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L’uomo e il tempo
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Jacques Doukhan
Edizioni ADV
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Copyright originale:
© 1996 by Editions Vie et Santé,
Dammarie-lès-Lys (France)
ISBN: 88-7659-113-3
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Prefazione
I folli dell’Apocalisse
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Prefazione
ca: Apocalypse Now (1979), Le jour de la fin du monde (1980), Armagheddon, (1999),
End of Days, (1999).
4 La musica è probabilmente il campo nel quale l’Apocalisse ha influito maggior-
mente, citiamo per esempio: O. Messiaen, Quatuor pour la fin des temps (1941),
Couleurs de la cité célèste (1963), Des canyons aux étoiles (1974) D.Maxwell,
Apocalypse et chute (1980); I Mareo, Apocalypse sinphonique (1982), B. Matuszczak,
Apocalypse, (1985); O.S. Joachim, Apocalypse et apothèose (1989); S. Wellman,
Simphonie d’Apocalypse (1980); R.M. Schafer, Apocalypse (1986); W. Josephus, Les
quatre chevaux de l’Apocalypse (1980).
5 Nella pittura, gli anni ’80 hanno visto manifestazioni tra cui emerge quella tenuta al
New museum of Contemporary Art, dal titolo: La fine del mondo, visioni contemporanee
dell’Apocalisse (1983-1984). Tra i pittori citiamo J. Foret (1961) e i suoi collaboratori, S.
Dalì, O. Zadkine, B. Buffet, A. Kiefer, M. Paladino. La pittura israeliana merita una cita-
zione. L’esposizione della primavera 1992, dedicata alla fine dei tempi e all’Apocalisse,
presso la galleria d’arte di G. Shreiber, all’università di Tel Aviv è significativa. Inoltre, le
opere di D. Y’acoby (1989-1990), Y. Parbuchrai (1991), T. Geva (1991).
6 J.P. Prevost, Pour lire l’Apocalypse, 1991, p. 7; cfr. B. Mc. Ginn, Apocalyptic
Spirituality, Londra, 1980, p. 141; cfr. T.K. Freiman, Postscripts, p. 157: «A mano
a mano che il mondo si avvicina al terzo millennio, a partire dagli anni ottanta, i
riferimenti alla fine del mondo si fanno sempre più frequenti».
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I folli dell’Apocalisse
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Prefazione
7 Tornano alla memoria gli avvenimenti della Guyane del 1978, quando oltre
novecento persone si avvelenarono per ordine del loro guru, Jim Jones.
8 L’espressione appartiene al sociologo americano J.R. Hall (in: «The Apocalypse
at Jonestown», tratto da: Violence and Religious Commitment, Ken Levi ed., The
Pennsylvania State University Press, 1982, p. 37).
L’autore osserva il paradosso seguente: diventando attori degli avvenimenti apo-
calittici, gli adepti delle sette stabiliscono il regno dei cieli sulla terra, superando
e trascendendo l’Apocalisse stessa.
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I folli dell’Apocalisse
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Prefazione
15 Cfr. J.G. Gager, «The Attainment of Millennial Bliss Through Myth: The Book
of Revelation», in Visionaries and Their Apocalypses, P.D. Hansons ed., Fortress
Press, 1983, p. 149.
16 Vedi, per esempio il centro di Kfar Shaulalla, periferia di Gerusalemme, diret-
to dal dottor Carlos Bar-El. In questi ultimi anni sono stati diagnosticati più di 470
casi, conosciuti come «sindrome di Gerusalemme».
17 «Tot verba, tot misteria», citato in P. Schaff, History of the Christian Church,
Eerdmans, 1910, vol. 1, p. 826; cfr. M. Lutero: «Nessuno sa cosa c’è dentro» (ibidem).
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Introduzione
29,30,47; 10:1).
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Introduzione
20 L’Apocalisse contiene sette beatitudini (1:3; 14:13; 16:15; 19:9; 20:6; 22:7,14)
tutte ispirate dall’idea della venuta di Dio.
21 Cfr. H.B. Swete, The Apocalypse of St. John: The Greek Text whith introduction,
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Introduzione
Metodologia
Nell’esordio del libro vengono immediatamente denunciati i
possibili errori d’interpretazione. Come se l’autore, profeta
anche a questo livello, avesse previsto i deliri e le deviazioni di
alcuni futuri lettori. Egli sembra voler gettare, già nelle prime
righe, le basi per una metodologia sana, una lettura corretta,
intonata alle parole ispirate della rivelazione.
Fin dal primo impatto con questo «strano» libro, l’Apocalisse
indica l’atteggiamento con il quale dobbiamo avvicinarci al
testo. Occorre, prima di tutto, un tipo di ascolto attento che rice-
ve la parola e la sonda con rispetto. L’intelletto ricercherà, esi-
gente, il senso del testo, collocato nel suo contesto storico e let-
terario, con attenzione particolare per il vocabolario tipico del
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Struttura dell’Apocalisse
Questa molteplicità di piani di lettura emerge dalla struttura
stessa del libro che possiamo definire «a candelabro» (occorre
pensare al candelabro ebraico a sette bracci; cfr. grafico p. 30).
Questa struttura presenta le caratteristiche seguenti:
1. Essa si sviluppa in sette cicli simultanei e paralleli di sette
visioni.24 In questo è simile alla struttura di Daniele,25 descri-
vendo anche qui, una curva di tipo chiastico (dalla lettera greca
c «Chi», a forma di X). Schema in cui la seconda parte è in paral-
lelo inverso con la prima (ABC/C’B’A’).
2. Con regolarità, nell’esordio di ciascuno dei sette cicli, la
visione ritorna sull’atmosfera del tempio e volge sui toni litur-
gici segnati dal calendario delle feste religiose d’Israele, sulla
base delle indicazioni presenti in Levitico 23. Ogni tappa profe-
tica è posta nella prospettiva di una festa israelitica, rievocata
anche all’interno del ciclo stesso.26 L’autore ci invita a una let-
tura che prende le mosse dalle feste d’Israele, i cui rituali sono
to), Pessah (Pasqua), Shavuoth (Pentecoste), Rosh hashanah (giorno dell’anno, festa
delle trombe), Kippur (festa delle espiazioni), Succot (festa delle capanne/tabernacoli).
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Introduzione
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Giovanni
Contrariamente a tutti gli altri scritti apocalittici, il libro in que-
stione, non è uno pseudoepigrafico che cerca credibilità attri-
buendosi la paternità di un antico eroe. L’autore è vivo e vege-
to, ben inserito nelle vicende della sua epoca. Si tratta di qual-
cuno che «ha visto» (Ap 1:2), un uomo come noi, «vostro fratel-
lo», (v. 9), che condivide le stesse sofferenze. Questo Giovanni,
dall’ebraico yohanan (la grazia di YHWH), è probabilmente lo
stesso Giovanni autore del vangelo,32 figlio di Zebedeo e fratel-
lo di Giacomo,33 il discepolo che Gesù amava.34 Le tradizioni più
antiche sono unanimi al riguardo.35
31 Questa interpretazione, difesa per la prima volta dal gesuita spagnolo Francisco
Ribera (1537-1591) sarà sviluppata nel sistema cosiddetto «dispensazionalista» rappre-
sentato, soprattutto, dalla Bibbia di Scofield. Secondo queste vedute, l’Apocalisse si
applica, per la maggior parte (capp. 4-22) al lontano avvenire della fine dei tempi.
32 L’Apocalisse e il vangelo di Giovanni mostrano un gran numero di assonanze.
Sono i soli due libri neotestamentari a parlare del Logos (Gv 1:1; Ap 19:13).
Entrambi impiegano l’immagine dell’agnello e dell’acqua della vita. Alcune
espressioni sono comuni: certo, vero, vincere, osservare i comandamenti, testi-
monianza, ecc. La stessa maniera di pensare (contrasto tra il bene e il male,
assoluti), il medesimo interesse liturgico.
33 Matteo 4:21.
34 Giovanni 20:2; 21:7,20.
35 Cfr. Giustino Martire (110-165) in Dial. Triph. 81:4 e Ireneo (120-202) in Adv.
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Introduzione
36 Policarpo, Epistle to Victor and the Roman Church Concerning the Day of
Keeping the Passover, ANF, vol. 8, p. 773.
37 Girolamo, De vir. illus. IX.
38 A. Feuillet vede nell’Apocalisse «una rilettura dell’Antico Testamento alla luce
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Dio
Dalle prime righe scritte, nel suo stesso saluto, l’autore radica
la sua parola profetica nella persona di Dio, così come è rivela-
ta nell’Antico Testamento: «da colui che è, che era e che viene»
(Ap 1:4). La frase ricorda la definizione che il Dio dell’esodo
aveva dato di se stesso, nel rivelarsi a Mosè (Es 3:14): «Io sono
colui che sono». Il Dio d’Israele si presenta come colui che non
può essere racchiuso in nessuna definizione teologica, il vero
Dio, il Dio che esiste veramente già qui, ora, nella nostra vita. Il
Dio presente che si sperimenta nella nostra vita quotidiana è lo
stesso che ha parlato in passato. Questa è la lezione contenuta
nel secondo verbo, «colui che era». Il Dio del ricordo, il Dio
delle nostre radici, è il Dio d’Abramo, d’Isacco e di Giacobbe.
Giovanni, a questo punto ci dice che, Dio che «è» presente, che
«era» nel passato, «sarà» ben più che un Dio «futuro».
Curiosamente, Giovanni, invece di usare il verbo essere, quan-
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Introduzione
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tito e intimo: «... e da Gesù Cristo» (Ap 1:5). Questa è la parte che
attira maggiormente l’attenzione. Quest’ultimo titolo cristologi-
co è il più lungo di tutti e comprende tre attributi (testimone
fedele, primogenito dei morti, principe dei re della terra) che si
manifesteranno successivamente attraverso tre azioni descritte
nel prosieguo del passo biblico «A lui che ci ama, e ci ha libera-
ti... che ha fatto di noi un regno» (v. 5).
L’elenco dei titoli di Gesù Cristo, descrivono, in effetti, le tre
grandi tappe della sua opera salvifica:
1. L’incarnazione che lo rende testimone di Dio tra noi.
2. La morte e la risurrezione, nostra salvezza e promessa di
vita eterna.
3. La sua regalità, garanzia della nostra cittadinanza nel
regno di Dio.
L’apostolo Paolo, nel quadro della sua riflessione sulla risur-
rezione, descrive il medesimo itinerario in tre tappe: «Ma ora
Cristo è stato risuscitato dai morti, primizia di quelli che sono
morti. Infatti, poiché per mezzo di un uomo è venuta la morte,
così anche per mezzo di un uomo è venuta la risurrezione dei
morti. Poiché, come tutti muoiono in Adamo, così anche in
Cristo sarannno tutti vivificati; ma ciascuno al suo turno: Cristo,
la primizia; poi quelli che sono di Cristo, alla sua venuta; poi
verrà la fine, quando consegnerà il regno nelle mani di Dio
Padre, dopo che avrà ridotto al nulla ogni principato, ogni pote-
stà e ogni potenza. Poiché bisogna ch’egli regni finché abbia
messo tutti i suoi nemici sotto i suoi piedi» (1 Cor 15:20-25).
Si tratta dello stesso schema sviluppato dall’apostolo Pietro
nel suo discorso della Pentecoste (cfr. At 2:22-25; 7:56).
L’Apocalisse pone a preludio della profezia, il piano della
salvezza, come è stato compreso dai primi cristiani. Il Dio che
viene non è altri che Gesù Cristo stesso. L’attenzione sulla sua
persona s’impone. La profezia non riguarda soltanto la buona
notizia della nostra liberazione e della felicità della vita eterna.
Non è solo un avvenimento che aspettiamo, ma prima di tutto,
una persona che amiamo, conosciamo e dalla quale siamo amati
e conosciuti. Questo rende l’attesa ancora più intensa e sicura.
La prima profezia del libro riguarda proprio la sua venuta.
Gesù è visto allo stesso modo in cui Daniele vide la venuta del
Figlio dell’uomo: «... sulle nuvole» (Dn 7:13; cfr. Ap 1:7).
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Introduzione
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re; è lui che dirà subito dopo: «Io sono l’alfa e l’omega dice il
Signore Dio, “colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente”»
(1:8). I nomi che definiscono Dio, in questi passi, sono gravidi
della stessa promessa. Prima di tutto si parla del Signore Dio,
YHWH Elohim della creazione, dell’inizio della storia, ma anche
della fine della storia; l’alfa e l’omega (la prima e l’ultima lette-
ra dell’alfabeto greco). Colui che è, che era e, soprattutto colui
che viene, l’Onnipotente, El Shadai.
Questo nome rappresenta l’appellativo più antico della tra-
dizione ebraica. Il Dio dei patriarchi, ma anche quello più cari-
co di promesse e di benedizioni.41
Shabbat
Ora, questa visione del Dio che viene, Giovanni la riceve pro-
prio «nel giorno del Signore» (v. 10). I cristiani che leggono que-
sto testo pensano istintivamente alla domenica.
Dimenticano, però, che è un ebreo che scrive, nutrito delle
Scritture ebraiche e ben radicato nella religione dei suoi padri.
Oltre a ciò, l’espressione «giorno del Signore» riferito alla dome-
nica s’incontra solo a partire dalla fine del II secolo, e anche lì,
si presenta eccezionalmente, negli scritti dell’epoca, lasciando
spazio a larghe controversie.42 È assai più ragionevole pensare
che il giorno del Signore di cui parla Giovanni, si riferisca al
sabato, chiamato, appunto, «giorno del Signore» (o giorno di
Adonai) nelle Scritture ebraiche.43 D’altra parte, il ricorrere
costante nell’Apocalisse, del numero 7 rende assolutamente
verosimile il riferimento al sabato, settimo giorno, in apertura
della profezia, come in una sorta di intonazione.
Questa interpretazione si giustifica, infine, per il fatto che il
sabato introduce il ciclo delle feste giudaiche che strutturano il
libro intero dell’Apocalisse. Troviamo la lista nel Levitico al
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Introduzione
44 Sofonia 1:7; 2:2,3; 3:8; Malachia 3:2; 4:1,5; Gioele 1:15; 2:1,2,11.
45 1 Tessalonicesi 5:2; 2 Tessalonicesi 2:2; 1 Corinzi 1:8; 5:5; 2 Corinzi 1:14;
Filippesi 1:6; 2:16.
46 II Baruc 48:47; 49:2; 55:6.
47 La Lettera agli Ebrei riflette questa identificazione del sabato con il giorno
escatolico (Eb 3,4); nello stesso modo, la tradizione ebraica percepisce il sabato
come il segno del giorno escatologico di Dio (Talmud di Babilonia, Sanhérin 98a;
cfr. A. Heschel, Les batisseurs du temps, Paris, 1957, p. 176).
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Grido 01
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STRUTTURA «A CANDELABRO» DELL’APOCALISSE*
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Pessah 7 Chiese Rosh Hashanah 7 Corni Fine del Kippur 7 Coppe Succot 7 Meraviglie
1:12-20 2-3 8:2-5 8:6-11:18 15 16- 18 21:1-8 di Gerusalemme
Shabbat Pasqua (Interludio 10:1 - 11:14) (Interludio 17 e 18) 21:9-22:5
12:57
Fase terrestre (cap. 1-11:18) Fase finale (11:19-14:20) Fase in cielo (capp. 15-22)
Prima parte
Tempeste
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Capitolo 1
Pessah (Pasqua)
Non è certo un caso che la visione introduttiva del ciclo delle
sette chiese ci trasporti nell’ambito dei candelabri. Dopo la
distruzione del tempio di Gerusalemme nel 70, e la sparizione
del candelabro nel bottino dell’esercito romano, come attesta il
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Capitolo 1
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Le sette chiese
Questa tensione tra presente e futuro costituisce l’essenza della
sua visione profetica. Quello che Giovanni vede concerne nello
stesso tempo le cose che «sono e quelle che devono avvenire in
seguito» (Ap 1:19). Immediatamente, viene così data la chiave
d’interpretazione delle lettere alle sette chiese. Il messaggio
indirizzato alle sette chiese dell’Asia, contemporanee di
Giovanni, deve essere letto come una profezia che concerne la
chiesa del futuro attraverso i secoli. Un certo numero d’indizi ci
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Capitolo 1
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stelle, sette sigilli, sette spiriti, sette angeli, sette piaghe, sette
corna, sette alture, ecc. La struttura stessa dell’Apocalisse si ar-
ticola su di uno schema settenario.
Le sette chiese di cui parla Giovanni non devono essere
comprese in senso strettamente letterale. Del resto, le chiese
dell’Asia erano ben più di sette. Ricordiamo Colosse e Ierapoli
menzionate nel Nuovo Testamento.58 Le sette chiese rappre-
sentano, essenzialmente, la chiesa nella sua totalità. Questa
linea interpretativa che denomineremo «simbolico-profetica»,
è, in assoluto, la più antica. Essa è attestata in un manoscritto
del III secolo d.C.59
Oltre a ciò, noteremo come il ritornello che conclude ognu-
na delle lettere sembri confermare questa impostazione: «Chi
ha orecchie ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese».60 Le let-
tere sono destinate alle chiese e ogni credente, in tutte le epo-
che, potrà trarne alcuni insegnamenti.
Questa intenzione è esplicitamente rivelata nella lettera
centrale (la quarta, indirizzata a Tiatiri) che contiene l’espres-
sione «tutte le chiese» (Ap 2:23).
Inoltre, queste sette chiese sono state scelte, non soltanto in
base al fatto che facevano parte di un ambiente familiare a
Giovanni, ma soprattutto per quello che rappresentavano sim-
bolicamente. Questo metodo di trarre un messaggio profetico
da una realtà geografica non è nuovo per la cultura giudaica. Il
profeta Michea aveva costruito tutta la sua visione del futuro sui
nomi delle città che sorgevano in Palestina.61
Nello stesso modo, Daniele si era ispirato alla situazione
geografica e strategica del nord e del sud, per situare la sua
visione profetica.62
Lo stesso ordine cronologico nel quale sono menzionate le
sette chiese, non è casuale. Alcune antiche ricerche geografiche
hanno dimostrato che l’autore segue un andamento circolare,
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Capitolo 1
63 Cfr. W.M. Ramsay, The Letters to the Seven Churches of Asia, London, 1909, p. 191.
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Efeso
È la prima tappa del viaggio provenendo da Patmos, probabil-
mente, il porto più importante dell’epoca. Le sue luci sono le
prime che si percepiscono dal mare. Non è dunque per caso che
Efeso è stata scelta per rappresentare la prima chiesa portatri-
ce della «prima luce». L’accento posto dalla lettera è proprio su
questa caratteristica di essere «la prima». Come Daniele aveva
fatto partire il suo ciclo profetico dai tempi in cui viveva, e
aveva identificato il regno di Babilonia con il giardino
dell’Eden;64 anche Giovanni inizia il suo ciclo con un riferi-
mento alla sua epoca, che associa al giardino dell’Eden: «A chi
vince io darò da mangiare dell’albero della vita, che è nel para-
diso di Dio» (Ap 2:7).
Sono i tempi del primo amore. Efeso significa in greco
«desiderabile». La passione è ancora fervente e i ricordi freschi
(v. 5). Si tratta della chiesa che ha conosciuto i tempi apostolici
(v. 2) e che ha appena ricevuto il passaggio della fiaccola. È
altresì la chiesa dei primi convertiti dal paganesimo. Il conver-
tito deve guardarsi dal pericolo dell’orgoglio, ricordando da
dove proviene e qual era la sua condizione originale (v. 5).
È la stessa ammonizione dell’apostolo Paolo ai romani (Rm
11:18). Per i cristiani di Efeso, alto luogo di Artemide, la famo-
64 Daniele 2:37,38; cfr. Genesi 1:28; cfr. Le soupir de la terre, pp. 42,43.
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Capitolo 1
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(v. 6), questo odio è a maggior ragione lodevole, per il fatto che
coincide con la passione di Dio che, anche lui, «odia».
Il male che minaccia la comunità cristiana delle origini
porta i tratti dei nicolaiti. Si tratta dei discepoli di Nicola, men-
zionato dal libro degli Atti (6:5) come appartenente alla chiesa
di Antiochia, non lontana da quella di Efeso. Non è ben chiaro
se Nicola sia diventato eretico o fosse stato frainteso dai suoi
discepoli. Comunque sia, dalla testimonianza dei Padri della
chiesa sappiamo che i nicolaiti si caratterizzavano per la loro
condotta licenziosa.66 Una cattiva assimilazione della predica-
zione dell’apostolo Paolo sulla legge e la grazia, li aveva con-
dotti a rigettare ogni esigenza posta dalla legge di Dio. Poiché la
grazia libera dalla legge, essi credevano che il cristiano poteva
tranquillamente abbandonarsi alle passioni terrene.
Questa tesi era supportata da una visione antropologica for-
temente dualista. Il corpo ha origine dalla materia e dal male,
sfugge, quindi alle categorie dello spirito. Si può fare del corpo
ciò che si vuole. Solo lo spirito conta. All’interno della dialettica
tra la legge e la grazia, questa maniera di pensare colloca il
corpo nell’ambito della legge, quindi viene disprezzato.
L’anima, appartenente al mondo della grazia verrà, al contrario,
esaltata.
Se diamo credito a questa testimonianza profetica, i primi
frammenti d’apostasia hanno riguardato la legge e l’antropolo-
gia. Si rigettò la legge con la scusa di accogliere la grazia, men-
tre si disprezzava il corpo per esaltarne lo spirito. I primi cri-
stiani resistettero a questa tentazione dualista. Per questo rice-
vettero una lode dal Signore. Infatti, rigettare la legge equivale
a rigettare Dio stesso, il quale si rivela e s’incarna nelle scelte
etiche dell’esistenza. Rigettare il corpo significa, poi, respinge-
re il Dio della creazione e della vita.
Smirne
La seconda tappa del nostro viaggio ci conduce a Smirne, di-
stante una cinquantina di chilometri da Efeso. Grande agglo-
merato commerciale, brillava per bellezza e ricchezza. Era
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Capitolo 1
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Capitolo 1
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Pergamo
Il viaggio prosegue verso nord, a circa trentacinque chilometri
da Smirne. La città di cui parleremo si ergeva superba e mae-
stosa su di un’altura e merita ampiamente il nome che porta,
Pergamo, che significa «cittadella», «città gloriosa». Fuori dalle
grandi arterie dei traffici commerciali, essa non era meno con-
siderata delle grandi città dell’Asia. Il geografo greco Strabone
(58 a.C.- 25 d.C.) la definisce «la città illustre», lo storico roma-
no Plinio (23-79 d.C.) la considera «la più famosa d’Asia».
Pergamo aggiungeva alla sua fama di capitale politica, una
solida reputazione culturale e religiosa. Vi si fabbricava anche
la pergamena da cui trae il nome. Con i suoi duecentomila roto-
li, la biblioteca cittadina rivaleggiava con quella di Alessandria.
La città era celebre per la sua vita religiosa. I suoi ospedali e
suoi templi dedicati a Esculapio, dio della guarigione, attirava-
allusione (12:29).
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Capitolo 1
76 Numeri 25:1-5.
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Capitolo 1
a pronunciare il nome di Dio (crf. Talmud di Babilonia, Kid 71a; M. Sanhedrin 10:1).
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Tiatiri
Ora, la lettera ci spinge ad andare verso est; a circa cinquanta-
cinque chilometri da Pergamo. Tiatiri è la città di gran lunga
più insignificante delle sette. Plinio la descrive come mediocre.
Tuttavia, sarà quella che riceverà il messaggio più lungo e
articolato. Riceverà, anche, le accuse più ardenti. Pochissimi
apprezzamenti (cfr. 2:19)e una lunga invettiva che occupa quasi
tutta la lettera (vv. 20-27).
Mentre le prime chiese si tenevano a una certa distanza dal
male, dopo Pergamo si stabilisce una nuova tendenza. Se, a
Pergamo il male aveva un suo posto, a Tiatiri imperava, gover-
nava la chiesa stessa.
A Pergamo, l’apostasia era stata rappresentata dai tratti di
un profeta pagano, Balaam, la cui influenza si esercitava a par-
tire dall’esterno. A Tiatiri, l’apostasia regna. Essa si presenta
sotto il segno di Jezabel (v. 20). Regina menzionata dall’Antico
Testamento era sposa di Achab, re d’Israele. Di origine fenicia,
era figlia di Ethbaal, re di Sidone (1 Re 16:31), il quale, secondo
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Capitolo 1
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Capitolo 1
Sardi
A circa quarantacinque chilometri a sud di Tiatiri, la città di
Sardi si stende a due livelli, da cui il nome declinato al plurale
(sardeis in greco). Originariamente, la città sorgeva su di un
altipiano a millecinquecento metri d’altezza; in seguito, si este-
se sui pendii e nella vallata. Dal primo sguardo, la topografia di
Sardi testimonia della decadenza che ha segnato la sua storia.
Sardi è il perfetto esempio del contrasto tra un passato di
gloria e la miseria del presente. All’epoca di Giovanni, Sardi
poteva vivere solo di ricordi. Cinque secoli prima era annove-
rata tra le città più prestigiose del mondo.
Il ricchissimo Creso era stato il suo ultimo sovrano (560-546
a.C.). Sotto il suo governo la città cadde nelle mani di Ciro.
Sicuro di sé, corrotto e infiacchito da uno stile di vita edonisti-
co, Creso fu preso alla sprovvista. Quando i soldati di Ciro giun-
sero alla sommità della collina, trovarono una città completa-
mente aperta e offerta all’aggressore.
Nel tempo che seguì la disfatta, Sardi perse ogni indipen-
denza e divenne il fantasma si se stessa. La fiera cittadella di
una volta, che aveva sfidato e impressionato Ciro era stata
ridotta a un antico monumento, atto a nutrire la nostalgia dei
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Capitolo 1
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Filadelfia
A soli quarantacinque chilometri a est di Sardi, Filadelfia, porta
le tracce del suo passato sconvolto dai terremoti. La grande pia-
nura vulcanica che rivela, nel nome, la sua storia: katakaume-
na (terra bruciata). La città fu fondata durante il regno di Attalo
II (159-138 a.C.) da coloni provenienti da Pergamo, desiderosi
di propagare la lingua e la cultura greca. Il nome deriva dal
sentimento assai vivo, nutrito dal re per il fratello Eumene.
Filadelfia significa appunto: «amore fraterno». Non è il solo
nome posseduto dalla città. In onore di Tiberio, che fornì ingen-
ti aiuti per la ricostruzione a seguito del terremoto, essa prese
il nome di Neocesarea (la nuova città di Cesare). In seguito
cambierà ancora in Flavia, per gratitudine verso l’imperatore
omonimo. La lettera riflette questa storia tormentata. Anche in
questo caso, per costruire il suo messaggio, la profezia si basa
su dati storici. Come la città, anche la chiesa è stata fondata da
coloni. Questo è il tempo delle missioni oltre le frontiere euro-
pee, in Africa, in Asia, nel Nuovo Mondo (dalla fine del XVIII al
XIX secolo). Un tempo nel quale il cristianesimo sembra vivere
una stagione nuova, forse caratterizzata da alcune ingenuità,
ma sicuramente zelante e pieno della speranza delle origini.
«Pur avendo poca forza, hai serbato la mia parola e non hai rin-
negato il mio nome» (Ap 3:8).
Gli eletti di Filadelfia, camminano sul sentiero tracciato dal
rimanente di Sardi che ha custodito la parola, ed è andato anche
oltre. Mentre la lettera a Sardi incoraggiava a «custodire» (3:2),
la lettera a Filadelfia riconosce la perseveranza dei fedeli, i
quali «hanno custodito» (vv. 8,10).
Siamo a uno stadio più avanzato. L’opera iniziata a Sardi si
è compiuta a Filadelfia. A Sardi, la venuta del Signore è parago-
nata a quella di un ladro. Non è attesa. A Filadelfia, questa atte-
sa è, invece, impaziente: «Io vengo presto» (v. 11). L’alleanza
con Dio, viene ora rinnovata. La promessa contenuta nella let-
tera ricorda lo stile del Salmo 23. I nemici sono convocati per
riconoscere che «io ti ho amato» (3:9; cfr. Sal 23:5). La recipro-
cità dell’alleanza e dell’amore è resa dall’eco esistente tra i due
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Capitolo 1
93 Esodo 6:7; Geremia 24:7; 30:22; 31:33; 32:38; Ezechiele 36:28, ecc.
94 R. Lehmann, Les adventistes du septième jour, p. 14.
95 Machiah Maintenant 46, 30 gennaio 1993, p. 3.
96 Cfr. C. Cannuyer, Les Bahaiis, p. 11.
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questa chiesa: «Ti ho posto davanti una porta aperta che nessu-
no può chiudere» (Ap 3:8). Questa immagine della porta aperta
verrà chiarita maggiormente nel capitolo seguente (4:1), allor-
ché si parla di una porta che si apre anche sul trono di Dio.
La «porta aperta» possiede, dunque un duplice significato.
Essa rappresenta l’apertura di nuovi orizzonti nella propagazio-
ne del messaggio del Vangelo.
Il XIX secolo è stata l’epoca in cui l’opera missionaria della
chiesa ha conosciuto la massima espansione. Ma, un’applica-
zione non secondaria della nozione di «porta aperta» si trova
anche nell’esplosione della ricerca biblica e profetica. Grazie a
questo rinnovato interesse, molti scoprirono verità inerenti il
piano della salvezza e realtà di ordine celeste. Ebbe inizio un
studio profondo dell’opera attuale di Cristo Gesù nel cielo. Il
tempo della chiesa di Filadelfia, sottolineato dalla porta aperta
sulla terra, come nel cielo, si evidenzia anche come il tempo
dell’attesa e della speranza. Riprende vita l’annuncio della libe-
razione del mondo.
Laodicea
Dopo Filadelfia, il profeta dell’Apocalisse ci trasporta a cin-
quanta chilometri verso sud, a Laodicea, l’ultima tappa del
viaggio. È il tempo in cui viviamo; è la chiesa di oggi, qualun-
que sia il nome che le diamo, poiché siamo tutti coinvolti in
questo ultimo sussulto della storia. Per tutti è il tempo della
fine. Lo si comprende già dal fatto che Laodicea è la settima
tappa del viaggio. Il numero sette parla di conclusione e siamo,
infatti, all’ultima lettera. L’idea di fine, domina tutta la lettera.
Emerge già dalle prime parole del mittente: Dio si presenta
come l’«Amen» (3:14). È la parola della fine, del compimento di
tutte le promesse e tutte le preghiere. Il profeta Isaia aveva qua-
lificato Dio in questi termini: «Dio dell’amen» (Is 65:16).97
Nei due testi l’amen è seguito dal riferimento alla creazione.
Nel libro di Isaia, il Dio dell’amen promette «... nuovi cieli e
una nuova terra» (v. 17). Nella lettera di Laodicea, il Dio dell’a-
97La versione Nuova Riveduta traduce «Dio di verità». La parola ebraica amen
deriva dal termine emet (verità).
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Capitolo 1
98 Giovanni 1:1.
99 Matteo 24:33; Marco 13:29; Giacomo 5:9.
100 Genesi 14:18-20; 31:54; Deuteronomio 12:5-7,17,18; 14:23,26; 15:20, Esodo
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tutto l’essere partecipa e si dona alla vita. Per non parlare della
presenza dell’altro che arricchisce l’esperienza.
L’intimità e la reciprocità della relazione è resa, ancora
meglio, dalla formula classica del patto coniugale che fa dire alle
parti: «Io cenerò con lui ed egli con me» (3:20). Questa cena
rende bene l’intimità dell’incontro. Per cogliere appieno l’imma-
gine bisogna immaginare la scena come era vissuta nel Medio
Oriente antico. Si mangiava nello stesso piatto, con le mani, ci si
toccava, si condivideva, si correvano gli stessi rischi. Era davve-
ro un atto di comunione. L’incontro con Dio è atteso, dunque,
come una esperienza reale, fisica e storica. Curiosamente, qui,
non è l’uomo il soggetto della speranza, ma Dio stesso. La spe-
ranza è descritta come una supplica di Dio, il quale sta in piedi
davanti alla porta, come uno straniero non accettato, un mendi-
cante nel bisogno che grida: «Io sto alla porta e busso. Se qualcu-
no ascolta la mia voce...» (3:20). È Dio che si fa invitare. La cena
deve essere consumata, innanzitutto qui, a casa nostra.
Contrariamente alla porta di Filadelfia, questa deve essere aper-
ta quaggiù, dalla parte rivolta verso di noi: «se qualcuno apre la
porta, io entrerò da lui». Questa richiesta di Dio conclude il lungo
appello per una presa di coscienza e un cambiamento (vv. 15-19),
un appello tanto accorato, quanto non richiesto da Laodicea, che
non ne sente il bisogno. Laodicea si crede giusta, come indica il
suo nome che significa «popolo giusto» e come si ricava dalle
stesse sue convizioni apertamente confessate: «Tu dici: “Sono
ricco, mi sono arricchito e non ho bisogno di niente!”» (v. 17).
L’antica Laodicea era famosa per la sua ricchezza, in quanto
era il centro di un sorta di società bancaria. Quando Cicerone, il
console romano (63 a.C.-43 d.C.) viaggiava per l’Asia Minore, si
fermava in questa città per cambiare le sue lettere di credito. A
partire dal II secolo a.C. gli abitanti di Laodicea coniavano la loro
propria moneta, le cui effigie raffiguravano gli dèi locali.
Laodicea bastava a se stessa e non aveva bisogno di nessun aiuto
esterno. Lo storico Tacito (55-120 d.C.) si meravigliò del fatto che,
dopo il terremoto del 61, essa si rimise in piedi senza sovvenzio-
ni da parte del governo romano.104
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Shavuoth
A questo punto, egli vede lui, in mezzo alla scena fra le creatu-
re viventi e «in mezzo al trono» (v. 6). Giovanni ha appena udito
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Capitolo 2
120 Cfr. Salmo 132:17; Geremia 48:25; Daniele 7:8,11,21; Zaccaria 1:18,19, ecc.
121 Atti 7:55,56; Filippesi 2:9-11; Ebrei 8:1,2; 10:19-22.
122 Cfr. L.C. Allen, Psalms 101-150, p. 80; G. Von Rad, «The Royal Ritual in Judah»,
in The problems of the Hexateuch and Other Essays, Londra, 1966, p. 103.
123 Esodo 24:7; 2 Re 23:2,21; Deutoronomio 17:18; 2 Re 11:12,13; 23:3.
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124 È interessante notare che il passo dell’Apocalisse, come il testo che riporta
l’inaugurazione del santuario nel libro dell’Esodo (cap. 40), si riferisce agli ele-
menti riguardanti i componenti del santuario. L’unica volta in cui il santuario
viene menzionato in tutte le sue parti è durante la festa delle Espiazioni (Lv 16).
La presenza dell’agnello esclude la possibilità di un riferimento alla festa delle
Espiazioni, poiché l’agnello fa parte dei sacrifici di inaugurazione del santuario
(Es 40:29; Lv 1:10) e non di quelli della festa delle Espiazioni. Al contrario, il
nostro testo è assolutamente privo di termini relativi al giudizio. Non vi si trova
alcuna allusione all’arca dell’alleanza, così importante nella festa delle
Espiazioni (Lv 16:11-15). Inoltre, la parola «naos», termine tecnico che designa
nell’Apocalisse il luogo santissimo, è assente in Apocalisse 4 e 5. In modo signi-
ficativo, la maggior parte delle citazioni della Parola appare nella seconda parte
del libro: 11:2 e 19; 14:15 e 17; 15:5,6,8; 16:1,17; 21:22. I soli due testi che lo uti-
lizzano nella parte iniziale del libro concernono il tempo futuro (3:12; 7:15).
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Capitolo 2
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I sette sigilli
Il destino dell’universo è in gioco. Già dalle prime parole, la voce
squillante come una tromba, lo aveva esplicitamente dichiarato:
«Ti mostrerò le cose che devono avvenire in seguito» (4:1).
La visione dei sette sigilli è diversa da quella delle sette chie-
se. In quest’ultima, il profeta vedeva anche le cose «che sono», e
non solo «quelle che devono avvenire in seguito» (Ap 1:19).128
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Capitolo 2
129 Giobbe 40:9; Salmo 45:5; Luca 6:6; Atti 3:7; Isaia 48:13; Esodo 15:6-12; Salmo 17:7.
130 Un certo numero di indizi fanno pensare che si tratta di un libro che impegna
Gesù in relazione al suo regno futuro, un po’ come il «libro dell’alleanza» impegna-
va gli antichi re d’Israele al momento della loro intronizzazione. Un altro parallelo
con un brano di Ezechiele, dove anche lui menziona un rotolo sorretto da una mano
tesa, uscita dal trono di Dio (cap. 1) e ugualmente «scritto dentro e fuori» (2:9,10; cfr.
Ap 5:1), conferma questo orientamento. Il testo di Ezechiele spiega che il rotolo con-
teneva lamenti, lacrime e gemiti (2:10) che sono interpretati, in seguito, come avver-
timenti e giudizi concernenti l’avvenire d’Israele (cap. 3). Allo stesso modo, il libro,
visto dal profeta Giovanni contiene gli stessi avvertimenti e giudizi, indirizzati al
popolo di Dio in rapporto al regno di Cristo. Si potrebbe persino pensare che il pro-
feta veda in retrospettiva dei giudizi futuri che saranno più tardi rivelati
nell’Apocalisse. I due documenti (l’Apocalisse e «il libro» del cap. 5) sono del resto
designati con lo stesso vocabolo: biblion (1:11; 22:7, 9,18,19), parola chiave del cap. 5
dove vi appare 7 volte (5:1,2,3,4,5,7,8). Entrambi sono dati da Dio a Gesù per far cono-
scere «le cose che devono avvenire tra breve» (1:1; cfr. 22:6). Entrambi sono sigillati
in attesa della fine. Il mancato suggellamento dell’Apocalisse è messo in rapporto con
la fine «poiché il tempo è vicino» (22:10); solo alla fine si comprenderà. In questo
senso, l’Apocalisse è come il libro di Daniele, anch’esso sigillato fino al tempo della
fine. Poi, molti lo leggeranno «e la conoscenza aumenterà» (Dn 12:4; cfr. 12:9,10).
131Cfr. I rotoli scoperti a Qumran tra le lettere di Bar Kokhba: Y. Yadin, The Finds
from the Bar Kokhba Period in the Cave of Letters, Gerusalemme, 1963, p. 118;
cfr. F.M. Cross, «The Discovery of The Samaria Papyri», in The Biblical
Archaeologist 26 (1963) pp. 111-115.
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Capitolo 2
Il cavallo bianco
L’agnello apre il primo sigillo e appare un cavallo bianco, sim-
bolo di conquista e di vittoria. Quando un generale romano
celebrava il suo trionfo, appariva alla testa del suo esercito su di
un cavallo bianco. Il commento del profeta conferma questa
interpretazione simbolica: «Egli venne fuori da vincitore e per
vincere» (Ap 6:2). È significativo il fatto che la venuta di questo
cavallo sia annunciata dalla prima delle creature avente le fat-
tezze di un leone (4:7); ora, questa immagine messianica viene
associata normalmente alla tribù di Giuda e alla vittoria di Gesù
Cristo. Inoltre, viene conferita al cavaliere una «corona vittorio-
sa» (in greco stefanos).
Nel capitolo 19 dell’Apocalisse, la stessa immagine viene
utilizzata per rappresentare la vittoria di Cristo: un cavallo
bianco montato da un cavaliere incoronato (19:11-16). Notiamo,
però, come la corona di questo cavaliere sia regale (in greco
diadema). Anche se l’immagine del cavallo bianco del capitolo
sesto riguarda Gesù Cristo in gloria, essa non si riferisce,
comunque, alla venuta del regno. Gesù è vittorioso, ma non
ancora sovrano. Certo, una battaglia è stata vinta, ma la guerra
non è ancora finita. Nel nostro testo, il cavaliere viene descritto
al momento della partenza, non a quello dell’arrivo: «Egli partì».
La storia del cristianesimo e la sua conquista del mondo è par-
tita bene. Questo è il tempo dei primi cristiani e della chiesa
apostolica (I-III secolo).
In quel periodo la chiesa è ancora esente da compromessi,
da giochi politici e da violenze, un tempo in cui il combattimen-
to si svolge a partire dall’esperienza vittoriosa di Gesù Cristo.
Curiosamente, la vittoria di cui parla il nostro testo non è asso-
ciata a guerre letterali o strategie. La corona della vittoria (ste-
fanos) viene donata gratuitamente (6:2). È una grazia che pro-
viene da Dio. Il cavaliere ha un arco in mano ma nessuna frec-
cia. La sua è una vittoria pacifica, senza spargimento di sangue.
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Il cavallo rosso
All’apertura del secondo sigillo, appare un cavallo rosso. La sua
venuta è annunciata dalla seconda creatura vivente, che ha le
sembianze di vitello. Colui che lo cavalca riceve la missione di
levare la pace dalla terra (6:4). Gli uomini si uccidono l’uno con
l’altro. Il cavaliere brandisce una «grande spada».
La seconda tappa segna un cambiamento nella storia del
cristianesimo. Si passa dalla pace alla guerra. Non si tratta di
persecuzioni, ma di guerre intestine. Tutto depone a favore di
questa interpretazione. Il colore rosso del cavallo suggerisce l’i-
dea del sangue versato (cfr. 2 Re 3:22); il vitello evoca il macel-
lo (Lc 15:27); la grande spada annuncia la guerra. La stessa
parola machaira si trova nel libro di Enoch (162-130 a.C.), dove
«una grande spada» è donata a Israele per combattere ed elimi-
nare gli infedeli (2 Enoch 90:19).
In quest’epoca, la chiesa si batte per il potere politico. Poi,
le lotte tra cristiani ariani e cattolici. Per la prima volta, gli
imperatori danno il loro appoggio politico e militare all’espan-
sione della chiesa. Costantino (306-337), e in seguito Clodoveo,
imperatore franco (481-511), si batteranno per essa. È il tempo
descritto da Jules Isaac, in cui «la chiesa cristiana si elevò (o si
abbassò) dalla condizione di perseguitata a quello di chiesa vit-
toriosa e, presto, ufficiale».134
Il cavallo nero
L’apertura del terzo sigillo suscita l’apparizione di un cavallo
nero. Il cavaliere regge con le mani una bilancia che serve a
misurare le razioni alimentari e rappresenta, quindi, la care-
stia, nello stesso ordine d’idee di Ezechiele: «Figlio d’uomo, io
farò mancare del tutto il sostegno del pane a Gerusalemme; essi
mangeranno con angoscia il pane razionato» (4:16).
Il cavallo nero segue quello rosso, come la carestia segue la
guerra. La voce si leva dal gruppo delle quattro creature viven-
ti, proviene cioè dall’Agnello, perché egli si trova seduto in
mezzo a loro. «E udii come una voce in mezzo alle quattro crea-
ture viventi che diceva: “Una misura di frumento per un dena-
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Capitolo 2
Il cavallo giallastro
L’apertura del quarto sigillo libera un cavallo dal colore livido
(in greco cloros), che suggerisce la morte e il terrore. Questo
cavallo è annunciato dal quarto essere vivente che assomiglia a
un’aquila in pieno volo, pronta a piombare sulla preda.
Immagine che, nelle Scritture evoca la persecuzione e la
morte.143 In questo periodo la chiesa impersona la morte al suo
massimo grado. Non soltanto il cavaliere si chiama «morte», ma
è accompagnato per la prima volta da un secondo cavaliere che
prende il nome di ades «soggiorno dei morti». Con questo nome
la Settanta traduce il termine ebraico Scheol, cioè il luogo, lo
stato dei morti. Le parole «morte» e «soggiorno dei morti» sono
spesso associate nell’Apocalisse.144
Quest’ultima piaga supera tutte le altre: dopo la spada e la
carestia, subentra la morte. Quanto alle «bestie selvagge», esse
non fanno altro che aggiungere intensità alla realtà della morte.
Il soggiorno dei morti è spesso rappresentato nell’immaginario
biblico come un luogo infestato da belve.145 Un’epoca, questa,
dove la chiesa si rivela portatrice di morte e oppressione. Ella
perseguita e persegue tutti coloro che dal suo punto di vista,
sono sospetti, tutti coloro che considera eretici e infedeli. Tempo
di crociate, roghi e inquisizione; infine di guerre di religione.
All’orizzonte di questa mentalità, si può addirittura intrave-
dere l’ombra dell’oppressione nazista, nutrita da quell’«insegna-
mento del disprezzo»146 totalitario e usurpatore della chiesa. Il
143 Deuteronomio 28:49; Giobbe 9:26; Lamentazioni 4:19; Abacuc 1:8; Matteo
24:28.
144 Apocalisse 1:18; 20:13,14.
145 Salmo 22:14-29; 91:13.
146 L’espressione è di J. Isaac, op.cit., p. 131.
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Capitolo 2
Le vittime
Il quinto sigillo segna una svolta. L’apertura dei primi quattro,
associata ad altrettante creature viventi, all’appello ripetuto
quattro volte: «Vieni!», sbocca nell’ingresso dei quattro cavalli,
chiamati a rappresentare gli avvenimenti. L’apertura dei suc-
cessivi sigilli, invece, ci introduce direttamente su avvenimenti
profetici.
Nel quinto sigillo udiamo le voci di quelle vittime. La storia
non è più raccontata a partire dalle vicende dell’istituzione che
perpetrava l’oppressione, ma viene data la parola alle vittime
stesse. Il profeta non vede più né cavalli né creature, ma uomi-
ni e donne che sospirano e invocano il giudizio di Dio.
Dal punto di vista delle vittime, due cose sole contano: sape-
re il perché della sofferenza e, soprattutto, fino a quando durerà.
La prima domanda pesa, lancinante e destabilizzante, l’e-
terna domanda relativa alla sofferenza del giusto. Ma, qui, la
sofferenza è ancora più ingiusta: è la sofferenza di chi muore a
causa «della parola di Dio» (Ap 6:9).
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Capitolo 3
168Cfr. L. Ginzberg, «Tamid», Journal of Jewish Lore and Philosophy I, 1919, pp.
33,38,197,263,291.
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donne che hanno gridato dal fondo della loro sofferenza affin-
ché giustizia sia fatta. «Signore, io t’invoco; affrettati a rispon-
dermi. Porgi orecchio alla mia voce quando grido a te. La mia
preghiera sia in tua presenza come l’incenso, l’elevazione delle
mie mani come il sacrificio della sera» (Sal 141:1,2).
Il nostro passo fa eco al quinto sigillo che faceva ascoltare,
anch’esso, grida di vittime provenienti dai lati dell’altare (Ap
6:9,10). Il colpo di braciere proveniente dall’alto acquista tutto
il suo senso. Esso annuncia che le preghiere degli oppressi sono
state ascoltate. Durante l’apertura del quinto sigillo, il sangue
delle vittime gridava vendetta «su quelli che abitano sopra la
terra» (v. 10). Ora, gli schofar portano questa vendetta sugli
«abitanti della terra» (8:13).
Questa intenzione è chiaramente rivelata al suono del setti-
mo schofar: «la tua ira è giunta, ed è arrivato il momento di giu-
dicare... e di distruggere quelli che distruggono la terra» (v. 18).
Gli schofar stanno ai sigilli, come la «vendetta» risponde
all’oppressione. Mentre i sigilli mostravano l’oppressione del
potere usurpatore attraverso le epoche, gli schofar mettono in
evidenza un giudizio immanente, effettivamente inserito nel
corso degli eventi storici, preparatore del giudizio finale, prove-
niente dal cielo.
Rosh hashanah
L’immagine del suono del corno è, a questo punto, particolar-
mente suggestiva. Perché qui si parla non di trombe ma dello
schofar. La parola greca salpigx, che le nostre Bibbie traduco-
no solitamente con «trombe», traduce, in realtà, nella Settanta
la parola ebraica schofar. Si tratta del corno dell’ariete che si
utilizzava nelle occasioni solenni della guerra e del giudizio. I
sacerdoti suonarono lo stesso strumento musicale durante la
conquista di Gerico (cfr. Gs 6:4,6,8,13) per annunciare la vitto-
ria. Poi, durante la festa dell’espiazione (cfr. Lv 25:9) per pro-
clamare il gran giorno del giudizio di Dio.169
Fino a questo momento, nel libro dell’Apocalisse, il suono di
questo strumento era stato sporadico. Lo abbiamo incontrato
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Capitolo 3
una volta prima delle sette lettere alle chiese (1:10) e un’altra
volta prima dell’apertura dei sette sigilli (4:1).
Nei capitoli 8 e 9 risuona attraverso tutta la storia vista nella
prospettiva profetica. Come le preghiere salgono in ogni
momento verso il cielo, similmente gli schofar fanno udire la
loro voce continuamente. Questa associazione, schofar e pre-
ghiera, ci ricorda l’atmosfera della festa denominata delle
«trombe» (cioè degli schofar).
È la festa che segue la Pentecoste. Si celebrava il primo
giorno del settimo mese (Tishri: settembre ottobre) del calen-
dario ebraico (cfr. Lv 23:23-25). Essa diventerà il primo giorno
dell’anno ebraico (Rosh hashanah).
Per dieci giorni, seguito dal suono degli schofar, l’israelita si
preparava alla venuta della festa delle Espiazioni (il dieci di
Tishri). Ogni mattina, i selioth (richieste di perdono) venivano
recitati, e nel cuore della preghiera si ricordano i tredici attri-
buti della misericordia di Dio (cfr. Es 34:6:7).
La lettura della Torah è tratta dal racconto della nascita e
del sacrificio d’Isacco che apporta alla festa la nota positiva del
Dio che provvede ed esaudisce le preghiere impossibili (cfr. Gn
21,22).
Nel contesto dell’Apocalisse, l’evocazione della festa degli
schofar arricchisce la profezia degli stessi accenti di speranza e
di giudizio lanciando, nello stesso tempo, un appello al penti-
mento e alla conversione.
L’angelo vestito di lino fino che fa bruciare l’incenso davan-
ti a Dio, rappresenta Gesù Cristo; il quale, dopo la sua introniz-
zazione, intercede presso Dio nel cielo. Nello stesso tempo, il
braciere riempito di carboni ardenti, lanciato dall’angelo contro
il portico e l’altare, si comprende come un appello al pentimen-
to che fa eco ai drammatici squilli del corno.
Il libro del profeta Gioele merita qui di essere menzionato
in modo speciale. Anche lui associa, infatti, nella medesima
visione, il suono del corno che allerta e chiama al pentimento e
l’intercessione del sacerdote «fra il portico e l’altare». «“Non-
dimeno, anche adesso”, dice il SIGNORE, “tornate a me con tutto
il vostro cuore, con digiuni, con pianti e con lamenti!”.
Stracciatevi il cuore, non le vesti; tornate al Signore, vostro Dio,
perché egli è misericordioso e pietoso, lento all’ira... Sonate la
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I sette schofar
Gli schofar corrispondono al ciclo dei sigilli ma è solo che tra il
secondo e il sesto sigillo che l’apostasia e l’oppressione della
chiesa si esplicano nella storia umana; gli schofar coprono esat-
tamente questo periodo.
Il primo e il settimo sigillo che incorniciano questa epoca,
sono immuni da ogni ingiustizia. Durante il primo sigillo, all’i-
nizio dell’esperienza cristiana, la chiesa è pura, resta fedele alle
sue radici e si lascia ancora condurre da Gesù Cristo.
L’ultimo sigillo segna la fine della storia umana e annuncia
la discesa di Dio. È dunque da sottolineare che gli schofar fanno
eco ai sigilli, inserendosi precisamente tra il secondo e il sesto
sigillo:
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Capitolo 3
Primo sigillo:
cavallo bianco
Settimo sigillo:
silenzio nel cielo.
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Fuoco e sangue
Il primo e il secondo dei quattro schofar sono complementari. I
cataclismi di cui parlano colpiscono la terra e il mare. Il primo
schofar produce un fiume di fuoco e una pioggia di grandine
che inaridiscono la terra (v. 7). Il secondo schofar produce una
massa solida incandescente, «una grande montagna», che
insanguina il mare (v. 8). Nel primo caso come nel secondo, il
risultato è lo stesso: la terza parte ne risulta contaminata. Il
fuoco e il sangue rappresentano la violenza delle guerre che
devastano tutto; nello stesso tempo ricordano le piaghe d’Egitto.
Anche in quella circostanza, l’oppressore d’Israele è colpito
dal fuoco e dalla grandine (cfr. Es 9:23-25). Quanto alla «terza
parte», ciò significa che gli effetti della piaga saranno parziali e
che la maggior parte della terra sopravviverà al flagello (cfr. Ez
5:2; Zc 13:8). I due schofar corrispondono al secondo sigillo e si
applicano all’epoca in cui la chiesa cristiana è lacerata dalle
guerre contro i barbari (IV e V secolo d.C.).
Né acqua né luce
Il terzo e il quarto schofar riguardano entrambi i corpi celesti:
la stella, il sole e la luna. Tutto ciò che era stato creato per esse-
re fonte di luce e di vita, diventa tenebre e morte.
Curiosamente, questo processo di decomposizione inizia dalla
stella, contrariamente alla normale sequenza, sole, luna e stel-
le (cfr. Gn 1:16). Questa anomalia traduce l’intenzione dell’au-
tore di far emergere il primato del ruolo della stella in rappor-
to agli altri corpi celesti. La stella mette in moto il meccanismo
degli eventi.
Un’altra anomalia consiste nel fatto che «la stella» è al sin-
golare. Raramente vi si trova nella Bibbia e comunque sempre
al plurale, in associazione al sole e alla luna. L’autore vuole atti-
rare l’attenzione sulla «stella» al singolare. Nella Bibbia, Antico
e Nuovo Testamento, si parla di stella al singolare quando si fa
riferimento al Messia. Nella profezia di Balaam, la stella designa
il Re Messia chiamato a salvare Israele dai suoi nemici (cfr. Nm
24:17). Nel Nuovo Testamento, la stella rappresenta Gesù Cristo
(cfr. Mt 2:2; Ap 2:28; 22:16). Il solo passo dove la parola «stella»
al singolare non si riferisce al Messia si trova nel libro del pro-
feta Isaia, dove si applica all’angelo decaduto, Lucifero, personi-
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Capitolo 3
ficato dalla potenza di Babilonia (cfr. Is: 14:12). Qui, la stella rap-
presenta il potere malefico che vuole, al pari dell’antica Babele
(cfr. Gn 11:1-9), elevarsi fino a Dio per prenderne il posto,170
intenzione che causerà la sua caduta «nell’abisso»: «Come mai
sei caduto dal cielo, astro mattutino, figlio dell’aurora? Come
mai sei atterrato, tu che calpestavi le nazioni? Tu dicevi in cuor
tuo: “Io salirò in cielo, innalzerò il mio trono al di sopra delle
stelle di Dio; mi siederò sul monte dell’assemblea, nella parte
estrema del settentrione; salirò sulle sommità delle nubi, sarò
simile all’Altissimo”. Invece ti hanno fatto discendere nel sog-
giorno dei morti, nelle profondità della fossa!» (vv. 12-15).
Il testo dell’Apocalisse si riferisce a questo brano. Vi si ritro-
va lo stesso motivo di caduta della stella, quale potere usurpa-
tore. L’unica differenza è che, in questo caso, la stella nasce qui
sulla terra e si colloca nella dinamica della storia della chiesa.
Il profeta Daniele ne aveva ricevuto la rivelazione quando par-
lava del piccolo corno che si sarebbe elevato «fino a raggiunge-
re l’esercito del cielo... e fino al capo di quell’esercito» (8:10,11).
Nell’Apocalisse, come nel libro d’Isaia, la caduta di questa
stella è associata alla morte. In Isaia, si identifica direttamente
con il soggiorno dei morti. Nell’Apocalisse, provoca l’inquina-
mento dei fiumi e delle sorgenti e, di conseguenza, la morte di
«molti uomini» (Ap 8:10,11), sia a causa della sete, sia per avve-
lenamento. Nel linguaggio simbolico del nostro libro, permeato
dalle Scritture ebraiche, i fiumi e le sorgenti rappresentano il
nutrimento spirituale.171 D’altra parte, l’identificazione della
stella con l’assenzio, richiama l’esperienza degli israeliti a Mara
(cfr. Es 15:23). I motivi si riuniscono nel tema comune dell’a-
marezza che la Bibbia, generalmente associa all’apostasia.172
Il popolo muore di sete perché l’acqua non è più potabile.
La verità è stata adulterata, quindi non può più vivificare i cre-
denti. Il quarto schofar dice la stessa cosa in altri termini. Il
sole, la luna e le stelle, cioè il popolo di Dio (cfr. Gn 37:9; Ap
12:1), passano attraverso le tenebre.
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Le cavallette
Il quinto e il quarto schofar sono direttamente collegati dal
punto di vista storico. L’attenzione è ancora fissa sulla stella
caduta dal cielo (9:1).
Ancora lo stesso potere usurpatore che agisce, una potenza
che ricorda quella dell’antica Babele, una chiesa che pretende
un’autorità che solo Dio possiede, autorità che non può essere
delegata a nessuna organizzazione umana. Fino a questo
momento, gli schofar indroducevano delle azioni divine di tipo
cosmico, provenienti dall’alto.
Da questo momento in poi, gli schofar annunciano delle
azioni prodotte da forze che provengono dal basso, «dall’abisso»
(vv. 1,2). Il termine greco abyssos è quello che la Settanta uti-
lizza per tradurre la parola ebraica tehom (abisso). Questa paro-
la caratterizza lo stato della terra prima dell’intervento creato-
re di Dio (cfr. Gn 1:2).
Il termine tehom è associato, in modo significativo, ai con-
cetti di acqua, tenebre e vuoto. Nel secondo racconto della crea-
zione è messo in relazione con le parole «non» e «non ancora»
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Capitolo 3
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176 Il paragone è felice, tenendo conto dell’aspetto delle cavallette, della loro
velocità e della loro stessa strategia militare (Os 14:3; Am 6:12).
177 Cfr. Le soupir de la terre, pp. 205-207.
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Capitolo 3
I cavalieri
Il sesto schofar risponde al grido del quinto sigillo. Alle voci che
piangono davanti all’altare (6:10), fa eco una voce che libera i
quattro angeli sull’Eufrate (9:13-14). Ancora una volta, l’avveni-
mento in esame deve essere letto come un castigo contro l’op-
pressore, identificato qui, chiaramente, con Babilonia. Il riferi-
mento all’Eufrate ricorda, nella memoria biblica, la caduta di
Babilonia.179 Allo stesso modo, «gli idoli d’oro, d’argento, di
rame, di pietra e di legno» (v. 20) ricordano l’idolatria di
Babilonia, come essa è ricordata dal profeta Daniele alla vigilia
della distruzione di Babilonia (v. 23). «I demoni» (v. 20) e le «loro
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L’angelo di luce
Alla stella caduta, angelo dell’abisso che richiama il nulla e la
morte (cfr. Ap 9:1,2) si oppone, ora, un angelo potente di luce
che guarda al Dio creatore (cfr. 10:1). L’arcobaleno sulla sua
testa è il segno dell’alleanza tra il Dio dell’universo e l’uomo
(Gn 9:12,13). I suoi piedi, posati successivamente sul mare e
sulla terra (cfr. Ap 10:2,5), ricordano l’azione creatrice di Dio, la
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Capitolo 3
quale si attua, prima sulle acque (cfr. Gn 1:1-8), poi, sulla terra
(v. 9 e ss.). Questo personaggio ricorda il Figlio dell’uomo della
prima visione dell’Apocalisse. Come lui, ha il volto che splende
come il sole (10:1; 1:16), i suoi piedi ardono come il fuoco (10:1;
1:15), la sua voce è come il tuono (10:3; 1:15). Come lui, scende
sulle nuvole del cielo (10:1; 1:7).
Ma, quando si considera la visione nel suo insieme, la
memoria va al profeta Daniele. Al capitolo 12 del suo libro,
Daniele riporta la visione di un personaggio in piedi, sulle
acque, che alza le mani verso il cielo che giura «per colui che
vive in eterno» (v. 7). Questo solenne giuramento dell’uomo
vestito di lino risponde alla domanda di un altro essere celeste:
«Quando sarà la fine?» (v. 6). La risposta non è completamente
soddisfacente, tanto che Daniele non comprende; la cosa obbli-
ga l’uomo vestito di lino a precisare che quelle parole sono
sigillate «fino alla fine dei tempi» (v. 13).
È qui l’ultimo periodo della profezia e, di conseguenza il
solo che contiene la risposta completa e definitiva alla doman-
da «fino a quando?» Solo questo periodo profetico conduce a
quel «fine dei tempi». Infatti, il tempo della fine era già stato
l’oggetto di una rivelazione precedente.
Il capitolo 8 del libro di Daniele riporta la stessa visione dei
due personaggi celesti che dialogano. Anche in questo caso l’in-
contro prende il via con la domanda «fino a quando?» (v. 13).
Nuovamente, la risposta conduce al tempo della fine. E un
periodo profetico viene tracciato.
In Daniele 8, il «tempo della fine» che risponde alla doman-
da «fino a quando?» è posto al termine di duemilatrecento sere
e mattine, cioè nel 1844, ed è descritto come una festa dell’e-
spiazione e purificazione del santuario.184
Poiché i milletrecentotrentacinque giorni portano anche
loro alla «fine dei tempi» come risposta alla stessa domanda
«fino a quando?», si può dedurre che essi conducono agli stessi
avvenimenti predetti dalla profezia delle duemilatrecento sere
e mattine, quindi alla stessa data e alla stessa festa dell’espia-
zione dell’umanità, che è iniziata nel 1844. È da notare come il
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Il libro
Per meglio esprimere questa verità, Giovanni si alza e, per ordi-
ne di una voce celeste e in seguito dell’angelo, s’impadronisce
del «libro... aperto» che è nelle mani dell’angelo e lo mangia (Ap
10:8,9). Questo gesto è significativo: la parola è ricevuta e assi-
milata. «Il libretto» rappresenta dunque il libro di Daniele che,
dopo essere stato sigillato per molto tempo, è infine «aperto» e
mangiato (cioè, letto e compreso). L’esperienza del profeta
dell’Apocalisse ricorda quella di Ezechiele: anche lui udì la
voce dello stesso angelo di luce (cfr. 1:28; cfr. Ap 1:12-15) che gli
ordina di mangiare un libro (cfr. Ez 3:1). Questo gesto strano è
spiegato dai versetti seguenti. Indica il ministero del profeta
che, dopo aver «assimilato» il contenuto del libro, lo comunica
ai suoi contemporanei (vv. 2-6).
Il parallelo tra i due testi non si ferma qui. Come Giovanni,
Ezechiele trova il libro «dolce come del miele» (v. 3; cfr. Ap
10:9,10). Per Giovanni, l’esperienza è ambigua. Alla dolcezza si
mescola un retrogusto amaro. Questo libro contiene «lamenta-
zioni, gemiti e guai» (Ez 2:10). La ragione di questa ambiguità
risiede nella natura stessa del messaggio profetico da trasmet-
tere al popolo. Si tratta, nello stesso tempo, di un messaggio di
giudizio e di restaurazione.
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Capitolo 3
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I due testimoni
La visione seguente mette Giovanni nuovamente a confronto
con l’esperienza profetica di Ezechiele. Come lui, riceve una
verga per misurare il tempio della Gerusalemme futura (cfr. Ap
11:1; Ez 40:3). Questo gesto simbolico diventa chiaro quando lo
si mette in parallelo con il ciclo dei sigilli. Dopo l’apertura del
sesto sigillo, la serie si era interrotta per consentire a Dio di
segnare il suo popolo, esperienza che gli consentirà di vivere in
tempi difficili (7:3). Allo stesso modo, dopo lo squillo del sesto
schofar il profeta si ferma a misurare il tempio di Dio annun-
ciandone la restaurazione (cfr. 11:1; Zc 2:2). Più esattamente,
Giovanni deve misurare «l’altare» e contare «quelli che vi ado-
rano». La visione si applica al popolo di Dio attraverso la storia.
Questo popolo ha ricevuto la missione di «profetizzare» (11:3).
La sua missione è simile a quella del popolo di Dio dei tempi
ultimi: testimoniare della rivelazione che viene dall’alto.
Mentre, in precedenza la testimonianza verteva su Daniele e
l’Apocalisse, ora, arrivati alla fine della storia umana, la testi-
monianza si allarga all’intero messaggio biblico. L’oracolo
paragona questo popolo «profetico» a «due testimoni» (11:3) e
spiega: «Questi sono i due olivi e i due candelabri che stanno
davanti al Signore della terra» (11:4).
Il profeta Zaccaria riporta un’analoga immagine di due olivi
e di un candelabro (4:1-6,11-14). Alla domanda del profeta:
«Che significano queste cose?» (v. 4), l’angelo risponde: «“Non
per potenza, né per forza, ma per lo Spirito mio” dice il SIGNORE
degli eserciti» (v. 6).
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Capitolo 3
ze, i libri considerati come sacri, dai cristiani come dagli ebrei,
vengono bruciati. La seguente testimonianza è riportata da un
giornale dell’epoca: «Ieri, giorno della Decade sono state can-
cellate le ultime tracce della superstizione: una grande catasta
di legna alzata sulla piazza era cosparsa da una moltitudine
d’immagini e di quadri portati via dalle chiese. La folla ha but-
tato sulla legna circa seimila volumi cosiddetti religiosi; mentre
lo faceva cantava degli inni repubblicani. Persino degli ebrei
presenti in città sono venuti a portare libri sacri rinunciando
alla loro ridicola attesa del Messia. La massa dei libri portati era
così tanta che il fuoco acceso arde ancora alle dieci di questa
mattina».190
Nel novembre 1793, la Convenzione promulgò un decreto
che aboliva tutti i culti. Per la prima volta nella storia della chie-
sa, è proclamata la fine della religione cristiana: «La ragione ha
riportato una grande vittoria sul fanatismo; una religione di
errori e di sangue è stata annientata; dopo diciotto secoli essa
non ha causato che dei mali per la terra e nonostante questo è
stata chiamata divina! I vespri siciliani, il massacro di San
Bartolomeo, le Crociate, i Valdesi, ecco le sue opere, ecco i suoi
trofei: che essa sparisca dalla faccia della terra».191
La storia ha dei risvolti ironici. La chiesa che ha soffocato la
testimonianza delle Scritture, ha prodotto per reazione la
Rivoluzione francese che ha bruciato le Scritture. La chiesa ha
negletto la rivelazione che viene dall’alto, ha perseguitato e di
fatto generato il suo proprio distruttore che in un attimo ne ha
carpito l’anima; la Parola di Dio è stata rigettata. La cronaca
profetica degli avvenimenti contiene una lezione spirituale
spesso ripetuta dall’Apocalisse: l’iniquità genera spesso il suo
proprio giudizio. Ma l’Apocalisse guarda ancora più lontano. A
questo giudizio immanente si unisce un giudizio dall’alto il cui
effetto è duplice. Da una parte un terremoto scuote «la città»
(11:13), un luogo già definito come «la grande città», cioè
Babilonia. Il potere, l’usurpatore riceve un terribile colpo.
Siamo nel 1798, nel momento in cui la chiesa, attaccata da
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192 Cfr. Isaia 6:13; Levitico 27:30; Le soupir de la terre, n. 486, pp. 148,299.
193 1 Re 19:18; 20:15.
194 Secondo le credenze dell’epoca, il processo di decomposizione non comincia-
va che dopo tre giorni. Allora soltanto il defunto era ufficialmente morto. Parlare
di risurrezione dopo tre giorni, equivaleva a sostenere la realtà di un miracolo. Al
di là dell’esempio di Gesù, questa lezione si ritrova altrove, nelle Scritture. Lazzaro
non risuscita se non il quarto giorno (Gv 11:17,39). Giona esce dal pesce dopo tre
giorni, un tempo che egli identifica con il soggiorno dei morti (Gio 2:3; Os 6:1,2).
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Capitolo 3
L’ira di Dio
Il settimo schofar annuncia il «terzo guaio» (11:14) che colpirà
durante gli ultimi momenti della storia umana. L’avvenimento
è descritto come un tempo della fine. Nel corso della visione
precedente, il settimo schofar è atteso come la realizzazione del
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Seconda parte
Quando il cielo rosseggia
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Preludio sull’arca
Prima di entrare nella nuova serie dei sette, come sempre a
questo punto, la visione ci porta nello spazio del santuario:
«Allora si aprì il tempio di Dio che è in cielo...» (11:19).
Kippur
L’attenzione, ora, volge sull’arca dell’alleanza nel luogo santis-
simo. Ci troviamo durante la festa dell’espiazione (o Kippur, in
ebraico), il solo giorno dell’anno nel quale il luogo santissimo è
aperto al sacerdote. Si tratta ancora di una festa ebraica che
diventa il preludio di un nuovo ciclo di sette segni.
L’evocazione del Kippur giunge a proposito, proprio alla
fine della festa degli schofar (Lv 23:26-32), alla fine dei dieci
giorni di preparazione (il 10 di Tishri, il settimo mese). La festa
degli schofar era carica del messaggio del giudizio d Dio che la
chiesa doveva ricevere a partire dalla morte e dalla risurrezio-
ne di Cristo. Nello stesso modo, la festa delle espiazioni è, ora,
piena del messaggio della venuta del giudizio di Dio sulla chie-
sa alla fine dei tempi. E, non è per caso che l’arca occupi tutto
lo spazio della visione. Essa svolge un ruolo centrale durante la
festa delle espiazioni.
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Capitolo 4
Il diavolo e la donna
La donna
Su questo retroterra di speranza e di giudizio prende vita una
nuova visione dell’Apocalisse. In quello stesso cielo, dove lo
sguardo profetico si sofferma sull’arca dell’alleanza, nasce una
donna bellissima, incoronata da dodici stelle e risplendente
della luce del sole e della luna. La visione non ha niente del
sogno meraviglioso, il cui senso si perde nelle nebulose dell’in-
conscio. La sua figura si staglia in modo netto e i suoi simboli
sono familiari nella Bibbia.
Nella tradizione ebraica, l’immagine della donna scorre su
due piani. Per un verso, la donna rappresenta la sposa o la
fidanzata di Dio; attraverso questo riferimento si comprende
bene la relazione d’amore di Dio per il suo popolo. Il Cantico
dei cantici, i profeti Isaia, Geremia, Ezechiele, Osea, Amos,
testimoniano questa immagine, nata già all’inizio della relazio-
ne di Dio con Israele.
In altri casi, la donna rappresenta la madre. L’immagine si
arricchisce, allora, di promesse profetiche. Adamo chiama sua
moglie Eva, cioè «madre di tutti i viventi» (Gn 3:20). Per il
primo uomo, la donna rappresenta la garanzia di un futuro.
Ella è il canale che permetterà al seme umano di fecondare l’u-
manità. Per l’autore della Genesi, la donna porta il seme che
salverà l’umanità (v. 15). È evidente che le due funzioni di
moglie e di madre sono in relazione tra loro. Grazie alla rela-
zione coniugale, la sposa diventa madre.
Nel testo dell’Apocalisse, la visione della donna ricorda il
sogno di Giuseppe (cfr. 37:9-11). Il sole, la luna e le stelle com-
paiono quale simbolo della famiglia d’Israele: Giacobbe,
Rachele e i suoi dodici figli. Associata a quegli astri, la donna
rappresenta, dunque, Israele, il popolo di Dio.
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Capitolo 4
Il diavolo
Di fronte alla speranza che promette l’irruzione di Dio nella sto-
ria, il profeta vede l’antisperanza personificata dal dragone.
Anche qui, la visione è piena di riferimenti simbolici propri
dell’Antico Testamento. Già dalle prime pagine della Genesi, il
serpente incarna la potenza del male (cap. 3). È lui che seduce
e trascina i primi uomini nella disubbidienza e nella morte.
In seguito, sarà ancora il serpente che verrà utilizzato dai
profeti per illustrare la potenza orgogliosa e malefica del farao-
ne d’Egitto.204 Il testo apocalittico si colloca nella linea di que-
sta tradizione. Qualche versetto più lontano, il dragone è espli-
citamente identificato come «il serpente antico, che è chiamato
diavolo e Satana» (Ap 12:9). Troppo sbrigativamente, il perso-
naggio del diavolo è stato ridotto a un mito buono per essere
sbattuto in soffitta come le cose inutili, invecchiate, come una
credenza ingenua valida solo per i nostri antenati. Non si è capi-
to abbastanza il valore di questa nozione che si è cercato di eli-
minare dalla religione. Notava ironicamente Baudelaire: «Cari
fratelli non dimenticate mai, quando udirete vantare il progres-
so dell’Illuminismo, che la più straordinaria astuzia del diavolo
è quella di convincervi che non esiste».205
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Il diavolo e la donna
Guerra a oltranza
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Capitolo 4
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Il diavolo e la donna
206 L’interpretazione, che consiste nel vedere nella posterità della donna un’im-
magine del Messia personale, è molto antica. Essa è attestata già a partire dal II
secolo a.C. nella Settanta che traduce la parola «posterità» (seme) con il prono-
me personale maschile singolare (autos), invece del neutro (auton), che si
sarebbe applicato al seme. Questa lettura messianica si ritrova anche nella tra-
dizione giudaica (cfr. J. Doukhan, Boire aux sources, pp. 66,67), come in quella
cristiana (cfr. Rm 16:20; Eb 2:14, Padri della Chiesa come Ireneo).
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Capitolo 4
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Il diavolo e la donna
Guerra finale
Secondo l’Apocalisse, questi milleduecentosessanta giorni/anni
portano al tempo della fine; cosa che giustifica l’impazienza e
l’irritazione del serpente (12:17). Egli sente che la sua influen-
za volge al termine. Per questo concentrerà tutti i suoi sforzi
contro «quelli che restano della discendenza di lei», il suo ulti-
mo seme. Questo motivo della «discendenza» riporta nuova-
mente alla profezia di Genesi 3:15. È il momento di farla finita
con questa donna che ha resistito ai suoi attacchi.
Secondo il serpente, i giusti degli ultimi tempi sono partico-
larmente pericolosi. L’Apocalisse li descrive come degli irridu-
cibili che «osservano i comandamenti di Dio e custodiscono la
testimonianza di Gesù» (12:17). Ciò che li caratterizza è la loro
fedeltà: «essi osservano». Il rimanente ha attraversato la storia
immune dalle influenze del mondo e non ha alterato l’eredità
che gli era stata affidata. Essi se ne ricordano.
Sono gli ultimi testimoni di una verità che riunisce tutti i
contrari e trascende tutti i partiti, verità della legge e della gra-
zia insieme, della giustizia e dell’amore, del giudizio e della
creazione e, potremmo arrivare a dire, dell’Antico Testamento
e del Nuovo. In definitiva, testimoni dell’intera verità. Questa
verità non vola alta sulle nuvole, non è un’astrazione filosofica.
Essa scava il suo cammino nei palpiti caldi dell’esistenza e della
storia. Rappresenta un impegno quotidiano misurato secondo i
criteri del regno dei cieli: ubbidienza ai comandamenti di Dio.
Essa è anche discepolato di colui che si è incarnato provenien-
te dall’alto: «la testimonianza di Gesù» (12:17).
Questo è il ritratto degli ultimi fedeli di Dio, quelli del
tempo della fine (14:12). Contro di loro, il dragone radunerà
tutte le sue forze. Il serpente si attesta sul terreno, sulla spiag-
gia (12:18). Egli dimostra con questo gesto la sua duplice
influenza e la sua volontà di chiamare a raccolta le forze del
mare e quelle della terra.
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Capitolo 5
Bestie e uomini
208 Isaia 27:1; 43:2; Ezechiele 29:3-5; 31;32; Salmo 69:1,2; 74:12-17; 124:1-5.
209 Isaia 17:12; Geremia 46:6; Apocalisse 17:1,18.210.
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Capitolo 5
Primo paragrafo:
A la bestia riceve la sua autorità dal dragone (13:2)
B La testa viene ferita (13:3)
C La ferita viene sanata, ammirazione del mondo (13:3,4)
Secondo paragrafo:
A’ La bestia riceve una bocca e un potere (13:5)
B’ Durante quarantadue mesi (13:5)
C’ Apre la bocca, adorazione del mondo (13:6,7)
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Bestie e uomini
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Capitolo 5
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Capitolo 5
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Bestie e uomini
215Genesi 11:31; 12:1, 5-7; Levitico 14:34; Deuteronomio 18:9; 2 Re 5:2; cfr.
Matteo 2:20,21; Efesini 6:3.
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Capitolo 5
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Bestie e uomini
216 Cfr.
«Lord’s Day Alliance Officials Have Audience With Pope John Paul II and
Others in Europe» in Sunday: The Magazine of the Lord’s Day, Alliance in the
United States, October/December 1986, pp. 8,9; J.P. Wesberr, The Lord’s Day,
Nashville, 1986, p.123.
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Capitolo 5
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Bestie e uomini
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Capitolo 5
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Capitolo 6
Grida di angeli
Dal centro del cielo, il profeta Giovanni vede spuntare tre ange-
li che si precipitano in direzione della terra. Eccoci nuovamen-
te nel tempo della storia. I popoli della terra sono ancora pre-
senti. I messaggeri dall’alto sono portatori di notizie che riguar-
dano i destini di quaggiù. La venuta di questi tre angeli si col-
loca immediatamente prima della venuta del Figlio dell’uomo
sulle nuvole del cielo (v. 14), e nel prolungamento dei quattro
animali di Daniele 7 (Ap 13:2). Il parallelismo tra i due passi
indica che il momento di questa proclamazione, corrisponde in
Daniele 7, al tempo del giudizio di Dio (7:9-12), ossia, il Kippur
(8:14), il tempo della fine (v. 17).
Daniele 7 Apocalisse 13 e 14
1. Quattro animali (leone, 1. Bestia dalle dieci corna
orso, leopardo, bestia (caratteristiche del leone,
dalle dieci corna) del leopardo, dell’orso)
2. Potere usurpatore e 2. Potere usurpatore e oppressore
oppressore (1260) (42 mesi)
3. Giudizio celeste 3. Proclamazione dei tre angeli
4. Ritorno del Figlio dell’uomo 4. Ritorno del Figlio dell’uomo
Il primo angelo
A essere interpellato è, prima di tutto, l’ambito dei fedeli
dell’Agnello. Il primo angelo ha la missione di annunciargli il
«vangelo eterno» (14:6).
Il termine greco euaggelion, tradotto generalmente con
vangelo, significa letteralmente «buona notizia». Questa espres-
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Capitolo 6
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Grida di angeli
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Capitolo 6
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Grida di angeli
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Capitolo 6
Il secondo angelo
Poi, d’improvviso, il tono cambia. Il secondo angelo rivolge lo
sguardo nel campo avversario. Questa volta il messaggio è for-
mulato in maniera opposta al precedente, in negativo. Invece di
portare una buona notizia di speranza che rassicura e riempie
di gioia, si ascolta una parola di giudizio, dai connotati inquie-
tanti. È l’annuncio della caduta di Babilonia. «Caduta, caduta è
Babilonia la grande che ha fatto bere a tutte le nazioni il vino
dell’ira della sua prostituzione» (v. 8).
Il verbo è coniugato al passato, per sottolineare il carattere
definitivo della sentenza. Questo è lo stile degli oracoli dei profe-
ti ebrei. Anche Isaia, gridava: « Caduta, caduta è Babilonia» (v. 9).
Allo stesso modo, Geremia dichiarava: «Babilonia era nelle
mani del SIGNORE una coppa d’oro, che ubriacava tutta la terra;
le nazioni hanno bevuto il suo vino, perciò le nazioni sono dive-
nute deliranti. All’improvviso, Babilonia è caduta, è frantumata»
(51:7,8).
Siamo nel campo dell’illusione e del sogno. I discepoli di
Babilonia ubriachi del suo vino hanno perduto ogni senso della
realtà. Essi sono stati ingannati. Babele si è fatta passare per la
città di Dio. Molti ci hanno creduto e si sono uniti a essa in una
relazione adulterina. Secondo il libro dei Proverbi, questo è l’i-
nevitabile destino del bevitore: «Non guardare il vino quando
rosseggia, quando scintilla nel bicchiere e va giù così facilmen-
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Grida di angeli
te! Alla fine, esso morde come un serpente e punge come una
vipera. I tuoi occhi vedranno cose strane, e il tuo cuore farà dei
discorsi pazzi. Sarai come chi si coricasse in mezzo al mare,
come chi si coricasse in cima a un albero di nave» (23:31-34).
In stridente contrasto con i 144.000 che rimangono vergini
in attesa della città che viene dall’alto, quelli di Babele vengono
descritti come beoni trascinati nell’infedeltà. Le schiere
dell’Agnello sono caratterizzate dal timore di Dio vissuto in una
relazione d’amore e di fedeltà. Nell’ambito di Babele, al contra-
rio, Dio è sostituito da un’istituzione terrena e la sua religione è
vissuta come una relazione adultera.
La missione del secondo angelo consiste nello smascherare
questa mistificazione affinché gli abitanti della terra siano con-
sapevoli di quello che sta succedendo. La maschera è calata.
Grazie agli studi del libro di Daniele e dell’Apocalisse condotti
nel corso del XIX secolo, si è in grado, ora, di comprendere che
il potere religioso dominante non proviene dall’alto. Il piccolo
corno dal viso umano che si leva fino a Dio (Dn 7:24,25; 8:9-11),
rappresenta un’istituzione assolutamente umana. Questa sco-
perta effettuata alla luce delle Scritture, rappresenta di per sé la
caduta di Babilonia.
Il messaggio è stato proclamato in tutte le direzioni della
terra. Non si tratta qui di accusare qualcuno per suscitare sen-
timenti di superiorità in altri, piuttosto, siamo di fronte al dove-
re di avvertire il mondo a non cadere in questi pericoli. La
caduta di Babilonia diventa il paradigma di tutte le cadute. A
partire dall’esempio della Babilonia storica, caduta sotto i colpi
di Ciro nel 536 a.C., la profezia biblica ha creato un tipo la cui
lezione diventerà universale. Essa deve essere compresa oltre
tutte le frontiere, su ogni terreno, sia esso politico, religioso o
psicologico. Ogni orgoglio e ogni pretesa all’infallibilità porta
inevitabilmente alla confusione di Babele la quale ha come
destino la caduta. Non c’è ideale politico, ecclesiastico, umano
insomma, che sia al riparo da questo pericolo. Babilonia è una
mentalità, una caratteristica dello spirito che si trova ben oltre
la famosa torre o il regno di Nabucodonosor, o della stessa chie-
sa cattolica. La caduta di tutte queste Babilonie costituisce una
messa in guardia severa contro il nostro proprio orgoglio e
annuncia la nostra propria caduta.
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Capitolo 6
Il terzo angelo
Da questa caduta di Babilonia, il terzo angelo trae le conse-
guenze per i due campi opposti. Nel campo di Babele, il suo
annuncio significa che «chiunque adora la bestia e la sua imma-
gine» (Ap 14:9), cioè Babilonia, è votato al suo stesso destino. Il
verbo «adorare» è intenzionale. Esso viene pronunciato dal
primo angelo in rapporto con il creatore (v. 7). La sua riappari-
zione sulle labbra del terzo angelo indica la natura dell’usurpa-
zione che egli denuncia: la bestia ha preso il posto del Creatore.
Niente di stupefacente, allora, se i suoi discepoli sono caratte-
rizzati nello stesso modo con cui lo sono i 144.000 adoratori del
creatore. Essi sono segnati con il suo nome (cfr. 14:9,11; 7:3).
Quello è il segno che parla della loro sottomissione all’au-
torità della bestia; potere che si esercita nelle loro esistenze,
nelle loro menti, come indica il marchio sulla fronte, e sulle
loro azioni, come indica il marchio posto sulla mano.
Con ironia, l’Apocalisse annuncia che essi saranno le vittime
delle loro proprie illusioni. Un castigo è stato preparato conse-
guente ai loro vizi, essi berranno «il vino dell’ira di Dio» (v. 10).
Il vino di Babilonia che li aveva ubriacati si confonde, all’im-
provviso, al vino della collera di Dio. Bevendo il vino di
Babilonia è in realtà il vino del giudizio di Dio che essi stanno
bevendo. Il loro peccato diventa la loro propria punizione. Più
essi bevono, più si perderanno e mentre si perdono continuano
ancora a bere...
Questo processo ha del tragico; come il Prometeo del mito di
Sisifo, chi ama Babele non sa più riprendersi. I costruttori di
Babele (cfr. Gn 11:3,4) come i satrapi di Dario (Dn 6:6),229 erano
caratterizzati dallo stesso forsennato attivismo che agita gli
zelanti operatori di questa città che proviene dal basso: sempre
la stessa ansia di prevalere. Questa nevrosi che li attanaglia è la
prova della loro fede esclusiva nelle proprie opere. Ma tutto que-
sto, tutta questa euforia, tutti questi lavori, andranno in fumo: «Il
fumo del loro tormento sale nei secoli dei secoli. Chiunque adora
la bestia e la sua immagine e prende il marchio del suo nome,
non ha riposo né giorno né notte» (Ap 14:11).
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Capitolo 6
235 A.J. Heschel, Dio alla ricerca dell’uomo, Borla, Torino, 1969, p. 238.
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Grida di angeli
236 Questa associazione del tempio di Gerusalemme con «i cieli e la terra» non
ha simili nel Medio Oriente. Presso l’antica Sumer, si chiamava il tempio
Duranki «luogo del cielo e della terra» e a Babilonia si conosceva un altare dal
nome di Etenanki, «la casa dove si trova la fondazione del cielo e della terra».
(Cfr. J.D. Levenson, Creation and the Persistence of Evil, New York, 1988, pp. 78-
99; cfr. G.W. Ahlstrom, «Heaven on Earth at Hazor and Arad», in Religious
Syncretism in Antiquity, ed. B.A. Pearson, Missoula, 1975, p. 68).
237 Salmo 134:3; 150:1,6.
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Capitolo 6
238 Cfr. P.J. Kearney, «Creation and Liturgy: The P Redaction of Ex 25-30»
Zeitschrift fur Alttestamentliche Wissenschaft 89 (1977), p. 375; cfr. J. Blenkinsopp,
«The Structure of P» Catholic Biblical Quarterly 38 (1976), pp. 276-278.
239 Isaia 44:24; Giobbe 9:8; Salmo 104:2; Geremia 10:12.
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Capitolo 6
Il Figlio dell’uomo
Il profeta dell’Apocalisse aveva iniziato la sua serie di sette
segni, partendo dalla visione celeste di una donna illuminata
dal sole e dalla luna, il cui capo era incoronato da stelle. Ora, lo
sguardo profetico chiude il cerchio e si ferma sulla visione cele-
ste di un Figlio dell’uomo avvolto da una nuvola, la cui testa è
incoronata da un diadema d’oro. La visione del Figlio dell’uomo
risponde a quella della donna.
La venuta di Gesù Cristo, che sorge dal cuore delle nuvole
per impadronirsi, finalmente, del governo della terra, risponde
ai sospiri della donna esiliata nel deserto la quale non vive se
non per questo sogno e di questo sogno.
Quest’ultima visione riassume tutta l’esperienza cristiana.
Non è per caso che questa speranza ha ispirato il saluto dei
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Capitolo 6
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Terza parte
A oriente tutto è nuovo
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Capitolo 7
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Capìtolo 7
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Capitolo 7
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Capitolo 7
La fase di Harmaghedon
La sesta coppa, al pari del sesto schofar, colpisce l’Eufrate (cfr
Ap 16:12; 13:14). Questa volta, l’evocazione è più specifica. Le
acque del fiume di Babilonia si seccano per preparare «la via ai
re che vengono dall’Oriente!» (16:12).
Nella tradizione biblica, il prosciugarsi dell’Eufrate è asso-
ciato alla conquista di Babilonia da parte di Ciro nel 539 a.C.:
«Io dico all’abisso: Fatti asciutto. Io prosciugherò i tuoi fiumi! Io
dico di Ciro: Egli è il mio pastore; egli adempirà tutta la mia
volontà» (Is 44:27,28 cfr. Ger 50:38).
Questa associazione d’idee si spiega con la particolare stra-
tegia bellica di cui parla lo storico greco Erodoto (484-425 a.C.):
«Ciro dispose il grosso del suo esercito al punto di ingresso del
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Capitolo 7
256 C. Thompson, Semitic Magic, its Origins and Development, Jerusalem, 1971,
pp. 28-32,90.
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Capitolo 7
257
Le soupir de la terre, pp. 243-250.
258
A. Straus, Nomen-Omen, la stylistique des nom propres dans le Pentateuque,
Rome, 1978, pp. 199,200.
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Har Meghiddon
Adadrimmon Meghiddon
attraverso quel nome Dio darà il suo seme (Os 2:24,25); Cfr. M. Garsiel, Biblical
Names, p. 229.
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Capitolo 7
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Capitolo 7
263 H.H. Rowley, The Rediscovery of the Old Testament, 1945, p. 49; D.W. Thomas,
The documents from Old Testament Times, 1958, p. 133.
264 J. Aistleitner, Die mythologischen und kultischen Texte aus Ras Shamra,
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Maximianopolis (In Zachariam, PL 25, col 1515) e che si trova a circa 3 chilo-
metri a sud di Meghiddo. Oggi prende il nome di Rummaneh.
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Capitolo 7
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Capitolo 7
La bella
La Babele dell’interludio è presentata nelle vesti di una donna,
i cui tratti ricordano, nel suo contrario, la donna del capitolo 12
che rappresenta il popolo di Dio, ancora alle prese con la storia
di quaggiù. Entrambi hanno una dimensione cosmica, esse
occupano un posto centrale nell’universo, sono associate al
deserto (cfr. 17:3, 12:6,14) e al dragone (cfr. 17:3,7; 12:4,13). Il
contrasto tra le due figure femminili risalta in modo sconvol-
gente. La prima donna era sospesa nel cielo e incoronata di
stelle (12:1); la seconda è seduta sulle acque e si trova circon-
data da re debosciati (17:1,2). La prima era perseguitata e
oppressa dal dragone (12:4, 13-17); la seconda è unita al drago-
ne (17:3) e opprime il popolo di Dio (17:6). La prima era una
profuga, sperduta nell’esilio (12:6); la seconda, istituzionalizza-
ta, domina, vestita come una regina (17:4). La prima, soffre per
l’isolamento nel deserto (12:6,14); la seconda, festeggia nella
città (17:4). La prima è nutrita da Dio (12:6,14); la seconda è
ebbra del sangue dei santi (17:6). La prima è la madre del
Messia (12:5) e del rimanente d’Israele (12:17); la seconda è la
madre delle prostitute (17:5). È chiaro ormai, che la donna del
capitolo 17 è la perfetta antitesi di quella del capitolo 12.
La lezione insita in questo rapporto si esplicita alla luce
della metafora coniugale. Nell’Antico Testamento, come abbia-
mo già considerato, Israele è spesso paragonato a una donna,
alla sposa di Dio; e la sua infedeltà è assimilata all’adulterio e
alla prostituzione.271 L’Apocalisse parla lo stesso linguaggio.
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La bestia
Per risolvere il mistero rappresentato dalla prostituta e rispon-
dere alla perplessità del profeta, l’angelo fissa l’attenzione sul
mistero della bestia alla quale questa figura viene associata. La
formula del suo essere è data come un enigma in quattro tempi:
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Capitolo 7
Primo tempo
A. essa era
B. cinque re sono caduti
C. essa era
Secondo tempo
A. essa non è più
B. un re esiste
C. non è più
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Terzo tempo
A. essa deve salire dall’abisso.
B. un re non ancora venuto
C. ottavo re
Quarto tempo
A. va alla perdizione
B. resta per breve tempo
C. va alla perdizione
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Capitolo 7
Harmaghedon
Quest’ultima fase attira tutta l’attenzione del profeta. Dopo una
breve luna di miele, durante la quale tutti i poteri si accordano
per governare insieme sotto l’autorità della bestia (Ap 17:13), la
battaglia di Harmaghedon esplode (v. 14). Dio vince sugli eserci-
ti terreni. A questo punto, spinti da profondi sentimenti di fru-
strazione, i re della terra, delusi da colei che avevano adulato e
incoronato (vv. 17,18), le si rivoltano contro. La profezia prevede
che le dieci corna (i re della terra), «odieranno la prostituta, la
spoglieranno e la lasceranno nuda, ne mangeranno le carni e la
consumeranno con il fuoco» (v. 16).
Curiosamente, non ci viene detto niente sul loro destino. La
profezia si concentra, per il momento, sul giudizio di Dio di cui
si sono fatti strumento e si limita alla semplice constatazione:
«È caduta, è caduta Babilonia la grande» (18:2). Questa procla-
mazione dell’angelo riecheggia parola per parola l’annuncio
del secondo angelo che aveva gridato sulla terra proprio alla
fine della storia umana (14:8).
La ripetizione del messaggio è il segno che la profezia si
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Uscite da essa
A questo punto, la parola proveniente dall’alto diventa estrema-
mente attuale e in una parentesi che si stacca dall’insieme del
racconto, lancia un chiaro appello a tutti gli uomini: «Uscite da
essa, o popolo mio» (18:4). La frase è presa dal profeta Geremia
e si riferiva agli israeliti esiliati a Babilonia affinché si appre-
stassero a fuggire dalla città (cfr. Ger 51:45). Le ragioni della
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Capitolo 7
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Il lutto di Babilonia
E, come per convincere ancora di più, la voce del cielo prose-
gue la sua predicazione per dissipare ogni illusione a proposito
del suo futuro, dopo la caduta di Babilonia. La terra è intera-
mente in lutto (18:9-19). Il periodo post-babilonese non è certo
dei più felici. I re della terra (18:9), i mercanti della terra
(18:11), tutti gli speculatori (18:17), tutti coloro che hanno
approfittato della sua ricchezza e della sua influenza, piangono
su tutto ciò che hanno perduto. La cosa peggiore è che essi stes-
si sono all’origine della caduta di Babilonia. Sono loro che l’a-
vevano gettata nel fuoco (17:16). Come un bambino viziato e
capriccioso che reclama il suo giocattolo, dopo averlo rotto, gli
amanti di Babele, pestano i piedi inutilmente.
Questo comportamento irrazionale, non è inverosimile. Gli
abitanti della terra non sanno fare altro, ormai, che adorare
Babilonia, nonostante la sua scomparsa. I loro lamenti hanno
conservato il carattere idolatrico di una volta. L’interrogativa
«quale città fu mai simile a questa grande città?» (18:18), ripren-
de la vecchia formula di adorazione della bestia, «chi è simile
alla bestia?» (13:4); e ricalca, capovolgendolo, l’antico «chi è
come Dio!» degli israeliti in adorazione davanti a Dio.274
Si tratta di un lutto straordinario, annunciato dal nome stes-
so di Harmaghedon: un lutto riguardante un dio, come quello di
Hadad Rimmon. Tuttavia, c’è una differenza: il dio pianto in
questo momento, non è della stessa natura di quello cananeo
che era la divinità della fertilità. Questo dio non segue il movi-
mento delle stagioni, non risusciterà a primavera.
Contrariamente alle consuetudini funerarie tradizionali,275
queste non contengono alcuna rivolta, né consolazione. La sto-
ria termina tragicamente e senza speranza. Per spiegare meglio
la caduta della «grande Babilonia», l’angelo, drammaticamente,
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Capitolo 7
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Capitolo 8
Pre-Succot
Per la prima volta, il testo non menziona nessuna suppellettile
presente nel tempio. Tutti i riti di espiazione sono terminati e,
per questo, il tempio non ha più ragione di esistere. Il giudizio
proseguirà, ormai, al di fuori delle sue mura. Nel corso del ritua-
le del Kippur, un altro capro era messo da parte (quello per
Azazel), non per essere sacrificato, ma per essere scacciato nel
deserto, carico dei peccati del popolo (cfr. Lv 16:9,10,20-26).
Dopo il Kippur, il popolo si trova completamente liberato dal
male. In una prospettiva profetica, la lezione è ricca di speranza.
Dio non si accontenta di perdonare i peccati dell’uomo attraver-
so il sacrificio d’espiazione. Egli desidera liberarlo per sempre
da ogni male. Il diavolo, rappresentato dal capro di Azazel, sarà
scacciato dal campo e annientato per l’eternità. Da questo
momento in poi, ogni cosa proclama la gloria di Dio. Secondo la
tradizione ebraica, i giorni che seguono il Kippur sono pieni di
gioia, quella gioia che caratterizza la festa di Succot (festa delle
capanne), chiamata anche zéman simhaténu, «il tempo della
nostra gioia». Il digiuno è bandito durante i giorni di costruzio-
ne e preparazione delle capanne (Succot).
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Capitolo 8
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277 Una tradizione talmudica del primo secolo la fa risalire a Mosè (Pes. 117a);
cfr. Matteo 26:30.
278 Salmo 135:19; cfr. 1 Cronache 16:25,36.
279 Sarebbe un errore dedurre, da quest’espressione, l’esistenza dell’inferno
eterno, come sarà insegnato dalla chiesa cattolica e immaginato dal poeta Dante
Alighieri. Abbiamo già sottolineato che questa espressione è utilizzata nella
Bibbia per esprimere il carattere definitivo della sparizione di Babilonia (Ap
14:11). Nel libro di Giuda, la stessa iperbole caratterizza il castigo di Sodoma e
Gomorra, il cui fumo non è certo visibile ancora oggi (Gd 7; cfr. 2 Pt 2:6).
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Capitolo 8
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Capitolo 8
283 Questa definizione di «Spirito della profezia» è attestato negli scritti rabbini-
ci e soprattutto nei Targum aramaici: Cfr. Strack-Billerbeck, Kommentar zum
Neuen Testament, Munich, 1965, vol 2, pp. 128,129; cfr. J.F. Etheridge, The
Targums of Onkelos and Jonathan Ben Uzziel on the Pentateuch, Londres, 1862,
vol 1, pp. 131,556; vol 2. p. 442.
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284 Cfr.
1 Corinzi 1:6; cfr. W. De Boor, Der erste Brief des Paulus an die Korinther,
Wuppertal, 1968, p. 28; G. Pfandel, «The Remnant Church and the Spirit of
Prophecy», in F. B. Holbrook (ed.) Symposium on Revelation, vol. 2, pp. 310,316.
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Capitolo 8
Il cavallo bianco
Fin dall’inizio, siamo avvertiti della natura del rapporto che
intercorre tra la storia rivelata dai sigilli e quella inaugurata da
quest’ultimo cavallo bianco. Nel ciclo dei sigilli, il cavallo bian-
co segnava la partenza vittoriosa della conquista terrena della
chiesa (6:2); quella era la prima tappa della sua storia. Ora, il
cavallo bianco segna il ritorno vittorioso della conquista celeste
che dominerà tutto il corso di questa storia. L’ultimo cavallo
bianco si presenta come quello che correggerà e riprenderà il
cammino di quella storia interrotta.
Nel ciclo dei sigilli il cavallo bianco era cavalcato da una
figura dalle intenzioni pacifiche; le sue armi non erano utiliz-
zate. Qui, invece, il cavallo bianco è montato da un guerriero
violento che usa la sua spada contro le nazioni e ne versa il san-
gue (19:13,15). Il primo cavaliere portava una corona d’alloro
(6:2), l’ultimo porterà numerosi diademi (19:12).
La progressione suggerita dalle diverse corone è significa-
tiva. L’alloro appartiene all’ambito delle vittorie sportive; il dia-
dema esprime una regalità permanente. Il primo cavaliere era
appena evocato, non era che un’ombra anonima. Ora, si posso-
no scorgere i suoi tratti. La sua testa e i suoi occhi (v. 12), la sua
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bocca (v. 15), la sua coscia e il suo vestito (v. 16) sono ben visi-
bili. La sua identità è chiaramente rivelata.
Egli riceve quattro nomi la cui progressione passa dall’af-
fermazione della vicinanza di Dio che si incarna, a quella della
distanza e della sua grandezza.
Il primo nome, «Fedele e Veritiero», afferma la presenza
sicura e costante di Dio al nostro fianco. La sua venuta è certa.285
Il secondo nome, «che nessuno conosce fuorché lui», sotto-
linea la distanza del Dio invisibile e totalmente altro. La sua
venuta sorprenderà.
Il terzo nome, «Parola di Dio» afferma la manifestazione del
Dio che si rivela agli uomini attraverso la sua parola e i suoi atti.
Si tratta del Dio personale che viene nell’esistenza e nella storia.
Il quarto nome, «Re dei re e Signore dei signori», afferma la
sovranità suprema del Dio re dell’universo. È il nome che desi-
gna l’Agnello, Gesù Cristo (17:14).
La trascendenza e l’immanenza di Dio risultano in un rap-
porto di tensione. Dio è nello stesso tempo lontano e vicino (cfr.
Ger 23:33).
L’incarnazione e la presenza prossima di Dio camminano di
pari passo con la sovranità di Dio, la sua giustizia e la sua gran-
dezza. Gesù enunciava lo stesso principio quando pregava:
«Padre nostro» (Dio è vicino) «che sei nei cieli» (Dio è lontano).
Allo stesso modo, il regno di Dio è presente e futuro; sia esi-
stenziale sia cosmico. Subito dopo aver affermato davanti ai
farisei: «Il regno di Dio è in mezzo a voi» (Lc 17:21), Gesù si
affretta ad aggiungere: «com’è il lampo che balenando risplen-
de da una estremità all’altra del cielo, così sarà il Figlio dell’uo-
mo nel suo giorno» (v. 24).
Solo la coscienza affinata da questa tensione assicura la
qualità dell’adorazione di Dio e del culto. Non è certo un caso
che, questa riflessione, intervenga proprio in questo momento
preciso, quando Giovanni si trova in ginocchio nell’atto di ado-
rare Dio (19:10) e la rivelazione dell’Apocalisse tocca il suo
apice: la parusia.
285 Un poco più avanti, questi due aggettivi qualificano la parola (Ap 22:6), per
sottolineare la verità del regno di Dio e della nuova Gerusalemme (Ap 22: 1-5).
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Capitolo 8
La folla di Harmaghedon
La visione della venuta del Re dei re è ancora presente, quando
lo sguardo profetico si proietta all’indietro, per mettere in evi-
denza una questione di capitale importanza. Il sangue, ancora
fresco, sugli abiti del cavaliere (19:13) è il segno che egli si è
servito della spada. L’avvenimento, rimanda al secondo sigillo.
Per una giustizia interna ai fatti, il sangue degli oppressori è la
risposta al sangue a loro volta versato (6:3,4). La guerra rispon-
de alla guerra, la spada alla spada.
L’«alleanza dei re della terra» contro il divino cavaliere
(19:19) evoca l’«assembramento» dei «re della terra» sul monte
di Meghiddo, teso a contrastare la venuta di Dio (16:15). Il «gran
banchetto di Dio» (19:17) fa eco alla «battaglia del gran giorno
del Dio onnipotente» (16:14). Questi temi, paralleli a quelli della
sesta coppa, indicano che siamo di fronte alla battaglia di
Harmaghedon.
Come sempre, le peripezie della battaglia non sono descrit-
te nei particolari. Il profeta si limita a darne l’esito: la vittoria
totale di Dio sui suoi nemici. Alla bestia e al falso profeta si
aggiungono, ora, tutti gli altri. I capitoli 17 e 18 ci avevano pre-
sentato già la disfatta degli eserciti di Babele. Giovanni ci pre-
senta la caduta di Babilonia e il grande lutto che ne seguirà, i re
della terra che l’avevano prima gettata nel fuoco, ora la piango-
no con nostalgia.
Il racconto era rimasto là, come sospeso, senza che si sapes-
se che ne era stato dei «re della terra» sopravvissuti. L’angelo
riprende il filo della storia della battaglia di Harmaghedon. Egli
ci ricorda che Babele e il suo alleato, il falso profeta, sono stati
gettati nel fuoco (19:20; cfr. 17:16; Dn 7:11). Nel racconto pre-
cedente, il falso profeta non veniva menzionato (17:16), perché
il suo destino si fondeva con quello di Babele. Ora, si compren-
de che sono stati trascinati entrambi nello stesso castigo.
Quanto agli altri, «i re della terra», i poteri politici, sono stati
«uccisi dalla spada che usciva dalla bocca di colui che era sul
cavallo» (19:21). Il castigo è diverso da quello che colpirà le
bestie. Contrariamente alle bestie (la bestia che sale dal mare e
la bestia che sale dalla terra o falso profeta) che sono gettati
nello stagno di fuoco, i «re della terra» sono attaccati dalla
spada. Ogni potere è combattuto sul suo proprio terreno. I pote-
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Un banchetto antropofago
Per i «re della terra», la venuta di Dio equivale alla loro morte
violenta. Per la prima volta, Dio è l’agente immediato del loro
castigo. Infatti, non c’è nessun altro, sulla scena, oltre a lui.
Fino a quel giorno, il giudizio era stato amministrato secon-
do meccanismi dal basso, per mezzo di fattori inerenti la condi-
zione terrestre. L’ultimo colpo del giudizio è inferto diretta-
mente da Dio. Essi vengono uccisi. Ciò che resta dei loro corpi
sparisce ai quattro venti, «tutti gli uccelli si saziarono delle loro
carni» (Ap 19:21).
Babilonia era finita nello stesso modo. Le dieci corna e la
bestia avevano mangiato la sua carne (17:16). Ora viene il loro
turno. Ma, poiché non resta più nessuno, sono gli uccelli del
cielo che provvedono a spazzare via tutto. La descrizione s’ispi-
ra a una visione di Ezechiele, con alcune significative differen-
ze. Il profeta ebreo riunisce insieme gli uccelli e le bestie dei
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Capitolo 8
Il diavolo e il nulla
In questo paesaggio desertico e vuoto, il nemico giurato di Dio
viene interpellato e immobilizzato. Come in Apocalisse 12:9,
egli è chiamato «il dragone, il serpente antico, cioè il diavolo,
Satana» (20:2).
Dei tre poteri scesi in campo contro Dio, nella battaglia di
Harmaghedon (16:13), il dragone è il solo a essere scampato.
Gli altri due, la bestia del mare e la bestia della terra (il falso
profeta), sono stati già colpiti, e con loro i re della terra che si
trascinavano ancora, in quel tempo della fine.
«La chiave dell’abisso», tempo addietro, consegnata alla
«stella caduta dal cielo», cioè al principe della terra (9:1), si
trova, a questo punto, nelle mani di un angelo di Dio (20:1).
Viene evocata una sorta di condizione di pre-creazione.
La stessa parola ebraica tehom (abisso) di Genesi 1:2 si
trova nel retroterra del testo greco. È in quelle profondità che,
il diavolo, viene gettato.
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Capitolo 8
che mille altrove» (Sal 84:10), oppure, «mille anni sono ai tuoi
occhi come il giorno di ieri ch’è passato» (90:4).
L’Ecclesiaste conduce una riflessione sulla vita umana, nel
corso della quale riscontriamo un uso analogo del numero
mille, riferito alla qualità dell’esistenza (6:3,6).
A partire da questo retroterra biblico, abbiamo delle serie
ragioni per pensare che l’Apocalisse utilizza il numero «mille» in
modo simbolico, per intendere un periodo di «molti anni».
D’altra parte è significativo che, alla fine del versetto, i mille anni
siano in contrasto con l’espressione «per un po’ di tempo» (20:3).
Il profeta Isaia è preso dalla stessa visione. In un brano che
i commentatori hanno definito «la piccola Apocalisse» - capp.
24,25 - egli descrive, come Giovanni, lo stato desertico della
«terra».
La parola chiave nel testo, ripetuta ben sedici volte, è iden-
tificata con il tohu (informe), stato della terra prima della crea-
zione (cfr. Is 24:10; Gn 1:2). Anche in quel caso il profeta annun-
cia il castigo di Dio su Satana e i suoi accoliti: «In quel giorno il
SIGNORE punirà nei luoghi eccelsi l’esercito di lassù» (Is 24:21).
Nel testo, si parla di una «carcerazione» che ha una durata
che il profeta definisce «molti giorni» (v. 22), che potrebbe esse-
re un chiarimento ulteriore dell’espressione apocalittica «mille
anni». A questo punto, ci si può sentire scoraggiati a seguire un
cammino di questo genere, dubitando di una storia così strana.
Oppure, al contrario, lanciarsi in una speculazione senza fine,
su cosa succederà durante i mille anni. Il testo non suggerisce
nessuno dei due atteggiamenti.
La sola lezione da ricevere è che, l’Apocalisse, nel linguag-
gio che le è proprio, ci suggerisce l’idea che, per un periodo
piuttosto lungo, le potenze del male non avranno alcun potere
sull’umanità. Il senso simbolico della cronologia, non esclude,
pertanto, la sua realtà. Forse, i mille anni dell’Apocalisse dure-
ranno effettivamente tanto, ma la questione non è questa. A
questo punto, nella prospettiva dell’eternità, al di là della storia
umana, il computo del tempo non si effettua più secondo le
nostre categorie.
Ricordiamo, a questo proposito, che «mille anni» è in media,
la durata della vita della prima generazione antidiluviana.
Adamo visse fino a 930 anni, Jared 962; Matusalemme 969; Noè
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Capitolo 8
Gog e Magog
Dio rispetta a tal punto le sue creature da attendere mille anni
per impartire quel castigo che apporterà la morte definitiva.
Questo evento poteva, benissimo, aver luogo al momento della
parusia, quando Dio aveva in mano tutti gli elementi per giudi-
care. Del resto, l’istruzione del processo era stata acquisita e la
sentenza pronunciata. Ma, Dio vuole adesso il consenso pieno
degli uomini. Egli desidera che, prima di chiudere definitiva-
mente questa pagina della loro storia, tutti comprendano bene.
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Capitolo 8
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295 Fin dai tempi più antichi, le lettere ebraiche avevano valore numerico. I rab-
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Capitolo 8
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Capitolo 9
La Gerusalemme d’oro
296 Il
Midrash ha riconosciuto questa associazione dei due ricordi attraverso l’e-
timologia del nome di Gerusalemme; Jeru che deriva dalla stessa radice di
Morijah, fa allusione al sacrifico di Isacco, e Salem fa allusione a Melchisedec
(Gen Rabba Par. 56:16; cfr. Midr. Teh. 126:3).
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Capitolo 9
297 Sui passi della Bibbia ebraica, la tradizione giudaica afferma che la realtà
della Gerusalemme celeste esisteva prima della creazione del mondo (Tanh
B.Num, p. 34); e che ispira predicazioni e canti d’amore (Taan 5a, Tanh. Peq 1).
Nella letteratura apocalittica ebraica, si annuncia che la Gerusalemme celeste e
il suo tempio scenderanno per prendere il posto delle città terrene «poiché là
dove abita l’Altissimo nessuna opera umana può sussistere» (1 Enoc 90:28,29; 4
Esdra 7:26; 10:54). Secondo il rabbino cabalista del XIII secolo, Bahya Acher, il
plurale «duale» della parola ebraica per Gerusalemme (Yerushalaym) si spiega
col fatto che ne esistono due, una terrestre e una celeste).
298 Salmo 24:2; Isaia 2:3; Zaccaria 8:3; Isaia 27:13; Daniele 9:20; 11:45.
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La Gerusalemme d’oro
Preludio su Dio
La Gerusalemme che scende dal cielo della fine del libro, fa da
contraltare simmetrico alle sette chiese dell’inizio della profe-
zia. Molti sono i motivi comuni alle due parti. «La nuova
Gerusalemme» (3:12; 21:10; ), lo splendore di Dio (21:23; 1:16),
il nome di Dio scritto sul suo popolo (22:4; 3:12), l’albero della
vita (22:2; 2:7), il libro della vita (21:27; 3:5). Nelle due parti,
299 L’espressione è di J. Pedersen, Israel, its life and culture, Londres, 1926-1940,
p. 464; cfr. P. Reymond: «L’Antico Testamento parla volentieri dell’oceano come
della morte stessa... paese senza ritorno... paese nel quale non si vive più in
comunione né con gli uomini né con Dio» («L’eau, sa vie e sa signification dans
l’Ancien Testament» in VT Supplement 6, Leiden, p. 213).
300 J. Doukhan, The Genesis Creation story, p. 70.
301 L. Coenen, E. Beyreuther, H. Bietenhard, «Kainos», in Dizionario dei concetti
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Capitolo 9
Succot
La nuova Gerusalemme è rappresentata come l’ultima festa di
quel calendario. La visione dell’Apocalisse la evoca in termini
che l’assimilano appunto, alla festa dei tabernacoli. Questa
coincidenza si percepisce già nel gioco di parole che ci porta
all’immagine dei tabernacoli. «Udii una gran voce dal trono, che
diceva: Ecco il tabernacolo di Dio con gli uomini! Egli abiterà
con loro» (21:3).
La parola greca skene, che indica il «tabernacolo» ricorda la
parola ebraica shekhinah, la nuvola gloriosa, segno della pre-
senza di Dio tra il suo popolo (cfr. Es 40:34-38). La parola she-
khinah deriva dalla radice shakhan (abitare) che si ritrova nel
verbo greco seguente skenosen (abitare). Una parafrasi lettera-
le farà emergere un gioco di allitterazione che lascia trasparire
l’intenzione dell’autore: «Ecco il tabernacolo (shekhinah) di Dio
con gli uomini! Egli “tabernacolerà” (sarà come la shekhinah)
con loro» (21:3)
Questa strana grammatica, traduce una nuova realtà: Dio
stesso sarà il tempio. Un po’ oltre, il testo afferma esplicita-
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La Gerusalemme d’oro
mente: «Nella città non vidi alcun tempio, perché il Signore, Dio
onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio» (21:22).
Questa è la differenza essenziale tra la nuova Gerusalemme
e l’antica. Nella nuova città, la presenza reale di Dio rende inu-
tile il tempio, la cui funzione, nella vecchia città, era di rappre-
sentarlo in sua assenza.
Ritroviamo lo stesso itinerario nel libro di Ezechiele, che
termina anch’esso sull’affermazione della presenza di Dio nella
città, fin nel suo stesso nome: «E da quel giorno, il nome della
città sarà: il SIGNORE è là» (Ez 48:35).
Dio è finalmente presente. La relazione reale e reciproca è
ora possibile. L’Apocalisse esprime la nuova realtà nel linguag-
gio classico dell’alleanza: «Essi saranno suoi popoli e Dio stesso
sarà con loro» (21:3). «Io gli sarò Dio ed egli mi sarà figlio»
(21:7).302 Attraverso queste parole s’indovina uno dei temi favo-
riti del Cantico dei cantici: «Il mio amico è mio, e io sono sua»
«Io sono dell’amico mio; e l’amico mio… è mio» (2:16; 6:3; 7:11).
La metafora coniugale, come quella paterna, traducono
questa vicinanza di Dio, con il quale è finalmente possibile
intrattenere una relazione diretta e reciproca, senza l’ostacolo
della distanza, del peccato, degli errori di prospettiva, o di mal
compresi gesti rituali e mediazioni sacerdotali. Quello che era
stato rifiutato a Mosè e ogni altra creatura (Es 33:20-23, diviene
realtà quotidiana: «vedranno la sua faccia» (22:4).
Dio sarà là, realmente presente, come gli uomini e le donne
che vediamo tutti i giorni, come i miei cari che vedo e con cui
parlo, con i quali mangio, rido e penso. Sarà un’esperienza
totalmente nuova, che si può appena immaginare.
Questa ineffabile verità è nascosta nella festa dei taberna-
coli che deve il suo nome (Succot) all’abitudine di soggiornare
in capanne fatte di foglie, per tutta la durata delle celebrazioni,
fatto che ricorda sia il soggiorno nel deserto sia la costruzione
del santuario, la succah di Dio, la cui funzione era quella di
esemplificare la presenza di Dio tra il popolo: «Essi mi faranno
un santuario e io abiterò (shakhan) in mezzo a loro» (Es 25:8).
Secondo la tradizione ebraica, la succah come il santuario
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Capitolo 9
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La Gerusalemme d’oro
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Capitolo 9
La città
La nuova Gerusalemme significa ambiente perfetto. Solido e
armonioso, esso suscita fiducia e ammirazione.
La città è ben protetta, si trova circondata, infatti, da grandi
e alte mura (21:12). Le sue dimensioni sono perfettamente
misurate. Ogni lato della città (v. 16) copre 12000 cubiti (2000
chilometri), le sue mura (v. 17) sono larghe 144 cubiti (65
metri) ed è appoggiata su 12 fondamenta (v. 14).
La città intera è costruita sul numero 12 che è quello delle
tribù d’Israele (o dei 12x12000 = 144.000 salvati), come dei
dodici apostoli i cui nomi sono segnati sulle dodici fondamenta
della città (v. 14). La città è costruita su misura delle persone
che l’abiteranno.
Non si poteva descrivere meglio le sue qualità pratiche.
L’architetto non è altri che il Creatore in persona. Egli conosce
tutti i bisogni e tutte le vibrazioni degli esseri umani.
L’architettura stessa della città traduce il suo rispetto per le
individualità. Egli ha tenuto conto di ognuna delle dodici tribù.
Le porte aperte in tutte le direzioni (v. 25) rivelano uno spirito
305 R. Badenas, «New Jerusalem the Holy City», in Symposium on Revelation book
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La Gerusalemme d’oro
Il giardino
La nuova Gerusalemme contiene anche l’idea dell’affermazio-
ne del valore della vita: piena, intensa e sana. Il paesaggio del
giardino dell’Eden è qui richiamato alla memoria (Gn 2 e 3) con
la sua natura florida e generosa, le sue acque limpide e soprat-
tutto, facendo eco alle lettere indirizzate alle sette chiese, il suo
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Capitolo 9
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La Gerusalemme d’oro
307 Salmo 72:11; 79:1; 102:16; Isaia 1:4; 42:1; 66:18; Geremia 1:17; 16:19;
rapeian da cui viene la parola «terapia», che significa generalmente «aver cura
di, servire» (At 17:25, Lc 12:42). Nella Settanta questa parola traduce l’ebraico
abad, «servizio, servitore, servire» (Gn 45:16, Is 5:2).
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Capitolo 9
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La Gerusalemme d’oro
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Conclusione
311 Apocalisse 22:6 e 1:1; 22:7,18,19 e 1:3; 22:16 e 1:4-6; 22:13 e 1:7,8; 22:8 e 1:9-
10 (paragonare). Secondo K.A. Strand, Interpreting the book of Revelation, Ann
Arbor, 1976, p. 45.
312 Genesi 1:1 e 2:4; Isaia 1:2 e 66:22; Giobbe 1-2 e 42:7-17; Ecclesiaste 1:2 e 12:10
ss. (paragonare).
313 Leg. IV.7.
314 Ant. VIII. II. 2.
315 Gen R. 31; Jerusalem Jeb. XII. 13a.
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Conclusione
«Vieni!» (22:17a).
«Vieni!» (22:17b).
«Venga» (22:17c).
«Sì, vengo presto» (22:20a).
«Amen! Vieni!» (22:20b).
Il verbo «venire» esce tre volte dalla bocca di Dio «sto per
venire» (22:7,12,20). Mentre, tre volte è ripetuto da bocche
umane: «Vieni!» (22:17a/b,20). Seguendo da vicino il filo trac-
ciato da questa parola chiave, nel testo, si scopre un andamen-
to di andata e ritorno che denota reciprocità. Al grido del cielo
che dà inizio alla serie dei «venire» e si presenta per due volte
come una promessa «ecco, sto per venire» (22:7,12), risponde
per due volte, l’invocazione dal basso «vieni!» (22:17), alla quale
risponde il conforto dall’alto: «Sì, vengo presto» (22:20, a sua
volta interviene la preghiera umana: «Amen! Vieni, Signore
Gesù» (22:20b).
La lezione che si vede in filigrana in questo alternarsi del
verbo «venire», merita di essere meditata:
1. L’appello umano alla venuta di Dio presuppone l’esisten-
za di una promessa in tal senso. L’appello non parte dall’uomo
nella forma di un pio desiderio, qualcosa che si vuole che sia
vero. Dio parla per primo, ed è per questo che gli si crede. La
fede non è un fenomeno soggettivo, ma essa poggia su una
parola che è al di fuori dell’uomo e lo precede.
2. D’altro canto, Dio rassicura della sua venuta solo coloro
che invocano il suo ritorno. Se egli ci dice «sì, vengo presto», è
per confermare la fede di coloro che anelano alla venuta di Dio.
Bisogna credere in Dio e vivere già in relazione con lui per
poter desiderarne il ritorno.
3. Infine, solo chi ha ricevuto l’assicurazione della sua
venuta può pregare per la sua realizzazione. La preghiera pro-
cede dalla convinzione e non da una semplice informazione
teologica o storica. Unicamente coloro che credono veramente
alla venuta di Gesù Cristo pregheranno per la sua realizzazio-
ne. Questa è la sintesi finale del processo di comunicazione tra
Dio e l’uomo.
Sarà proprio questa preghiera che concluderà tutto il libro,
una preghiera che conclude tutte le altre, la preghiera per
eccellenza: «Venga il tuo regno!» (Mt 6:10; Lc 11:2). Allo stesso
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316 «Venga la grazia e passi questo mondo. Osanna alla casa di David. Chi è santo
si avanzi, chi non lo è si penta. Maranatha. Amen» Didaché 10:6, introduzione,
traduzione e note di Umberto Mattioli, edizioni Paoline, Roma, 1984, p. 117.
317 P. Prigent, L’Apocalypse de saint Jean, pp. 361,362; cfr. O. Cullmann, La foi et
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Conclusione
318H. Odeberg, The Fourth Gospel, Uppsala, 1919, pp. 149-169; cfr. M. Burrows,
The Dead Sea Scrolls, Londres, 1956, pp. 353,356.
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Conclusione
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Grido 03
Appendice
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Shabbat
I. Le sette chiese: dal primo secolo ai tempi della fine (Ap 1:12-3:22)
Pessah
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II. I sette sigilli: dal primo secolo al ritorno di Cristo (Ap 4:1-8:1)
Shavuoth
1. Cavallo bianco Primi cristiani, I-III secolo
2. Cavallo rosso Guerre intestine IV-V secolo
3. Cavallo nero Potere temporale, VI-IX secolo
4. Cavallo giallo Intolleranza, X-XVIII secolo
5. Grido delle vittime Giudizio, XIX secolo
6. Segno nel cosmo Giudizio, XIX secolo
7. Silenzio Ritorno di Cristo
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Grido 03
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III. I sette shofar: dal IV secolo al ritorno di Cristo (Ap 8:2-11:18)
Rosh Hashanah
1° e 2° shofar/2° sigillo Guerre intestine, IV-V secolo
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V. Le sette coppe: dopo gli annunci dei tre angeli (Ap 15 e 16)
Fine del Kippur
Prima coppa/1° shofar Dominazione tramite il potere papale
Seconda coppa/2° shofar Carestia spirituale (mare)
Terza coppa/3° shofar Carestia spirituale (fiumi e fonti)
Quarta coppa/4° shofar Carestia spirituale (sole bruciante)
Quinta coppa/5° shofar Tenebre dell’abisso, rifiuto di Dio
Sesta coppa/6° shofar Harmaghedon, formazione dei campi di battaglia
Settima coppa/7° shofar Harmaghedon, ritorno di Cristo, vittoria di Dio
Grido 03
VI. Le sette vittorie di Dio: dopo il ritorno di Cristo (Ap capp. 17-20)
Pre-Succot
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Grido 03
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Tavola degli avvenimenti profetici
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7 chiese
7 sigilli
7 vittorie
7 shofar
13:00
7 segni
42 mesi 7 coppe
Messaggio dei 3 angeli
1.000 anni
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Rosh
Shabbat Pessah Shavuoth hashanah inizio Kippur fine Kippur pre-Succot Succot
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Indice
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