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Il Pratico Mondo per Edunet books
Stralci dalla
Prodeide
di Antonio Selvatici
a cura di
Gianpaolo Pelizzaro
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Libro scomparso dalla vendita.
“Scomparso” dai media come
il giornalista che lo ha scritto.
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Pratico Blog
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Torniamo a Prodi. Leggete ogni parola e giudicate da voi. Di seguito alcuni passi significativi:
Antonio Selvatici, nato a Bologna 39 anni fa, si è laureato proprio con Romano Prodi in economia e
politica industriale all’Università di Bologna. Ha poi intrapreso la carriera giornalistica,
collaborando con vari giornali e riviste. Lo conosco da tanti anni. Cronista di razza, gran lavoratore,
scrupoloso e attento, con il fiuto finissimo di un segugio e la presa di un dobermann, Selvatici era
uno dei più brillanti e promettenti giornalisti d’inchiesta italiani della nuova generazione. Celebri i
suoi articoli specie per Il Giornale. A Bologna era temuto come la peste. Il suo stile: chiaro e
semplice. Il suo motto: mai fermarsi davanti alle apparenze. Il suo metodo: scavare fino in fondo per
scoprire la verità nascosta dietro i fatti. Tanto per dirne una, lo aveva preso sotto la propria ala
protettiva il compianto Valerio Riva, un “maestro” del giornalismo investigativo, autore fra l’altro
di monumentali libri come, ad esempio, Oro da Mosca. Riva guardava a Selvatici come al suo
discepolo prediletto. Ebbene, l’ha pagata cara. La sua caduta in disgrazia è coincisa proprio con
l’uscita di Prodeide. Per anni ha combattuto (uscendone vincente) la sua battaglia di verità nelle aule
giudiziarie, abbandonato da tutti, schiacciato sotto il peso di troppe denunce. Più o meno, quello che
accadde al sottoscritto. Ma sull’autore della biografica di Prodi si abbatté un vero e proprio uragano.
La sua “voce” andava spenta. Il suo giornalismo d’inchiesta, serio e implacabile, dava troppo
fastidio. E così venne decretata la sua uscita di scena. Tanto che oggi Antonio Selvatici non fa più il
giornalista. Sono anni che non scrive più un articolo. Ha cambiato lavoro. E nei primi tempi, per
sbarcare il lunario con una famiglia sulle spalle, ha lavorato in cantiere come manovale. Pertanto, un
ringraziamento particolare va proprio all’amico-collega Antonio per aver dato la possibilità ad Area
di poter utilizzare brani del suo libro.
Alla corte di De Mita nel 1983, il Professore venne nominato (per volere di Ciriaco De Mita)
presidente dell’Iri, la più grande holding pubblica del mondo. In questa veste, il 14 settembre del
1983, si recò a Bari per partecipare ai festeggiamenti del trentennio di attività dell’Isvimer (era un
istituto finanziario pubblico). Ecco che: “Ci troviamo di fronte ad un’economia mondiale che è
estremamente diversa dal previsto, molto più frustr ante…”. Poi i partecipanti vennero investiti da
frasi che suonavano come una promessa: al Sud “Mancano anche infrastrutture tradizionali. Stiamo
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analizzando a fondo il problema del collegamento stabile (il ponte? nda) sullo stretto di Messina,
perché è uno dei grandi temi che un Paese come l’Italia deve assolutamente svolgere…”..
Il Welf are:
Romano Prodi non poteva non essere uno degli ospiti del convegno “Denaro e coscienza” che si
tenne a Bologna nel 1987: non a caso era l’anno del Congresso eucaristico diocesano. Al convegno
partecipò anche il cardinale Giacomo Biffi, arcivescovo di Bologna, e il suo collega di Milano,
Carlo Maria Martini. In quella occasione, il presidente dell’Iri in carica aveva curato le valutazioni
conclusive della tavola rotonda. Eccone alcune: “Continuo a ripeterlo, da quando è venuta questa
grande moda liberistica, nelle occasioni in cui posso incontrare i giovani e nelle poche lezioni che in
questo periodo faccio agli studenti, e dico: state attenti perché il Welfare State (il sistema di stato
assistenzialista, nda) sarà ricordato nei libri di storia come la più grande conquista del ventesimo
secolo. Credo che esso sia stato uno dei momenti più forti di penetrazione di idee di solidarietà, di
idee profondamente cristiane dell’economia”.
Bisogna evidenziare che Ciriaco De Mita e il professore sono amici di vecchia data. Enrico De Mita
(il fratello minore di Ciriaco) all’Università Cattolica era compagno di studi e di stanza di Romano
Pr odi (all’Augustinianum nella camera da quattro oltre a Romano Prodi ed Enrico De Mita,
convivevano Ugo Tori e Tiziano Treu, il futuro ministro del Tesoro). Ma il vero collante della
fraterna amicizia tra Romano Prodi e Cir iaco De Mita è stato l’avere frequentato l’associazione
degli ex allievi dell’Augustinianum (il cui slogan ancor oggi è “Semel Agosti, Sempre Agosti”). Si
trattava di un’amicizia così profonda che sarebbe sfociata nella nomina di Romano Prodi a
presidente della holding industriale pubblica più grande al mondo. Mamma Iri dunque, è stato per
merito di Ciriaco De Mita, il politico democristiano della Banca dell’Irpinia e della ricostruzione
post-terremoto dell’Irpinia, se Romano Prodi è stato nominato presidente dell’Iri dove ha
soggiornato per sette anni, dal 1982 al 1989 (la storia dell’intercessione di Giovanni Spadolini come
si legge con interpretazione “buonista” sull’Espresso del 17 febbraio 1995 è comunque non
determinante). Non è per caso che i sette anni di r eggenza demitiana della Democrazia cristiana
coincidono con i sette anni di Romano Prodi presidente dell’Iri. Lo stesso Professore in
un’intervista avrebbe ammesso: “So benissimo che senza l’indicazione del partito di maggioranza,
non sarei andato all’Iri”. Vale a dire che, senza l’ appoggio dell’amico e compagno di corrente
Ciriaco De Mita, Romano Prodi la presidenza dell’Iri se la sarebbe sognata. Il “santino laico” è stato
così descritto dal giornalista Piero Ostellino: “Romano Prodi è una degnissima persona. Ma non è il
candido professore di provincia, tutto casa, chiesa e bicicletta, sostanzialmente estraneo al mondo
della politica, che la sua macchina elettorale ci ha proposto. Egli è uomo di potere autentico,
nell’Italia dei De Mita, dei Craxi, degli Andreotti non si diventava presidente dell’Iri e non si
restava dieci anni se non si era un abile tessitore di alleanze, un sottile interprete degli equilibri
politici ed economici del Paese”. Giorgio La Malfa in un’intervista pubblicata il 7 ottobre del 1993
così descriveva l’avventura di Romano Prodi timoniere dell’Iri: “I miei amici dell’Economist hanno
presentato Prodi come il risanatore. Ma si sono sbagliati e glielo dimostro con le cifre. Tra il 1982 e
il 1988, il presidente era Prodi, l’Iri ebbe fondi di dotazione e mutui con l’obbligo del rimborso da
parte dello Stato per 17.724 miliardi, più di una volta e mezzo rispetto al complessivo dei fondi che
l’Istituto ebbe dalla sua formazione, nel 1933, fino al 1988. Il bilancio di quell’anno mostrò un utile
di 1.263 miliardi, ma senza considerare la siderurgia. In realtà, nel 1988 la perdita fu di 2.416
miliar di”. Giorgio La Malfa concludeva il suo articolo con un inciso: “Al professor Prodi non
riconosco nessun titolo di privatizzazione di aziende e, tantomeno, di risanatore dell’Iri. Quel che
gli riconosco è invece un preciso ruolo politico. Non è un tecnico, ma un fior di democristiano”.
Romano Prodi nel 1989 aveva voluto vendere “la Cassa di Risparmio di Roma di Cesare Geronzi e
Pellegrino Capaldo, amici di Andreotti, senza neppure una perizia sul valore, a un prezzo stracciato.
(In realtà mi risulta che solamente Cesare Geronzi era andreottiano, Pellegrino Capaldo, nato a
Atripalda, un paesino dell’avellinese, era un fedele di Ciriaco De Mita, nda) Era caduto Ciriaco De
Mita, il Caf (il trio Craxi, Andreotti, Forlani, nda) stava trionfando e il mandato di Prodi all’Iri era
in scadenza. Credo che lui volesse acquistare meriti andreottiani per guadagnarsi la conferma all’Iri.
Non gli riuscì. Però ricordo un’interrogazione parlamentare su quella scandalosa vendita, firmata fra
gli altri da Franco Bassanini e Vincenzo Visco, oggi folgorati dall’apparizione del professor Prodi
leader della sinistra. Che strani scherzi fa la politica”.
Il Professore vantava [inoltre] una vecchia amicizia con la potente famiglia ravennate Ferruzzi.
Inizialmente con il capostipite Serafino Ferruzzi, poi con Raul Gardini e con la moglie Ida (detta
Idina). Un’amicizia anche interessata, visto che ben presto Raul Gardini diventò un buon cliente di
Nomisma e in seguito entrò a fare parte del consiglio di amministrazione del centro studi bolognese.
Inoltre, non è forse vero che la chiusura della rivista Materie Prime di Nomisma venne evitata
solamente perché acquistata da Gardini? Nel 1987, Raul Gardini pronunciò la famosa frase “la
chimica italiana sono io”. Effettivamente, Raul Gardini scalò il colosso chimico Montedison, poi
concordò “proprio con Cir iaco De Mita, uno sgravio fiscale da mille miliardi per favorire la nascita
di Enimont: entrando così nel girone infernale della chimica di Stato, da cui quasi nessuno dei
protagonisti è uscito indenne”. Non è forse vero che fu Romano Prodi il trait d’union tra Raul
Gardini e Ciriaco De Mita?
N come Nomisma:
Terminato il primo round all’Iri, probabilmente per cambiare un po’ aria, Romano Prodi si recò
negli Stati Uniti dove tenne alcune conferenze. Per Romano Prodi e per Nomisma il 1992
incominciò bene. Ad inizio gennaio, il commissario straordinario delle Ferrovie dello Stato Lorenzo
Necci nominò alcuni consulenti: Susanna Agnelli avrebbe presieduto l’Authority sulla gestione
delle problematiche relative ai rapporti tra le Ferrovie e la città, della quale avrebbero fatto parte
anche l’architetto genovese Renzo Piano, il sociologo Giuseppe De Rita e l’economista Carlo Maria
Guerci. L’ex presidente dell’Iri con l’assistenza di Nomisma si sarebbe occupato dell’altro comitato
sull’alta velocità, di cui sarebbe diventato garante. Una pioggia di miliardi si riversò sul centro studi
di Strada Maggiore. A Bologna, volgendo le spalle alle Due Torri e camminando lungo Str ada
Maggiore per altri duecento metri, sulla sinistra si erge un importante palazzo. Si entra da un
vecchio portone e, dopo aver attraversato un cortile interno, si incontra l’elegante targa di ottone sui
cui si trova inciso “Nomisma Incontri”, la N svolazzante ha un’aria molto nobile. L’ampia ed
elegante sala incontri vanta preziosi affreschi. Ai piani superiori si trovano alcuni uffici di
Nomisma, dove Gualtiero Tamburini (cugino del famoso salumiere bolognese) gestisce il settore
ricerche immobiliari. Tornando su Strada Maggiore, pochi metri più avanti, sullo stesso lato della
strada vi è la sede della casa editrice “Il Mulino”, dove menti preparate si confrontano su temi..
Voleva la separazione tra potere economico e potere politico...:
Parole profetiche nell’ultimo capitolo del saggio Il tempo delle scelte. Lezioni di economia, scritto
da Romano Prodi e pubblicato dalle edizioni Il Sole 24 Ore nel 1992, il Professore scriveva: “Nella
democrazia una regola non scritta molto importante è quella della separazione del potere politico dal
potere economico. Quando fra questi due poteri si crea un corto circuito non c’è democrazia” [cfr.
invece il giudizio di La Malfa, supra].
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Sulle or me del maestro, Alberto Clò, dopo avere ospitato nella sua casa di campagna la famosa
seduta spiritica, è diventato prima collaboratore del maestro quando questi è diventato ministro
dell’Industria, poi è stato nominato ministro dell’Industria (ora è presidente dell’aeroporto
Guglielmo Marconi di Bologna). Alberto Clò nel 1982 ha fondato una società di ricerche (la Rie,
Ricerche Industriali ed Energetiche srl), che aveva gli uffici nello stesso palazzo di Nomisma (di
recente la società si è trasferita in via Castiglione a pochi metri dall’Istituto Ferruccio Parri, meglio
conosciuto come la biblioteca della Resistenza). Patrizio Bianchi [dopo la laurea in scienze politiche
all’Università di Bologna, ndr] si è trasferito all’Università di Ferrara ed è presidente scientifico di
Nomisma. Inoltre, l’allievo del professore eletto nelle file del Pds ha ricoperto la carica di
consigliere comunale al Comune di Ferrara. Massimo D’Alema l’ha voluto come presidente di
Sviluppo Italia per il Sud (da poco si è “dimesso”). Patrizio Bianchi ha fatto parte del consiglio di
amministrazione dell’Iri. Per non smentire la nomea di Strada Maggiore, l’ex presidente del
Consiglio ha voluto che la sede dell’Ulivo regionale avesse sede al numero civico 47, pochi metri
dopo il portone della Facoltà di scienze politiche. Qui tutt’oggi si trova anche l’ufficio politico del
professore, che questi, quando era al governo, compatibilmente con gli impegni, frequentava il
lunedì mattina. Questa è Strada Maggiore, la “Prodi’s Street”.
Insegna a Trento:
Romano Prodi, mentre era impegnato a seguire i lavori del Consiglio comunale di Reggio Emilia
[venne eletto consigliere comunale della Dc il 22 novembre 1964 nella rossa Reggio Emilia, all’età
di 25 anni, ndr], seguì il maestro professore Nino Andreatta (già consigliere economico di Aldo
Moro) prima all’Università di Trento poi a quella di Bologna. Senza dubbio, sia per il maestr o che
per l’allievo, insegnare alla Università di Trento (accademia edificata per volere della Dc che
sperava di formare nuovi quadri, creando università nelle cosiddette zone bianche) sarebbe diventata
un’avventura che entrambi non avrebbero dimenticato. A Trento, nella nuova Facoltà dell’Istituto di
scienze sociali, a seguire le lezioni di Sabino Acquaviva, Umberto Segre, Beniamino Andreatta e
del giovane assistente Romano Prodi vi erano alcuni futuri, famosi terroristi. Da Renato Curcio (il
fondatore delle Brigate rosse) a Duccio Berio, da Vanni Mulinarsi a Marco Pisetta (l’ombra
dell’allora carismatico Renato Curcio). Il maestro Beniamino Andreatta insegnò all’allievo Romano
Pr odi non solo i rudimenti dell’economia applicata, ma anche a muoversi nell’ambiente della
politica. Dal 9 al 12 dicembre del 1968 a Perugia si tenne il convegno economico della Dc
organizzato dalla segreteria del potente partito. Era il periodo in cui la sinistra del partito (la
corrente di Aldo Moro) aveva il sopravvento sulle altre correnti e non è dunque un caso che tra i
relatori spiccassero i nomi dei democristiani “Prodi, Bombardini, Andreatta, Barberis e Mazzocchi”.
Fa il flipper nel 1993 e probabilmente si lega a Soros (il banchiere "no global" che fece saltare
in aria la lira):
L’anno di piena attività del ciclone politico-giudiziario (1993) esaltò la figura di Romano Prodi.
Innanzitutto, teste che saltavano significavano anche posti che si liberavano. Poi il programma di
privatizzazioni imposto da Giuliano Amato aveva riportato in auge il vecchio binomio Prodi-
privatizzatore. Infine, in quei mesi si cercava di ripulire l’industria di Stato dai boiardi e quindi altri
posti ghiotti si liberavano. In quei mesi del 1993, il nome di Romano Prodi rimbalzava come la
pallina impazzita di un flipper : convegni, tavole rotonde, presentazioni, inter viste, commenti,
proposte, visite all’estero, indiscrezioni e bugie, insomma, il Professore era invitatissimo. Non scalfì
la sua candida immagine di buon tecnico-parrocchiano-padano neppure la pubblicazione del suo
nome su un lungo resoconto pubblicato dalla Executive Intelligence Review in cui, in quanto
consulente della banca d’affari di New York Goldman Sachs, veniva accusato di fare parte
dell’entourage dello speculatore George Soros.
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Al Pr ofessore non rimaneva che rivolgersi al mer cato, offrendo quello che era rimasto di appetibile.
Riguardo la prima gestione dell’Iri, vale a dire il settennato 1982-1989, se ne sono scritte e dette di
tutti i colori, ma una chiara visione d’insieme dello stato di salute dell’Iri dopo la presidenza Prodi è
quasi impossibile da tratteggiare. Alcuni hanno scritto che a fine del 1988, la più grande holding
pubblica poteva vantare utili per 1.263 miliardi. Sembrava che si fosse avverato un miracolo, ma a
rovinare la festa vi er ano le perdite patrimoniali della siderurgia (3.000 miliardi) che in base ad un
articolo dello statuto non vennero contabilizzate. Ancora, abbiamo trovato scritto che “Romano
Pr odi ha preso l’Iri con 36mila miliardi di debiti a fine 1982 e l’ha lasciato a fine 1989 con una
esposizione di circa 45mila miliardi”. Rispetto all’Iri-uno, anche il clima politico-economico era
mutato: non si metteva più in dubbio il verbo privatizzare, ma l’argomento del contendere
riguardava le modalità con cui effettuare le privatizzazioni. Sostanzialmente, il bivio di fronte al
quale si trovava Romano Prodi conduceva da una parte verso la soluzione public company,
dall’altra verso la soluzione nocciolo duro. La formazione catto-sinistr orsa del Professore non
poteva che spingerlo a favorire la soluzione più populista della public company. (Per il dizionario
Garzanti della finanza, public company è la “denominazione inglese con cui si indica la società ad
azionariato diffuso, con moltissimi soci titolari ciascuno di un numero ridotto di azioni e in cui non
vi sono soci di riferimento con notevoli possessi azionari, in grado di esercitare un’influenza
dominante, il potere di controllo viene di fatto esercitato dal management. In Italia possono essere
considerate public companies le banche popolari, che giuridicamente sono società cooperative”.
Trattando il tema delle privatizzazioni, una definizione di “nocciolo duro” la troviamo nel libretto Il
capitalismo ben temperato, un’antologia di scritti di Romano Prodi. Quindi: “Per nocciolo duro si
intende la creazione, sul modello seguito dalla Francia nel processo di privatizzazione di un capitale
di comando della nuova impresa, formato da un gruppo d’azionisti previsti appositamente dal
governo”). 1994: vince il Polo. E Prodi lascia mille polemiche, si avviò la privatizzazione delle
banche Credit e Comit. Immediatamente, ci si accorse che erano state seguite delle regole che
avevano permesso a Mediobanca “senza nessun ostacolo di poter giocare un ruolo dominante nella
campagna d’acquisto delle azioni delle due grandi banche”.
Esce dal CdA IRI quando si appalta a Goldman Sachs (poi parla di Berlusconi):
La privatizzazione del Credit può aprire scenari fino ad ora scarsamente considerati. All’inizio di
settembre del 1993, Romano Prodi in veste di presidente dell’Iri comunicò che avrebbe
immediatamente ceduto le quote di controllo degli istituti di credito Comit e Credit. Pochi giorni
dopo, per verificare l’interesse del mercato internazionale Romano Prodi si recò prima a Londra e
poi a New York ed infine a Boston. Quando giunse nella Grande Mela, si incontrò con alcuni illustri
banchieri fra cui alcuni della banca Goldman Sachs, di cui lo stesso Romano Prodi era stato
consulente in veste di senior advisor. In seguito, la banca d’affari statunitense venne scelta dall’Iri
come soggetto che doveva collocare sui mercati esteri le azioni del Credit. Quando questi passaggi
vennero evidenziati, Romano Prodi si difese affermando che quando si era riunito il consiglio di
amministrazione dell’Iri per affidare l’ incarico alla Goldman Sachs lui era uscito. Questo è vero.
Le società con la moglie:
Ma si potrebbe evidenziar e che della banca d’affari americana troviamo traccia all’ interno della
società di consulenza Ase srl (Analisi studi economici) di Bologna i cui soci erano i coniugi Prodi.
Infatti, sembra che nell’esercizio del 1993 della società dei coniugi Prodi risulterebbero pagamenti
da Goldman Sachs per consulenze per una cifra che si aggirerebbe attorno ai 900 milioni di lire (il
corrispondente di mezzo milione di dollari). Stando alle indiscrezioni investigative-giudiziarie,
quandoIlnell’autunno del 1999 la magistratura di Bologna è andata a controllare i conti dell’Ase, si è
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Prima dell'accordo con l'Ingegnere, Romano aveva rifiutato una proposta di acquisto della Sme da
parte della multinazionale Hainz. Latore, il ministro liberale dell'Industria, Renato Altissimo, al
quale replicò: «La Sme non si tocca. È la cassaforte dell'Iri». Quando seppe che invece vendeva la
cassaforte a Carlo De Benedetti, Altissimo telefonò arrabbiato a Prodi: «Perché a Carlo sì e a me hai
detto no?». «Tu mica ce l'hai il taglietto sul pisello!», rispose Prodi con fine allusione alle origini
ebraiche dell'Ingegnere. Il dialogo è negli atti di un processo.
L'anno dopo, 1986, ne combina un'altra. Inalberando per le auto lo stesso nazionalismo
cipigliosamente rimproverato a Antonio Fazio per le banche, vende l'Alfa Romeo alla Fiat. A
discapito della Ford che offriva di più, in soldi e certezze. Agli Agnelli, coi quali ha un antico
rapporto di cui parleremo, fa sconti mostruosi e rateazioni da capogiro. «Hanno avuto l'Alfa per un
boccone di pane», è il giudizio unanime dell'epoca. In cambio, promettevano rilancio e occupazione.
Si sa come andata. Le Alfa in circolazione sono meno delle Torpedo e le maestranze residue sono
sotto tutela del Wwf. Ora capite perché Cesare Romiti, che orchestrò l'affare, sia oggi tra i fan di
Romano. Vale pure per l'Agnelli adottivo, Luca Cordero di Montezemolo, che esprime la
gratitudine della famiglia con impallinamenti diuturni del Cav.
L'operazione è stata anche una sconfitta dell'economista Prodi. Incamerando l'Alfa, Fiat ha avuto il
monopolio dell'auto italiana e si è impigrita. A furia di Panda, si è semplificata la vita, si sono
ringalluzziti i giapponesi e Mirafiori è finito nella Caienna. E il Professore, che ha aiutato Fiat a
farsi male, ha tradito Adamo Smith e il libero mercato che predica un giorno sì e l'altro pure.
Quando Prodi arriva all'Iri, la siderurgia è in grave crisi. Il problema è di tutto l'Occidente che
produce troppo rispetto al bisogno e troppo caro rispetto agli arrembanti asiatici. L'Iri ha la palla al
piede della Finsider che deve ridurre personale e produzione. Questione delicata che Romano vuole
seguire di persona. Ha un'idea da duca rinascimentale. Nomina alla Finsider un presidente, Lorenzo
Roasio, e un amministratore delegato, Sergio Magliola, dando a entrambi identici poteri. Costringe i
due a litigare per le competenze e a ricorrere a lui per l'arbitraggio. Così, il Machiavelli di
Scandiano ottiene l'auspicata ultima parola e avvia la Finsider, demotivata e depressa, all'ultima
dimora.
Nell'89, disarcionato il protettore De Mita da Palazzo Chigi, Prodi è costretto a lasciare l'Iri al
fiduciario andreottiano, Franco Nobili. Poco male. C'è da lavorare sodo su Nomisma il cui lustro è
stato appannato dalla sentenza micidiale del giudice Casavola. Romano si getta in un'opera triennale
di rilucidatura mentre cominciano, a macchia, come la peste, gli arresti di Tangentopoli. Nobili è
catturato il 12 maggio '93. Carlo Azeglio Ciampi, presidente del Consiglio, telefona personalmente
a Prodi per pregarlo di riprendersi l'Iri. Romano tergiversa, chiede tempo e inforca la bicicletta
(Bianchi, le sue sono tutte rigorosamente di questa marca) per meditare in pace. In sella riflette
meglio che sulle diverse poltrone che ha di volta in volta occupato, all'Iri, al governo, nell'Ue. Per
ore, è introvabile, mentre la moglie Flavia argina Ciampi che continua a tempestare di telefonate. Al
rientro, con le endorfine alle stelle, Romano dice sì. Il 15 maggio, inizia la presidenza bis. La
caratterizza con le privatizzazioni, la nuova moda. Vende le due banche Iri, Comit e Credit, ai
piccoli risparmiatori per creare, moda nella moda, un democratico «azionariato diffuso». Il vecchio
Cuccia di Mediobanca, che voleva invece il «nocciolo duro» di un gruppo scelto di azionisti, gli
toglie il saluto. La vittoria di Prodi è breve. Cuccia prende presto il controllo delle due banche senza
neanche versare le enormi somme che aveva promesso all'Iri per ottenere il «nocciolo». Ennesima
botta per l'Istituto.
A togliere Prodi dall'imbarazzo, pensa Berlusconi vincendo le elezioni del '94. Non volendo
conviverci, Romano proclama: «Non sono uomo per tutte le stagioni» e si dimette. L'Iri per un po' è
salva.
Quando Prodi rimase schiacciato dai debiti lasciati dall'IRI di Prodi.
In un quinquennio, Romano Prodi brucia le tappe. Fa una carriera politica a passo di lepre e, in un
amen, da pivello diventa un vecchio arnese.
Quando, nel maggio ’94, lasciò definitivamente l’Iri, era un parastatale di lungo corso con una
minuscola esperienza da ministro. Quando nell’autunno ’99, lascia l’Italia per l’Ue, è un avvizzito
veterano della politica. Nell’arco, è stato deputato, leader dell’Ulivo, capo del governo e ha fatto a
ritroso la strada: cacciato da Palazzo Chigi, emarginato dai suoi, la bile in fiamme. Altare e polvere,
come i Titani Il della Storia.
Pratico L’epopea
Mondo merita
per Edunet il racconto.
books
Nel ’94, dopo 18 anni come riserva della Repubblica, Romano non ha una fisionomia politica
definita. Noi già sappiamo che è un dossettiano e un dc di sinistra. Ma per i più, era un tecnico.
Tanto vero che An, parte integrante del primo governo Berlusconi, ma a corto di persone per il
sottogoverno, pensa di utilizzare Prodi in quota dell’ex Msi. L'idea non si concreta in una proposta,
ma è indicativo che sia nata. Un po’ com’è successo recentemente con Mario Monti che la solita An
avrebbe visto volentieri come ministro dell’Economia, quando due anni fa defenestrò Giulio
Tremonti. Indubbio che il partito di Gianfranco Fini abbia problemi di strabismo, ma anche vero che
Prodi allora, come Monti oggi, civettino con un’ingannevole equidistanza che in realtà non hanno.
A schierare decisamente quel mollaccione di Romano, intervengono due duri, ossessionati dal Cav.
Oscar Luigi Scalfaro e a ruota Beniamino Andreatta.
Dopo la defenestrazione del suo governo nel gennaio ’95, Berlusconi, indica Lamberto Dini per la
successione a Palazzo Chigi. Scalfaro se ne impipa, convoca Prodi al Quirinale e gli dice chiaro che
preferirebbe fosse lui a presiedere il nuovo governo. Romano tergiversa, si arrovella, cincischia e
perde il treno. Non era ancora abbastanza gasato.
La Dc intanto rantola. Anzi, muore e al suo posto nasce il Ppi. Per rocambolesche circostanze,
segretario è Rocco Buttiglione, odiato dalla sinistra del partito. Temono che stia per fare un accordo
con Berlusconi. Una volta di più, Andreatta cava Prodi dal cilindro e ne fa circolare il nome come
colui che può rianimare il Ppi e portarlo a sinistra. Romano nel frattempo è alle prese con un
diversivo. Si è improvvisato divulgatore e impartisce lezioni di economia in tv sulla Terza Rete. Ha
una sua rubrica, «Il tempo delle scelte», in cui parla di privatizzazioni, welfare state, ecc.,
coadiuvato dall'immancabile consorte Flavia che svolge l'essenziale funzione di «spettatore critico»
(«Insieme», pag. 88). De Mita, che lo segue assiduamente sul teleschermo, esclama: «Romano è
meglio come giornalista che come presidente dell’Iri», diventa un suo fan e si accoda a Beniamino
nel ritenerlo l’uomo giusto. Comincia il passaparola e in breve sono in molti a pensarlo. Dai sinistri
Rosy Bindi e Sergio Mattarella, ai moderati Gerardo Bianco e Franco Marini.
I ferri corti con Buttiglione non bastano più e si passa alle rasoiate. «Traditore Buttiglione,
cappellano dei neofascisti», urla dieci volte al giorno Beniamino e nelle pause enuncia la strategia:
«Ora ci vuole la guerra di liberazione dal filosofo traditore». Il mite Rocco che febbricita alla sola
idea di un’alleanza con gli ex comunisti del Pds, accelera i contatti con Cav e si isola come il
Battista nel deserto. Inizia una melina tra chi impiccherebbe Buttiglione al pero e i pochi che lo
sostengono.
Ve la faccio breve. Un bel giorno, Andreatta, che era capogruppo Ppi alla Camera, e Nicola
Mancino, suo omologo al Senato, annunciano che Prodi è il candidato leader del centrosinistra per
le elezioni politiche. Buttiglione è di fronte al fatto compiuto. Filosoficamente, cede alla brutalità,
fugge dal Ppi, fonda il Cdu, si schiera col centrodestra e esce dal racconto.
Ora, sotto i riflettori, c’è solo Romano.
In pochi mesi, da personaggio periferico, Prodi si trasforma in protagonista. Il ruolo che gli è
assegnato è quello di maschera presentabile di un guazzabuglio di ex comunisti, neo comunisti,
Verdi vocianti, giustizialisti che la decenza consiglia di nascondere. Inalberando la sua innata faccia
parrocchiale, Romano entra nel ruolo senza fare una piega. Lo incarna perfettamente ancora oggi,
come se glielo avesse assegnato il Signore dall’inizio dei tempi. Lui non ha fatto nulla per montare
sul piedistallo. Gli altri hanno fatto per lui. Ma adesso non lo schioda più nessuno.
Avuta l’investitura, decolla. Compra ad Assisi un pullman usato, il che fa, in un sol colpo,
francescano e democratico. Lo allestisce di fax e frigo, e comincia la campagna elettorale col giro
delle «cento città». I pullman sono forse due, gemelli, come sospetta il suo eccezionale biografo,
Antonio Selvatici, che fornisce le targhe di entrambi: Pg 709626 e AC 862 Fg. La cosa resta segreta
e Romano passa per ubiquo come Padre Pio. La mattina fa l’ingresso col pullman a Bari, a
mezzogiorno gira col pullman bis a Milano, nel quale è salito dopo essere sceso dall'aereo.
Sul torpedone, ben attrezzato, sfoglia i giornali. Nota con disappunto che tre colleghi docenti
universitari scrivono articoli tra il tiepido e lo scettico. Gli dicono: parla chiaro, meno slogan, più
cose. Gli chiedono: come manterrai le promesse? I soldi dove li trovi? Decidi tu o sei in balìa dei
comunisti versipelle ex, post, neo? I tre sono Nicola Matteucci del Giornale, Angelo Panebianco e
Ernesto Galli della Loggia del Corriere della Sera. Prodi e il trio si conoscono da decenni e non solo
per ragioni accademiche. Li lega anche il Mulino, i Lincei di Bologna, di cui sono associati, autori e
pezzi grossi. Per Romano quella libera critica è uno sgarro e... Ma lasciamo parlare Matteucci:
«Seppi che Prodi aveva convocato a casa sua il presidente dell'associazione il Mulino per protestare
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duramente contro gli articoli... Insomma: i soci dell’associazione dovevano (questa la pretesa del
furibondo Prodi, ndr) fornire la base culturale del suo partito. Un amico socio del Mulino (se la
memoria non mi tradisce, Michele Salvati) mi disse di stare attento perché Romano era un essere
vendicativo. L’avvertimento mi lasciò indifferente perché nel campo scientifico il potere di Prodi
era nullo e il Mulino avrebbe continuato a pubblicare i miei libri». Da allora, Matteucci ha tolto il
saluto a Prodi.
L’Ulivo vince le elezioni del 21 aprile 1996 e Romano entra a Palazzo Chigi. Non è una gran
vittoria, anzi una truffa legale. Il Polo ha preso 300.000 voti più dell’Ulivo. Ma, per un perverso
meccanismo elettorale, l’Ulivo ha più eletti.
Dei due anni e mezzo di governo Prodi, c'è poco da dire. Diciamo quel poco.
È imminente l’avvento dell’euro. L’Italia, per adottare la nuova moneta, deve risanare i suoi terribili
conti pubblici. A pesare sulle casse del Tesoro, è l’indebitatissimo Iri, reduce da otto anni di cura
Prodi. Il destino beffardo affida alle mani del guastatore la riparazione del guasto. La più bella
azienda dell’Iri è la Stet, oggi Telecom. Venderla ai privati sembra l’unico modo per ridurre i debiti
dell’Istituto. Prodi convoca il presidente della Stet, Ernesto Pascale, e l’amministratore delegato,
Biagio Agnes, che gli espongono un piano alternativo. Lui neanche li ascolta e caccia entrambi
dall’azienda. A trovarsi la strada spianata è l’Ifil di Umberto Agnelli che, con uno zero virgola del
capitale Stet, nomina amministratore un suo uomo: Gian Marco Rossignolo. Ignoro come sia stato
possibile, ma sono le delizie del capitalismo all’italiana. Prodi appoggia in toto la manovra Ifil
(Fiat) e si sdebita così con Umberto che, 20 anni prima, aveva propiziato la sua nomina a ministro
dell’Industria. Poi, come ricorderete, tutto va a rotoli. Max D’Alema, che subentra a Romano nella
guida del governo, dà la Stet-Telecom all’amico ragioniere Roberto Colaninno che rivende, con una
fantastica plusvalenza, al dottor Marco Tronchetti Provera, l’attuale proprietario. Conclusione: lo
Stato non ha ridotto di un centesimo il debito pubblico, ha dato via gratis il suo gioiello e l’Italia è
oggi il solo Paese al mondo con un monopolio telefonico in mano a un privato signore. Ovunque, o
sono società a azionariato diffuso o aziende a controllo statale. Ma questo fa parte del libro, ancora
da scrivere, sugli amorosi sensi tra movimento operaio e confindustriali.
Vi faccio grazia dell’altro mistero Telecom scaturito sotto il governo di Romano: l’acquisto di
Telekom Serbia. Al minimo, è stato un pessimo affare: comprata a cento, l’azienda è stata
rivenduta, anni dopo, a cinquanta. Il sospetto, non provato, è che ci siano state tangenti politiche. La
magistratura lo ha escluso. La commissione parlamentare d’inchiesta ha invece puntato il dito su tre,
che secondo testimonianze e carte, sarebbero stati i maneggioni. In arte, Mortadella, Cicogna e
Rospo. Chi si nasconda dietro, è stato supposto, ma non accertato.
Prima di inciampare sullo sgambetto di D’Alema, il governo Prodi ha fatto altre due cose. Per la
Fiat, la legge che incentiva la rottamazione delle auto. Per l’Italia, l’ingresso in zona euro: gli va
riconosciuto, lasciandogliene la responsabilità.
Defenestrato dagli alleati, Romano lascia Palazzo Chigi a metà legislatura. Sfoga la rabbia in bici e
smette di pedalare solo quando è certo che diventerà presidente dell’Ue. Deve lasciare il seggio alla
Camera e candida al subentro l’austero ex alunno della Scuola militare della Nunziatella, Arturo
Parisi, come lui uomo del Mulino e collega nell’università felsinea. Ne cura di persona la campagna
elettorale a Bologna contro il candidato Cdl, Sante Tura, popolare ematologo, salvatore di molte
vite. Ma lo zelo tradisce Romano che telefona al cardinale Biffi, arcivescovo di Bologna, e gli
ingiunge: «Lei deve schierarsi con Parisi. O, comunque, non con Tura». Ma Biffi, che di Prodi se ne
pappa dieci, replica duro: «Non si permetta. Non prendo ordini da nessuno», e lo esclude dalle sue
preghiere.
Privato del pio appoggio, Romano si avvia al disastro di Bruxelles.
Quelle consulenze all'IRI che Romano commissionò alla sua Nomisma.
Sorretto per le braccia da Nino Andreatta, Prodi diventa professore ordinario dell’Ateneo di
Bologna a 32 anni. Raggiunge il traguardo, ma nulla cambia nella sua vita. La facoltà è la stessa,
Scienze politiche, che bazzica da un decennio come aspirante docente. Ottiene una stanza più
grande, ma è sempre a un tiro di voce da Andreatta, pronto a correre a un suo richiamo. Estote
parati, come un lupetto col capo scout.
Beniamino, questo il nome di Andreatta al fonte battesimale, lo aveva preso come assistente nel ’63,
promosso associato nelMondo
Il Pratico ’66, imposto ordinario
per Edunet books nel ’71. Molto altro farà per lui, ma senza dargli più
di tanto confidenza. Nonostante l’intreccio di interessi da cui erano uniti, Nino ha sempre dato e
preteso il lei da Romano. Dispettoso per natura, inventava continui espedienti per marcare le
distanze. Da ministro degli Esteri di Ciampi nel ’93, non telefonava mai personalmente all’allievo,
come usa tra parigrado, ma lo faceva cercare, come un sottoposto, dai telefonisti della Batteria, la
segreteria generale del Palazzo politico. Prodi, che sedeva sullo scranno di presidente dell’Iri,
inghiottiva senza fiatare, ma imbestialito assai.
A Romano fu assegnata la cattedra di Economia politica e industriale. La tenne ininterrottamente,
dal ’71 fino alle dimissioni, nel ’99. Ventotto anni davanti a un’unica lavagna sono il segno o di una
supremazia indiscutibile o di un’oasi che non fa gola a nessuno. «Prodi è rimasto sul piano
accademico un isolato», ha scritto Nicola Matteucci che fu preside della facoltà di Scienze politiche.
Come dire, Prodi ha vissuto indisturbato in una comoda nicchia. In altre parole, non è mai stato in
corsa per il Nobel: era un praticone di cose industriali, appassionato del comparto piastrelle in
Emilia Romagna. I titoli delle sue pubblicazioni nei primi lustri, sono indicativi: L’industria della
ceramica per l’edilizia, La riconversione dell’industria italiana, Fusioni di impresa. Solo negli anni
’90, afferrato dall’ambizione politica, cominciò a guardare più in grande e scrisse libri come Il
capitalismo ben temperato e Un’idea dell’Europa. Ma sono ormai manifesti propagandistici, non più
saggi accademici.
Romano come studioso ha il fiato corto. L’università inizia a andargli stretta quando Andreatta lo
dirotta verso lo Stato, con una esperienza da ministro dell’Industria nel ’78, e al parastato con la
presidenza dell’Iri nell’82. Ma è a causa di un mal calcolato gesto di imperio che chiude con la
carriera accademica, come ha rivelato una volta il preside Matteucci. Prodi aveva un allievo, Fabio
Gobbo, che abbiamo già intravisto mescolato ai 17 della seduta spiritica di Zappolino. Volendo
promuoverlo professore ordinario, Romano pretese di fare parte della giuria del concorso a cattedra
e, battendo i pugni, lo impose. «Gobbo era un giovane serio - scrive Matteucci - ma allora non
ancora scientificamente all’altezza di una cattedra: questo suscitò le violente proteste di tutta la
corporazione degli economisti... Si preferì mettere tutto a tacere. Ma la carriera accademica di
Romano Prodi era finita».
Fu così che voltò pagina e si mise in affari creando Nomisma, un istituto di consulenza economica
con sede a Bologna, a due passi da casa sua. Nel nome, c’è il programma: Nomisma era la moneta
aurea dell’impero bizantino, il dollaro di Costantinopoli. L’Istituto diventa la cassaforte del suo
ideatore e trasforma Romano in un sontuoso contribuente che quando oggi discetta di povertà parla
a orecchio. Anche in questo caso, l’ispirazione è andreattiana. Beniamino era un genio della
consulenza. Negli anni ’70, aveva fondato prima l’Arel, Agenzia di ricerche e legislazione, che,
senza fini di lucro, dava consigli economici alla Dc, poi Prometeia che li dava, ma pronta cassa, a
clienti danarosi. Nomisma era la pedissequa imitazione di Prometeia, ma destinata ad avere più
successo dell’originale.
Il laboratorio di cervelli prodiano nasce il 21 marzo 1981 da un accordo con la Banca nazionale del
lavoro che finanzia il progetto. Compito di Nomisma è fare ricerche sull’economia reale dell’Italia,
lavorando soprattutto nell’interesse di Bnl. A capo della banca c’è Nerio Nesi che, con Prodi, è
l’anima dell’operazione. Nesi è della sinistra Psi, come Prodi lo è della Dc. Sono entrambi
bolognesi, interessati all’industria e in buoni rapporti. Nesi, che oggi è deputato della Rosa nel
Pugno, ha lavorato negli ultimi anni per riappacificare Prodi con Fausto Bertinotti che sgambettò il
suo governo nel ’98.
Nomisma cresce subito tumultuosamente. Estende la sua clientela molto al di là della Bnl e diventa
in breve la società intellettuale più in vista d’Italia, con una legione di teste d’uovo alle dipendenze.
Prodi è il factotum e il presidente del Comitato scientifico, ossia supremo responsabile delle
ricerche strapagate dai clienti. Quanto gli studi siano validi, è cosa discussa. Ma intanto le
soddisfazioni sono molte, finché non accade un incidente.
Romano nell’autunno dell’82 diventa improvvisamente presidente dell’Iri con cui Nomisma aveva
scambi fruttuosi. Frequente il passaggio di studiosi prodiani alle società irizzate per ricoprirvi
cariche di presidenti o amministratori; numerose le società Iri clienti di Nomisma. Gli intrecci
aumentano con l’arrivo del Nostro e le commesse per Nomisma si moltiplicano. Ce n’è quanto basta
per ipotizzare l’interesse privato in atti di ufficio. Il pm romano Luciano Infelisi apre l’inchiesta
sulla base di lettere anonime e di una interrogazione del deputato Staiti di Cuddìa. Emerge che
Prodi, pur a capo dell’Iri, manteneva la presidenza del consiglio scientifico di Nomisma e che
società Iri, Italstrade, Sip, Italsider, ecc., stipulavano contratti di ricerca miliardari «per favorire
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Nomisma e Prodi». Nell’85, Infelisi rinvia Romano a giudizio. Tre anni dopo, il giudice Mario
Casavola lo proscioglie. Ma con motivazioni demolitrici.
La sentenza dà un quadro di Prodi e di Nomisma del più alto interesse.
Già prima dell’inchiesta, il Consiglio di amministrazione dell’Iri aveva censurato il suo presidente
«per avere gestito le ricerche bolognesi quando committenti erano società Iri, senza avvertire il
Cda». A ruota, la Corte dei conti aveva bacchettato l’Iri per il «ricorso a consulenze esterne quando
aveva proprio personale in grado di assolvere gli stessi compiti». Osserva il giudice Casavola: «È
indubbio che alcune commesse furono volute da Prodi per aiutare Nomisma che aveva bisogno di
lavorare». Ma non ha commesso reato perché l’Iri, in quanto tale, «è rimasto sostanzialmente
estraneo all’affidamento a Nomisma, anche se le società committenti sono a prevalente o esclusivo
capitale Iri». Aggiunge: «L’idea che le commesse siano state affidate a Nomisma perché a chiederlo
alle società collegate (Italsider, Sip, ecc.) era il presidente Iri è verosimile, ma non assume gli
estremi del reato». Dunque, comportamento scorretto ma non punibile. Fosse stato direttamente l’Iri
a stipulare le consulenze, il suo presidente, pubblico ufficiale, avrebbe commesso reato. Ma poiché
a sottoscrivere i contratti con Nomisma erano state le singole e private spa Iri, il presidente
dell’Istituto e proprietario di Nomisma è assolto. Un cavillo tipicamente giuridico.
Il seguito della sentenza fa il punto sull’efficacia delle ricerche prodotte dal brainstorming prodiano.
«L’inchiesta ha consentito di dedurre... la scarsa attinenza delle consulenze agli scopi istituzionali
delle società (Italsider, ecc.)... Una volta compiute, non sembra siano state lette e utilizzate».
Casavola cita le testimonianze di diversi amministratori delegati delle aziende clienti, «nessuno dei
quali ha ritenuto di leggere» i pensum di Nomisma e conclude: «Questi giudizi danno corpo a
sospetti generalizzati di consulenze richieste a fini clientelari».
La sentenza ha una coda che riguarda un ricco contratto durato sei anni tra Nomisma e ministero
degli Esteri. Un conquibus di circa sei miliardi alla società di Prodi (siamo nella seconda metà degli
anni ’80) per «monitorare» le economie di una ventina di Paesi. Anche stavolta Romano è assolto,
ma il suo centro studi esce a pezzi. «La convenzione - scrive Casavola - riguardava un settore di
ricerche nelle quali Nomisma non vantava alcuna competenza specifica... Nomisma ha formulato
una duplicazione di strutture per consentirsi una duplicazione di introiti... Il Comitato scientifico, il
Comitato metodologico, l’Osservatorio, richiamati nel frontespizio delle pubblicazioni, quasi a
mostrare una struttura complessa e ramificata, sono in realtà la stessa cosa, con gli stessi ricercatori
e con gli stessi compiti... Il compenso era previsto per la direzione scientifica e per coordinamento
come se fossero realtà diverse... invece, sono sempre le stesse persone a operare». Un gioco delle tre
carte che, per di più, produce studi da burla. «La ricerca - continua infatti il magistrato - era
organizzata con la lettura di testi richiesti in prestito a biblioteche... e con contatti con il ministero
degli Esteri (sic! Lo stesso che chiedeva lumi a Nomisma, ndr)... Gli aggiornamenti sono per due
terzi ripetitivi...». Secondo un utente delle ricerche, il senatore Francesco Forte, «si trattava di
documentazione invecchiata, superficiale, copiata su altre fonti ovvie, come enciclopedie e annuari
statistici». Ma anche il giudizio dell’ambasciatore Bruno Cabras è significativo: «Confesso che le
pubblicazioni della Banca mondiale e di altre organizzazioni avevano maggiore contenuto e autorità
per cui gli studi di Nomisma erano di scarsa utilità». Questa assoluzione a denti stretti è stata accol-
ta
con euforia da Romano che da allora si vanta: «Sono stato ampiamente prosciolto in fase
istruttoria».
Quell’«ampiamente» rispecchia la mancanza di senso critico dell’uomo che ha chiamato Unione un
caravanserraglio.
Quando Prodi tremò: “Salvatemi da Di Pietro”.
Nel luglio del '93, il melomane Filippo Mancuso stava uscendo da casa per acquistare un manuale
sul clavicembalo ben temprato, quando suonò il telefono. Era Romano Prodi da Parigi che
singhiozzava nella cornetta e quasi non riusciva a parlare.
«Sembrava Anna Magnani nella Voce umana di Cocteau», ricorda Mancuso. «Devo parlarle con
urgenza. È successa una cosa gravissima», riuscì a articolare Romano che da un mese e mezzo
presiedeva per la seconda volta l’Iri. Stabilirono di vedersi l’indomani all’Istituto.
Prima di capire cosa sia successo, spieghiamo che c’entra Mancuso con Prodi. Raggiunti i più alti
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gradi della magistratura e da poco in pensione, l’allora settantunenne Mancuso era membro del
Comitato di consulenza giuridica dell’Iri. Aveva avuto l’incarico da Franco Nobili che nel frattempo
era stato ammanettato dal pool di Milano e languiva in carcere da due mesi. Subentrato a Nobili,
Prodi aveva confermato la nomina di Mancuso che il giorno dopo si presentò puntualissimo nella
sede di Via Veneto.
Ecco, per bocca dell’ex Guardasigilli del governo Dini (1995), il racconto dell’incontro.
«Prodi era prostrato. Appena mi vede, mi si abbandona addosso e implora: “Eccellenza, mi salvi”.
Aveva un affanno doloroso sul volto e non riusciva a parlare. Io non capivo. Alla fine si dà un
contegno e dice: “Sono stato interrogato pochi giorni fa, il 4 luglio, da un giudice feroce, certo Di
Pietro, che mi ha trattato come il peggiore criminale. Minacciava di non farmi tornare a casa. Si
alzava e andava alla porta urlando intimidazioni contro di me, perché i giornalisti che aspettavano
fuori sentissero. Quell’ossesso lo faceva per sputtanarmi”. Lasciai che si sfogasse, poi chiesi: “Ma
che voleva da lei questo Di Pietro?”. Prodi rispose: “Gli avevo detto che il primo periodo all’Iri era
stato il mio Vietnam. Questa frase è stata interpretata da quell’orrore di magistrato come
l’ammissione di pressioni per favori illeciti ai partiti. Si è messo a urlare forte: 'È vero o no, che il
segretario della Dc decideva lui chi doveva sedere su quella poltrona?' e poi, urlando di più: 'Ma i
soldi alla Dc chi glieli dava?'. Per ore ha continuato a scagliarsi contro di me, finché ha detto:
'Adesso esce coi suoi piedi, ma entro una settimana mi deve portare un memoriale spiegandomi
quella frase, altrimenti lei a casa non ci torna'. Cosa posso fare, Eccellenza? Replicai: “Lei cosa
vuole esattamente da me?”. Prodi rispose: “Il mio legale, prof. De Luca, ha scritto questa memoria.
Vorrei che la leggesse”. Ho detto: “Non sono in grado di rivedere un professionista come Giuseppe
De Luca. È un difensore eccellente e io, che sono un giudice, non so vedere le cose in chiave
difensiva”. Così risposi alle sue lacrimevoli insistenze. Ma Prodi continuava: “La guardi... veda...
giusto una scorsa...”. Voleva un parere, in realtà pensava che potessi fare pressioni sui magistrati. È
una mia interpretazione. Io però non abboccai e dissi: “Lei mi dice che ha a che fare con un pm di
questo tipo. Stia attento a non fare nomi di persone che potrebbero essere ingiustamente coinvolte
creando nuovi dolori”. Qui, Prodi esce al naturale e sbotta: “Io me ne fotto. Io devo salvare a ogni
costo me stesso e non devo preoccuparmi di altro”. Mi alzai dicendo: “Professore, lei ha sbagliato a
consultare me anche perché non sono in sintonia con questo modo di vedere. Lei mi dà
l’impressione di quei personaggi che nei film Western fuggono a cavallo, sparando sui bambini”. Su
questo, me ne sono andato e mai più ci siamo visti. Poi, lui disse che io ero pagato
“principescamente” per l’incarico all’Iri. Non è vero, ma se lo fosse stato, niente di male. Dicendolo
però, Prodi ha mostrato quello che è: un misero. Un misero naturale». Questa l’eloquente
testimonianza sul carattere di Romano nei momenti difficili.
Facendo poi l’esatto contrario del consiglio ricevuto, Prodi presentò ai pm Totò Di Pietro e Paolo
Ielo un dossier folto di nomi. Cinquantatré pagine sul suo settennato all’Iri, in cui si assolveva da
tutto incolpando invece Craxi, Gianni De Michelis, Giuliano Amato, il pm Infelisi (che lo aveva
indagato per Nomisma) e perfino Berlusconi, reo di avere ostacolato la svendita della Sme all’Ing.
De Benedetti. Una spiata in piena regola, accolta con voluttà dai due pm, ma che, di per sé, non
sarebbe bastata a tirarlo fuori. A salvare Romano, fu infatti il Quirinale di Oscar Luigi Scalfaro.
Poteva metterci una pietra sopra. Invece, ha voluto strafare e si è attaccato a Di Pietro come un
siamese a suo fratello. Premetto, e confesso, che ho addolcito i giudizi di Prodi su Di Pietro nel
dialogo con Mancuso. Le parole autentiche davano meglio l'idea dello stile giudiziario del pm, ma
le ho cambiate per non dargli altre occasioni di arricchirsi con le querele. Tutto perciò fa pensare
che Romano avesse in origine un autentico disprezzo per Di Pietro, misto a paura. Ma questa ha
prevalso. Così, per tenerselo buono anche dopo l’abbandono della toga, l’ha preso prima nel suo
governo del ’96 come ministro dei Lavori pubblici, poi come stretto alleato. Da anni, in tv,
compaiono in coppia come pappagalletti. Le formazioni tipo sono, Totò alla destra di Romano, Totò
alle spalle di Romano, Totò che annuisce a Romano che parla, Romano che guarda Totò per vedere
se annuisce. L’insana simmachia tra carcerato e carceriere e il delatorio dossier di 53 pagine folto di
nomi, hanno procurato a Romano nomea di codardo. Giorni fa, il suo ex preside di Scienze
Politiche, Nicola Matteucci, ha scritto: «La cosa divertente è che il nostro Prodi, che certo un prode
non è, gli ha offerto (a Di Pietro, ndr) per le prossime elezioni un posto sicuro... Una totale
mancanza di dignità, dove la paura di ieri si mescola alla viltà di oggi».
Per otto lunghi anni, Romano ha guidato l’Iri che con l’Eni è stato il tangentificio d’Italia. Le ha
viste tutte, fatte altrettante, ma si erge moralista. Insincero anche nel dossier per i magistrati. Finge
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delle procedure, estranei. Vista da Roma, Parigi o Madrid, l'Ue fa ribrezzo. È diventata un suk di
commerci, senza più ideali e molte paure. Il guazzabuglio di economie diverse e salari distanti anni
luce ha portato alla sindrome dell'idraulico polacco che fa per quattro lire quello che il tubista
francese faceva per otto, gettandolo sul lastrico di cucine e bagni su cui prima regnava indisturbato.
Il risultato è stata la bocciatura della Costituzione Ue nei referendum francese e olandese: un no
globale all'Europa, più che a un mucchietto di articoli che nessuno ha letto. Romano ascolterà pure
gli umori italiani nel capannone bolognese, ma ha fatto il sordo coi popoli europei. Quando, prima
del patatrac, si pose il dilemma: «Approfondire l'Ue o allargarla?», Romano rispose: «Dobbiamo
fare tutte e due». E si sono visti i risultati. Ha fatto lo stesso in questa campagna elettorale.
«Risanare i conti pubblici o rilanciare l'economia?», si è chiesto retoricamente. «Le due cose
insieme», si è risposto il taumaturgo. Se tanto mi dà tanto, salvaci o Signore! Il Financial Times ha
tirato le somme del quinquennio di Prodi in modo tacitiano: «La sua performance è stata orrenda».
Capitolo a sé, sono i rapporti che Prodi ha avuto col Cav. Ha sempre tifato Parigi e Berlino contro
Roma (e Londra). No a Bush, no ai soldati in Irak, no alla solidarietà con Israele, sul muro e le
rappresaglie antiterrore. Peggio, sul piano personale. Incontrando il Cav ai Consigli europei,
Romano si è tenuto distante, ha inalberato un viso da funerale e fatto smorfiette di disprezzo
ammiccando ai vicini. Fair play, zero. Il giorno inaugurale del semestre di presidenza italiana Ue, ci
fu nell'Aula di Strasburgo il battibecco tra il socialista tedesco Martin Schulz e Berlusconi. Il
teutone disse che Berlusconi doveva stare in galera e non lì. Il Cav reagì con un sobrio: «Kapò».
Prodi si imbarazzò per la reazione, non per ciò che l'aveva provocata. Nel successivo pranzo offerto
dall'Italia, Romano, cravatta scura e faccia a lutto, comparve appena e un quarto d'ora dopo era
sparito.
Sulla presidenza Ue di Romano non saprei che altro dire. A rigore, avrei anche finito questa
carrellata su Prodi. Ma qualcosa mi è rimasta nel gozzo. Consentitemi di ripescare due episodi del
lungo racconto che ho fatto. Mi hanno colpito mentre scrivevo, come se li avessi capiti per la prima
volta.
È incredibile, mi sembra, che dopo 28 anni Prodi non abbia ancora confessato da chi ha saputo di
Moro segregato a Gradoli, o Via Gradoli che sia. In un'aula di Tribunale, il teste che indica come
fonte di una notizia, un sogno, la Madonna pellegrina o una seduta spiritica, è arrestato all'istante
per reticenza. Lasciamo la galera, che non si augura a nessuno. Lasciamo che, se questo scheletro lo
avesse Berlusconi, apriti cielo. Lasciamo che il sospetto di tutti è che Prodi abbia saputo di Gradoli
tramite contigui delle Br, che ne conosca i nomi e che da 28 anni li taccia. Lasciamo che in Italia
l'omertà è di casa. Lasciamo tutto. Però, mi chiedo, se fossimo negli Usa, che possibilità di carriera
avrebbe avuto un simile politico? Nessuna. Al massimo, faceva il medium a vita.
Poi, c'è la faccenda della Sme. Una storia di fantastica impudenza. Pensate solo questo: quando nel
maggio del 1985, Prodi è pronto a cedere all'amico De Benedetti la quota Sme in mano all'Iri (65-70
per cento) per 497 miliardi di lire, sa, per sua ammissione, cha vale tre volte tanto.
L'ho già accennato altrove. Tre mesi prima, in febbraio, il ministro liberale dell'Industria, Renato
Altissimo, dice a Prodi che la multinazionale Hainz è interessata all'acquisto. Ne discutono a pranzo
nella foresteria dell'Iri. Lasciamo parlare Altissimo, la cui testimonianza è in un verbale del
Tribunale di Roma (ma lo aveva già raccontato ai giudici di Milano). «Prodi mi disse con una risata
che non esisteva lontanamente l'ipotesi di vendere la Sme, che era la cassaforte dell'Iri... (poi
aggiunse, ndr) «Hai idea di quanto si potrebbe vendere una cosa del genere? Stiamo parlando di
mille cinquecento miliardi, forse di più». Tre mesi dopo, non solo cede l'intoccabile «cassaforte»,
ma la offre a tre volte meno. Altissimo non è mai stato smentito. Con Prodi ho concluso.
Il libro di Ferdinando Imposimato riserva ancora altre sorprese sullo scandalo del super treno
I convegni di Necci e l'imbarazzo di Prodi
di Giampiero Carbone
“Corruzione ad Alta Velocità“
di Ferdinando Imposimato
Dopo il primo rapporto dello Sco, il reparto speciale della polizia che si occupa di indagini
societarie, ilIl17Pratico
ottobreMondo
1995 per
Imposimato riceve il secondo, integrazione del precedente dossier.
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Anche questo documento conferma la presenza di imprese poco pulite tra le assegnatarie dei lavori
per l'Alta Velocità nella linea Roma - Napoli.
"Tutto ciò è stato possibile poiché gli strumenti di controllo sulle grandi opere sono ampiamente
insufficienti", scrive l'ex magistrato, allora in veste di deputato alla Camera nelle file del Pds.
Ma intanto, nella Commissione parlamentare antimafia, presso la quale Imposimato è relatore sulla
criminalità in Campania, il parlamentare si trova sempre più isolato, tanto che anche i suoi
compagni di gruppo, quali Violante, Ayala e Bargone si dimostrano disinteressati al suo lavoro.
Nel settembre 1996, la presidente di quella Commissione, l'on. Tiziana Parenti di Forza Italia,
rilascerà un'intervista al giornale salernitano "La Città", nella quale accusa il Pds di aver coperto lo
scandalo isolando Imposimato.
Sempre nel settembre del 1995, Imposimato incontra l'amministratore delegato delle Fs, Lorenzo
Necci che afferma di condividere il lavoro fatto in Commissione e che riesce a convincere l'autore
del libro "Corruzione ad Alta Velocità" a partecipare ad un convegno dal titolo "Mezzogiorno di
ordinario sviluppo. Crescere con il Sud", partecipazione che lo stesso Imposimato definisce
"un'enorme ingenuità".
Nella seconda metà del 1996, la magistratura di La Spezia, indagando su ben altre faccende, in
apparenza per niente collegate con l'Alta Velocità, si imbatte in un personaggio piuttosto noto ai
cronisti di Mani Pulite, Pierfrancesco Pacini Battaglia.
è necessario ricordare che all'epoca di questa inchiesta, l'indagine parlamentare di Ferdinando
Imposimato è ormai finita negli archivi della Commissione antimafia.
Il 13 settembre 1996, il giudice per le indagini preliminari Maria Cristina Failla, su richiesta dei
magistrati Alberto Cardino e Silvio Franz, emette un'ordinanza di custodia cautelare nei confronti
del suddetto Pacini Battaglia, di Lorenzo Necci, amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato,
dell'imprenditore Emo Danesi ex parlamentare dc e iscritto alla loggia massonica P2 , e di Eliana
Pensieroso, segretaria di Pacini Battaglia.
avevano ottenuto due appalti dell'Eni, rispettivamente di due e tre miliardi e che nella banca
ginevrina di Pacini sarebbero state versate le tangenti dopo l'ottenimento dell'appalto.
In un'altra intercettazione, Pacini afferma: "Se vuoi un mio parere, oggi come oggi noi siamo usciti
da mani pulite...siamo quasi usciti...solo perché si è pagato".
Imposimato parla di "parole pesanti come macigni". Chi avrebbe preso i soldi?
I magistrati spezzini scrivono nella parte finale dell'ordinanza, riferendosi alle inchieste milanesi:
"la sola via giudiziaria non sia servita e non serva a debellare tale fenomeno (la corruzione ndr) che
sembra connaturato alla vita sociale del nostro paese... va sottolineato che la via giudiziaria, vista la
carenza di strutture, uomini e mezzi adeguati... appare resa più difficile da attività contrarie ai
doveri d'ufficio, quando non ci si trovi di fronte a vere e proprie partecipazioni associative di un
rilevante numero di appartenenti all'autorità giudiziaria".
Vengono arrestati il procuratore della Repubblica di Cassino, Orazio Savia e quello di Grosseto,
Roberto Napolitano, un tempo in servizio a Roma.
Un altro filone di indagine riguarda infatti la corruzione della magistratura romana, secondo l'accusa
pagata per chiudere un occhio sul ruolo di Pacini Battaglia, autentico collettore di tangenti,
invischiato anche nell'ulteriore filone di indagine, quello riguardante il traffico d'armi in cui è
coinvolta la fabbrica spezzina Oto Melara, il cui amministratore delegato, Francesco Guarguaglino,
finisce anch'esso in manette.
Se questo filone può sembrare "autonomo", quelli riguardanti gli affari sporchi di Pacini e Necci e la
corruzione dei magistrati sono legati indissolubilmente e hanno il loro nucleo negli affari dell'Alta
Velocità.
In sostanza, scrive Imposimato, in concomitanza con ogni appalto, i dirigenti delle Fs prendevano
contatti con Pacini Battaglia, il quale, con Emo Danesi, realizza un complicato sistema di conti
bancari esteri per gestire le tangenti raccolte dagli imprenditori che si interessano ai lavori dell'Alta
Velocità.
Velocità" del quale stiamo proponendo le parti salienti, si domanda come sia stato possibile che un
personaggio come Pierfrancesco Pacini Battaglia sia potuto passare sotto le forche caudine dei
magistrati milanesi Di Pietro e Colombo sin dal 1993 nell'inchiesta Enimont senza che costoro,
dopo averlo interrogato, non ne abbiano tratto nulla di interessante.
Tanto più che, nello stesso anno, il finanziere Sergio Cagnotti, ora presidente della Lazio Calcio e
all'epoca amministratore delegato di Enimont e amico di Raul Gardini, aveva confessato di aver
ricevuto cinque miliardi dalla Tpl (Tecnologie, Progetti, Lavori) società in apparenza creata per
assegnare consulenze in materia di progettazione ma in realtà una sorta di contenitore occulto di
mazzette che finivano nelle tasche di Necci, presidente delle Fs.
Questa mazzettona, secondo Cagnotti, sarà spartita tra costui, Gardin e Pacini.
Ma i magistrati di Milano, dice lmposimato, invece di confrontare le tesi di Pacini e di Cragnotti,
evitano di procedere.
Nel 1998, i magistrati di Brescia accuseranno Di Pietro di aver omesso di sviluppare le indagini in
questa faccenda. Secondo i pm bresciani, Di Pietro avrebbe favorito Pacini e Necci evitando di
indagare. Ma il gip bresciano Di Martino assolverà Di Pietro per "non aver commesso il fatto".
Il memoriale di Portaluri
A questo punto, lmposimato riporta alcuni brani del memoriale di Salvatore Portaluri, che nel 1991
viene chiamato alla presidenze della Tav spa, carica dalla quale di dimette il 9 settembre 1993.
Portaluri afferma che su 38 società consorziate per la realizzazione dell' Alta Velocità, 34 avevano
già avuto problemi con la giustizia.
Egli aveva inoltre chiesto che venissero annullati i contratti con la società ltalferr, poiché il
presidente di questa, Emilio Maraini era già stato arrestato due volte e non poteva perciò essere
presente nell'organo di controllo delle attività tecniche che spettava a ltalferr.
Andavano annullati, sempre secondo l'ex presidente della Tav spa, anche i contratti con tutti i
general contractor (Iri, Eni e Fiat), poiché, invece di indire gare internazionali come previsto dalla
normativa europea, era stata utilizzata una trattativa privata che aveva consentito la spartizione della
"torta", grazie ad una legge del 1987 , poi ripresa nel 1991.
La più grande bugia, osserva Portaluri, si ritrova nell'assetto societario della Tav, del quale si
sbandiera una maggioranza privata; in realtà, la maggioranza delle banche sono di diritto pubblico e
Necci, rappresentate delle Fs, aveva la maggioranza assoluta del capitale sociale.
Sulla bugia del capitale privato si costruirà la legittimità delle trattative private con i general
contractor. Solo dopo aver avuto la certezza di una copertura totale dei costi da parte dello Stato
(cioè la TavIlspa), i general contractor accettano di sottoscrivere gli accordi. Non c'è nessun rischio
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per gli imprenditori, visto che la Tav paga il 100% dei costi previsti.
Tutti i gruppi imprenditoriali coinvolti in Tangentopoli sono così accontentati e chi all'inizio è
rimasto fuori, cioè la Grassetto di Salvatore Ligresti e la Montedison-Ferruzzi, viene accontentato
con il consorzio Cociv per la tratta Genova - Milano.
Portaluri ricorda come nella finanziaria del 1992 verrà poi inserito un capitolo di spesa di 9 mila
miliardi di lire proprio per l'Alta Velocità e, infine, la riunione tra i ministri interessati di allora
(Barucci al Tesoro, Reviglio al Bilancio e Tesini ai Trasporti) avvenuta nsolitamente il 29 dicembre
1992, in piene vacanze natalizie, con gli imprenditori, per evitare che, con l'arrivo del nuovo anno,
entrasse definitivamente in vigore la normativa europea sulle gare internazionali per l'assegnazione
dei lavori.