (1908-2008): La forza visiva nell’opera di Cesare
Pavese, Madrid, 2012
 Pavese, Cesare, La luna e i falò, Einaudi, Torino, 1949

ELSA MORANTE: ‘L’ISOLA D’ARTURO’

Elsa Morante (Roma, 1912 – Roma, 1975) fu una donna autodidatta, consacrata
e vincitrice di un premio Strega, fu una grande intellettuale e fece tutto da sola.
La sua vita è stata segnata da molte difficoltà fin dall’infanzia. L’ambiente
familiare non era il più adatto per l’autrice, né il più comodo, essendo la
scrittura la via si fuga da molto giovane poiché inoltre si sentiva molto sola.
Infine, divenne indipendente e il suo sostentamento economico divenne le
classe private che essa impartiva e la pubblicazione delle sue prime opere. Più
tardi incontra colui che sarà finalmente suo marito, Alberto Moravia, un uomo
di bene e molto popolare in quel tempo. In questo modo, Elsa Morante, poté
dedicare il suo tempo a ciò che amava veramente, scrivere le sue opere tra le
quali uscirà la sua grande opera: ‘L’Isola d’Arturo’ che analizzerò e commenterò
qui di seguito.

‘L’Isola d’Arturo’, romanzo vincitore di un premio Strega, di tipo di testo


narrativo che caractterizza una tematica di iniziazione al paradiso dell’infanzia e
la perdita dell’innocenza, e quindi la scoperta del mondo e il risveglio della
sessualità. È una passaggio dall’adolescenza alla giovinezza. La storia parla di un
ragazzo come protagonista, Arturo Gerace, che è cresciuto orfano di madre e

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con un padre che vede solo di tanto in tanto. Vive in un’isola del sud d’Italia che
per lui è una prigione, Procida, un’isola che esiste allo stesso tempo adilliaca,
come l’autrice avverte all’inizio del romanzo.

La storia si svolve nell’ anno 1938 sull’isola di Procida, dove il protagonista ha


trascorso la sua infanzia e adolescenza vivendo nella casa dei Guaglioni. Arturo
ha solo la compagnia del suo can, mentre suo padre Wilhelm Gerace, non è mai
presente per la lotananza, viaggiando per il mondo in modo avventuroso. Il
tempo sull’isola passa e Arturo cresce mentre aspetta il ritorno di suo padre,
viene educato leggendo libri e passando il tempo la maggior parte delle volte da
solo (come è realmente accaduto nella sua vita a Elsa Morante, l’autrice del
romanzo). Wilhelm arriva, vede suo figlio, ma se ne va di nuovo e che tornerà
un’altra volta con sua moglie Nunziata, che alla fine lo stesso Arturo odierà.
Nunziata rimane incinta del padre di Arturo e imporvvisamente il protagonista
cambia idea su Nunziata. Carmine è nato e Nunziata inizia a dedicare del tempo
solo a Carmine, suo nuovo figlio, quando ha sempre dedicato del tempo solo ad
Arturo, questo geloso decide di fingere un suicidio per attirare l’attenzione e che
Nunziata presti più attenzione a lui che a Carmine. Infine si lascia curare per una
settimana in cui Arturo confessa alla donna i suoi sentimenti e si danno un
bacio, il bacio fatale che rompe per sempre la sua amicizia.

Allora, Arturo, decide che per poter recuperare Nunziata doveva fare qualcosa a
riguardo, per poter recuperare la donna dedicde di avere una relazione con una
sua amica di nome Assuntina, così che Nunziata diventi gelosa. Il piano di Arturo
non funzionò, anzi, l’amicizia spezzata che avevano già diventò ancora più
complicata. Nel frattempo, le visite del padre diventavano più frequenti e
durature oltre che sempre più tensione, cresceva dove vivevano: litigi, rabbia,
discussioni, violenza... (questo potrebbe rifflettersi anche nella biografia
dell’autrice).

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Infine, Arturo sceglie di fuggire di casa e fingere di essere morto, fino a quando
riceve la visita di Silvestro, un suo vero amico che lo consola e può parlare dei
suoi progetti , anche se più tardi deve partecipare alla seconda guerra mondiale
che si staba svolgendo. Per Arturo, il servizio militare è una grande idea perché
è una fuga per dimenticare ciò che gli stava accadendo (come ad Elsa Morante
con la scrittura). In questo modo Arturo lascia Procida e passa dalla transizione
adolescenziale alla transizione adulta.

Sui personaggi posso dire che, Arturo, il protagonista del romanzo, oltre ad
essere la voce narrante, è un personaggio trascurato dal suo padre dal carattere
introverso, ma con grande coraggio. Inoltre, crea fantasie in testa come essere
venduto o conseganto a una nave pirata, queste fantasie leniscono il loro
disagio. La sua solitudine e il suo dolore dal punto di vista affettivo gli fa
desiderare le cose semplici come un bacio o un complimento (come accade con
Nunziatella). Arturo non ha avuto una figura materna, sì una figura paterna ma
non abbastanza perchñe, anche se adorava suo padre e per lui era un idolo,
Arturo imparò tutto dalla vita a causa dei libri che si leggeva quando era o si
sentiva solo. Inoltre, Arturo non conosce nulla dell’altro sesso, il sesso femminile
che considera tutte quelle di quel genere come creature inferiori, brutte e goffe,
anche se questa idea scompare quando Arturo inizia ad imparare sulle donne,
quindi la sua ideologia sul sesso femminile cambia. D’altra parte, Nunziatella, la
moglie di Wilhelm e matrigna di Arturo con cui si bacia fatalmente, il suo buon
senso e la sua conscienza le impediscono di esprimere i suoi sentimenti per
l’amore sincero di Arturo.

La madre come figura principale del romanzo, la figura femminile è molto


importante nella vita di Arturo e nella sua ricerca della sua stabilità emotiva
interiore, che crea il suo mondo interiore dove vede la figura della madre come
se di una regina si trattasse, poiché ha scelto il suo nome, il nome di un re.
Questo lo fa desiderare di essere allo stesso livello di suo padre e loa fa
ammirare tanto suo padre e all’inizio odiare Nunziatella per aver preso l’unico
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idolo che aveva nella vita, Wilhelm, suo padre, che, come abbiamo già detto, si
trova la maggior parte del tempo di viaggio, trascurando l’attenzione materiale
ed emotiva di suo figlio. Misoginia e deviazione sessuale sono parte della
negatività che Elsa Morante attribuisce a questo personaggio.

Inoltre, ‘L’isola d’Arturo’ è composta da otto sezioni o capitoli. Dai primi


capitologi posso dire che la voce narrante cerca di spiegare e rifflettere la
visione infantile che ha di suo padre, le sue origini, come è morta sua madre, è
la visione dagli occhi infantili, inoltre, si nara anche il luogo dove avvengono tutti
gli eventi, sull’isola (qualcosa di simile anche a ‘I mari del sud’ di Cesare Pavese).

Dalla terza sezione o capitolo posso dire che è dove il padre dopo un periodo di
tempo rimanendo a Procida lascia di nuovo la casa con ciò che
consecutivamente nel quarto capitolo c’è un cambiamento assoluto di disprezzo
e rabbia verso Nunziatella e poi ad amarla profondamente. Nel quattro sarà
vista come una grande divinità mitica, la grande madre, poiché dopo nascerà il
suo primo figlio.

Nella quinta sezione o capitolo, si stabilisce una piccola tragedia, poiché Arturo
si è innamorato della moglie del padre. È geloso dell’attenzione che presta a
Carmine e finge il suicidio. La tragedia termina con la salute del giovane, la voce
lo cambia e arriva la transizione alla vita adulta. La sesta sezione è quando inizia
la sessualità di Arturo ad essere presente, perché confessa i suoi sentimenti
verso la sua matrigna e la bacia. Infine, la settima e ottava sezione rappresenta
la parte disforica, la parte più tragica e dolorosa in cui si verificano tutti gli
scontri che avvenivano in precedenza poiché Wilhelm tornò a Procida e Arturo
decise di partire.

Per quanto riguarda l’epoca in cui la storia si svolge, si può dedurre che è poco
prima dell’inizio della seconda guerra mondiale, perché prima accade tutta la
storia e poi alla fine del romanzo è quando si scopre che Arturo decide di fare il

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servizio militare per partecipare alla Seconda Guerra Mondiale come il suo
amico Silvestro.

La tecnica narrativa usata è la narrazione in prima persona e il discorso diretto.


Di tanto in tanto, nel romanzo, vengono introdotte una serie di digressioni,
momenti, in cui la storia si ferma e lascia spazio alle considerazioni del
protagonista o alle descrizioni dei paesaggi o degli ambienti, contengono anche
flashbacks, cioè ricordi.

Sono molteplici le idee che circondano l’infanzia e l’adolescenza del


protagonista. Il rapporto con la figura del padre, attraverso sentimenti
ambivalenti, da un lato, di idealizzazione e dall’altro di rifiuto per la mancanza di
interesse che mostra verso il figlio. L’influenza della cultura del popolo si
presenta attraverso le credenze, leggende, superstizioni e fantasia che permette
al protagonista di addentrarsi in viaggi immaginari e di avere una percezione
speciale della figura femminile (la nostalgia di una madre che non conosce,
come ho già detto) ma si pone anche con chiarezza la misoginia del padre.
L’assenza di Dio è una caratteristica costante lungo tutto il libro, come il tema
della morte.

Bibliografia:

 Martinez Garrido, Elisa, L’isola d’Arturo. Memorie di un fanciullo: Un


romanzo di ‘formazione’ attraverso gli scherzi tragici del tempo.
Contemporanea: Rivista di studi sulla letteratura e sulla comunicazione,
Fabrizio Serra editore, Pisa, Roma.
 Morante, Elsa, L’isola d’Arturo, Einaudi, Torino, 1957

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