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Credit: Jason Madara

Contemplare l’intangibile.
“AlloSphere”, è uno schermo a
forma di globo progettato per
facilitare visualizzazioni
tridimensionali interattive di dati. Si
trova al “California NanoSystems
Institute” della University of
California di Santa Barbara.
Consente a scienziati e ricercatori
di immergersi nei dati in modi
senza precedenti. All’interno della
sfera si possono maneggiare gli
atomi creando la struttura
cristallina di nuovi materiali per
celle solari oppure entrare dentro un cervello per ascoltarne l’attività.
Stando in piedi su un ponte sospeso davanti il centro della sfera si possono contemplare
grazie a speciali occhiali 3d visualizzazioni delle funzioni d’onda quantistiche dell’elettrone di
un atomo di idrogeno.
Per immergere completamente gli spettatori, “AlloSphere” proietta le visualizzazioni dei dati
all’interno di due emisferi con un raggio di cinque metri. «E’ come essere in un sottomarino
che si muove attraverso i dati», Joann Kuchera-Morin, direttore della struttura.
La sfera, fatta di alluminio perforato, si trova all’interno di una stanza foderata con materiale
insonorizzante in modo che i 16 altoparlanti trasmettano un suono perfettamente pulito. I sei
proiettori sotto il ponte coprono con immagini una parte della sfera mentre I 128 altoparlanti
creano le ambientazioni sonore che sembrano emanare da dentro la sfera.
Video: See the Allosphere in action.

Living Data The three-story-high Allosphere creates unique visualizations. Technology Review
agosto 2010

Google “Body Browser”,


un’applicazione basata su “WebGL”, permette di
esplorare il corpo umano così come è possibile
esplorare il mondo con “Google Earth”.

La nuova applicazione sperimentale dei Google

Labs unisce interattività, web e modellazione

tridimensionale. L’applicazione web è stata

sviluppata grazie ai dati di “Zygote Media Group”,

azienda specializzata nell’ideazione e

realizzazione di modelli anatomici computerizzati


del corpo umano. Come in “Google Earth” (o “Maps”) decidiamo noi quali informazioni visualizzare agendo sui

layers (strati), che in questo caso non sono altro che pelle, muscoli, ossa, organi, apparato circolatorio e sistema

nervoso.

Ad esempio, se vogliamo vedere solo l’apparato scheletrico, basterà nascondere tutti gli altri con i comandi a

sinistra del modello. Oppure, possiamo decidere di visualizzare solo gli organi interni assieme ai vasi sanguigni.

Inoltre, si può impostare a piacere la trasparenza di ogni strato rispetto all’altro, sempre utilizzando gli strumenti

sulla sinistra, con i quali si ruota anche la visuale in tutte le direzioni. Ci interessa una struttura anatomica in

particolare? Basta usare la casella di ricerca in altro a destra (la trasparenza dei layers sarà impostata

automaticamente). Inoltre, se nell’esplorazione ci imbattiamo in qualcosa a cui non sappiamo dare un nome,

basta un doppio click e un’etichetta ci dirà a cosa siamo di fronte.

Per provare “Google Body Browser” è necessario utilizzare un web browser che supporti “WebGL”, come ad
esempio “Chrome 9 Dev Channel”, “Chrome Canary Build” e “Firefox 4 beta”. Su “Chrome 8”, “WebGL” non è
abilitato di default, ma è sufficiente digitare “about:flags“ nella barra degli indirizzi, premere invio e cliccare su
“Abilita” in corrispondenza della voce “WebGL”. Una volta fatto ciò sarà necessario riavviare il browser e visitare
l’indirizzo bodybrowser.googlelabs.com per iniziare lo studio dell’anatomia umana

Esplorare il corpo umano con Google Body Browser motoricerca 16 dicembre 2010

Usando il “ Kinect ” di Microsoft,


studenti del “Massachusetts
Institute of Technology” (MIT)
hanno realizzato un'interfaccia
che funziona in modo simile a
quella del film “Minority Report”

Grazie ad una combinazione di


“ROS”, un sistema meta-operativo
open source per robot, e
“libfreenet”, una API che permette
di ricevere e trasmettere
messaggi attraverso una
connessione Freenet, e che
consente la lettura e la scrittura di
flussi di dati raw, “Kinect” riesce a
vedere la posizione delle dita e
dei palmi delle mani, permettendo
di controllare l'interfaccia
agilmente: si può scorrere una lista d'immagini, nonché prenderne una e ridimensionarla, spostarla, ruotarla,
cancellarla o trasferirla in un'area speciale dello schermo.

Di sicuro è uno degli hack di “Kinect” più interessanti, e sembra che permetta la distinzione di circa 60mila punti
della mano, a 30 frames al secondo.

Kinect e Minority Report, dal film alla realtà Tom’s Hardware 10 dicembre 2010

Grazie agli avanzamenti delle tecnologie di intelligenza artificiale e


computer modeling la “ ciberterapia ”, che utilizza ambienti
virtuali per aiutare le persone che hanno particolari fobie, come la
paura delle altezze o degli spazi pubblici, sta diventando sempre più
efficace. I ricercatori stanno popolando i mondi digitali di umani virtuali
autonomi che possono evocare le stesse tensioni degli incontri nel
mondo reale.

Le persone che soffrono di ansietà sociale rimangono ammutolite


quando uno straniero virtuale gli fa delle domande. I bevitori pesanti
sentono il forte bisogno di ordinare qualcosa da un barista virtuale,
mentre gli scommettitori si uniscono ad un gruppo per giocare alle slot machine virtuali.

In un recente studio, ricercatori della USC hanno mostrato come un confidente virtuale riesce ad ottenere dalle
persone il primo elemento cruciale in ogni terapia: l’auto-rivelazione. I ricercatori stanno incorporando le tecniche
imparate da questa ricerca in un agente virtuale sviluppato per l’Esercito chiamato “SimCoach”. Guidate da un
software di riconoscimento del linguaggio, numerose versioni di “SimCoach”, maschile e femminile, giovane e
vecchio, bianco e nero, appaiono sullo schermo del computer per condurre delle interviste rudimentali sondando
con discrezione eventuali problemi mentali.

In Cybertherapy, Avatars Assist With Healing New York Times 22novembre 2010

I partecipanti al mondo virtuale di “ Second Life” sembrano essere più


soddisfatti delle relazioni romantiche che instaurano virtualmente che non quelle
della vita reale, secondo due studi condotti da ricercatori della Loyola Marymount
University.

Da cui emerge anche che il livello di soddisfazione sessuale delle


relazioni virtuali in Second Life è del tutto uguale a quello dei
rapporti sessuali nel mondo reale. Il campione preso in esame ha
giudicato addirittura migliori di quelle reali le relazioni nella categoria
“maritale”. Metà del campione dice di riuscire a comunicare meglio
con il proprio partner virtuale che non con quello reale. Un terzo del campione dice di aver
stabilito una “forte connessione” con il proprio partner virtuale. Il 70% dice che la relazione
intrapresa su “Second Life” assomiglia ad una relazione reale a distanza, mentre solo il 19%
ha incontrato il proprio partner virtuale nella vita reale. Riguardo il livello di soddisfazione
sessuale, il 43% dice di essere maggiormente soddisfatto dalla sessualità praticata su
“Second Life”.
I professori Richard Gilbert e Nora Murphy hanno sondato due gruppi di utenti di “Second
Life”, uno da 199 l’altro da 217, mediante due studi. La ricerca è stata condotta come parte
del progetto PROSE (“Psychological Research on Synthetic Environments”). Tutti gli utenti
avevano avuto una relazione romantica in “Second Life” di cui il 71% aveva
contemporaneamente anche una relazione nel mondo reale con un altro partner. I membri del
gruppo riguardante la sessualità avevano tutti avuto una esperienza sessuale su “Second
Life”. In generale è emerso che le relazioni di coppia su “Second Life” durano molto meno di
quelle della vita reale.

Second Life Relationships More Satisfying Than Real Ones VirtualWorldNews 12


agosto 2010

È dagli anni Novanta (anche un po’ prima, a dire il


vero…) che in Internet è stato introdotto il concetto
di avatar, nel senso di rappresentazione o alter-ego
dell’utente nel mondo virtuale. La forma più evoluta
di avatar è intesa come una rappresentazione bi o
tridimensionale in grado di muoversi e parlare
come un essere umano. Negli ultimi decenni l’uso
degli avatar animati è sempre più comune (nelle
chat, nei videogame, nei mondi virtuali – come
“Second Life” – nei servizi di istant messaging – esistono dei plugin anche per “Skype”…) ma
la popolarità di questi alter-ego animati non è ancora decollata veramente. Uno degli ostacoli
è la mancanza (o la rozzezza) di linguaggio corporeo, gestualità, postura, espressioni facciali,
che nell’essere umano accompagnano sempre l’eloquio, cosa che li rende piuttosto innaturali
e quindi spiacevoli da usare.

Due ricercatori della Stanford University hanno messo a punto un software che in maniera
molto semplice associa parole e linguaggio del corpo, basandosi sulla prosodia (intesa come
la combinazione del ritmo vocale, intonazione e accenti), e non sul significato delle parole.
Sergey Levine e Vladen Koltun hanno usato uno studio di motion-capture (una tecnica di
animazione cinematografica) per digitalizzare i movimenti di un attore mentre parlava. Il
database di immagini è stato poi utilizzato per insegnare al software ad associare certe
caratteristiche dell’eloquio dell’attore con lo stile dei suoi gesti (dimensione, velocità…)

Il sofware dunque non impara ad associare i singoli gesti ma lo stile gestuale a certi aspetti
della prosodia, e può usare diverse “librerie” per diverse situazioni – per esempio quando una
persona sta seduta, oppure quando ha degli oggetti in mano – o addirittura per personaggi
non umani (una piovra per esempio – in questo caso all’attore viene chiesto di travestirsi e
comportarsi come una piovra -). Il software secondo gli autori renderà la comunicazione via
avatar più efficace (meno passibile di errori interpretativi) e potrebbe essere utilizzata per
esempio nelle teleconferenze.

Un altro avatar oggiscienza 14 settembre 2010


L’era dell’ “Empathy Game”
e della “performance
capture” è ormai matura.
L’annuncio si trova sul sito
“Motives in Movement”, un
servizio specializzato nel
fornire soluzioni
prefabbricate per
videogiochi di ultima
generazione, a cui attori veri
prestano la voce e le
movenze che vengono poi
digitalizzate.
Per i non addetti ai lavori, gli
“empathy game” sono quelli che prevedono un forte coinvolgimento emotivo da parte del
giocatore e in cui la resa dei sentimenti e delle espressioni facciali dei protagonisti (ottenuta
con la “perfomance capture”, un’evoluzione della “motion capture”) è particolarmente
accurata. Uno dei casi più eclatanti degli ultimi anni di questo tipo di videogame è stato il
gioco “Heavy Rain” che ha suscitato perfino aspre polemiche per il livello di stress emotivo
raggiunto dai giocatori.
L’idea di Pascal Langdale, il fondatore di “Motives in Movement”, è quella di creare delle
librerie personalizzate di espressioni facciali per ciascun attore, che possano poi essere
“animate”. L’importanza delle recitazione e dell’interpretazione personale di ciascuno
rimarrebbe comunque invariata, ma si potrebbe velocizzare e rendere più economico il
processo creativo. Già ora alcuni tipi di azioni, come quelli delle scene di lotta, possono
essere codificati, memorizzati e riproposti in altre pellicole o videogiochi. Accade così per
esempio per i combattimenti a base di arti marziali di alcuni videogiochi, ma ci sono librerie di
motion capture per ogni genere di comportamento, dallo sport al lavoro di ufficio. Per quanto
riguarda il cinema, “Avatar”, “I Pirati dei Carabi”, “Alice nel Paese delle Meraviglie”, “A
Christmas Carol” sono tutti esempi di film che hanno utilizzato motion capture e perfomance
capture per animare i loro personaggi.
La questione è se, col progredire delle tecniche di digitalizzazione, movimenti ed espressioni
virtuali possano sostituire del tutto gli attori in carne ed ossa anche nei film. Per il momento,
tutto sembra restare ancora al livello di utopia. Alla “Dreamworks”, uno degli studios campioni
indiscussi del cinema di animazione, continuano a lavorare con il sistema a fotogramma
chiave, combinando disegni fatti a mano con l’animazione in computer grafica. Come ha
spiegato alla BBC il Chief Technology Officer Ed Leonard, «i risultati della motion capture,
semplicemente, non sono abbastanza buoni». Se però alla “Dreamworks” possono
permettersi di mettere al lavoro su un soggetto un team di 35-40 artisti, lo stesso non si può
dire di produttori di minori dimensioni, per cui il ricorso alla Librerie di Comportamenti
potrebbe un domani, con ulteriori progressi di questo tipo di tecnologia, essere una soluzione
percorribile.
Il futuro degli attori nell'era della computer grafica La Stampa 25 agosto 2010
Can technology replace human actors? BBC News 23 agosto 2010
Motives in Movement
Heavy Rain - Wikipedia

Secondo uno studio pubblicato da “SAGE” apparso su “Social Psychological and Personality
Science” giocare con videogiochi violenti può aumentare l’aggressività per almeno 24 ore. Lo
studio, condotto da Brad Bushman della Ohio State
University e da Bryan Gibson della Central Michigan
University, mostra che almeno per i maschi ripensare al
gioco può aumentare la tendenza ad aumentare
l’aggressività anche parecchio tempo dopo che si è
smesso di giocare.

I ricercatori hanno assegnato in modo casuale a studenti


di college sei differenti videogiochi per 20 minuti , metà
dei quali a contenuto violento (tipo “Mortal Kombat”) e l’altra metà no (tipo “Guitar Hero”). A
metà dei partecipanti è stato detto di ripensare al gioco nelle successive 24 ore cercando di
trovare dei modi per migliorare l’abilità di gioco alla prossima sessione. Il giorno successivo
Bushman e Gibson hanno testato l’aggressività dei giocatori riscontrando maggiore
aggressività nei maschi che avevano ripensato al gioco violento.

Si tratta del primo esperimento di laboratorio per cercare di dimostrare che I videogiochi
violenti possono stimolare l’aggressività per un periodo di tempo più esteso. Gli autori hanno
dichiarato che “è ragionevole ritenere che i risultati ottenuti in laboratorio possano essere
generalizzati anche al mondo reale”.

Story Source: SAGE Publications, via EurekAlert!, a service of AAAS.

Journal Reference: B. J. Bushman, B. Gibson. Violent Video Games Cause an Increase in


Aggression Long After the Game Has Been Turned Off. Social Psychological and
Personality Science, 2010; DOI: 10.1177/1948550610379506

Violent Video Games Increase Aggression Long After the Game Is Turned Off, Study
Finds ScienceDaily 20 settembre 2010

Il Ministro della Difesa del Regno Unito


ha chiesto il blocco delle vendite del
gioco “Medal of Honor” perché prevede la
possibilità di vestire i panni di soldati Talebani, in
multiplayer, contro truppe britanniche. «È scioccante
che qualcuno pensi che sia accettabile ricreare le
azioni dei Talebani», ha dichiarato il Ministro Liam Fox,
«per colpa dei Talebani, bambini hanno perso padri e mogli hanno perso mariti. Sono
disgustato e arrabbiato». Secondo l'editore “Electronic Arts”, il formato di “Medal of Honor”
riflette semplicemente la realtà: in ogni conflitto vi sono due fazioni avverse. «Diamo
l'opportunità di giocare sui due fronti. La maggior parte di noi l'ha fatto da quando aveva sette
anni: qualcuno impersonava le guardie, gli altri i ladri», ha spiegato il portavoce della EA. In
ogni caso, secondo gli sviluppatori, nell'ambientazione Afghanistan non sarebbero presenti
truppe britanniche bensì della Nato. «Fox si è espresso a titolo personale, anche se è
comprensibile che alcuni possano ritenere offensivo il contenuto del gioco», sostiene il
“Department of Culture Media and Sport” (DCMS).
Nonostante le aspre polemiche, EA non intende modificare il gioco. «Rispettiamo la visione
dei media, ma allo stesso tempo quanto dichiarato non intacca la nostra creatività e quello
che vogliamo fare», ha detto il presidente di EA Games, Frank Gibeau. «I team di sviluppo
fanno molta attenzione a quanto realizzano e certamente le critiche dai media lasciano
l'amaro in bocca, ma alla fine siamo orgogliosi di quanto stiamo facendo. Riportare Medal of
Honor indietro non è un piccolo passo». Secondo Gibeau, la decisione di ambientare il gioco
nell'Afghanistan dei giorni nostri è stata una scelta artistica. «In EA crediamo che i giochi
siano una forma d'arte e non sappiamo perché alcuni film e libri ambientati in Afghanistan
non siano criticati aspramente al contrario dei videogiochi. Una volta i film erano la
piattaforma adatta per raccontare alle persone delle storie. Oggi i giochi sono diventati quella
piattaforma». «I giochi sono stati ambientati in Afghanistan anche in passato. Lo abbiamo
anticipato quando abbiamo pensato al progetto - in cui farete parte di una forza speciale. Per
noi è importante aver collaborato con le forze militari statunitensi e anche con la fondazione
formata da chi ha ricevuto la Medaglia al Valore. Siamo usciti dai nostri binari per produrre la
storia migliore per un videogioco».
“Medal of Honor” non è certo il primo gioco su cui l'opinione pubblica punta il dito. Sempre
rimanendo in tema guerrafondaio pensiamo a “Six Days in Fallujah” di “Atomic Games”, gioco
sommerso dalle critiche per l'ambientazione irachena e scaricato da Konami. Il gioco è stato
comunque completato, ma al momento non ha un editore. “Atomic Games” ha perso l'80%
del team di sviluppo e se le cose non cambieranno, “Six Days in Fallujah” potrebbe non
vedere mai la luce.
In Medal of Honor puoi fare il Talebano, è scandalo tom’s hardware 24 agosto 2010
Medal of Honor, EA non arretra: il gioco non si cambia Tom’s Hardware 26 agosto 2010

I Fratelli Musulmani, gruppo di opposizione egiziano, lanceranno il


loro primo sito di socializzazione, sulla falsariga di “Facebook”.
Lo ha confermato una fonte dello stesso gruppo islamico che ha spiegato di voler in questo
modo promuovere 'un islam moderato' e far conoscere aspirazioni, idee e obiettivo della
confraternita. Una prima versione di “Ikhwanbook” (in arabo “ikhwan” vuole dire fratelli) ha già
attirato circa 5000 “amici” e sarà lanciato nella rete fra un mese.

Egitto:musulmani lanciano loro Facebook Ansa 25 agosto 2010

Giocava su “Facebook” al popolare gioco


“Farmville” ma il figlio di tre mesi, Dylan Lee Edmondson,
l’ha interrotta con il suo pianto. A Jacksonville, in Florida, la
ventiduenne Alexandra V. Tobias, condannata per “omicidio
di secondo grado” (che corrisponde ad un omicidio non
premeditato secondo la giurisdizione americana), ha riferito
agli investigatori che è diventata furiosa dopodiché ha preso
il bambino e lo ha agitato con violenza, poi ha fumato una
sigaretta per “ricomporsi”, quindi lo ha agitato di nuovo facendogli probabilmente urtare la
testa, uccidendolo.

L’agghiacciante notizia, riportata da “The Florida Times Union”, viene ripresa e commentata
da “AllFacebook”: “pur essendo questa la prima volta che veniamo a conoscenza di un
evento di questa misura, si sente e si legge troppo spesso di persone che sviluppano una
vera e propria dipendenza da FarmVille, arrivando a perdere il proprio lavoro ed a riempirsi di
debiti”.

La dipendenza creata dai videogiochi è ormai considerata una vera e


propria patologia, affrontata addirittura in alcuni centri specializzati in problemi di
disintossicazione (un esempio è Smith & Jones in Olanda). Le vittime sembrano essere
prevalentemente individui tra i 13 ed i 30 anni che rifiutano una vita sociale e si rifugiano
nell’uso continuato di videogiochi anche semplici e ripetitivi, visti come via di evasione a
disagi di altra natura. Sarebbero dunque soggetti già deboli e già predisposti ad altri tipi di
dipendenza quelli ad essere a rischio.

Ancora una volta viene da chiedersi quanto i social network stimolino la socialità e quanto
invece la inibiscano, a dispetto stesso del loro nome.

Madre uccide il figlio: l'aveva interrotta mentre giocava a Farmville download blog 29
ottobre 2010

Un giovane senza “Facebook”, “Twitter”, l'email, il cellulare e Internet è come un fumatore che sta
cercando di smettere di fumare o qualcuno che ha appena iniziato una dieta. Gli effetti sono ansia,
preoccupazione, senso di isolamento e irrequietezza, ovvero i sintomi dell'astinenza. Una condizione che
oggi ha un nome: “Information Deprivation Disorder”.

A coniare il nome della nuova condizione un gruppo di ricercatori dell'università del Maryland che ha
condotto una sperimentazione in 12 università di tutto il mondo chiedendo ad un gruppo di giovani volontari
di restare per 24 ore senza i dispositivi elettronici, e quindi tagliati fuori dalla Rete. Ai volontari era
consentito di usare solo il telefono fisso, in determinate fasce orarie e leggere libri (di carta). Dai diari che
gli studiosi hanno chiesto ai ragazzi di tenere sono emersi sentimenti di ansia e preoccupazione e a
causare il peggior stato di insofferenza è stata la mancanza della musica.

«Molti di loro hanno detto di trovare il silenzio piuttosto scomodo e imbarazzante - ha affermato Roman
Gerodimos, coordinatore della ricerca - ma alcuni di loro si sono adattati e si sono abituati cominciando a
notare i suoni intorno, come il canto degli uccelli o i rumori dei vicini di casa ». In ognuno dei resoconti,
secondo gli studiosi, è tornata, ricorrente, la parola "dipendenza" e molti ragazzi hanno dichiarato
che i loro erano veri e propri sintomi di astinenza.
Generazione Facebook, senza rete in
astinenza
Ansa 04 gennaio 2011

ANTI-SOCIAL NETWORK
“Liberate (e liberatevi) con un suicidio di tutti gli amici falsi che il Web
partecipativo vi ha portato, di tutto lo spreco di tempo ed energie che
vi causano i profili creati sui social network, e tornate a incontrare i
vostri cari nel mondo vero, e non in quello virtuale”.
“Web 2.0 Suicide Machine”,
“LeechBlock”, “Freedom”,
“Isolator”, “WriteRoom”,
“Menu Eclipse”, “Ulysses”,
“Scrivner” e “Think and Turn
off the Lights” e altri ancora.
Benvenuti nell'era dell' “anti-
social networking”, quando
aziende e i singoli webnauti
scelgono di autoescludersi -
grazie a questi software -
dalla navigazione da siti
come “Facebook”,
“FourSquare”, “Twitter”,
“Ning”, “LinkedIn”,
“MySpace”, “YouTube” e similari. Siti questi sui quali oramai ogni giorno convergono miliardi
di persone da tutte le latitudini del globo per scambiarsi informazioni, per tenersi al corrente
degli eventi che influenzano la vita delle persone amate e, secondo alcuni ricercatori, anche
per perdere tempo.

Secondo un rapporto del Nielsen Rating, specializzata nella misurazione dell'audience di tv,
radio e giornali, su quattro minuti e mezzo trascorsi sul web gli utenti almeno uno lo
trascorrono sui siti del social networking facendo praticamente niente. Un'abitudine che
secondo molti analisti sta compromettendo la produttività dell'economia americana e la
creatività dei suoi ricercatori, dei suoi studenti e dei suoi scrittori.

«Il
semplice fatto di stare online limita la capacità di concentrazione di
un individuo», afferma Fred Stutzman, PhD in Information Science alla University of North
Carolina at Chapell Hill e creatore oltre che di “Freedom” (il vostro accesso a Internet viene
bloccato completamente, per collegarvi al web dovrete anche in questo caso spegnere e
riaccendere il computer) anche di “Anti-Social”. Forse il più efficace dei software anti
“Facebook” e affini, “Anti-Social” arriva ad escludere fino a 150 siti del social networking con
un semplice colpo di tasto. Il software è stato infatti precaricato con gli indirizzi dei siti da
bloccare. «Uno si sente come se potesse immergersi nella folla in ogni momento», continua
Stutzaman, «usando Anti-social può riuscire a scrivere anche composizioni di 3000 parole in
meno d'una giornata di lavoro».

”LeechBlock”, il blocca sanguisughe, è un software che permette di bloccare selettivamente i


siti del social networking dai quali non si vuole essere disturbati. E questo non solo in entrata
ma anche in uscita dal computer. Una volta installato il software e scelto, diciamo, di bloccare
“Facebook”, non lo si può accedere nemmeno se lo si vuole, a meno che ovviamente non si
riavvia il computer.

”Isolator” invece copre semplicemente tutte le icone che hanno a che fare con il social
networking. Così anche a volerlo prima di collegarsi a “Twitter” bisogna ricaricare
l'applicazione. “Darkroom” e “WriteRoom” invece trasformano un PC e un Mac in una
tavoletta per scrivere e basta. Nel caso di “Darkroom” la pagina viene oscurata così da
escludere tutte le distrazioni in arrivo dal desktop. In questa maniera l'autore si concentra
esclusivamente sulla sua scrittura. Verde fosforescente su sfondo nero, questa salta dalla
pagina agli occhi dello scrivente.

«È una nuova tossicodipendenza». Gli scienziati la chiamano “Continuous


Partial Attention", il termine è stato inventato da Linda Stone, una ex dirigente della
Microsoft e della Apple che studia le deficienze cognitive causate dall'uso intenso dei
computer. «Freedom e Anti-social sono il primo passo sulla via dell'affrontare questa nuova
tossicodipendenza», afferma la Stone, «ma la soluzione alla dipendenza dai social
networking va cercata in scelte che mutano le nostre abitudini sul web». La Stone di recente
ha scoperto la e-mail apnea, molti webnauti trattengo letteralmente il fiato mentre leggono le
loro poste elettroniche, e si accompagna alla dipendenza da social networking.

Secondo una ricerca di “AOL” e “Salary.com” (uno dei maggiori portali web degli USA e la
maggiore agenzia temp online statunitense), il lavoratore medio americano trascorre due ore
e 10 minuti della sua giornata lavorativa chiacchierando sui siti del social networking con
familiari, amici e colleghi. E queste ore non includono le pause per il pranzo, per il caffè e per
andare in bagno. «Una volta pressati, tutti gli intervistati hanno dichiarato che non avevano
abbastanza da fare», hanno scritto alla fine i ricercatori nel loro rapporto. Nella media sono
anche comprese professioni come il carpentiere e il sommozzatore, lavoratori che un
computer a portata di mano non ce l'hanno così spesso.

Il costo di queste abitudini secondo “24/7”, un blog al quale collaborano anche giornali come il
“Wall Street Journal”, supererebbe l'astronomica cifra di 800 miliardi di dollari l'anno. Non
sorprende quindi che, come riporta il blog, il 54% delle aziende americane abbiano deciso di
bloccare l'accesso ai siti del social networking. E adesso non sono solo le aziende a bloccarli,
anche svariati dipartimenti di istituzioni accademiche di grande prestigio come Yale, Harvard
e Stanford hanno cominciato a stabilire social networking free-zone, aree nelle quali se non
esplicitamente proibito, l'uso dei social network è attivamente scoraggiato.

Antisociali, un software per voi chiude la porta a Facebook & C. Repubblica 25


dicembre 2010
Web 2.0 Suicide Machine

Continuous Partial Attention - Wikipedia

«C'è da dubitare che uno scrittore con una


connessione internet al suo posto di lavoro stia
scrivendo un buon libro». Quando poche settimane fa il
quotidiano “The Guardian” chiese ad alcuni scrittori di fama
internazionale di compilare un decalogo con i loro consigli di scrittura, il
romanziere americano Jonathan Franzen inserì nel suo decalogo questa
norma a difesa della concentrazione.

Qualunque scrittore sa quanto sia strategica la battaglia per la


concentrazione e in questa battaglia, semplicemente, la rete sta dalla
parte del nemico. La rete è informazione, certo, possibilità di eseguire in
breve tempo ricerche, di recuperare dati o anche solo di consultare un dizionario online. Ma la
rete è soprattutto distrazione. Finestre di chat che sbocciano sullo schermo come fiori di una
pianta carnivora, raffiche di email che interrompono il lavoro. Un problema che non solo gli
scrittori conoscono bene.

Gli allarmi sugli effetti negativi della rete sulle capacità cognitive, oltre che su quelle di
relazione sociale, si moltiplicano da tempo. Secondo tali allarmi, la gente non sa più
concentrarsi su testi lunghi, schiva i paragrafi troppo compatti, assimila in modo superficiale e
frammentato. Lavora saltando da un programma all'altro senza essere davvero presente in
nulla. I giornali pubblicano ricerche e articoli sull'argomento che i lettori, il più delle volte,
sbirciano distrattamente dopo averli trovati sulla bacheca Facebook di un amico.
È stata la manager-scrittrice Linda Stone, dopo aver lavorato per anni ai piani alti di Apple e
quindi di Microsoft, a coniare l'espressione “Continuous Partial Attention”. La CPA
corrisponde a quel febbrile stato mentale con cui l'utente passa da un'opportunità all'altra
della rete, da una notizia all'altra, da un messaggio all'altro, dedicando a ciascuno
un'attenzione momentanea e mai completa, ipnotizzato da un senso di costante ricerca e di
crisi senza soddisfazione. Il flusso infinito di informazioni non serve più ad aumentare la
nostra consapevolezza ma solo alla nostra necessità di sentirci connessi, non isolati dal
network.

La nozione di CPA viene spesso associata a quella di “multitasking”, la tendenza a svolgere


più mansioni in contemporanea. Per molte persone è esperienza quotidiana: parlare al
telefono mentre si chatta con un amico mentre si scorrono le email di lavoro mentre in
sottofondo va una playlist di Youtube. Nel gioco a incastri della vita davanti al terminale, le
combinazioni sembrano senza fine. È proprio sul multitasking che neurologi e psicologi
cognitivi puntano per determinare se l'era digitale stia cambiando o meno i nostri cervelli. In
un intervento apparso sulla rivista online “Edge”, lo psicologo Steven Pinker si è detto
scettico: «I cosiddetti multitasker sono come Woody Allen quando dice che dopo un corso di
lettura veloce ha divorato Guerra e pace in una sera e ha capito che "parla di certi russi"».
Sempre su “Edge”, il filosofo-guru della finanza e della statistica Nassim Taleb ha fatto una
confessione. Ha annunciato di essersi messo a dieta di internet: «Ho ridotto l'uso della rete
per capire meglio il mondo. Quando passo un po' di tempo in silenzio nella mia biblioteca,
lontano dall'inquinamento dell'informazione, mi sento in armonia con i miei geni e sento che
sto crescendo di nuovo».

Se per «capire meglio il mondo» qualcuno ha bisogno di abbandonare il medium che più di
tutti, oggi, pretende di farcelo conoscere, è chiaro che la situazione si è fatta paradossale. La
progressiva morte dell'attenzione risulta cruciale per capire alcuni fenomeni culturali. Ad
esempio l'estinzione della poesia. Con la sua brevità e la sua immediatezza, ci si sarebbe
potuti aspettare un revival della poesia nell'era della rete. Invece, come ha sottolineato il
poeta statunitense Donald Revell, la poesia non ha tanto a che vedere con la lunghezza
quanto con l'attenzione, e «l'attenzione è un fatto di totalità, di essere pienamente presenti».
Il riferimento a Revell è contenuto in un libro di fresca uscita in Italia: “La tirannia dell'email“
di John Freeman (Codice Edizioni, traduzione di Giovanna Olivero). Freeman è cresciuto in
California dove per dieci anni ha consegnato giornali a domicilio. Quindi ha iniziato a scrivere
per quegli stessi giornali. Oggi, nemmeno quarantenne, è direttore editoriale di una delle più
prestigiose riviste letterarie al mondo, l'inglese “Granta”. Ciò che distingue la sua analisi di
grandezze e miserie della vita digitale, dunque, è un approccio letterario-umanistico che gli
permette di creare immagini e accostamenti efficaci.

L'analisi di Freeman si concentra in particolare sull'uso, e inevitabile abuso, del nostro


strumento comunicativo per eccellenza: l'email. «I corridoi delle aziende sono silenziosi,
neanche fosse la mattina del giorno di Natale. In certi posti di lavoro tutto ciò che si sente è il
ronzio di fondo dell'aria condizionata, il cigolio delle sedie girevoli, i clic dei mouse e il flebile
ticchettio dei tasti. Ma se ci si affaccia nei cubicoli o dalle porte socchiuse si vedranno figure
tese, ingobbite sui computer, affannate a star dietro alle continue email. Se proviamo a
interromperle ci troveremo davanti espressioni vacue, occhi vitrei e affaticati. La loro tastiera
è diventata un nastro trasportatore di messaggi, e le pause non sono previste».
Se il quadro dipinto da Freeman appare esagerato, si dovrà riflettere sui dati. Secondo le
statistiche citate nel libro, l'impiegato medio americano spende oltre il 40% della giornata
lavorativa leggendo e inviando posta elettronica. Nel mondo vengono spedite all'incirca
seicento milioni di email ogni dieci minuti. Il sovraccarico di informazioni costa all'economia
globale centinaia di miliardi ogni anno. Una bulimia informativo-comunicativa di fronte alla
quale, tutto sommato, la dieta di Taleb non appare così insensata. La dipendenza dall'email,
un disturbo ampiamente studiato che porta il soggettto a controllare la posta con modalità
ossessivo-compulsive, ogni pochi minuti e a qualunque ora del giorno e della notte, viene
paragonata da Freeman alla dipendenza da gioco: si clicca su invia/ricevi con la stessa
aspettativa con cui si tira la leva di una slot machine. Si spera nella ricompensa dell'arrivo di
un nuovo messaggio, di una prova della nostra importanza per il mondo. È solo una delle
perversioni descritte nella “Tirannia dell'email”.

La banda larga e la diffusione dei dispositivi mobili come il blackberry ci hanno portato in
dono gli ambigui frutti della connessione totale, della reperibilità senza sosta, della
simultaneità delle risposte. La gente si stupisce e diventa aggressiva, o peggio paranoica, se
non rispondi ai loro messaggi entro un paio d'ore. Siamo qui, siamo ora, ci siamo sempre. Ma
siamo davvero presenti a noi stessi? Gli ambigui vantaggi della connessione totale assumono
l'aspetto di un vero ricatto se inseriti nella cornice del tardocapitalismo, con lavoratori sempre
più precari e disponibili, quindi, a lasciare che il lavoro li segua a casa, a letto, in vacanza. Il
lavoro ha smesso da un pezzo di accontentarsi del nostro corpo e della nostra mente: oggi
chiede la totalità della nostra energia. Ovvero la nostra anima. Ciò che ci dà in cambio è
l'illusione di essere ancora al centro di qualcosa, di essere lo snodo di una rete, punto di
passaggio di messaggi, notizie, decisioni, impulsi operativi, o anche solo futili chiacchiere. La
vera droga del XXI secolo è tutta in questo necessario, adrenalinico senso di connessione, in
questa ultima abissale illusione di esserci.

A questo proposito, Freeman riporta che gli americani dormono in media un'ora in meno di
vent'anni fa. Facile immaginare che gli europei seguano l'esempio. L'autore continua
riportando i drammatici casi di alcuni blogger morti di superlavoro; quindi, con improvviso
scarto ironico, racconta della superstar Madonna che, un paio di anni fa, confessò che lei e il
marito dormivano con il blackberry sotto il cuscino. «Nell'estate del 2008, cominciarono a
trapelare notizie sull'imminente divorzio della coppia». Tutt'altro che luddista, Freeman non
intende contestare il progresso rappresentato dalla rete. Piuttosto, si interroga sulla velocità
dilaniante a cui ci siamo adeguati e che annulla di fatto ogni vantaggio. Il riferimento, qui, non
può che essere al filosofo Paul Virilio e alla sua classica, citatissima affermazione: «Troppa
velocità è come troppa luce: non vediamo nulla». Con felice istinto pop, Freeman accosta la
citazione di Virilio a una del pilota Michael Schumacher: «Per le cose perfette, la velocità è
una forza unificante; per le cose imperfette, è una forza distruttiva».
Se la velocità è il problema, la soluzione potrebbe essere facile da individuare.

La “Tirannia dell'email” si conclude con un invito a rallentare: una sorta di manifesto slow
communication composto di poche pacate regolette tra cui quella di inviare meno posta,
limitarsi a due sessioni di email al giorno, riservare porzioni della giornata senza computer.
Un esempio di squisito buonsenso anglosassone. Ma forse, anche, una conclusione troppo
conciliante che tradisce la radicalità di alcuni spunti inseriti nel corso del libro. Il decalogo di
Freeman si basa sull'assunto che la rete sia un'appendice della realtà fisica dei corpi e dei
sentimenti, e quindi vada semplicemente dosata in modo da rispettare le nostre esigenze
naturali. C'è da chiedersi se un simile assunto non sia fuori tempo massimo. Non sarà la
nostra realtà reale, invece, a venire già vissuta come una misera appendice della rete?

In fuga dalla Rete Marco Mancassola Il Manifesto 21/06/2010

Superficiali, iperattivi, deconcentrati, smemorati:


Internet ci ha preso nella rete, modificando il nostro
modo di funzionare del cervello. E' la tesi dell'ultimo libro di
Nicholas Carr, “The Shallows: How the Internet is Changing the Way
We Think, Read and Remember”, che racconta come il Web sta
cambiando il modo di pensare, leggere, ricordare, rendendoci
superficiali. 'Il modo in cui internet ci fornisce informazioni - dichiara
l'autore - cattura il lato piu' primitivo del nostro cervello'.

[…] Qualche anno fa mi sono reso conto che avevo problemi a


concentrarmi per leggere un articolo o un libro: la mia mente si comportava come se fossi
collegato online, per navigare in cerca di bits di informazione invece che mettere a fuoco una
cosa per volta.

Le tecnologie di comunicazione digitali sono molto avvincenti e ci forniscono molti benefici. Il


modo in cui il web fornisce informazione, in piccoli e simultanei pezzetti può sembrare molto
primitivo alle nostre menti. Nella nostra storia evolutiva, solo dopo l’invenzione della stampa
abbiamo imparato a focalizzare maggiormente la nostra attenzione. Internet ci porta indietro
verso un modo più distratto, frammentario, scansionato di pensiero, lontano dal pensiero
attento e contemplativo.

Avere accesso a tante informazioni sviluppando l’abilità di gestire tante cose


simultaneamente e collaborare velocemente con tante persone non è il modo ideale di usare
la mente. Prestare attenzione porta a modi profondi di pensiero. E’ il modo con cui
trasferiamo la memoria funzionante in memoria a lungo termine; è ciò che attiva molti
processi mentali che originano il pensiero concettuale il pensiero critico e la creatività.
L’abilità di filtrare le distrazioni e le interruzioni e ingaggiare pensieri solitari contemplativi è
essenziale per ottenere il pieno potenziale delle nostre menti.

Attraverso la storia, le tecnologie come le mappe, gli orologi, l’alfabeto hanno formato il modo
in cui pensiamo. Recenti scoperte sulla neuroplasticità hanno mostrato come le tecnologie
letteralmente danno forma al modo in cui pensiamo. L’ambiente basato sul web stressa il
cervello rafforzando la circuitazione cellulare che supporta i processi del “browsing” e del
“multitasking”. Allo stesso tempo, indebolisce I modi del pensiero contemplativo. Uno studio
della University of California di Los Angeles ha mostrato cambiamenti piuttosto estesi nei
patterns di attivazione del cervello dal moderato uso di motori di ricerca.

Soffriamo sempre più di “sovraccarico cognitivo” il ché non significa che ci distraiamo di più
ma che non riusciamo più nemmeno a ricordare a cosa stavamo prestando attenzione. Forse
sarà un nuovo modo di pensiero che diverrà dominante e ci farà perdere la capacità di
sviluppare il modo critico del pensiero. […].

Il web riprogramma il nostro cervello Ansa 01 settembre 2010

Surfing our way to stupid New Scientist 01 settembre 2010

THE ADDICTION

INFORMATION OVERLOAD

THE ADDICTION 2

LA MORTE IN DIRETTA

Ha acceso la webcam, ha ingerito oppiacei e benzodiazepina, si è


disteso sul letto e ha smesso di respirare in diretta sul web. Ore dopo la polizia
ha fatto irruzione nella stanza, ne ha constatato la morte: le immagini scorrevano ancora sugli schermi
degli utenti collegati al suo canale.

Abraham K. Biggs, 19 anni, cittadino della Florida, affetto da disturbo bipolare, aveva annunciato da
tempo la propria morte: aveva dato voce alle proprie inquietudini in rete, aveva annunciato su un
forum dedicato al body building la combinazione di farmaci che avrebbe assunto, aveva spiegato le
proprie intenzioni e la propria angoscia. Aveva postato un link al suo canale di diretta streaming su
“Justin.tv”. In diretta streaming si è suicidato.
Sui media rimbalzano i numeri degli spettatori: a parere di alcuni sarebbero stati 1500 coloro che
hanno seguito morbosamente quel che avveniva in casa del 19enne, a parere di altri si sarebbe
trattato di quasi 200 utenti. Utenti che, probabilmente increduli, incapaci di decifrare le motivazioni per
le quali un giovane avrebbe dovuto togliersi la vita di fronte a un pubblico, provocavano in chat il
ragazzo. Qualcuno, spiegano gli inquirenti, ha tentato di parlargli, qualcuno, probabilmente il
moderatore del forum su cui il ragazzo aveva linkato la propria morte, ha chiamato la polizia: le forze
dell'ordine non hanno potuto fare altro che constatare la morte del ragazzo. E chiudere la finestra
web spalancata sull'accaduto.

“Justin.tv” ha rimosso il video che ha documentato il suicidio di Biggs: "Il contenuto è stato segnalato
dai nostri utenti, è stato controllato, è stato rimosso perché violava le condizioni del servizio". Anche il
thread sul forum in cui il ragazzo minacciava di uccidersi è stato rimosso.

Il gesto del ragazzo non sembra sorprendere i sociologi, che attribuiscono le motivazioni del suicido
mediatico all'uso che i ragazzi fanno della rete per tenere traccia della propria vita: "Se una cosa non
è registrata o documentata, non sembra degna di nota - ha spiegato un'esperta - sembra che le
generazioni di oggi si chiedano quale sia lo scopo di fare una cosa se nessuno è pronto a vederla". La
famiglia non si interroga sull'uso dei media fatto dal figlio e sulla disinvoltura con cui i media hanno
fatto rimbalzare ciò che della vicenda è rimasto in rete, ma si scaglia contro voyeur di una realtà
impalpabile: corresponsabili della morte del ragazzo sarebbero stati in egual misura i netizen e i
gestori del servizio di live streaming: "Stiamo parlando della vita di una persona - ha dichiarato il padre
del giovane, inconsapevole della sua vita online - come esseri umani non ci si dovrebbe limitare a
guardare una persona in difficoltà dalla propria poltrona".

Legali consultati per avere una chiave di lettura sulla vicenda spiegano che coloro che hanno assistito
al suicidio senza agire non si possano considerare responsabili: l'impalpabilità di un suicidio
trasmesso attraverso la rete, così come è avvenuto in un caso analogo nel Regno Unito, sembra non
poter sollevare alcuna responsabilità nei confronti degli utenti che vi assistevano, in qualche
modo dissociati da una realtà brutalmente rappresentata con la mediazione di uno schermo. Lo
stesso vale per gli operatori di “Justin.tv”: potrebbero essere considerati responsabili solo se si
potesse provare che erano a conoscenza degli avvenimenti e avessero consapevolmente scelto di
non agire.

Se i frequentatori del forum su cui Biggs aveva paventato la propria morte si profondono nelle
condoglianze, sorpresi dal fatto che il suicidio di Biggs non fosse una messinscena, “Justin.tv” si
chiude nel silenzio per rispettare il dolore della famiglia, per tentare di decodificare il gesto di Biggs e
di ragionare sulla propria responsabilità di gestori di un servizio di imprevedibili live streaming.
"Sembra che ci sia una mancanza di controllo su quello che le persone mettono su Internet - ha
deunciato il padre del ragazzo - là fuori c'è un sacco di spazzatura che non dovrebbe esserci, e
sfortunatamente, è stato permesso che ciò accadesse". "Penso che dopo quello che è accaduto e
dopo altri eventi che si sono verificati in passato - ha rivendicato il padre del giovane - siano tutti
concordi che qualche tipo di regolamentazione sia necessaria". Non è dato sapere se il padre invochi
qualche tipo di rimozione o censura o di punizione per coloro che abbiano scosso Biggs con delle
provocazioni. Incredulità e contestazione restano ancora le armi di difesa contro una complessità con
cui ancora non ci si sa confrontare.

La morte è una diretta streaming


Punto Informatico 24 novembre
2008
L’annuncio l’aveva lanciato lunedì mattina prima di mezzogiorno.
«Adesso mi uccido». Non solo. «Ogni due
secondi vedrete una foto di me che muoio».
Non ci aveva creduto nessuno. Eppure, quando i poliziotti sono
entrati nella sua stanza, Marcus era morto, una corda stretta al
collo, la webcam accessa. Il filmato, nel giro di un paio d’ore,
aveva fatto il giro del web.

Adesso Stoccolma è sotto choc: «Non era mai successo niente


del genere in Svezia», dice Anders Ahlqvist, l’investigatore
chiamato a far luce sul caso. Marcus Jannes, ventun anni, ha lasciato una sorta di testamento su
“Facebook”: «Sono un ragazzo di 21 anni. Ho una bella vita, studio, ho una casa tutta mia. Ma la
sindrome di Asperger mi fa sentire solo, vulnerabile. Ma perché dovrei uccidermi?». Quattro minuti ha
postato un altro messaggio: «Ho cambiato idea, lo faccio». Sul sito ha lasciato un indirizzo per
recuperare il filmato, ha indossato una t-shirt Nike con il motto “Just do it” e ha scritto l’ultimo post:
«Ok, facciamolo».
Mentre preparava la corda ha buttato in gola una manciata di anti-dolorifici e ha raccontato in Rete i
pensieri, dedicati alla famiglia: «Vi adoro, ma non posso vivere per gli altri. Non penso che la mia sia
una brutta vita, anzi adesso sto bene. Ma a volte è semplicemente troppo dura. Ora non riesco più a
scrivere. Addio». Dall’altra parte dello schermo un amico lo ha riconosciuto e ha avvisato la sorella. La
porta era chiusa, bisognava sfondarla: quando gli agenti sono entrati, alle due del pomeriggio, era
troppo tardi. «Salvarlo è stato impossibile», ha detto Lotta Thyni, portavoce della polizia di Stoccolma.

Trasmette il suicidio in diretta web Un ventunenne chocca


Stoccolma La Stampa 12 ottobre 2010
Suicide live on the internet - Warning, Graphic Liveleak
Ragazza investita da un'auto su Youtube: vero o falso, non diffondete il video

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