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1.

Introduzione
«I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che
siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione».
Così si legge nell'art. 97 della Costituzione italiana. Chi ha a suo tempo
proposto questa formula non pensava certo che l'amministrazione operasse
sempre in modo imparziale ed efficiente. Certamente si augurava che
questo obiettivo fosse raggiunto: ma non si nascondeva certo l'eventualità
che l'amministrazione agisse in modo partigiano e inefficiente. Tanto è vero
che, in un articolo successivo della stessa Costituzione, si dice che contro
gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela
giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di
giurisdizione ordinaria e amministrativa (art. 113). Si dà per scontato, cioè,
che l'amministrazione con i suoi comportamenti possa ledere i diritti e gli
interessi legittimi del cittadino cosa che non dovrebbe accadere se essa si
comportasse in modo imparziale ed efficiente: e al cittadino viene garantito
il rimedio del ricorso al giudice, ordinario o amministrativo. Questa doppia
prospettiva esiste un po' in tutti gli ordinamenti. Dappertutto vi è
l'aspirazione a che i pubblici uffici funzionino nel modo migliore,
nell'interesse del cittadino, ma nello stesso tempo nessuno si illude che ciò
avvenga sempre, e a questo scopo viene assicurata al cittadino la tutela
giudiziaria. Generalizzando, si può dire che questa è la realtà universale del
pubblico potere, e non solo del potere amministrativo. Dovunque c'è un
potere, istituito per il bene pubblico, vi è la possibilità di un suo abuso. Il
costituzionalismo moderno ci offre una serie di strumenti contro questi
rischi : dalla separazione dei poteri, una tecnica che si fonda sul controllo e
sul bilanciamento reciproco dei poteri dello Stato, alla supremazia della
legge; dalla giurisdizione di costituzionalità sicché la stessa legge è
sottoposta a un controllo di conformità rispetto alla Costituzione, al sistema
delle impugnazioni delle sentenze (doppio grado di giurisdizione, Corte di
Cassazione); dalla periodicità dell'elezione dei parlamentari al reclutamento
dei burocrati per pubblico concorso (anziché, come in altri tempi e in altri
paesi, con la vendita delle cariche o la chiamata diretta da parte
dell'organo politico, il c.d. spoil system).

Il potere amministrativo
Fra tutti i poteri pubblici il potere amministrativo è quello nel quale più
spesso il cittadino si imbatte. Il Parlamento fa le leggi, centinaia di leggi
all'anno, ma al cittadino singolo solo una o due interessano: gli interessa,
per esempio, quella che istituisce una nuova tassa o quella che modifica i
requisiti per il collocamento in pensione. Un'intera vita può trascorrere
senza che il nostro immaginario cittadino entri in un'aula di giustizia: e
comunque con la giurisdizione avrà contatti sporadici perché, ad esempio, è
chiamato una volta come teste, o un'altra volta come imputato, o ancora
come convenuto in una causa civile. Diverso è il rapporto con il potere
amministrativo, con i pubblici uffici, con la burocrazia. Il nostro amico nasce
e viene iscritto nei registri dello stato civile, dopo qualche anno fa il suo
ingresso in una scuola pubblica, compie quattordici anni e ottiene la carta
di identità che gli serve per circolare col motorino che il padre gli ha
regalato per il compleanno, ottiene qualche anno dopo un diploma di
maturità a chiusura del ciclo di studi secondari, si iscrive in un'università di
Stato, si sposa in municipio, ha un figlio e ne denuncia la nascita all'ufficio
comunale e così via sino a quando cesserà di vivere, e ad ospitarlo in modo
permanente sarà il cimitero comunale. Ma non sono solo quelli che gli
antropologi chiamano «riti di passaggio» gli eventi che mettono a contatto il
cittadino con le pubbliche amministrazioni. È sufficiente che egli attraversi
la strada per calpestare un bene che appartiene al demanio comunale; che
prenda il bus per utilizzare un servizio pubblico locale; che guidi senza
cintura di sicurezza per incappare nei rigori della polizia di Stato.
L'amministrazione sbarra la strada al cittadino in momenti decisivi del suo
esistere sociale. Se, sino a pochi anni fa, avesse voluto fare il portiere di
uno stabile avrebbe avuto bisogno di una licenza di pubblica sicurezza; lo
stesso accade se gli viene offerto un posto di guardia privata. Se ha
studiato e si è laureato e intende fare l'ingegnere deve superare un esame
di Stato e iscriversi all'albo professionale: se non lo fa, il progetto di
costruzione che andrà a firmare costituirà esercizio abusivo della
professione e non gli darà titolo a un compenso. La cosa si complica se,
animato da spirito imprenditoriale, vorrà gestire un canale televisivo o
un'impresa di smaltimento di rifiuti: avrà bisogno, nell'un caso e nell'altro,
di una concessione rilasciata dal ministero delle Telecomunicazioni o di un
provvedimento del sindaco. Molte delle condizioni a cui è subordinato lo
svolgimento di un'attività lavorativa o imprenditoriale vengono poste da
pubbliche amministrazioni. L'interessato ne trae un vantaggio quando l'atto
necessario - una licenza, un'autorizzazione, una concessione - gli viene
rilasciato; ne riceve un danno quando l'atto viene negato. In realtà, a ben
riflettere, il semplice fatto che egli per svolgere una certa attività abbia
bisogno di un assenso della pubblica amministrazione costituisce una
limitazione. Se ne accorge chiunque metta a confronto questa situazione
con una ipotetica nella quale quella attività possa essere svolta
liberamente, senza che l'interessato debba chiedere permesso ad alcuno. Il
cittadino incontra l'amministrazione sul suo cammino anche in altre
occasioni. Il piano regolatore comunale sottopone il suo terreno a vincolo di
inedificabilità: e fa venir meno quindi un beneficio atteso. La chiamata alle
armi, nella quale, in ragione dell'anno in cui è nato, egli incappa, alle soglie
della cessazione del servizio militare obbligatorio, lo sottrae per alcuni mesi
alle sue ordinarie occupazioni. Il trasferimento dal commissariato di polizia
in cui presta servizio ad altro ubicato a mille miglia di distanza altera il suo
piano di vita (come ad esempio l'acquisto di un appartamento, il
fidanzamento con una ragazza del luogo). Quanti benefici il nostro amico
trae dai pubblici poteri! Un impiego pubblico, una pensione di invalidità,
un'autorizzazione all'esercizio di un'attività economica, una concessione di
suolo demaniale, una destinazione urbanistica lucrosa del suo terreno in
periferia, un esonero dal servizio militare. Ma quanti danni subisce da
questi stessi pubblici poteri!
Poiché i danni e i benefici si calcolano a milioni e cadono in modo più o
meno accidentale su Tizio, Caio e Sempronio, senza possibilità di dosaggi in
base a un principio di giustizia distributiva, non è difficile immaginare che
qualcuno riceva soprattutto danni; o che i danni che egli subisce - anche
uno solo di questi - eccedano la somma di tutti i benefici che egli ha potuto
trarre dal complesso delle pubbliche amministrazioni. In altre parole.
Quanto più intensi sono i contatti fra cittadino e potere amministrativo
(rispetto ai contatti con il potere legislativo o il potere giudiziario) tanto più
è probabile che egli subisca un danno. Tanto più intenso il bisogno di tutela.

Amministrazione e legge
Non tutti i danni che la persona subisce nel contatto col suo prossimo danno
diritto a una riparazione. Come si legge nell'art. 2043 cod. civ., occorre che
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il danno sia ingiusto, ossia contrario alla giustizia e al diritto. Se mi capita


una moglie gelosa o un datore di lavoro esigente io ne subisco un danno:
basta confrontare la mia condizione con quella del mio amico che è sposato
a una donna tollerante o con quella dell'altro amico che è impiegato al
ministero ed è libero di entrare o uscire dall'ufficio quando vuole. Ma danni
del genere non mi danno alcun diritto: per la semplice ragione che non sono
danni «ingiusti». Ora, una situazione del genere ricorre di frequente nei
rapporti con la pubblica amministrazione. Chiamata a curare interessi
collettivi o pubblici, l'amministrazione è abilitata a sacrificare spesso
interessi individuali quando tali interessi contrastino con l'interesse
pubblico: senza che tali sacrifici possano essere qualificati ingiusti. Io ho
interesse a conservare la proprietà del mio terreno. Ma se questo terreno è
il solo su cui possa passare la circonvallazione che il comune intende
realizzare per liberare l'abitato dal traffico automobilistico che lo soffoca, il
mio interesse privato dovrà cedere all'interesse pubblico. Subirò un danno,
ma non un danno ingiusto: sicché l'amministrazione mi reintegrerà solo in
parte la diminuzione patrimoniale che andrò a subire, pagandomi un
indennizzo che è largamente inferiore al pieno risarcimento. In altri casi il
danno non sarà risarcito per niente. Se partecipo ad una gara per
l'aggiudicazione di un appalto pubblico, e l'appalto è aggiudicato ad altra
ditta, avrò perduto tempo e denaro. E se studio due anni di seguito,
pagando il costo delle lezioni, in vista di un concorso per uditore giudiziario
che non supererò, avrò perduto due anni della mia vita: ma non avrò diritto,
naturalmente, ad alcun risarcimento. La regola che vuole l'interesse
pubblico prevalere sull'interesse privato, e che quindi consente di infliggere
al privato un danno che non può essere riparato perché non è un danno
ingiusto, non è senza limiti. L'amministrazione può sacrificare la sfera
personale e patrimoniale del privato solo se sussistono determinati
presupposti. Presupposti che sono richiesti dalla legge, e non
dall'amministrazione che agisce. Gli ordinamenti contemporanei sono retti
dal principio di legalità: sicché l'amministrazione può agire solo quando la
legge l'autorizza. E l'autorizzazione che la legge contiene non è
un'autorizzazione in bianco. La legge individua un'autorità competente (la
sola che possa agire in quell'ambito), un fine da perseguire (che coincide
con l'interesse pubblico da tutelare), i presupposti per l'esercizio del
potere, gli effetti di questo esercizio. Per fare un esempio, la legge
istitutiva del Servizio sanitario nazionale (l. 833/1978) stabilisce che, nelle
materie dell'igiene e sanità pubblica, della vigilanza sulle farmacie e della
polizia veterinaria, il presidente della regione o il sindaco possono emettere
ordinanze d'urgenza efficaci, rispettivamente, nell'intera regione o nel
territorio comunale (art. 32 l. 833/1978). In questo modo vengono indicati
simultaneamente gli organi competenti (presidente della regione e/o
sindaco), le materie interessate (cioè gli interessi pubblici da curare), i
presupposti per l'esercizio del potere (una situazione di emergenza qual è
quella che di solito giustifica il ricorso a poteri di urgenza), l'ambito
spaziale in cui si producono gli effetti del provvedimento (il territorio
regionale o parte di esso ovvero il territorio comunale, a seconda che ad
agire sia il presidente della regione o il sindaco). Le ordinanze contingibili e
urgenti (così le definisce l'art. 32 citato) si caratterizzano per
l'indeterminatezza del loro contenuto: tale contenuto varia appunto in
ragione della natura dell'emergenza. Se nel comune c'è una serrata delle
farmacie, il sindaco ordinerà ai farmacisti, per esempio, di vendere i
farmaci salvavita; se c'è una moria di bovini, il presidente della regione
ordinerà l'isolamento del bestiame nella zona interessata e ne vieterà
l'esodo. In genere la legge indica anche il contenuto del provvedimento.
Quando accerta che sono state realizzate opere edili in assenza di permesso
di costruire o in totale difformità da questo, il dirigente dell'Ufficio tecnico
comunale ordina al proprietario di demolire (art. 3 d.p.r. 308/2001). La
demolizione è la sola cosa che il dirigente può e deve disporre: una volta
che ha constatato (lui o i vigili urbani) l'abuso commesso. Il provvedimento
amministrativo che impone un sacrificio al privato, come quello che gli nega
un beneficio, deve essere conforme a legge in rapporto a ciascuno dei
profili descritti (competenza, presupposti, fini, contenuto, effetti, ecc.). Il
sacrificio è ingiusto quando è cagionato da un atto illegittimo, ossia da un
atto che contrasta con la legge sotto uno dei profili considerati.
L'illegittimità può essere determinata da svariati fattori: perché ha
provveduto un'autorità diversa da quella competente per legge, perché
mancano i presupposti voluti dalla legge per l'esercizio del potere, perché
la finalità perseguita dall'autorità è diversa da quella prescritta dalla legge,
perché il contenuto non è conforme a quello indicato dalla legge, perché gli
effetti sono diversi. In tutti questi casi il privato leso può attaccare il
provvedimento: non per il semplice fatto di essere stato leso, ma per il fatto
che è stato leso da un atto illegittimo. Se è vero che la legge autorizza il
sacrificio del suo interesse all'interesse pubblico (ricordiamoci della strada
pubblica), è anche vero che essa prevede uno schema da osservare
(competenza, presupposti, fini, contenuto, effetti). L'inosservanza di questo
schema determina l'illegittimità dell'atto. Le norme che conferiscono poteri
amministrativi appartengono a quella classe di norme che sono state
chiamate secondarie: norme che attribuiscono poteri, contrapposte alle
norme che impongono doveri (norme primarie). Il conferimento del potere è
accompagnato dalle condizioni per il suo esercizio: l'inosservanza di tali
condizioni rende inefficace quell'esercizio o quanto meno lo rende
vulnerabile (esposto all'attacco di chi a quel potere è soggetto). Il
proprietario ha il potere di vendere l'immobile, ma deve farlo per atto
scritto. La vendita verbale è inefficace. Colui che è convenuto in un giudizio
civile può a sua volta esercitare una pretesa contro l'attore (con una
domanda «riconvenzionale»), ma deve farlo a pena di decadenza almeno
venti giorni prima dell'udienza di comparizione: altrimenti la domanda è
inammissibile. Il presidente della regione può espropriare un bene
immobile: purché l'opera in vista della quale si espropria sia stata, con altro
provvedimento, dichiarata di pubblica utilità. Si tratta, è ovvio, di garanzie
a favore del privato. Una garanzia è rappresentata dal principio di
competenza. Il privato è garantito dal fatto che una certa misura che gli
impone un sacrificio può essere adottata da un'autorità, e solo da questa.
Se ogni autorità amministrativa potesse provvedere, i rischi per lui si
moltiplicherebbero. Alla stessa funzione adempie la regola che subordina
l'esercizio del potere all'esistenza di determinati presupposti, da accertare
in concreto. Che succederebbe se il comune potesse ordinare la demolizione
di qualsiasi costruzione a prescindere dal fatto che questa è stata realizzata
in assenza di concessione o in totale difformità della concessione? Anche il
vincolo dell'autorità amministrativa al fine voluto dalla legge è posto a
garanzia del privato. Il trasferimento di un carabiniere da una stazione
all'altra, ubicata in altra parte d'Italia, è consentito per ragioni di servizio:
per esempio perché la stazione di nuova destinazione è sguarnita di militi.
Non sarebbe legittimo invece il trasferimento che mascherasse una misura
disciplinare. Per infliggere una punizione a un dipendente pubblico (e in
5.

genere a qualunque lavoratore subordinato) occorre sottoporlo a uno


speciale procedimento (il procedimento disciplinare) ed è necessario
contestargli l'accusa dalla quale ha diritto di difendersi. L'insieme di queste
prescrizioni dettate a garanzia del privato forma una sorta di decalogo per
l'esercizio del potere amministrativo, decalogo che funge da criterio di
legittimità dell'azione amministrativa. Il potere amministrativo va esercitato
mediante atti o provvedimenti amministrativi la cui formazione è guidata da
regole. L'atto o provvedimento amministrativo costituisce espressione di
una determinata competenza (l'autorità di polizia può emettere ordinanze
per motivi di sicurezza pubblica; l'autorità sanitaria può emettere ordinanze
per motivi di sanità e di igiene pubblica); richiede l'esistenza di determinati
presupposti; è vincolato a un fine che consiste nel perseguimento
dell'interesse pubblico indicato dalla norma attributiva della competenza;
ha un contenuto previsto nelle linee generali, anche in modi alternativi,
dalla legge; produce gli effetti che la legge indica. Tutto ciò non deve far
credere che l'attività amministrativa sia tutta contenuta nella legge.
Un'illusione del genere è ricorrente: l'illusione di un'amministrazione
automatica che esegua puramente e semplicemente il dettato della legge.
In realtà la legge affida spesso all'amministrazione la scelta; e la affida
perché questa scelta, legata com'è alla situazione di fatto e alle circostanze
di fatto, non può essere operata a livello legislativo. Spieghiamoci con
qualche esempio. La legislazione urbanistica riguarda «tutti gli aspetti
dell'uso del territorio» (art. 34 co. 2 d.lgs. 80/1998 e successive modifiche);
prevede che detti usi siano determinati dal piano regolatore comunale (art.
7 legge urbanistica del 1942); stabilisce che, nella formazione e revisione
dei piani regolatori, siano osservati limiti inderogabili di densità edilizia, di
altezza, di distanza tra i fabbricati e i rapporti massimi fra spazi privati e
spazi pubblici (art. 41 quinquies della stessa legge). Più di questo la legge
non può fare. La decisione se destinare una certa area a residenza o a
impianti pubblici o a verde spetterà al consiglio comunale che adotta il
piano regolatore generale ( P R G ): sarà presa, cioè, con un provvedimento
amministrativo. Il proprietario dell'area interessata viene messo di fronte ad
una serie di alternative dall'esito incerto: una destinazione a residenze con
alto indice volumetrico, una destinazione a residenze con basso indice
volumetrico, una destinazione a piazza (con previsione di espropriazione),
una destinazione a parcheggio (senza facoltà di edificazione ma con buone
possibilità di sfruttamento economico). Altro esempio. L'apertura di nuove
officine di prodotti chimici usati in medicina è sottoposta ad autorizzazione
del ministro della Sanità il quale la concede, sentito il Consiglio superiore
della sanità, tenuta presente l'opportunità dell'apertura in rapporto alle
esigenze del servizio (art. 144 co. 1 t.u. delle leggi sanitarie). Si tratta di
una valutazione complessa, subordinata all'accertamento che «l'officina,
per attrezzature tecniche e idoneità dei locali, dia affidamento per l'ottima
qualità delle produzioni». Tale valutazione riguarda situazioni di fatto e
circostanze concrete che solo l'amministrazione, e non certo il legislatore,
può apprezzare. Siamo in presenza di provvedimenti o decisioni
discrezionali, rimessi alla discrezione di un'autorità amministrativa che
dispone di una pluralità di opzioni. La legge fissa i criteri e indica alcuni
canoni d'azione, ma la scelta in ultima analisi spetta all'amministrazione. Il
potere discrezionale, di cui l'atto discrezionale è espressione, è quello che
pone più problemi dal punto di vista del cittadino: sia perché non offre a
questo alcuna garanzia dell'esito sia perché il controllo sul suo esercizio è
più difficile. Tale controllo non può spingersi al punto da negare all'autorità
la facoltà di scelta: anche se l'esercizio del potere discrezionale è
sottoposto a vincoli.

L'amministrazione come un soggetto fra gli altri


Abbiamo finora considerato i danni che il privato può ricevere da una
pubblica amministrazione che esercita un potere amministrativo. È una
vicenda che è peculiare allo Stato e agli enti pubblici. Solo i pubblici poteri
sono abilitati a espropriare un terreno, imporre il servizio militare,
infliggere una sanzione amministrativa, negare un'autorizzazione necessaria
per svolgere un'attività economica. Il danno che il privato riceve è diverso
da quello che potrebbe subire nei rapporti con altri privati: perché questi
non dispongono di poteri del genere. Ma lo Stato o l'ente pubblico è anche
un soggetto giuridico: una persona giuridica, un'organizzazione, che al pari
di una società di capitali o di un'associazione, può, a mezzo dei suoi agenti,
cagionare la stessa specie di danno che qualunque società o associazione
può cagionare. Un'auto della polizia mi investe provocandomi una
menomazione: lo stesso danno che subirei se quell'auto fosse di un privato.
Il bambino che frequenta una scuola elementare pubblica si ferisce perché
la maestra non ha vigilato abbastanza: il danno non sarebbe diverso se la
scuola fosse privata e la maestra altrettanto disattenta. La lettera
raccomandata che contiene un assegno non arriva per un disguido delle
Poste italiane. La perdita sarebbe eguale se del recapito della busta fosse
stato incaricato un corriere privato. Accanto alla pubblica amministrazione
titolare di poteri amministrativi vi è una pubblica amministrazione - magari
la stessa amministrazione - che opera come qualsiasi altra organizzazione.
Anche nei riguardi di questa il privato ha bisogno di protezione giuridica.
Una protezione che in linea di massima non è diversa da quella che gli
viene accordata verso gli altri privati.

L'abolizione del contenzioso amministrativo


L'amministrazione come entità munita di un potere specifico;
l'amministrazione come un'organizzazione fra le altre. Questa doppia
qualificazione solleva un interrogativo. Deve essere un giudice speciale a
valutare l'operato dell'amministrazione in ragione del carattere speciale del
suo potere, o deve essere lo stesso giudice che giudica dei rapporti fra le
persone fisiche e giuridiche, considerato che lo Stato e gli enti pubblici sono
persone giuridiche? Il dilemma si pose, subito dopo l'unificazione italiana,
quasi un secolo e mezzo addietro. L'esperienza degli Stati preunitari era
quella di una pluralità di giudici del «contenzioso amministrativo»: tali
organi erano in parte amministrativi, in parte giudiziari e la loro
competenza era stabilita per materia. In Piemonte, ad esempio, c'erano in
primo grado i consigli di governo, «giudici ordinari del contenzioso
amministrativo», e il Consiglio di Stato in appello, chiamati a risolvere le
controversie tra amministrazioni e cittadino in tema di appalti e forniture,
imposte, tasse, impiegati comunali, confini comunali, regime delle acque,
contravvenzioni. Accanto ad essi, come «organi speciali», la Corte dei Conti,
il Consiglio superiore della pubblica istruzione, ecc. Al giudice civile restava
una competenza limitata alle controversie in cui lo Stato figurava come
soggetto di diritto privato (proprietà, contratti) o ad alcune materie di
diritto pubblico (imposte, espropriazioni). I fautori del mantenimento degli
7.

organi del contenzioso amministrativo, ossia di giudici speciali


dell'amministrazione, magari riveduti e perfezionati con ulteriori garanzie
processuali (Crispi, Cordova, Rattazzi), soccombettero nel dibattito
parlamentare ad una maggioranza, guidata da Minghetti, Mancini,
Boncomp agni e Borgata, favorevole all'abolizione del contenzioso
amministrativo. Con la legge del 20 marzo 1865 n. 2248 all. E furono
soppressi «i Tribunali speciali attualmente investiti della giurisdizione del
contenzioso amministrativo» (art. 2); e «devolute alla giurisdizione
ordinaria tutte le cause per contravvenzione e tutte le materie nelle quali si
faccia questione d'un diritto civile o politico, comunque vi possa essere
interessata la pubblica amministrazione, e ancorché siano emanati
provvedimenti del potere esecutivo o dell'autorità amministrativa» (art. 2).
L'assimilazione dello Stato e degli altri enti pubblici ai soggetti privati
sembra piena. Non importa la veste che l'ente indossa nel rapporto con il
privato, se di diritto pubblico o di diritto privato: «comunque vi possa
essere interessata», la pubblica amministrazione è sempre sottoposta allo
stesso giudice ordinario che è competente a risolvere le dispute fra privati.
Non conta la distinzione fra ente pubblico che agisce come un qualunque
soggetto giuridico (in una controversia contrattuale o sulla proprietà) ed
ente pubblico che agisce come autorità: «Ancorché siano emanati
provvedimenti del potere esecutivo o dell'autorità amministrativa» - così si
legge nell'art. 2 - è il giudice ordinario che ha giurisdizione se «si faccia
questione di un diritto civile o politico». In altre parole è la natura della
pretesa che viene fatta valere (diritto civile o politico) che fonda la
giurisdizione del giudice ordinario; è indifferente, invece, sempre dal punto
di vista della giurisdizione (chi è il giudice?), che lo Stato o l'ente pubblico
entri nel rapporto col privato come persona giuridica (una fra le altre) o
come autorità che esercita un potere amministrativo.

Diritti e non diritti


Non tutte le pretese che il cittadino vanta nei riguardi della pubblica
amministrazione hanno consistenza di diritti. È un diritto quello di essere
iscritto nelle liste elettorali per colui che è in possesso dell'elettorato attivo
(diritto di votare); non lo è quello di vincere un concorso per un impiego
pubblico. La violazione delle norme che regolano il concorso - per esempio
l'irregolare composizione della commissione giudicatrice - può nuocermi.
Con una diversa commissione, regolarmente composta, forse avrei potuto
essere fra i vincitori. Ma non ho diritto di superare il concorso né ho diritto
ad una commissione di concorso regolarmente formata. Nel progetto di
legge situazioni del genere venivano regolate in questo modo. «La
cognizione dei ricorsi contro gli atti di pura amministrazione, riguardanti
gli interessi individuali o collettivi degli amministratori, spetta
esclusivamente alle autorità amministrative». Quando la pretesa del privato
ha la consistenza di un interesse (e non di un diritto) perché è legata ad
un atto di pura amministrazione, non c'è difesa giurisdizionale. La
riparazione del torto subito dal privato è rimessa alla stessa autorità
amministrativa. Nel dibattito parlamentare che precedette l'approvazione
della legge, Pasquale Stanislao Mancini così giustificò la scelta legislativa:
«Che cosa ha sofferto il cittadino in tutte le ipotesi testé discorse?
Semplicemente una lesione di interessi? Ebbene ch'ei si rassegni. Se
nell'ordine gerarchico della stessa amministrazione siavi la possibilità del
reclamo, ch'egli ricorra pure a questa contro l'erroneo o lesivo
provvedimento dell'amministrazione inferiore [...]». In altre parole. Se il
cittadino ha un diritto (civile o politico) può ottenerne protezione dal
giudice ordinario anche se convenuta è una pubblica amministrazione. Se la
sua pretesa non è un diritto ma un interesse leso da un atto di pura
amministrazione, la sola tutela prevista è quella che viene offerta
dall'autorità gerarchicamente superiore all'autorità che ha emesso l'atto; e
non sempre tale autorità superiore esiste. Non esiste se l'atto proviene da
un ministro, che non è subordinato a nessuno. Non esiste neppure se l'atto
proviene da un organo collegiale (un consiglio o una giunta comunale)
perché i collegi sono sottratti a ogni rapporto gerarchico. «Gli affari non
compresi nell'articolo precedente» (ossia diversi dalle «materie nelle quali
si faccia questione di un diritto civile o politico») - si legge nel testo
definitivo dell'art. 3 - «saranno attribuiti alle autorità amministrative, le
quali, ammesse le deduzioni e le osservazioni in iscritto delle parti
interessate, provvederanno con decreti motivati, previo parere dei Consigli
amministrativi che pei diversi casi siano dalla legge stabiliti». «Contro tali
decreti, che saranno scritti in calce del parere egualmente motivato, è
ammesso il ricorso in via gerarchica in conformità delle leggi
amministrative». Gli interessi (tali sono in sostanza «gli affari non
compresi» nonostante la modifica intervenuta nel testo approvato) non
hanno tutela giurisdizionale. Li si vuole garantire all'interno
dell'amministrazione. Si prevede, in prima battuta, un'istanza alla stessa
autorità, che dovrà provvedere con atto motivato, previo parere del corpo
consultivo competente. Contro l'atto è ammesso il ricorso in via gerarchica.
Sembra così prefigurata una tutela amministrativa affidata ad una disciplina
garantistica del procedimento: rispetto del contraddittorio, parere
obbligatorio, reso noto all'interessato, decreto motivato, ricorso in via
gerarchica. Una tutela che sembra anticipare di oltre un secolo la legge sul
procedimento amministrativo del 1990. In realtà l'art. 3 rimanda ad altre
leggi, successive, sia per l'individuazione dei consigli amministrativi
competenti ad emettere il parere, sia per la disciplina del ricorso. La
disposizione in esso contenuta si riduce ad un programma, o ad una
promessa, di un futuro assetto legislativo: un assetto che non arriverà se
non dopo oltre un secolo. In definitiva l'art. 3, piuttosto che offrire una
diversa forma di tutela (procedimentale e non processuale), ribadisce ciò
che già risulta dall'art. 2. Per gli interessi non c'è un giudice; e,
sostanzialmente, non c'è tutela alcuna.

La tutela civile dei diritti e i suoi limiti


La decisione di sopprimere i tribunali del contenzioso amministrativo e di
devolvere al giudice ordinario la tutela dei diritti civili e politici contro la
pubblica amministrazione è ispirata al principio dello Stato di diritto. Stato
di diritto è lo Stato che è sottoposto al diritto: sottoposto al diritto che esso
stesso pone. Lo Stato intrattiene con i cittadini rapporti giuridici: sicché, in
caso di conflitto, autorizzato a dirimerlo è lo stesso giudice ordinario che
risolve le controversie tra i cittadini. La connessione tra Stato di diritto e
giurisdizione ordinaria è così stretta che, qualche decennio dopo, il più
importante costituzionalista inglese, Albert V. Dicey, giudicherà la Francia
un paese non libero perché le controversie tra cittadino e pubblica
amministrazione sono affidate a un giudice speciale dell'amministrazione, il
Conseil d'état. La regola che Dicey invoca non è precisamente quella dello
Stato di diritto (che era stata elaborata in Germania), bensì quella della
rule of law, del dominio del diritto. Ma la sostanza è la stessa. I promotori
della legge abolitiva del contenzioso erano altrettanto sensibili ad un altro
9.

principio costituzionale: il principio della separazione dei poteri . Un


principio che opera in direzione opposta. Lo Stato di diritto sottopone
l'amministrazione al giudice ordinario. La separazione dei poteri tende a
creare attorno all'amministrazione una sfera di immunità contro le intrusioni
del giudice. A questo secondo principio è ispirato l'art. 4 della legge.
«Quando la contestazione cade sopra un diritto che si pretende leso da un
atto dell'autorità amministrativa» questo «non potrà essere revocato o
modificato se non sovra ricorso alle competenti autorità amministrative, le
quali si conformeranno al giudicato dei tribunali in quanto riguarda il caso
deciso». «I tribunali si limiteranno a conoscere degli effetti dell'atto stesso
in relazione all'oggetto dedotto in giudizio». Specifica il successivo art. 5:
«In questo, come in ogni altro caso, le autorità giudiziarie applicheranno gli
atti amministrativi e i regolamenti generali e locali in quanto siano conformi
alle leggi». II giudice, cioè, valuterà se l'atto amministrativo è legittimo;
ma anche se tale accertamento sarà negativo, non revocherà o
modificherà l'atto amministrativo. Solo l'autorità amministrativa potrà farlo,
anzi dovrà farlo perché vi è obbligata. L'accertamento dell'illegittimità
viene scisso dalla misura diretta a reprimerla. Il primo compete al giudice,
la seconda all'amministrazione. L'intervento di quest'ultima è necessario:
perché altrimenti l'atto lesivo, dichiarato illegittimo, rimane in vita. La
tutela giudiziaria («quando la contestazione cade su un atto
amministrativo») è una mezza tutela. L'altra metà la deve offrire
l'amministrazione, togliendo di mezzo l'atto illegittimo. A questa operazione
essa è obbligata; anche se manca una sanzione nel caso che non adempia.
Diverso è il discorso quando l'amministrazione è convenuta come un
qualsiasi soggetto giuridico: per esempio per risarcire un danno arrecato
dai suoi agenti con comportamenti materiali. In questo caso manca un atto
amministrativo e quindi non operano le limitazioni previste a carico del
giudice dall'art. 4 (divieto di annullamento o revoca ). Tali limitazioni,
infatti, dipendono da ciò: che la contestazione cada su un atto
amministrativo.

Gli effetti dell'atto illegittimo: l'affievolimento del diritto


Qual è la linea di demarcazione fra i diritti (civili e politici) e gli interessi? Il
privato tende a prospettare come diritti pretese che l'amministrazione
tende a qualificare come interessi, con l'intento di escludere la giurisdizione
del giudice ordinario. L'amministrazione convenuta può elevare un conflitto
di giurisdizione che viene risolto dal Consiglio di Stato: organo istituito nel
Regno di Sardegna nel 1830, spogliato dalla legge abolitiva delle sue
funzioni contenziose, ad eccezione, appunto, della competenza a decidere i
conflitti fra giudice ordinario e pubblica amministrazione. È il Consiglio di
Stato che in ultima analisi decide se debba trovare applicazione l'art. 2 o
l'art. 3 della legge: ed è perfettamente comprensibile che, per la sua
estrazione amministrativa, tenda a dar ragione all'amministrazione. È
questo il motivo per cui la decisione sui conflitti verrà tolta a quest'organo
(nel 1877) per essere trasferita alla Corte di Cassazione, che la conserva
tuttora (artt. 360 n. 1 e 362 cod. proc. civ.). Nell'applicazione che ne fanno
i giudici l'area dei diritti risulta più ristretta di quanto pensavano coloro che
avevano affidato i diritti alla protezione del giudice ordinario. Ma vi è
un'altra ragione che concorre allo stesso risultato. Per comprenderla
bisogna tornare al concetto di potere amministrativo e agli effetti del suo
esercizio. La pubblica amministrazione può espropriare un terreno per
realizzare un'opera pubblica; può limitare la libertà del cittadino
chiamandolo al servizio militare o allontanandolo da un determinato
territorio comunale con un foglio di via; può imporgli prestazioni
patrimoniali (imposte, tasse, contributi). Può, entro certi limiti, disporre dei
diritti del cittadino, sospenderne temporaneamente l'esercizio, estinguerli,
convertirli in altri (per esempio la proprietà immobiliare nell'indennità di
espropriazione). Tutto ciò è consentito dalla legge, purché l'autorità abbia
la specifica competenza, ricorrano certi presupposti, sia osservato un
determinato procedimento, siano perseguite certe finalità, siano prodotti
certi effetti. Che succede quando l'autorità non osserva queste regole
sicché l'esercizio del potere è illegittimo sotto qualcuno degli aspetti
considerati? L'atto illegittimo produrrà gli stessi effetti dell'atto illegittimo,
e quindi estinguerà o sospenderà il diritto del privato? O questi effetti sono
prodotti solo dall'atto legittimo? La legge abolitiva dà indicazioni
contrastanti. Secondo l'art. 7, quando per grave necessità pubblica
l'autorità amministrativa debba senza indugio disporre della proprietà
privata o, in pendenza di giudizio, per la stessa ragione, procedere
all'esecuzione dell'atto delle cui conseguenze giuridiche si disputa, essa
provvederà con decreto motivato, sempre però senza pregiudizio dei diritti
delle parti. Sembra, cioè, che la citazione della pubblica amministrazione
davanti al giudice ordinario sospenda l'esecuzione dell'atto che forma
oggetto di contestazione (e quindi ne paralizzi l'efficacia): tant'è vero che,
per portarlo ad esecuzione, in pendenza di giudizio, l'amministrazione deve
adottare un nuovo provvedimento, debitamente motivato, che espliciti le
ragioni di grave necessità pubblica che impongono l'esecuzione. Con
un'argomentazione a contrario dallo stesso articolo potrebbe ricavarsi una
regola così fatta: in linea generale basta instaurare il giudizio per
determinare la sospensione degli effetti dell'atto amministrativo di cui si
contesta la legittimità. Senonché il precedente art. 4 sembra suggerire una
diversa conclusione. Se il tribunale deve limitarsi «a conoscere gli effetti
dell'atto in relazione all'oggetto dedotto in giudizio», senza alcun potere di
revocarlo o modificarlo perché tale potere è mantenuto in capo all'autorità
amministrativa, è evidente che gli effetti dell'atto non sono intaccati
nemmeno dalla sentenza. A maggior ragione, non possono essere intaccati
con la semplice instaurazione del giudizio. Sino a quando l'autorità
amministrativa, «conformandosi al giudicato dei tribunali» che abbiano
accertato l'illegittimità dell'atto amministrativo, non revocherà o
modificherà l'atto stesso, i suoi effetti, deve presumersi, rimangono in
vigore. Rimangono in vigore, cioè, gli effetti di un atto illegittimo. O per
dirla altrimenti, l'atto illegittimo produrrà gli stessi effetti dell'atto
legittimo per tutta la durata del giudizio. Solo quando il processo sarà
concluso, e la sentenza passata in giudicato, sorgerà nell'autorità
amministrativa che ha a suo tempo emesso l'atto amministrativo l'obbligo di
revocarlo o di modificarlo. Ora, tra gli effetti che alcuni atti amministrativi
producono vi è quello di estinguere il diritto del privato o di sospenderne
l'esercizio. Da qui la domanda: potrà in questo caso il privato rivolgersi al
giudice ordinario a tutela del suo diritto soggettivo o si vedrà opporre che il
diritto che egli vanta è stato in realtà estinto o sospeso e che pertanto il
giudice ordinario, in mancanza di un diritto, non ha giurisdizione? La
giurisprudenza, dopo alcuni anni di esitazione, si è orientata in questa
seconda direzione. Certi atti amministrativi producono in ogni caso il loro
effetto: di «affievolire» il diritto soggettivo, dirà alla fine dell'Ottocento uno
dei fondatori del diritto amministrativo, Oreste Ranelletti; di «degradare» il
diritto, dirà nel secolo successivo un altro grande maestro di questa branca
11.

del diritto, Massimo Severo Giannini. E ciò a prescindere dal fatto che l'atto
sia legittimo o illegittimo. In questo secondo caso l'atto è efficace solo in
via provvisoria, sin quando non venga tolto di mezzo dall'autorità
amministrativa e poi, come vedremo, dal giudice amministrativo: ma in
modo, comunque, da escludere la giurisdizione del giudice ordinario. Per
adire il giudice ordinario occorre essere titolare di un diritto civile o politico
al momento in cui l'azione viene esercitata: non basta essere stato titolare
di quel diritto se esso, quando l'amministrazione viene convenuta, non
esiste più perché è stato affievolito o degradato. La dottrina prende atto
con rammarico di questo risultato. Nelle parole di Vacchelli: «L'atto di
impero, corrispondendo all'esercizio dell'autorità legittima dello Stato,
importa un corrispondente arretramento del diritto del cittadino [...];
ma [...] applicando tale stregua rimarrebbero privati della difesa giudiziale
anche quei casi nei quali il diritto del cittadino sussiste, e l'autorità ha
illegalmente agito».

Gli interessi legittimi: la IV sezione del Consiglio di Stato


Per l'effetto congiunto di un'interpretazione restrittiva della nozione di
«diritto civile e politico» e della teoria dell'affievolimento (sicché il diritto
civile o politico cede anche all'atto amministrativo illegittimo), la tutela
offerta dal giudice ordinario viene fortemente ridotta; e correlativamente
risulta ampliata l'area degli «affari non compresi» ossia degli interessi - non
diritti. Quest'area viene estesa sino a comprendere anche gli interessi che
prima erano diritti, ossia i diritti affievoliti o degradati. Sicché il privato non
potrà far valere il suo diritto di proprietà estinto da un decreto di
espropriazione illegittimo, ma potrà soltanto far valere (e davanti alla
stessa autorità amministrativa) il suo interesse a che venga annullato il
decreto illegittimo. L'esperienza negativa della giurisdizione unica, così
restrittivamente interpretata, dà fiato alle ragioni dei difensori del
contenzioso amministrativo. I soppressi tribunali offrivano al cittadino una
protezione più efficace di quella che, negli «affari non compresi», offre
l'amministrazione. Quest'ultima è naturalmente portata a difendere i propri
atti (o quelli dell'inferiore gerarchico) piuttosto che ad annullarli
nell'interesse del privato. Quando Mancini, nel 1864, aveva invitato alla
rassegnazione il cittadino leso nei suoi interessi («Ebbene ch'ei si
rassegni»), l'on. Cordova aveva replicato: «Broglie pensò di chiamare quelli
che chiamo diritti legittimi, intérêts à apprécier [...] Ma questi interessi
da apprezzare che cosa sono se non diritti? Non vi è altra differenza fra
questi diritti e quelli che sono affidati alla tutela dell'autorità giudiziaria, se
non che si tratta di diritti che sono subordinati alle considerazioni
dell'utilità pubblica, di diritti minori, di diritti subordinati [...]». Questa
impostazione, fatta propria da un progetto Crispi sin dal 1873, trovò la sua
espressione, sempre su iniziativa di Crispi, nella l. 31 marzo 1889 n. 5992
(«modificazioni della legge sul Consiglio di Stato» ), poi confluita nel t.u.
approvato con r.d. 2 giugno 1889 n. 6166, assieme alla legge sul Consiglio
di Stato 20 marzo 1865 all. D. Venne istituita una IV sezione del Consiglio di
Stato competente a decidere sui ricorsi per incompetenza, per eccesso di
potere o per violazione di legge, contro atti e provvedimenti o di un'autorità
amministrativa o di un corpo amministrativo deliberante che avessero per
oggetto un interesse d'individui o di enti morali giuridici, quando i ricorsi
medesimi non fossero di competenza dell'autorità giudiziaria né si trattasse
di materia spettante alla giurisdizione o alle attribuzioni contenziose di
corpi o collegi speciali (art. 3). Questa disposizione, che con una
significativa variante (v. più avanti) è tuttora in vigore (come art. 26 del
r.d. 26 giugno 1924 n. 1054, che approva il t.u. delle leggi sul Consiglio di
Stato), tende a colmare il vuoto di tutela aperto dalla legge abolitiva del
contenzioso. Due i profili rilevanti. Innanzitutto essa dà un giudice (anche
se non fu subito chiaro che la IV sezione del Consiglio di Stato era un
giudice) agli «interessi», ossia a quelle situazioni giuridiche che l'art. 3
della legge abolitiva aveva rimesso alla mercé dell'amministrazione. La
relazione al disegno di legge si apre con queste parole: «la legge 20 marzo
1865 all. E proclamò l'unità della giurisdizione [...], ma nulla avendo
sostituito al contenzioso amministrativo che abolì, rimase abbandonata alla
potestà amministrativa l'immensa somma d'interessi onde lo Stato è
depositario». Sottintesa è l'idea, espressa da Cordova nell'intervento
parlamentare sopra richiamato, che gli interessi, per quanto «minori» o
«subordinati» alle «considerazioni dell'utilità pubblica», fossero pur sempre
diritti. In secondo luogo il nuovo giudice è munito del potere di annullare
l'atto illegittimo. Quel potere che l'art. 4 della legge abolitiva del
contenzioso aveva negato al giudice ordinario viene invece conferito al
Consiglio di Stato. Il cittadino, nelle controversie che riguardano interessi,
non ha bisogno di fare accertare dal giudice l'illegittimità dell'atto
amministrativo e poi rivolgersi all'autorità amministrativa per chiederne
l'annullamento o la revoca «in conformità al giudicato» civile. Può ottenere
dallo stesso giudice sia l'accertamento dell'illegittimità dell'atto impugnato
che l'annullamento dell'atto.

Due giudici per il cittadino


Le leggi del 1865 e del 1889 costituiscono il fondamento su cui poggia il
sistema italiano di giustizia amministrativa. Gli interventi successivi
(istituzione della giurisdizione esclusiva del Consiglio di Stato, istituzione
dei Tribunali amministrativi regionali, redistribuzione della giurisdizione, in
anni recenti, fra giudice ordinario e giudice amministrativo), per quanto
importanti siano (lo vedremo), non alterano lo schema fondamentale
designato dalle due leggi, e già anticipato nel dibattito che precedette
l'abolizione del contenzioso. Vi sono due giudici. Il giudice ordinario è
giudice dei diritti; il giudice amministrativo è giudice degli interessi. Il
primo risolve controversie in cui la pubblica amministrazione opera, non
come autorità ma come comune soggetto di diritto (responsabilità civile,
controversie contrattuali, proprietà, possesso, ecc.). Risolve anche quelle in
cui l'amministrazione figuri come autorità, ma solo se si fa questione di
diritto: in questo caso il giudice può accertare l'illegittimità dell'atto
amministrativo ma non può annullarlo. Il giudice amministrativo tutela
interessi attraverso un'unica misura, l'annullamento dell'atto
amministrativo illegittimo che sia lesivo di quegli interessi. Conosce quindi
solo di controversie che derivano dall'esercizio di poteri amministrativi. È
un sistema in qualche modo sbilenco, perché la tutela giurisdizionale piena
viene spaccata in due parti non componibili fra loro. Chi è stato leso in un
suo diritto non può chiedere al giudice ordinario l'annullamento dell'atto
lesivo; chi è stato leso in un suo interesse non può chiedere al giudice
amministrativo il risarcimento del danno. Il privato, nel primo caso, non può
rivolgersi, per ottenere l'annullamento dell'atto, al giudice amministrativo
perché questo ha giurisdizione solo sugli interessi; né, nel secondo caso può
rivolgersi, per ottenere il risarcimento del danno, al giudice ordinario
perché questi ha giurisdizione solo sui diritti.
13.

Il Consiglio di Stato tra amministrazione e giurisdizione


A questo punto sorge spontanea una domanda. Se, in base al principio della
separazione dei poteri, si è negato al giudice ordinario il potere di annullare
l'atto amministrativo (art. 4 legge abolitiva del contenzioso amministrativo),
come mai tale potere è stato conferito al giudice amministrativo senza che
da parte avversa siano state mosse obiezioni di sorta? Per quanto
paradossale possa apparire, la risposta è che la IV sezione, quando fu
istituita, non venne considerata un giudice. Nello spirito della legge Crispi,
la sezione non è un giudice, ma è un pezzo di amministrazione. Quando
viene annullato l'atto amministrativo impugnato, non è il potere giudiziario
che interferisce sull'amministrazione, ma è un ramo di amministrazione che
corregge l'operato dell'altra. Sotto questo profilo tra l'annullamento
dell'atto amministrativo disposto dall'autorità gerarchicamente superiore
alla stregua dell'art. 3 della legge abolitiva (negli «affari non compresi») e
l'annullamento disposto dal Consiglio di Stato in base alla legge Crispi vi è,
agli occhi degli autori di quest'ultima, piena continuità: proprio dove noi,
considerando pacifico il carattere giurisdizionale del Consiglio, avvertiamo
una rottura. L'equivoco, se così si può dire, fu favorito dalla storia stessa
del Consiglio di Stato. Nato nel 1830 nello Stato sabaudo come organo di
consulenza del sovrano, munito di competenze contenziose amministrative
ad esso sottratte dalla legge abolitiva, il Consiglio di Stato aveva
conservato il ruolo di giudice dell'impugnazione contro le decisioni della
Corte dei Conti ed acquisito (sino al 1877) la funzione di risoluzione dei
conflitti. Sempre come organo consultivo, il Consiglio di Stato esprimeva
pareri obbligatori sui ricorsi straordinari al re, e quindi già partecipava del
sistema di giustizia amministrativa. Aggiungendo alle tre sezioni esistenti
una quarta sezione con il compito di decidere sui ricorsi per incompetenza,
per eccesso di potere o per violazione di legge, Crispi e i suoi seguaci non
pensavano di istituire un nuovo giudice; pensavano piuttosto di ripristinare
le competenze «contenziose» che la legge abolitiva aveva tolto al Consiglio
di Stato. Più precisamente pensavano di rendere «generale» questa
competenza, estendendola a ogni controversia su «interessi». In realtà già
nei primi anni di applicazione della legge, le cose andarono diversamente.
La Corte di Cassazione diede quasi subito per scontata la natura
giurisdizionale della IV sezione ammettendo il ricorso per difetto di
giurisdizione contro le decisioni del Consiglio di Stato: ricorso che è
proponibile solo contro una sentenza (e la sentenza è resa da un giudice).
Nel 1907 ogni dubbio fu eliminato con una lieve modifica dell'art. 3 della
legge Crispi. «Spetta al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale di
decidere sui ricorsi [...]». In questo modo, indiretto e graduale, l'istituzione
del giudice amministrativo fu accettata senza che venissero messi
direttamente in discussione i sacri principi della giurisdizione unica e della
separazione del potere esecutivo dal potere giudiziario.

Il completamento del sistema


Il sistema di giustizia amministrativa è stato completato da altre leggi nel
corso del ventesimo secolo. Segnaliamo solo due tappe di questa vicenda,
rimandando al seguito per una considerazione sistematica. Con la legge del
30 dicembre 1923 n. 2840 fu attribuito al Consiglio di Stato in sede
giurisdizionale (alla IV sezione la legge del 1907 ne aveva aggiunta una
quinta) giurisdizione esclusiva in alcune materie nelle quali più ardua si era
rivelata la distinzione fra diritti soggettivi e interessi. La più importante di
tali materie fu il pubblico impiego. Il dipendente pubblico vanta nei
confronti dell'amministrazione pretese che hanno consistenza di diritti (ad
una certa retribuzione, ad una progressione economica automatica, ecc.) o
hanno consistenza di interessi (l'interesse a una promozione, ad essere
trasferito, a non essere trasferito) o hanno natura dubbia (una promozione
per anzianità è un diritto o un interesse?). Per porre fine ai contrasti di
giurisprudenza insorti e sollevare l'interessato dalla necessità di adire
simultaneamente più giudici, la legge risolve il problema attribuendo tutta
la materia ad un unico giudice (il giudice amministrativo). Nell'ambito di
essa, il Consiglio di Stato conoscerà sia di interessi legittimi che di diritti
soggettivi. In altre parole, sul criterio di riparto delle due giurisdizioni
fondato sulla natura della situazione soggettiva di cui si chiede la tutela
(diritto o interesse) ne viene innestato uno diverso: il criterio della materia.
La materia è attribuita in blocco ad un unico giudice. Come vedremo, è un
criterio a cui farà ricorso sempre più frequente la legislazione più recente.
L'altra tappa fondamentale è segnata dalla legge del 1971 (l. 6 dicembre
1971 n. 1034) che istituisce i Tribunali amministrativi regionali. Una
giustizia amministrativa locale era in verità esistita in Italia sin dal 1890;
quando, sempre su iniziativa di Francesco Crispi, alle Giunte provinciali
amministrative ( G P A ), organi provinciali presieduti dal prefetto e composti di
quattro membri, due funzionari prefettizi e due elettivi, era stata attribuita
competenza ad annullare atti amministrativi dei comuni e delle province su
ricorso degli interessati in numerose materie di dimensione locale. Contro le
decisioni delle G P A era ammesso l'appello al Consiglio di Stato (l. 1 o maggio
1890 n. 6837). Nel 1967 la Corte costituzionale dichiarò illegittima la
composizione della G P A in sede giurisdizionale, ritenendo che la prevalenza
dei componenti di estrazione burocratica non garantisse l'indipendenza e
l'imparzialità prescritte per i giudici dagli artt. 101 co. 2 e 108 co. 2 Cost.
(sent. n. 30/1967). Il vuoto lasciato dalla dichiarazione di incostituzionalità
delle G P A fu colmato, nel 1971, dai Tribunali amministrativi regionali. In
ossequio ad un'indicazione della Costituzione che aveva previsto in
ciascuna regione organi di giustizia amministrativa di primo grado (art. 125
Cost.), furono istituiti i T A R (abbreviazione di Tribunale amministrativo
regionale, poi entrata nell'uso corrente) con la stessa competenza del
Consiglio di Stato, che diventava così giudice d'appello. Il parallelismo era
in qualche modo imposto da un altro articolo della Costituzione (art. 103 co.
1) secondo cui il Consiglio di Stato e gli altri organi di giustizia
amministrativa hanno giurisdizione per la tutela nei confronti della
pubblica amministrazione degli interessi legittimi e, in particolari materie
indicate dalla legge, anche dei diritti soggettivi. Poiché la Costituzione vieta
l'istituzione di giudici speciali (art. 102 co. 2), gli altri organi di giustizia
amministrativa non possono essere che i T A R , ossia gli organi di giustizia
amministrativa di primo grado menzionati dall'art. 125 Cost. Essi sono
composti in parte da consiglieri di Stato e in parte da giudici nominati a
seguito di pubblico concorso, muniti di garanzie di indipendenza analoghe a
quelle dei giudici ordinari (cfr. l. 186/1982); e si distinguono dalle vecchie
G P A non solo per la composizione, ma anche per la competenza. Tale
competenza non è limitata a specifiche materie, e ad atti degli enti locali,
ma si estende ai ricorsi per incompetenza, eccesso di potere o violazione di
legge contro atti e provvedimenti emessi dagli organi centrali dello Stato e
degli enti pubblici a carattere ultraregionale (art. 3 l. 1034/1971). Tale
competenza si aggiunge a quella che riguarda gli atti e i provvedimenti
degli organi periferici dello Stato e degli enti pubblici che hanno sede nella
circoscrizione del T A R , nonché gli atti e i provvedimenti degli enti pubblici
15.

territoriali (comuni, province e loro consorzi) compresi nella medesima


circoscrizione (art. 2). Il Consiglio di Stato, come si è detto, diventa giudice
d'appello contro le sentenze dei T A R (art. 28).

La svolta del 2000


L'ultimo capitolo della giustizia amministrativa in Italia è stato scritto nel
2000. A conclusione di una complessa vicenda legislativa che si apre nel
1993 col d.lgs. 29/1993 - modificato profondamente, per la parte che ci
riguarda, dal d.lgs. 80/1998 - viene approvata una legge (n. 205/2000) per
effetto della quale i confini tra giurisdizione ordinaria e giurisdizione
amministrativa vengono ridefiniti. La materia del pubblico impiego, che
costituiva il nucleo più importante della giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo, viene trasferita in blocco al giudice ordinario (alla
competenza del giudice del lavoro). Questa scelta dipende dalla c.d.
privatizzazione dell'impiego pubblico, ossia dall'assimilazione dell'impiego
pubblico al rapporto di lavoro privato. L'impiego pubblico cessa di essere
disciplinato da leggi e regolamenti specifici delle pubbliche amministrazioni
e viene assoggettato alle stesse norme (codice civile, leggi generali sul
lavoro, contratti collettivi) che regolano il rapporto di lavoro subordinato
nel settore privato. Il rapporto di impiego con l'amministrazione non viene
più creato da un provvedimento amministrativo (la nomina), ma da un
contratto; viene modificato da atti di diritto privato che l'ente pubblico
compie con la «capacità del privato datore di lavoro» (trasferimenti,
destinazione ad altre mansioni, aspettativa, ecc.); e viene risolto, il
rapporto col datore di lavoro pubblico, con l'esercizio degli stessi poteri che
esercita verso i suoi dipendenti il datore di lavoro privato (ivi compreso il
licenziamento per giusta causa o giustificato motivo e, per i dirigenti, il
recesso ad nutum). Sottoposta al diritto del lavoro la disciplina sostanziale
del rapporto, passano al giudice del lavoro le relative controversie. Rimane
al giudice amministrativo la giurisdizione sui rapporti di impiego pubblico
non privatizzato: militari, forze di polizia, magistrati, avvocati dello Stato,
professori universitari. Il T A R e il Consiglio di Stato conservano la
giurisdizione sui concorsi per l'accesso al pubblico impiego: è sottinteso che
il procedimento concorsuale è un procedimento amministrativo che sfocia in
un provvedimento amministrativo (l'approvazione della graduatoria). Quasi
a compensarlo di questa perdita (il contenzioso sull'impiego pubblico
incideva con una percentuale oscillante fra il 40 e il 50% sull'intero
contenzioso amministrativo) la recente legislazione ha trasferito al giudice
amministrativo la giurisdizione esclusiva su materie molto rilevanti: servizi
pubblici, urbanistica, edilizia, espropriazioni (ad eccezione delle questioni di
indennizzo), appalti pubblici. Solo giudice in questi ambiti è, secondo la l.
205/00, il giudice amministrativo: sicché dovrebbe perdere importanza la
distinzione, in queste materie, fra interessi legittimi e diritti soggettivi ai
fini del riparto di giurisdizione. Così avviene quando una materia è
attribuita in blocco alla cognizione di un solo giudice. Il farmacista deve
rivolgersi al T A R per ottenere la condanna dell'Azienda sanitaria a
rimborsargli il prezzo dei farmaci ceduti agli assistiti (ci muoviamo
nell'ambito del servizio pubblico della sanità); lo stesso farà la banca contro
la Regione che decide di ridurre unilateralmente il tasso di interesse sulle
somme che la Regione è tenuta a corrispondere sulla base di un rapporto di
credito speciale (a tasso agevolato: il servizio pubblico interessato, in
questo caso, è il servizio del credito); o il cittadino contro il comune che
innalza il prezzo del biglietto dell'autobus; o il proprietario il cui terreno sia
stato abusivamente occupato da agenti dell'amministrazione provinciale.
Come vedremo, le cose sono andate in questo modo per quattro anni. Nel
2004 una sentenza della Corte costituzionale (la n. 204) riscriverà la l.
205/2000 depurandola degli elementi più eversivi del sistema. Rinviamo al
capitolo 6 per la descrizione dell'assetto che nascerà dalla sentenza.

L'interesse legittimo e l'atto amministrativo

Interesse legittimo e potere amministrativo


Nel sistema di tutela giurisdizionale del cittadino contro la pubblica
amministrazione, così sommariamente delineato, un ruolo cruciale hanno
svolto i due concetti di interesse legittimo e di atto amministrativo.
Nella sua formulazione originaria, come si è già ricordato, l'art. 3 della
legge abolitiva rimetteva «esclusivamente alle autorità amministrative» la
«cognizione dei ricorsi contro gli atti di pura amministrazione, riguardanti
esclusivamente gli interessi individuali o collettivi degli amministrati». Solo
dopo la modifica operata dalla Commissione senatoriale gli interessi
individuali o collettivi diventeranno gli «affari non compresi nell'articolo
precedente». E la legge Crispi, nell'istituire la IV sezione del Consiglio di
Stato, le attribuì il potere di decidere sui ricorsi contro atti e provvedimenti
che avessero per oggetto un interesse di individui o di enti morali giuridici.
L'interesse individua la competenza prima dell'autorità amministrativa
(1865) e poi del giudice amministrativo (1889): mentre il diritto civile o
politico (diritto soggettivo) è tutelato dal giudice ordinario (art. 2 legge
abolitiva).
La coppia diritto-interessi si ritrova nella Costituzione del 1948.
Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti o interessi
legittimi (art. 24); contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre
ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi
dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa (art. 113).
Ma che cos'è un interesse legittimo? E come si distingue da un diritto
soggettivo?
Il diritto soggettivo è una situazione giuridica che spetta ad una persona
sulla base di un titolo che può avere la natura più varia, ma che non
dipende, in generale, da una pubblica amministrazione. Sono proprietario di
una casa perché l'ho ereditata o l'ho comprata o l'ho costruita su un terreno
che, a sua volta, è di mia proprietà. Ho un credito verso Tizio perché questi
mi deve quanto gli ho dato in prestito o perché è tenuto a risarcirmi del
danno che mi ha cagionato. Il diritto, di proprietà o di credito negli esempi
fatti, nasce dalla morte del vecchio proprietario o da una compravendita o
dall'esercizio di una facoltà che mi compete in quanto proprietario di altra
cosa o da un mutuo o da un fatto illecito altrui.
L'interesse legittimo è invece correlato necessariamente all'esercizio di un
potere amministrativo. Faccio domanda di concessione di suolo pubblico per
installarvi un'edicola per la vendita di giornali; o domanda di licenza di taxi;
17.

o domanda di autorizzazione a lottizzare. Ovvero sono chiamato a prestare


servizio militare; o mi vedo intimato, con un'ordinanza del sindaco, di
puntellare la mia casa pericolante; o mi viene ingiunto di allacciare lo
scarico del mio terreno alla rete fognaria.
Ho un interesse ad ottenere dall'amministrazione un provvedimento che mi
consente di fare ciò che altrimenti non potrei fare, nella prima serie di
esempi. Ho interesse ad oppormi al provvedimento dell'amministrazione,
nella seconda serie di esempi.
Il provvedimento entra comunque in gioco: o come oggetto di
un'aspirazione o di una pretesa; o come oggetto di una ripulsa. Nel primo
caso perché mi giova, nel secondo perché mi nuoce. Nel primo caso il mio
interesse viene soddisfatto se viene preso un provvedimento; nel secondo
viene soddisfatto se il provvedimento non viene emesso. In modo speculare
il mio interesse viene leso, nel primo caso, da un rifiuto di provvedimento; e
nel secondo, dall'adozione del provvedimento.
Per distinguere le due situazioni si parla, rispettivamente, di interessi
pretensivi e di interessi oppositivi.
La domanda che sorge spontanea, a questo punto, è la seguente. Perché noi
parliamo di interesse al provvedimento anziché di diritto al provvedimento?
Di interesse ad oppormi al provvedimento, anziché di diritto di oppormi al
provvedimento? La pretesa al rilascio dell'autorizzazione o alla licenza
richiesta non ha la stessa struttura della pretesa del creditore
all'adempimento del debitore?
La risposta negativa è implicita nella definizione che Broglie, richiamato
dall'on. Cordova nell'intervento già ricordato nel dibattito che precedette la
votazione della legge abolitiva, diede dell'interesse legittimo: intérêts à
apprécier. Interessi da apprezzare, da valutare. L'amministrazione, lungi
dall'essere obbligata a soddisfarli (come è obbligato il debitore verso il
creditore), deve preliminarmente accertare se essi siano compatibili con
l'interesse pubblico. La legge richiede l'intervento dell'autorità
amministrativa non perché abbia di mira l'interesse privato ma, al contrario,
perché l'autorità accerti se la soddisfazione di tale interesse non nuoccia a
un interesse pubblico contrapposto. Se l'obiettivo fosse quello di assicurare
la soddisfazione dell'interesse privato non ci sarebbe bisogno
di legge alcuna, almeno nella generalità dei casi: proprio perché il privato è
in grado di soddisfare da sé, con la propria azione, il suo interesse, anzi è il
soggetto più indicato a questo scopo. La concessione edilizia è prescritta
non, come parrebbe, per consentire al proprietario di fabbricarsi una casa: a
questo fine basterebbe che egli esplicasse una delle facoltà che gli derivano
dall'essere proprietario del fondo. È prescritta, invece, perché tale facoltà
sia esercitata in modo compatibile con l'interesse pubblico ad un ordinato
assetto del territorio, qual è cristallizzato nelle previsioni del Piano
regolatore generale e dell'eventuale piano particolareggiato, e più in
generale nelle norme che stabiliscono una certa distanza fra le costruzioni o
un certo arretramento rispetto al mare. La concessione edilizia, una volta
che è rilasciata, soddisfa, è vero, l'interesse del proprietario: ma il potere di
rilasciarla (o di negarla) è attribuito al comune non perché sia soddisfatto
quell'interesse, ma perché sia garantito l'interesse pubblico a un certo
assetto del territorio. Nel momento in cui rilascia la concessione il sindaco o
il dirigente del comune accerta che il progetto di costruzione non contrasti
con quell'interesse pubblico.
È questa la ragione per cui non si parla di diritto, ma di interesse.
Non diversa, nonostante le apparenze, è la condizione dell'interesse
oppositivo. Qui il soggetto è di solito titolare di un diritto di proprietà o di
libertà. Il diritto di proprietà che si contrappone al potere amministrativo di
espropriazione, il diritto di libertà che si contrappone al potere di chiamare
al servizio militare obbligatorio o al potere di scioglimento di una riunione o
al potere di inibire un corteo sindacale o politico.
Senonché il diritto di proprietà e i diritti di libertà che si configurano come
diritti assoluti nei riguardi degli altri privati, i quali sono tenuti a rispettarli
astenendosi da ogni interferenza, possono essere invece sacrificati dalla
pubblica amministrazione quando lo richieda un qualche interesse pubblico
(individuato dalla legge o addirittura dalla Costituzione): almeno nelle
materie che non sono riservate al giudice (c.d. riserva di giurisdizione).
L'autorità amministrativa non può limitare la mia libertà personale, che è
protetta da una riserva di giurisdizione sicché solo il giudice può imporre
tale limitazione, con atto motivato e «nei soli casi e modi previsti dalla
legge» (art. 13 Cost.): ma può limitare la mia libertà di riunione quando vi
siano «comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica» (art. 17
Cost.), o la mia libertà di circolazione «per motivi di sanità o di sicurezza»
(art. 16 Cost.).
Se l'autorità amministrativa può sacrificare il mio diritto, che cosa può
opporre il privato? Non il diritto in quanto tale, che l'autorità ha il potere di
sacrificare, ma l'interesse a che, nell'esercitare il suo potere, l'autorità
osservi la legge, ossia lo schema normativo già descritto (nel primo
capitolo) e che prevede competenza, presupposti, oggetto, fini, ed effetti
del provvedimento amministrativo.
Il proprietario che impugna il decreto di espropriazione davanti al giudice
amministrativo non fa valere il suo diritto di proprietà, ma fa valere il suo
interesse a che il potere dell'amministrazione non sia esercitato in modo
illegittimo. Sarebbe illegittimo, ad esempio, il decreto di espropriazione che
non fosse preceduto dalla dichiarazione di pubblica utilità che la legge
richiede come suo presupposto necessario. Non è che il diritto di proprietà
non venga in rilievo. Viene in rilievo per individuare colui che può rivolgersi
al giudice amministrativo, ossia come si dice, ai fini della legittimazione a
ricorrere: legittimazione che spetta solo a chi è proprietario o titolare di un
diritto reale parziario sul bene occupato (usufrutto, uso, abitazione, ecc.).
Il diritto di proprietà viene tutelato dalla reazione del titolare in modo
indiretto ed eventuale. Se il giudice amministrativo accoglie il ricorso,
annullando il decreto di espropriazione, la proprietà, che era stata tolta,
19.

viene riacquistata. Resta fermo tuttavia il principio per cui l'azione davanti
al giudice amministrativo è a tutela dell'interesse legittimo (l'interesse alla
legittimità dell'esercizio del potere espropriativo), e non del diritto
soggettivo di proprietà.
Anche qui si può ripetere quello che si è detto dell'interesse pretensivo. La
norma che attribuisce il potere di espropriazione e di occupazione è dettata
a protezione dell'interesse pubblico: ma le regole per l'esercizio del potere
possono essere invocate dal soggetto che ne è destinatario, ossia dalla
vittima, per contestare quell'esercizio e vanificarne il risultato, con
l'annullamento del provvedimento illegittimo.

Interesse legittimo e interesse pubblico


L'intreccio tra interesse pubblico e interesse privato, che è intrinseco alla
nozione di interesse legittimo, ha indotto la dottrina giuridica più antica a
considerare l'interesse legittimo come un minus rispetto al diritto
soggettivo, come una situazione giuridica minore.
Gli interessi legittimi, si è detto, sono protetti nella misura in cui coincidono
con l'interesse pubblico. Se un'ordinanza di requisizione di un'azienda viene
annullata per l'incompetenza dell'autorità che l'ha emessa (poniamo il
sindaco) non è il proprietario dell'azienda che viene tutelato, ma l'interesse
pubblico al rispetto delle competenze. O, se si preferisce, l'interesse privato
(interesse legittimo) viene tutelato se la sua tutela coincide con quella
dell'interesse pubblico.
Qualcun altro ha parlato di tutela occasionale e indiretta per esprimere
sostanzialmente lo stesso concetto. Il privato sarebbe tutelato di riflesso, in
dipendenza della protezione dell'interesse pubblico, e tale protezione
sarebbe il fine del processo amministrativo. Anche se continua ad essere
accolta da certa giurisprudenza e da una parte della dottrina, questa tesi
non può essere
più accettata nel quadro della Costituzione repubblicana (ammesso che essa
fosse plausibile nell'ordinamento precedente). Se tutti possono agire in
giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi (art. 24 Cost.)
vuol dire che il giudizio, ossia il processo, serve alla tutela dei diritti e degli
interessi legittimi, non alla tutela dell'interesse pubblico. Analoga
conclusione suggerisce il successivo art. 113 Cost., che ammette sempre la
tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi contro gli atti
della pubblica amministrazione dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria
o amministrativa. Questi organi, il giudice ordinario e il giudice
amministrativo, non proteggono la pubblica amministrazione o l'interesse
pubblico di cui l'amministrazione pretende di essere portatrice e custode,
ma proteggono il cittadino contro la pubblica amministrazione.
La tesi del carattere indiretto o riflesso dell'interesse legittimo ha tuttavia
una punta di vero. È vero, cioè, che l'interesse legittimo, come è correlato
al potere amministrativo, così viene protetto attraverso il sindacato
giurisdizionale sull'esercizio del potere amministrativo. Anche in questo si
distingue dal diritto. In molti casi il giudice civile protegge il diritto
semplicemente accertandone l'esistenza. Contro il vicino che pretende di
essere titolare di una servitù sul suo fondo, il proprietario si difenderà
chiedendo al giudice di accertare che la sua proprietà non è soggetta a
servitù (azione negatoria, art. 949 cod. civ.).
Quando il giudice accerta l'esistenza di un credito che il debitore sostiene
di avere adempiuto, per ciò stesso esclude l'adempimento. Se il debitore
avesse pagato, nessun credito residuerebbe, e quindi mancherebbe
l'obbligazione che si chiede di accertare.
Di fronte all'interesse legittimo il compito del giudice (amministrativo) è
diverso.
Non gli si chiede di accertare l'esistenza dell'interesse legittimo. Gli si
chiede di accertare che il potere amministrativo, che si contrappone
all'interesse legittimo e ad esso è correlato, è stato esercitato in modo
illegittimo: ossia che l'atto impugnato è viziato da incompetenza, violazione
di legge ed eccesso di potere (vedremo subito il significato di queste
nozioni). Da tale illegittimità deriva la lesione dell'interesse legittimo.
Si tratta di una situazione che ricorre anche nei rapporti fra privati quando
una delle parti del rapporto è soggetta al potere dell'altra. Il lavoratore può
essere di solito licenziato dal suo datore di lavoro, ma solo per giusta causa
o giustificato motivo (art. 1 l. 604/1966). Quando impugna il licenziamento
non chiede che sia accertato il suo diritto a non essere licenziato (tale
diritto, in questi termini, non esiste): sollecita, invece, un controllo sul
potere del datore di lavoro, per valutare se sia stato correttamente
esercitato, se sussista cioè la giusta causa o il giustificato motivo di
licenziamento.
Ci si potrebbe chiedere, allora, perché quello che il lavoratore fa valere
davanti al giudice del lavoro è un diritto mentre quello che il privato vanta
contro l'amministrazione è invece un interesse legittimo. Qui gioca la
tradizione, la genesi della distinzione diritto soggettivo-interesse legittimo,
la stretta correlazione di questa distinzione con il sistema italiano di
giustizia amministrativa.
Nulla esclude, tuttavia, che concettualmente l'interesse legittimo sia una
specie di diritto soggettivo: una situazione giuridica soggettiva di favore,
che è dipendente tuttavia da un potere altrui e che, ove non risulti
soddisfatta, apre la strada al controllo giudiziario sull'esercizio di questo
potere.
La prova di ciò? Il fatto che negli altri ordinamenti, diversi dall'ordinamento
italiano (e dall'ordinamento spagnolo), la figura dell'interesse legittimo è
sconosciuta. In realtà non è la figura che è sconosciuta, ma il termine per
indicarla. Situazioni analoghe si chiamano, fuori d'Italia, diritti, aspettative,
interessi semplici.

L'atto amministrativo e i vizi di legittimità


L'altro concetto chiave nel sistema italiano di giustizia amministrativa è il
concetto di atto amministrativo.
È richiamato dalla legge abolitiva del contenzioso (artt. 2, 4 e 5) ed è al
centro della legge istitutiva della IV sezione del Consiglio di Stato.
Nelle controversie sui diritti, devolute alla giurisdizione del giudice
ordinario, la presenza dell'atto amministrativo è solo eventuale. A quel
giudice spettano «tutte le materie nelle quali si faccia questione di un
diritto civile o politico [...] ancorché siano emanati provvedimenti del potere
esecutivo o dell'autorità amministrativa» (art. 2). Ciò significa che il privato
può far questione di un diritto contro la pubblica amministrazione anche se
non è stato emanato alcun provvedimento amministrativo: per esempio se
chiede il pagamento della pigione di un appartamento che ha dato in
locazione alla provincia o se reclama il risarcimento del danno subito per
essere caduto in una buca non visibile della strada comunale.
Che l'atto amministrativo possa non venire in rilievo nella lite lo conferma il
successivo art. 4: «quando la contestazione cade sopra un diritto che si
pretende leso da un atto dell'autorità amministrativa, i tribunali si
limiteranno a conoscere degli effetti dell'atto stesso in relazione all'oggetto
dedotto in giudizio». La «contestazione» può quindi «cadere» su un diritto
che il privato considera leso da una pubblica amministrazione, ma non da
un atto amministrativo: per esempio da un comportamento negativo o da un
comportamento di fatto posto in essere in violazione di un'obbligazione.
Nella giurisdizione amministrativa l'atto amministrativo ha invece un ruolo
essenziale. Secondo la legge istitutiva della IV sezione
non ci può essere processo amministrativo senza atto amministrativo.
Spetta infatti alla sezione (oggi al Consiglio di Stato e ai T A R ) decidere sui
ricorsi per incompetenza, per eccesso di potere o per violazione di legge
contro atti o provvedimenti di un'autorità amministrativa o di un corpo
amministrativo deliberante (così oggi, l'art. 26 del t.u. della legge sul
Consiglio di Stato; v. anche gli artt. 2 e 3 della legge istitutiva dei Tribunali
amministrativi regionali - legge T A R ). Se accoglie il ricorso, il giudice
amministrativo annulla in tutto o in parte l'atto impugnato (art. 26 l. T A R ,
art. 45 t.u. delle leggi sul Consiglio di Stato). Solo nelle materie devolute
alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo può esserci una lite
senza che vi sia un atto amministrativo impugnato; o nei casi in cui è
ammessa l'impugnazione del silenzio della pubblica amministrazione. Lo
vedremo in seguito.
Che cos'è un atto amministrativo o un provvedimento amministrativo?
L'atto amministrativo, o il provvedimento amministrativo, si può rispondere
sinteticamente, è l'atto di esercizio del potere amministrativo ossia di un
potere che è conferito dalla legge a tutela di un interesse pubblico:
un'autorizzazione, una concessione, un divieto, una sanzione. Atto
amministrativo è il porto d'armi (l'autorizzazione a portare armi o certe
armi), la concessione di suolo demaniale marittimo (rilasciata, per esempio,
al titolare di uno stabilimento balneare), il piano di riparto delle frequenze
radiotelevisive elaborato dall'Autorità garante delle telecomunicazioni, la
sanzione pecuniaria applicata dall'Autorità garante della concorrenza e del
mercato all'impresa che abbia abusato della sua posizione dominante, il
piano regolatore comunale, il divieto di commercializzazione di carni di
bovini con più di diciotto mesi, l'ordinanza sindacale di sgombero di edificio
pericolante, la revoca di una patente di guida. Molti di questi atti hanno il
loro contrario - il rifiuto di autorizzazione o di concessione, la rimozione di
un divieto di commercializzazione, l'abbuono di una sanzione; mentre gli
atti che hanno portata generale (il piano delle frequenze radiotelevisive, il
piano regolatore comunale, ecc.) hanno contenuto variegato, favorevole per
alcuni, dannoso per altri.
Anche gli atti a contenuto specifico, favorevoli a chi ne ha fatto richiesta,
possono essere lesivi di altre persone. Il permesso di costruire, che
consente al proprietario di edificare il suolo, nuoce al vicino che dalla
costruzione si vedrà togliere la veduta di cui oggi gode.
Poiché l'azione amministrativa cade come una pioggia di benefici o di
svantaggi, essa creerà ragione di risentimento nelle persone svantaggiate.
Sono loro che cercheranno presso il giudice tutela contro gli atti della
pubblica amministrazione (art. 113 Cost.). Ma, come si è detto in
precedenza, il pregiudizio subito non sarà sufficiente a giustificare la
misura richiesta al giudice (l'annullamento dell'atto al giudice
amministrativo; il risarcimento del danno al giudice ordinario). Occorrerà
anche che l'atto sia illegittimo: viziato da incompetenza, da eccesso di
potere, da violazione di legge. Se così non fosse, si tratterebbe di sacrificio
legittimamente prodotto nella sfera del privato. Sacrificato da un'autorità
amministrativa che può espropriare la proprietà privata, togliere il
possesso, imporre obbligazioni pecuniarie, attribuire benefici ad alcuni e
non ad altri, togliere i benefici già attribuiti.
La tripartizione dei vizi di legittimità in incompetenza, violazione di legge
ed eccesso di potere risale al 1889 (ossia alla legge istitutiva della IV
sezione del Consiglio di Stato) ed è stata confermata dalla legge che ha
creato i Tribunali amministrativi regionali (artt. 2 e 3 l. 1034/1971 e, da
ultimo dall'art. 21 octies l. 241/1990, come modificato dalla l. 15/2005).
L'organizzazione amministrativa è fondata su sfere di competenza, ossia
sulla distribuzione del potere fra più enti (per esempio lo Stato e la regione)
e, all'interno del medesimo ente, fra più organi (per esempio nel comune,
fra consiglio comunale, giunta e sindaco). Il principio di competenza
costituisce applicazione di quell'altro e più generale principio, valido per
tutte le organizzazioni collettive (pubbliche o private che siano), che è il
principio della divisione del lavoro; una regola di razionalità organizzativa
ispirata a obiettivi di efficienza. Tali obiettivi verrebbero frustrati se tutti
facessero tutto, e quindi se ciascuno facesse ciò che fa anche l'altro. Ma nel
diritto pubblico (e in genere nel diritto delle organizzazioni impersonali-
associazioni, fondazioni, società) il principio di competenza ha anche un
altro significato. Se tutti i poteri amministrativi fossero concentrati in un
unico organo (il presidente della Repubblica ad esempio, o il consiglio
comunale) il cittadino rimarrebbe schiacciato sotto un peso immane: il peso
di un potere che è, nello stesso tempo, potere di espropriare, di occupare,
di imporre tributi, di pretendere prestazioni personali, di abilitare
all'esercizio di una professione o di un'attività economica e anche di
toglierti tale abilitazione. La regola di competenza comporta invece che il
potere sia ripartito, suddiviso in singole sfere, ciascuna corrispondente a un
organo; sicché il superamento dei confini di questa sfera rende l'atto
illegittimo. Anche il potere su una materia determinata è sottoposto a tale
suddivisione. Per esempio il potere espropriativo si articola in un momento
nel quale viene dichiarato il pubblico interesse alla realizzazione dell'opera
pubblica, e competente è, poniamo, il presidente della giunta regionale
(ma, a seconda della natura dell'opera, può essere la giunta comunale o il
ministro dei Lavori pubblici), e il momento dell'espropriazione vera e
propria (di volta in volta di competenza del prefetto, del sindaco, ecc.). Se
un organo usurpa le competenze dell'altro, l'atto è illegittimo: illegittimo in
ragione del soggetto che lo ha adottato anche se irreprensibile dal punto di
vista del contenuto, anche se è tale, cioè, che l'organo competente
l'avrebbe preso tale e quale.
La violazione di legge è il vizio di legittimità che ricorre con maggior
frequenza: quante sono le prescrizioni legislative alle quali l'autorità deve
conformarsi tante sono le possibilità di una loro violazione. Se l'atto deve
essere per legge preceduto da un parere obbligatorio e questo non viene
acquisito, c'è violazione di legge. Se la legge subordina l'atto all'esistenza
di determinati presupposti -per esempio il permesso di costruire può essere
rilasciato a chi è proprietario o abbia comunque un titolo - e il presupposto
in concreto manca, l'atto è illegittimo. Se l'atto (per esempio un
licenziamento disciplinare) deve essere preceduto da una contestazione
di addebito, e tale contestazione non c'è stata, allora c'è violazione di
legge.
Si può dire di questo vizio di legittimità quello che S. Paolo dice del
peccato. «Che diremo dunque? Che la legge è peccato? No certamente!
Perché io non ho conosciuto il peccato se non per la legge, né avrei
conosciuto la concupiscenza, se la legge non avesse detto: Non desiderare»
(Rm 7,7).
Più complessa è la questione dell'eccesso di potere.
Anche se la terminologia può essere fuorviante (il profano tende ad
identificare l'eccesso di potere con l'incompetenza), all'origine si volle
esprimere questa idea. Il potere amministrativo è un potere finalizzato ad
uno scopo di pubblico interesse che di solito si ricava dalla denominazione
dell'organo: il ministro dell'Ambiente dispone di un potere che è ordinato
alla difesa dell'ambiente, l'Autorità garante della concorrenza e del mercato
deve garantire la concorrenza e il mercato contro le pratiche
anticoncorrenziali, l'assessore comunale all'edilizia privata deve farsi carico
dell'attività costruttiva perché sia rispettosa delle norme e delle
prescrizioni in materia. Ora può succedere che l'autorità utilizzi il potere di
cui dispone (il potere che rientra nella sua sfera di competenza) per uno
scopo privato, anziché pubblico: per esempio il sindaco nega il permesso di
costruire perché colui che lo richiede alle elezioni si è schierato a favore di
altro candidato alla carica. Ma può anche accadere che l'interesse
perseguito sia pur sempre un interesse pubblico, ma non lo specifico
interesse che deve essere tutelato attraverso quella competenza. Per
esempio il sindaco chiude il centro storico ai taxi per incentivare il ricorso
ai mezzi pubblici e ridurre il deficit dell'azienda municipale di trasporto: un
proposito apprezzabile (il proposito di ridurre il deficit del servizio di
trasporto locale) ma che non può essere perseguito con l'uso di altro potere
che ha diversa finalità (il potere di disciplinare il traffico urbano). Si dice
che, in questi casi, vi è eccesso di potere: perché il potere amministrativo è
utilizzato per perseguire un interesse privato o per soddisfare un interesse
pubblico diverso da quello che la legge, attribuendo la relativa competenza,
mira a garantire.
Si capisce che per accertare l'esistenza di un vizio di eccesso di potere
occorre, in qualche misura, fare un processo alle intenzioni.
Quest'operazione è necessaria per mettere in luce il contrasto tra lo scopo
che l'autorità è autorizzata a perseguire e quello che in concreto persegue.
Per facilitare questa indagine e conferirle un carattere quanto più possibile
oggettivo il Consiglio di Stato e oggi anche i T A R hanno individuato dei
sintomi (o figure sintomatiche) di eccesso di potere: forme tipiche come la
disparità di trattamento, la contraddizione tra motivazione e dispositivo o
tra i singoli motivi dell'atto, il contrasto con la prassi o con determinazioni
precedenti, la mancanza o l'insufficienza dell'istruttoria. Quando ricorre una
di queste ipotesi l'atto è oggi di per sé considerato illegittimo: senza che
sia più necessario indagare (come sarebbe proprio della logica del sintomo)
se dietro ciascuna di esse ci sia effettivamente un eccesso di potere, ossia
una discrasia fra scopo autorizzato e scopo concretamente perseguito.
L'eccesso di potere oggi comprende, accanto alla figura originaria dello
sviamento di potere (l'uso del potere amministrativo per una finalità diversa
da quella stabilita dalla legge), anche tutte le altre ipotesi un tempo
qualificate come figure sintomatiche.
È viziata, così, da eccesso di potere la sanzione amministrativa inflitta a
Tizio per un illecito di cui è corresponsabile Caio al quale nessuna sanzione
viene applicata (manifesta ingiustizia o disparità di trattamento); viziata da
eccesso di potere la dispensa per scarso rendimento dell'ufficiale che,
qualche mese prima, ha ricevuto un encomio per la sua attività
(contraddittorietà con precedente determinazione); viziata da eccesso di
potere la determinazione del piano regolatore che riduce sensibilmente la
quota di territorio comunale destinata a edilizia residenziale mentre nella
relazione che accompagna il piano si prevede, per il prossimo decennio, un
cospicuo incremento demografico (contraddittorietà tra motivazione e
dispositivo); illegittima per eccesso di potere l'ingiunzione di demolire un
manufatto abusivo, non preceduta da un accertamento volto a distinguere
la parte di costruzione conforme alla concessione edilizia dalla parte di
costruzione difforme (difetto di istruttoria).
L'idea sottostante è oggi questa. Il provvedimento amministrativo è
regolato non soltanto dalla legge, ma anche da una serie di principi
elaborati dalla giurisprudenza amministrativa, in parte costituzionalizzati
(imparzialità, ragionevolezza, proporzionalità, adeguatezza, ecc.). Il
provvedimento è quindi illegittimo non soltanto quando viola la legge, ma
anche quando contrasta con uno di questi principi.
L'eccesso di potere è oggi la figura di sintesi che abbraccia le innumerevoli
situazioni in cui l'amministrazione ha violato un principio regolatore
dell'azione amministrativa senza violare una specifica disposizione di legge.

Dov'è l'atto amministrativo?


Non è sempre facile stabilire se c'è un atto amministrativo. È un problema
che si pone anche per altri atti giuridici. C'è o non c'è un contratto?
L'accordo fra le parti è stato raggiunto o il rapporto è venuto meno quando
era ancora nella fase delle trattative? C'è o non c'è un testamento? Quel
pezzo di carta è l'appunto di un futuro testamento o può essere considerato
un atto di ultime volontà?
Il problema dell'esistenza dell'atto amministrativo sorge in una pluralità di
situazioni.
a) Tre poliziotti irrompono in un appartamento.
Alla richiesta di mandato di perquisizione fatta dall'inquilino dichiarano che
sono entrati alla ricerca di armi e di droga che sospettano essere nascoste
in quella casa. Effettivamente la legge di pubblica sicurezza prevede poteri
del genere. C'è o non c'è un atto amministrativo?
Guardie comunali entrano in un campo di nomadi e rimuovono le capanne e
le roulotte che essi occupavano. C'è o non c'è un atto amministrativo? Ci
può essere, a monte, un'ordinanza sindacale che dispone lo sgombero
dell'area e in questo caso i vigili si limiterebbero a dare esecuzione a un
provvedimento. Ma se l'ordinanza non c'è?
Nel primo dei tre casi si dice che c'è un atto amministrativo emesso
verbalmente (l'ordine di perquisizione emesso dall'autorità di pubblica
sicurezza); nel secondo, si dice che c'è un comportamento esecutivo di un
atto amministrativo; nel terzo si dice che c'è un comportamento
concludente o una «via di fatto». La via di fatto, in altri tempi ma ancora
oggi in altri ordinamenti, veniva equiparata ad un atto amministrativo. Il
principio di legalità, così come interpretato oggi dalla Corte di Cassazione,
esclude che possa parlarsi di atto amministrativo quando il comportamento
non sia riconducibile ad una norma di legge che lo autorizzi (e non abbia, di
conseguenza, un minimo di formalizzazione).
Si usa l'espressione «comportamento senza potere» per designare l'azione
di chi, pur appartenendo all'amministrazione, non sia munito di un titolo per
agire in suo nome. La recente legge 15/2005 qualifica l'atto, in questo caso,
come atto nullo perché viziato da difetto assoluto di attribuzione. Siamo di
fronte ad un'attività che non può essere qualificata come attività
amministrativa. Nei confronti di essa, come vedremo, il giudice ordinario
non incontra alcuna limitazione.
b) Una seconda ipotesi è quella dell'amministrazione silenziosa.
Silenziosa quando dovrebbe agire.
Qui l'interprete deve procedere in via preliminare a ricostruire la situazione
soggettiva che sta a monte dell'inerzia. Se l'amministrazione deve agire
perché vincolata da un'obbligazione in senso civilistico - per esempio il
dovere di pagare il canone di locazione dell'edificio che il comune utilizza
come scuola elementare - allora la sua inerzia equivale all'inadempimento
previsto dal codice civile (artt. 1183 e 1218 cod. civ.) e contro di essa
possono essere impiegati i mezzi previsti dallo stesso codice, e in
particolare le azioni davanti al giudice civile.
Se il dovere di agire è legato ad un potere pubblicistico (potere-dovere)
conferito dalla legge a tutela di un pubblico interesse - il dovere di
pronunciarsi su una domanda di concessione o di sovvenzione o di
autorizzazione - allora l'inerzia è di solito correlata ad un interesse
legittimo del privato. Poiché la giurisdizione appartiene, in questo caso, al
giudice amministrativo e il processo amministrativo è essenzialmente, come
vedremo, processo di impugnazione di un atto, il problema è quello di
assimilare il silenzio a un atto. Talvolta questa operazione la fa il
legislatore, equiparando l'inerzia protratta oltre un certo termine a un
provvedimento negativo: la domanda di licenzia edilizia, stabiliva la legge
ponte urbanistica del 1967, si intende rigettata decorsi sessanta giorni dalla
sua presentazione. Negli anni più recenti la soluzione legislativa è stata
spesso di segno opposto. Decorso un certo termine la domanda si intende
accolta. Ciò vale per una serie abbastanza ampia di autorizzazioni. Nel
primo caso abbiamo un silenzio-rifiuto, nel secondo un silenzio-assenso:
equiparati a due provvedimenti espliciti e come questi impugnabili davanti
al giudice amministrativo. Il primo, dall'interessato che ha fatto domanda e
si vede apporre un silenzio-rifiuto; il secondo, dai terzi che fossero
danneggiati dal silenzio-assenso (per esempio un'autorizzazione tacita)
mantenuto dall'amministrazione sulla domanda dell'interessato.
Poiché il procedimento amministrativo deve concludersi entro un certo
termine con provvedimento espresso (e se il termine non è stabilito dalla
legge o dall'amministrazione è di trenta giorni) il decorso infruttuoso del
termine abilita l'interessato ad impugnare il silenzio nei modi che vedremo
(art. 2 co. 4 bis l. 241/1990 nel testo di cui alla l. 15/2005).
In altre parole, al di fuori dei casi in cui il silenzio equivale ad assenso -
casi stabiliti con legge e con regolamento - vige oggi in via generale il
regime del silenzio-rifiuto o silenzio-inadempimento. L'amministrazione che
non provvede entro il termine che ad essa è assegnato è
un'amministrazione inadempiente contro la quale l'interessato potrà
rivolgersi al giudice, senza necessità di una previa diffida.
c) In un terzo gruppo di casi un atto c'è, ma si pone il problema della sua
definizione giuridica. Il comune indice una gara d'appalto
per la realizzazione di un'opera pubblica. L'appalto viene aggiudicato a una
delle ditte partecipanti. La dichiarazione con cui il seggio
di gara annuncia che una certa offerta è la migliore, e di conseguenza la
ditta aggiudicataria dei lavori, è un atto amministrativo o un
contratto (più precisamente, l'accettazione di una proposta contrattuale che
dà luogo alla conclusione di un contratto, art. 1326 cod.
civ.)? E il bando di gara è un atto amministrativo o un atto precontrattuale
(offerta al pubblico considerata equivalente ad una proposta
di contratto, art. 1336 cod. civ.)?
La giurisprudenza amministrativa, con l'avallo della Corte di Cassazione, ha
qualificato questi atti come atti amministrativi, impugnabili davanti al
giudice amministrativo. Ma sarebbe altrettanto plausibile (e forse più
plausibile) una configurazione diversa. Atti del genere potrebbero essere
qualificati come contratti o come atti precontrattuali idonei a far sorgere
nella controparte diritti soggettivi.
Questa alternativa - fra atto amministrativo e contratto (o comunque atto
negoziale) - si prospetta di frequente. Le soluzioni che la
giurisprudenza dà di volta in volta sono empiriche e contingenti e
potrebbero essere, con argomenti altrettanto persuasivi, ribaltate.
29.
Il giudice ordinario

Giurisdizione ordinaria e diritti soggettivi


Una volta chiarito che la tutela giurisdizionale del privato contro la pubblica
amministrazione è ripartita fra giudice ordinario e giudice amministrativo, e
che il criterio di riparto è costituito essenzialmente dalla situazione
soggettiva che si fa valere, le domande che si pongono sono due:
1.Quando, in concreto, ci si deve rivolgere al giudice ordinario, e di
conseguenza non ci si può rivolgere al giudice amministrativo?
2.Che cosa si può chiedere al giudice ordinario, ossia quale misura, quale
rimedio, quale tipo di pronuncia vale a riparare la lesione che la pubblica
amministrazione ha cagionato?
Le due domande sono legate fra loro. Se i rimedi offerti dal giudice
ordinario e dal giudice amministrativo sono diversi, almeno in parte (e lo
sono stati in Italia sino ad epoca recentissima), la risposta alla prima
domanda potrebbe dipendere dalla risposta che viene data alla seconda.
Poiché l'atto amministrativo può essere annullato solo dal giudice
amministrativo, il privato, anche se titolare di diritto soggettivo, avrebbe
interesse a rivolgersi al giudice amministrativo se preferisse l'annullamento
ad altre misure. Questa possibilità fu prospettata all'inizio del Novecento da
un grande giurista, Vittorio Scialoja: la possibilità di far valere il diritto
come interesse legittimo quando il privato preferisca l'annullamento
dell'atto alle misure che il giudice ordinario può disporre nei riguardi della
pubblica amministrazione (ossia, in concreto, il risarcimento del danno).
La giurisprudenza si è subito orientata diversamente. Prima bisogna
stabilire se la situazione vantata, così come astrattamente configurabile, è
di diritto soggettivo o di interesse legittimo. Se è di diritto soggettivo la
giurisdizione spetta al giudice ordinario: e questi potrà esercitare solo i
poteri che la legge abolitiva del contenzioso gli attribuisce (fra i quali non
rientra il potere di annullare l'atto amministrativo). Per usare il linguaggio
del processo, la questione della giurisdizione (a quale giudice rivolgersi?) è
pregiudiziale rispetto alla questione dei poteri del giudice (quali misure può
prendere il giudice al quale ci si è rivolti?). In altre parole il giudice va
individuato sulla base della situazione soggettiva che si fa valere, non sulla
base di poteri di cui dispone: la scelta è obbligata, così come obbligati sono
i poteri del giudice prescelto.
Chiarito il rapporto fra le due questioni, rimane da risolvere la prima di
esse. In base a quale criterio diciamo che il privato fa valere un diritto
soggettivo (e non un interesse legittimo)? Il criterio a suo tempo richiamato
- il diritto soggettivo è l'effetto di un fatto giuridico a cui è estranea la
pubblica amministrazione, l'interesse legittimo nasce nell'ambito di un
rapporto con la pubblica amministrazione in quanto correlato ad un potere
amministrativo - solo in parte giova. Giova certamente quando nessun
potere amministrativo è stato esercitato e tuttavia il privato ha subito una
lesione. L'ente pubblico che non paga il canone dell'immobile che il
proprietario gli ha locato; il comune che non versa all'appaltatore i c.d. stati
di avanzamento ossia le somme dovute in rapporto alle singole fasi dei
lavori; il ministero della Giustizia quando l'auto di scorta al procuratore
31.

della Repubblica ha investito un passante. In tutti questi casi manca un atto


amministrativo, eppure il privato ha subito un danno ingiusto. Senza alcun
dubbio chi vuole giustizia non può rivolgersi ad altro giudice all'infuori del
giudice civile.
La questione è più complicata quando, assieme al diritto soggettivo, è in
gioco un provvedimento amministrativo.
Come si è ricordato più sopra, col provvedimento legittimo l'autorità
amministrativa può sacrificare un diritto soggettivo: può espropriare un
immobile, privare il proprietario del possesso, imporre un ammasso
obbligatorio, vietare l'esportazione di capitali oltre una certa cifra, disporre
la chiusura di un ristorante per ragioni sanitarie. Può cioè estinguere o
limitare il diritto di proprietà, il possesso, la libertà di iniziativa economica
privata. Il fatto è che anche il provvedimento illegittimo può conseguire
quest'effetto. Sin quando esso non viene rimosso (dal giudice
amministrativo o dalla stessa autorità amministrativa) produce le stesse
conseguenze giuridiche del corrispondente atto valido. Questa tesi, detta
anche dell'equiparazione (fra atto valido e atto invalido), è, secondo una
diffusa opinione, invenzione della giurisprudenza: come se il giudice,
potendo scegliere fra il regime della nullità (l'atto nullo non produce alcun
effetto) e il regime dell'annullabilità (l'atto annullabile produce gli stessi
effetti dell'atto valido sin quando non sia, a sua volta, annullato), avesse
optato per il regime dell'annullabilità.
In realtà, come si è accennato, è la legislazione che in qualche modo ha
reso obbligata questa scelta.
L'art. 4 della legge abolitiva stabilisce, in caso di contestazione su un diritto
che si pretende leso da un atto dell'autorità amministrativa, che il tribunale
si limiterà a conoscere degli effetti dell'atto stesso in relazione all'oggetto
dedotto in giudizio. Esso presuppone, cioè, che l'atto lesivo di un diritto (e
quindi illegittimo) produca effetti: cosa che non avverrebbe se l'atto fosse
nullo.
Questa conclusione è rafforzata dal successivo comma dello stesso articolo.
«L'atto amministrativo non potrà essere revocato o modificato se non sovra
ricorso alle competenti autorità amministrative, le quali si conformeranno al
giudicato dei tribunali in quanto riguarda il caso deciso». La revoca e la
modifica (oggi diremmo, l'annullamento) dell'atto amministrativo non
possono essere disposte dal giudice ordinario, ma solo dall'autorità
amministrativa tenuta a conformarsi al giudicato.
Detto diversamente. Il giudice, accertata la lesione del diritto (e quindi
l'illegittimità dell'atto), non potrà annullare l'atto; potrà annullarlo, invece,
e dovrà annullarlo (in quanto tenuta a conformarsi al giudicato), l'autorità
amministrativa. Questo ci fornisce una indiretta indicazione della misura
che il giudice andrà a prendere nei confronti dell'atto lesivo del diritto. Se
lo dichiarasse nullo verrebbe meno il presupposto della revoca o della
modifica dell'atto. Della nullità il giudice prende atto, senza che sia
necessaria o possibile una successiva attività di rimozione dell'atto
dichiarato nullo.
Se, invece, l'atto di cui il giudice ha accertata l'invalidità continua a
spiegare i suoi effetti fino a quando l'autorità amministrativa non lo avrà
tolto di mezzo, vuol dire che l'invalidità è del genere annullabilità: l'atto è
cioè annullabile, e non nullo, e in quanto annullabile occorrerà un nuovo
intervento su di esso perché cessi di produrre effetti.
Ciò comporta che l'atto «disapplicato» conservi il suo persistente vigore (la
sua efficacia) al di fuori dell'«oggetto del giudizio». Per fare un esempio, il
regolamento disapplicato nei riguardi dell'attore, che ne ha denunciato
l'illegittimità e perciò il carattere lesivo del diritto, continuerà a trovare
applicazione nei riguardi degli altri destinatari: sino a quando l'autorità
amministrativa non lo toglierà di mezzo.
Tiriamo le fila del discorso.
Il diritto soggettivo che l'autorità amministrativa lede senza esercitare un
potere amministrativo rimane tale ad onta del fatto o del comportamento
lesivo; può quindi essere tutelato dal giudice ordinario ai sensi dell'art. 2
della legge abolitiva.
Il diritto soggettivo che si imbatte, invece, in un potere amministrativo
viene di solito affievolito o degradato o estinto dall'atto amministrativo.
Venendo meno il diritto, viene meno il presupposto della giurisdizione del
potere ordinario. Il privato, come si è detto, non farà valere il suo diritto di
proprietà contro il decreto di espropriazione: non potrà farlo perché il suo
diritto è stato affievolito o degradato. Farà valere, invece, il suo interesse
legittimo a che il potere amministrativo di espropriazione sia correttamente
esercitato; e lo farà valere, ovviamente, davanti al giudice amministrativo.

I poteri del giudice e i loro limiti


I poteri del giudice ordinario (civile) nei riguardi della pubblica
amministrazione sono essenzialmente quelli definiti, centoquaranta anni fa,
dalla legge abolitiva del contenzioso.
Le modificazioni successive sono poche: e tutte volte all'ampliamento di
quei poteri.
Rileggiamo per esteso il testo dell'art. 4.
«Quando la contestazione cade sopra un diritto che si pretende leso da un
33.

atto dell'autorità amministrativa, i tribunali si limiteranno a conoscere degli


effetti dell'atto stesso in relazione all'oggetto dedotto in giudizio» (co. 1).
«L'atto amministrativo non potrà essere revocato o modificato se non sovra
ricorso alle competenti autorità amministrative, le quali si conformeranno al
giudicato dei tribunali in quanto riguarda il caso deciso» (co. 2).
La prima parte dell'articolo è importante perché circoscrive l'ambito entro
cui il giudice incontra dei limiti nei confronti dell'amministrazione
convenuta in giudizio.
Solo quando il diritto che l'attore vanta è stato leso (è stato leso, secondo
la sua prospettazione) da un atto amministrativo, questo non potrà essere
revocato o modificato. Il divieto stabilito dal secondo comma (di annullare o
revocare l'atto amministrativo) vige solo quando è in contestazione un atto
amministrativo.
Quando la lesione che l'attore denuncia non è stata cagionata da un atto
amministrativo, ossia nell'esercizio di un potere amministrativo, ma da un
atto o da un comportamento posto in essere da una pubblica
amministrazione nello svolgimento di una capacità privata il giudice
ordinario non incontrerà alcun limite. Potrà esercitare tutti i poteri che gli
competono quando è chiamato a risolvere una controversia fra privati: potrà
annullare un contratto, anche se è parte una pubblica amministrazione, o
annullare un atto unilaterale (per es. la rescissione di un contratto di
appalto) che equivalga al recesso da un contratto, o condannare
l'amministrazione a demolire il muro costruito in violazione delle norme
sulle distanze, o emettere, in caso di inadempimento di un contratto
preliminare, una sentenza che faccia le veci di un contratto definitivo. In
casi del genere l'art. 4 non trova applicazione. In difetto di altra
disposizione che, nella stessa legge, regoli i poteri del giudice, valgono le
norme generali del codice civile e del codice di procedura civile che
regolano i rapporti tra soggetti privati.
II limite dell'art. 4 opera invece, come si è detto, quando è in
contestazione un diritto che si pretende leso da un atto amministrativo.
In questo caso il giudice non potrà revocarlo o modificarlo né potrà, come la
giurisprudenza ha subito chiarito, annullarlo. Non potrà emettere una
sentenza che comporti l'annullamento, la revoca o la modifica dell'atto. Non
potrà neppure, quando l'atto amministrativo è negativo o di rifiuto,
emettere una sentenza con cui si sostituisce alla pubblica amministrazione.
L'art. 4, si è detto, vieta ogni iniziativa che comporti un'ingerenza
nell'attività amministrativa con sostituzione del giudice alla volontà
dell'amministrazione.
Proprio perché l'art. 4 è ispirato al principio della separazione dei poteri,
esso tende a tutelare non l'amministrazione come tale - e quindi anche
l'amministrazione che agisce nella capacità di diritto privato - ma il potere
amministrativo. Di tale potere l'amministrazione è munita; ma non tutti i
poteri e le facoltà che essa esercita sono poteri amministrativi.

Le sentenze ammesse
Come si combina il divieto di annullare l'atto amministrativo, stabilito
dall'art. 4 l. cont., col sistema delle sentenze del giudice civile, così come
classificate dalla dottrina a partire dal XIX secolo?
Quando condanna una delle parti a fare o a dare qualcosa o a non fare ciò
che essa pretende di fare il giudice civile emette una sentenza di condanna:
a pagare una somma di denaro, a sloggiare dall'appartamento preso in
locazione, ad abbattere un muro, a riassumere il lavoratore licenziato, ad
astenersi dalla concorrenza illecita.
In un secondo gruppo di casi l'interesse di chi agisce in giudizio è
soddisfatto da una sentenza di mero accertamento. Se Caio pretende di
essere titolare di una servitù di passaggio sul fondo di Tizio, quest'ultimo
verrà soddisfatto da una pronuncia che nega fondamento a quella pretesa:
una sentenza con cui si chiarisce che Caio non ha alcun diritto di passare
per il fondo altrui.
In un terzo gruppo di casi, chi agisce chiede al giudice di costituire,
modificare o estinguere una situazione giuridica o un rapporto giuridico. Per
esempio di annullare un contratto perché il consenso di chi l'ha concluso è
stato carpito con dolo; o di emettere una sentenza che faccia le veci del
contratto definitivo non concluso quando il convenuto rifiuta di adempiere
al contratto preliminare; di costituire una servitù coattiva sul fondo altrui.
Si parla, in questi casi, di sentenze costitutive (art. 2908 cod. civ.).
Sentenze di accertamento (o di mero accertamento), sentenze costitutive,
sentenze di condanna. Quali di queste sentenze sono ammesse contro la
pubblica amministrazione? Quali sono compatibili col divieto stabilito
dall'art. 4 l. cont.?
Il giudice civile, nelle controversie in cui è parte una pubblica
amministrazione, ha sempre ritenuto che le sentenze di mero accertamento
fossero ammissibili. Dichiarando che un bene non è demaniale (come
pretende nel corso della lite l'amministrazione), ma è del privato, il giudice
non annulla alcun atto amministrativo né si sostituisce all'amministrazione
nell'esercizio di una potestà amministrativa; lo stesso accade ogni qual
volta dichiara che un tributo non è dovuto, che un'attività non è soggetta ad
autorizzazione, o che l'inadempimento dell'appaltatore non c'è stato
(sebbene l'autorità, sul presupposto della sua esistenza, abbia rescisso il
contratto di appalto).
Per la ragione opposta non sono ammesse contro l'amministrazione che
abbia esercitato un potere amministrativo le sentenze costitutive.
Il giudice civile non solo non può annullare l'atto amministrativo (mentre, se
si trattasse di privati, ben potrebbe annullare il contratto invalido) o
modificarlo (per esempio annullando una singola clausola dell'atto o una
condizione o un termine apposti allo stesso): ma non può neppure emettere
alcuna misura che equivalga ad una sua sostituzione all'amministrazione
(per esempio rilasciare l'autorizzazione che l'autorità amministrativa ha
negato).
Per quanto riguarda le sentenze di condanna la soluzione offerta dalla
giurisprudenza è più articolata. Sono ammesse le condanne pecuniarie
(ossia le condanne a pagare una somma di denaro), ma non sono ammesse
le altre (a un dare, a un fare, a un non fare): salvo casi espressamente
previsti (per esempio è ammessa la condanna a restituire l'immobile
espropriato quando l'opera pubblica non venga più realizzata). La dottrina
ha sempre criticato questa distinzione osservando che le sentenze di
condanna o vanno ammesse in blocco perché la modificazione giuridica che
ne deriva verrà posta in essere pur sempre dall'amministrazione, anche se
nell'adempimento di un obbligo (sicché il giudice non annulla alcunché né si
sostituisce alla pubblica amministrazione), o vanno escluse in blocco. Anche
la sentenza di condanna comporta una coazione a carico
dell'amministrazione che è obbligata a tenere un certo comportamento e
non è più libera di tenerlo o meno. Ma il sistema è assestato da più di un
secolo in conformità a questa regola: ammesse le condanne pecuniarie,
escluse le altre.
La giurisprudenza degli ultimi decenni ha, piuttosto, circoscritto l'ambito del
divieto (di annullamento o revoca dell'atto amministrativo) ai casi in cui il
privato si trovi di fronte ad un potere amministrativo. Nessun divieto opera
quando l'amministrazione intrattiene un rapporto di diritto privato.
L'altra ipotesi che la giurisprudenza ha isolato (negando anche qui
l'applicazione dell'art. 4 l. cont.) è quello della c.d. carenza di potere.
L'ente pubblico agisce pretendendo di comportarsi da autorità
amministrativa: per esempio immettendosi nel possesso del
fondo privato in attesa che venga adottato un decreto di occupazione
d'urgenza. In realtà mancano i presupposti perché quel comportamento
possa essere riconosciuto come esercizio (sia pure illegittimo) di potestà
amministrativa e l'ente ha agito senza potere.
Quel fatto (immissione in possesso) non può essere identificato con un atto
amministrativo: sicché il proprietario potrà rivolgersi al giudice civile con
un'azione possessoria, rivolta ad ottenere un provvedimento che imponga
all'ente pubblico di cessare lo «spoglio», reintegrando il privato nel
possesso (art. 1168 cod. civ.).
La stessa azione (di spoglio o di reintegrazione) non sarebbe ammessa se il
comportamento dell'amministrazione fosse stato autorizzato da un decreto
di occupazione. In questo caso, infatti, il giudice che intimasse la
cessazione dello spoglio revocherebbe, implicitamente, il decreto di
occupazione: in violazione dell'art. 4 l. cont.

La disapplicazione
Il giudice ordinario non può annullare l'atto amministrativo (art. 4), ma può
disapplicarlo (art. 5): non solo «quando la contestazione cade sopra un
diritto che si pretende leso da un atto dell'autorità amministrativa» (così
l'art. 4), ma anche «in ogni altro caso».
La formula dell'art. 5 («in questo, come in ogni altro caso, le autorità
giudiziarie applicheranno gli atti amministrativi e i regolamenti generali e
locali in quanto siano conformi alla legge») fa capire che il suo ambito di
operatività è più ampio di quello dell'art. 4.
L'atto illegittimo («non conforme alle leggi») va disapplicato non solo
quando il privato lamenti di essere stato dall'atto leso in un suo diritto: ma
anche nell'ipotesi opposta che il privato fondi sull'atto amministrativo la
sua pretesa, che ravvisi, cioè, nell'atto il fatto costitutivo (anziché lesivo)
del diritto. Rientra nell'ambito dell'art. 5 anche il caso che sia
l'amministrazione a fondare sull'atto amministrativo la sua pretesa e il
privato la contesti perché ritiene l'atto illegittimo.
Secondo le intenzioni degli autori della legge del 1865, l'atto
amministrativo andrebbe disapplicato in ciascuno dei seguenti tre esempi: il
privato che rifiuta di rilasciare il suo immobile sostenendo che il decreto di
espropriazione è illegittimo (con argomenti ritenuti plausibili dal giudice); il
privato che pretende di immettersi nei locali della tesoreria comunale
sostenendo di essere lui il nuovo tesoriere (ma il giudice accoglie le ragioni
del vecchio tesoriere, disapplicando la nuova concessione perché
illegittima); l'amministrazione che pretende il pagamento di un supplemento
di tributo, disposto in applicazione di una modifica regolamentare (di cui il
contribuente dimostra l'illegittimità, ottenendone la disapplicazione).
Così concepita, la disapplicazione sarebbe una misura alternativa
all'annullamento (precluso al giudice civile dall'art. 4): meno efficace di
questo perché non toglie di mezzo l'atto, e produce effetti limitati alle parti
del giudizio, ma altrettanto garantista del diritto del privato (al quale
interessa che l'atto amministrativo o il regolamento non sia a lui applicato
e poco gli importa che ad altri, che non si sono rivolti al giudice, continui ad
essere applicato).
In concreto, la vicenda sopra descritta (della degradazione o affievolimento)
ha di molto ristretto i margini della disapplicazione. Nell'ipotesi che la
contestazione cada sopra un diritto che si pretende leso da un atto
dell'autorità amministrativa (art. 4) il giudice ordinario ha finito col negare
il più delle volte la sua giurisdizione: proprio perché il diritto che si
pretende leso dall'atto amministrativo è degradato a interesse legittimo.
Nel primo dei tre esempi fatti (il privato che rifiuta il rilascio dell'immobile
chiedendo la disapplicazione del decreto di espropriazione illegittimo) il
giudice civile, dopo una prima fase in cui ha conosciuto e giudicato di atti
del genere, ha poi negato la sua giurisdizione: perché il diritto di proprietà,
in conseguenza del decreto (anche se illegittimo), si è affievolito a
interesse legittimo. Sull'atto eserciterà il suo sindacato il giudice
amministrativo, al quale (dopo il 1889) il proprietario espropriato potrà
rivolgersi con una domanda di annullamento.
Si può dire, cioè, che delle due ipotesi previste dall'art. 5 come presupposto
della disapplicazione («in questo, come in ogni altro caso»), sia oggi
prevalente «l'altro caso»: ossia il caso del conflitto fra privati, uno dei quali
fa valere come titolo un atto amministrativo di cui il giudice accerta
l'illegittimità (disapplicandolo): e il caso in cui è l'amministrazione a far
valere come titolo il suo provvedimento contro un privato che invece ne
contesta la legittimità, ottenendone la disapplicazione.
L'art. 5, pur avendo subito una così rilevante amputazione della sua area di
applicazione, continua ad esprimere un valore altamente garantista.
Stabilendo che il giudice civile applicherà gli atti amministrativi e i
regolamenti solo se conformi alle leggi, il legislatore del 1865 afferma il
principio di legalità o di supremazia della legge (sull'attività
dell'amministrazione). Lo stesso principio che oggi è consacrato dall'art.
101 Cost. dove è scritto che i giudici sono soggetti soltanto alla legge
(sicché non possono dare applicazione ad atti amministrativi non conformi
alla legge).

Il divieto di annullare l'atto amministrativo nel quadro costituzionale


Il divieto per il giudice ordinario di annullare l'atto amministrativo, stabilito
dall'art. 4 della legge abolitiva del contenzioso, è stato a
lungo considerato una specie di principio costituzionale, un'applicazione del
principio della divisione dei poteri.
Il principio è entrato in crisi, naturalmente, con l'istituzione della IV sezione
del Consiglio di Stato: soprattutto quando si è acquisita la consapevolezza
che anche il Consiglio di Stato è un giudice. La figura ambivalente del
Consiglio di Stato, a metà fra amministrazione e giurisdizione, ha tuttavia
lasciato in vita la vecchia idea. Solo l'amministrazione - un organo che fa
parte, in qualche modo, della pubblica amministrazione - può annullare un
atto dell'amministrazione. Il vecchio fondamento dell'art. 4 sopravvive alla
nascita della giurisdizione amministrativa perché il nuovo giudice, che può
annullare l'atto amministrativo, solo per metà è giudice: sicché è in
funzione della sua componente «amministrativa» che giustifica un potere
invece negato al giudice ordinario.
Con la Costituzione repubblicana le cose cambiano radicalmente. Secondo
l'art. 113 co. 3 la legge determina quali organi di giurisdizione possono
annullare atti della pubblica amministrazione nei casi e con gli effetti
previsti dalla legge stessa. In teoria il Parlamento potrebbe togliere il
potere di annullamento al giudice amministrativo e trasferirlo al giudice
ordinario.
Può comunque conferire al giudice ordinario specifici poteri di annullamento
senza che lo impedisca alcun principio costituzionale. Tali poteri sono stati
concretamente attribuiti, anche se in ipotesi limitate: per esempio in tema
di sanzioni amministrative pecuniarie.
In ogni caso, quando l'ente pubblico opera nelle forme del diritto privato il
giudice ordinario non incontra alcun ostacolo nell'art. 4. Come abbiamo
visto, può annullare contratti o atti di esercizio di diritti (licenziamenti,
incarichi dirigenziali, revoche di incarichi dirigenziali, ecc.) a nulla rilevando
che la parte colpita sia una pubblica amministrazione.
Ciò ha indotto la dottrina, e successivamente la Corte costituzionale, ad
affermare che oggi non è all'amministrazione come «entità» che è attribuita
preminenza nei confronti degli altri soggetti, ma è a singoli con cui essa
esercita poteri amministrativi, che è garantita efficacia per il
raggiungimento dei concreti fini individuati dal legislatore.
Non quale soggetto, cioè, l'amministrazione sovrasta gli altri soggetti e se
ne distingue, ma in quanto esercita potestà specificamente ed
esclusivamente attribuitele e le esercita nelle forme tipiche che le sono
proprie.
Il principio consacrato dall'art. 4 della legge abolitiva, che vieta al giudice
ordinario di annullare l'atto amministrativo, quando non sia derogato dal
legislatore, garantisce non la pubblica amministrazione in quanto tale, ma
specifici poteri amministrativi.
39.
Il giudice amministrativo e il processo
amministrativo

I Tar
Come si è visto nel secondo capitolo, il primo giudice amministrativo è stato
in Italia il Consiglio di Stato.
Gli autori della legge del 1889 in realtà non pensavano di avere creato un
nuovo giudice, aggiungendo una IV sezione alle tre sezioni già esistenti di
un organo amministrativo di consulenza: e appunto per questo attribuirono
alla nuova sezione il potere di annullare gli atti amministrativi, senza
avvertire alcuna contraddizione col principio della divisione dei poteri (sulla
base del quale, invece, era stata negata al giudice ordinario la facoltà di
revocare o modificare l'atto lesivo del diritto). In realtà - lo si è spiegato
sopra - la giurisprudenza e la prevalente dottrina si orientarono subito per
la natura giurisdizionale dell'organo: ammettendo contro le sue pronunce il
ricorso per Cassazione per difetto di giurisdizione, cosa che, da sempre, si è
ritenuto indizio sicuro della natura giurisdizionale dell'organo.
L'altro giudice amministrativo è stato per oltre ottant'anni la Giunta
provinciale amministrativa. Dalla sua istituzione nel 1890 al 1967, anno in
cui fu dichiarata costituzionalmente illegittima per la sua composizione,
inidonea a garantire l'indipendenza richiesta al giudice (art. 108 Cost.; sent.
C. cost. n. 30/1967), la G P A ha deciso le controversie minori tra enti locali e
privati. E le sue sentenze erano impugnabili davanti al Consiglio di Stato
che, in questi casi, fungeva da giudice d'appello.
L'assetto attuale poggia su Tribunali amministrativi regionali, uno in
ciascun capoluogo di regione, con sezioni staccate in altre province, almeno
in alcune regioni: Lombardia, Emilia Romagna, Lazio, Abruzzo, Campania,
Puglia, Calabria, Sicilia e Trentino-Alto Adige. Ciascun tribunale è composto
da tre giudici reclutati, a differenza dei magistrati ordinari, mediante un
concorso di secondo grado. Per accedervi occorre essere magistrato
ordinario, avvocato o procuratore dello Stato, avvocato libero
professionista, dipendente pubblico, ricercatore universitario e vantare una
certa anzianità in detta posizione.
La competenza per territorio dei T A R (ossia la risposta alla domanda: a quale
T A R rivolgersi?) è disciplinata da due regole semplici. Quando l'autorità che
ha emesso l'atto impugnato ha sede all'interno di una regione (il Comune di
Brescia, la provincia di Catanzaro, la regione Molise), competente sarà il T A R
della regione interessata (negli esempi, il T A R Lombardia, il T A R Calabria, il
T A R Molise). Quando l'atto proviene dallo Stato o da un ente pubblico a
carattere ultraregionale (per esempio I' I N P S o il C N R ) competente sarà il T A R
della regione nella quale l'atto produce i suoi effetti: se questi effetti,
invece, hanno una portata ultraregionale (per esempio l'approvazione del
progetto di autostrada che attraverserà più territori regionali), competente
sarà il T A R Lazio. Una sottospecie del criterio dell'efficacia dell'atto vale per
le controversie in tema di pubblico impiego (quelle che rimangono di
competenza del giudice amministrativo). Il ricorso in questi casi andrà
proposto davanti al T A R della regione in cui il dipendente presta servizio.
Vi sono, infine, dei casi in cui il T A R territorialmente competente è
specificamente indicato da leggi di settore. Per esempio è il T A R Lazio che
41.

decide i ricorsi proposti da magistrati ordinari contro delibere del Consiglio


superiore della magistratura e i ricorsi contro le delibere dell'Autorità
garante della concorrenza e del mercato.
All'infuori di questa ipotesi, in cui l'incompetenza per territorio va rilevata
dal giudice d'ufficio (si tratta, si dice, di competenza funzionale), la
competenza per territorio è derogabile. Se l'amministrazione resistente e i
controinteressati non dicono nulla, e il ricorrente si è rivolto a un T A R non
competente, questo sarà tenuto a decidere senza poter sollevare d'ufficio la
questione della sua competenza. Se, invece, c'è opposizione, la questione,
se non ritenuta manifestamente infondata dal T A R adito, verrà decisa dal
Consiglio di Stato con regolamento di competenza; e il processo si svolgerà
davanti al T A R che il Consiglio di Stato avrà designato.
Giudice d'appello è il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, oggi
articolato in tre sezioni (la I V , la V e la VI). Ciascun collegio è composto da
un presidente e da quattro consiglieri di Stato.
I consiglieri di Stato e i magistrati dei T A R costituiscono un corpo separato
dalla magistratura ordinaria.
Poiché la Costituzione assicura l'indipendenza del Consiglio di Stato dal
Governo (art. 100 ult. co.) e, più in generale, l'indipendenza dei giudici
delle giurisdizioni speciali (compresi quindi i componenti dei T A R , art. 108
co. 2), il Parlamento ha istituito un Consiglio di presidenza della giustizia
amministrativa con funzioni analoghe a quelle del Consiglio superiore della
magistratura (art. 7 l. 186/1982 sostituito dall'art. 18 l. 205/2000).

Giudice amministrativo e potere di annullamento dell'atto


amministrativo
La struttura originaria del processo amministrativo è semplicissima.
Il titolare dell'interesse legittimo impugna l'atto amministrativo che lo lede
denunciando un vizio di incompetenza, eccesso di potere o violazione di
legge (art. 26 r.d. 1054/1924; artt. 3 e 4 l. 1034/1971). Il T A R , se ritiene
fondato uno dei motivi di ricorso, annulla l'atto impugnato (art. 26 co. 2 l.
1034/1971).
Nella c.d. giurisdizione generale di legittimità, almeno secondo la
configurazione originaria, non è ammessa altra misura al di fuori
dell'annullamento dell'atto impugnato. Il giudice amministrativo può
emettere quel tipo di sentenza che l'art. 4 della legge abolitiva del
contenzioso preclude al giudice ordinario; e per contro non può emettere
quelle specie di sentenze che il giudice ordinario può emettere (sentenze di
mero accertamento, e sentenze di condanna). I poteri del giudice
amministrativo sono complementari ai poteri del giudice ordinario: gli uni e
gli altri, sommati, equivalgono ai poteri di cui il giudice ordinario dispone
nei rapporti interprivati (e nei rapporti in cui la pubblica amministrazione
figuri come soggetto privato). Ciò ha indotto in un lontano passato una
parte della dottrina a sostenere che il titolare del diritto soggettivo potesse
rivolgersi indifferentemente al giudice ordinario o al giudice amministrativo,
a seconda che aspirasse al risarcimento del danno o all'annullamento
dell'atto impugnato.
Come si è spiegato, questo tentativo, rivolto a garantire all'individuo la
tutela più completa dei diritti contro la pubblica amministrazione, è stato
vanificato dalla giurisprudenza. Questa ha ritenuto che il giudice dovesse
essere individuato in ragione della situazione soggettiva fatta valere (diritto
soggettivo o interesse legittimo) piuttosto che della misura richiesta
dall'interessato (risarcimento del danno o annullamento dell'atto). Decisivo,
al fine di individuare il giudice munito di giurisdizione, non è il petitum (ciò
che si chiede), ma la causa petendi (la ragione della domanda, e quindi la
situazione soggettiva, diritto o interesse, che si fa valere).
La situazione è cambiata radicalmente nel 2000, a seguito dell'entrata in
vigore della l. 205/2000. Per effetto di essa il giudice amministrativo, adito
per l'annullamento dell'atto, può liquidare al ricorrente il risarcimento del
danno cagionato dall'atto stesso. La tutela risarcitoria per i danni cagionati
nell'esercizio illegittimo del potere amministrativo è oggi concentrata nel
processo amministrativo. La correlazione giudice ordinario-risarcimento del
danno, giudice amministrativo- annullamento dell'atto è venuta meno. Oggi
il giudice amministrativo può disporre l'una e l'altra cosa. Ma
sull'argomento dell'azione risarcitoria nel processo amministrativo ci
soffermeremo più in là.

L'interesse ad agire
Chi ritiene di esser leso da un atto amministrativo in un suo interesse
legittimo - perché gli è stata negata un'autorizzazione, o è stata data ad
altri una concessione cui aspirava o si vede occupato in via d'urgenza un
suo terreno - non chiede al giudice amministrativo di tutelare il suo
interesse, di dichiarare che esso non può essere pregiudicato dalla pubblica
amministrazione, come invece farebbe il proprietario di un immobile nei cui
confronti altri (anche un ente pubblico) pretendesse di essere titolare di
una servitù. In quest'ultimo caso, che rientra nella giurisdizione ordinaria, il
giudice soddisferà l'attore semplicemente dichiarando che il bene è libero
dal peso che la parte convenuta vorrebbe imporgli.
43.

Nel processo amministrativo il ricorrente chiede al giudice amministrativo,


invece, di annullare l'atto impugnato. E lo chiede non perché l'atto lede il
suo interesse, ma semplicemente perché è illegittimo: viziato da
incompetenza, violazione di legge o eccesso di potere. Perché, ad esempio,
l'autorizzazione è stata negata dall'assessore comunale mentre la relativa
competenza è stata trasferita dallo statuto del comune al dirigente; perché
la concessione è stata data ad altri, senza che si tenesse conto della
domanda del ricorrente e degli eventuali suoi titoli di preferenza; perché
l'occupazione d'urgenza è stata decretata senza essere preceduta dalla
dichiarazione di indifferibilità o urgenza; perché l'atto impugnato è privo di
motivazione, o non è stato preceduto dal parere obbligatorio che avrebbe
dovuto essere acquisito, ecc. Questo non vuol dire che il processo
amministrativo non serva a tutelare l'interesse legittimo, e che non sia uno
strumento a presidio del privato, o comunque del soggetto passivo della
potestà amministrativa. Vuol dire soltanto che l'interesse legittimo è
talmente legato al potere amministrativo che la sua garanzia è data dalla
disciplina delle modalità e dei presupposti per l'esercizio del potere: sicché
la sua lesione deriva dalla (e consiste nella) violazione delle norme e dei
principi che regolano l'esercizio del potere. Nell'interesse legittimo, è stato
detto da Giovanni Miele, la posizione di vantaggio riconosciuta al titolare «è
la risultante delle norme che impongono al titolare di un potere l'osservanza
di date modalità e condizioni nell'esercizio di esso: niente di più e di
diverso».
Diciamo allora che oggetto del ricorso non è l'interesse legittimo ma l'atto
impugnato; e che l'interesse è una sorta di biglietto di ingresso nel
processo (anche se in ultima istanza è ciò che si intende tutelare). La
richiesta di annullamento dell'atto intanto può trovare accesso solo se
proviene dal titolare dell'interesse, e non da altri. Per esempio da colui cui
l'autorizzazione sia stata negata o il cui immobile sia stato occupato in via
d'urgenza.
La questione dell'interesse merita qualche altra considerazione.
Si suol dire che il processo amministrativo, come il processo civile, è retto
da un principio individualistico.
Il buon cittadino ha interesse a che l'amministrazione funzioni
regolarmente e si comporti in modo conforme alla legge. Ma questo
non gli dà titolo a rivolgersi al giudice ogni volta che, leggendo il giornale o
ascoltando le recriminazioni di un amico, si renda conto di qualche grossa
irregolarità. Perché il ricorso sia ammissibile occorre che venga sorretto da
un interesse personale: occorre cioè che, in conseguenza dell'atto
illegittimo, la persona abbia subito una lesione nella sua sfera personale o
patrimoniale. Questa regola conosce delle eccezioni. Per esempio ciascun
elettore può far valere in giudizio le azioni e i ricorsi che spettano al
comune e alla provincia (art. 9 d.lgs. 267/2000). Colui che è iscritto nelle
liste elettorali del comune può sostituirsi a questo per far valere in giudizio
le ragioni dell'amministrazione che ometta di farlo. Per esempio può
ricorrere contro un provvedimento della regione che abbia trasferito al
comune somme inferiori a quelle che al comune spetterebbero; ovvero
contro un provvedimento che abbia revocato al comune la qualifica di
comune montano, in questo modo sottraendogli alcuni benefici. Si tratta di
una vecchia tradizione del diritto comunale alla quale non è estraneo
l'intento di integrare il sistema dei controlli sugli enti locali (prima dello
Stato, oggi della regione) rendendo l'elettore partecipe di questo sistema.
Lo Stato non si fida degli amministratori comunali e chiama i cittadini a
controllarli.
Altro campo nel quale sono tradizionalmente ammesse le azioni popolari -
azioni giudiziarie che possono essere esercitate dal quisque de populo
(ossia chiunque, anche se non animato da interesse personale) - è quello
elettorale.
L'elettore può impugnare davanti al giudice amministrativo le operazioni
elettorali (elezioni amministrative e regionali) se ritiene che a una lista o a
un candidato siano stati attribuiti più voti o meno voti di quelli
effettivamente espressi o per qualunque altra irregolarità delle operazioni
di voto o di scrutinio. Non è raro leggere sulla stampa di elezioni
amministrative o regionali totalmente o parzialmente annullate dai T A R con
conseguente necessità di indire nuove elezioni. L'azione popolare si spiega,
in questi casi, con l'interesse generale alla regolarità della competizione
elettorale e alla corretta costituzione degli organi elettivi degli enti
territoriali. Tale interesse è simultaneamente un interesse individuale del
singolo elettore.
L'azione popolare non è invece ammessa per le elezioni politiche. Spetta a
ciascuna camera, in sede di verifica dei poteri (art. 66 Cost.), controllare la
regolarità dell'elezione dei suoi membri (ed il possesso, da parte degli
eletti, del c.d. diritto di elettorato passivo). Le eventuali contestazioni
devono essere fatte davanti alla Giunta per le elezioni di ciascun ramo del
Parlamento.
Il principio individualistico, infine, ha subito un'attenuazione nella materia
ambientale e della tutela del consumatore. Le associazioni di protezione
ambientale che abbiano ottenuto un certo riconoscimento (Italia Nostra,
WWF, ecc.) possono ricorrere contro atti e provvedimenti ritenuti
pregiudizievoli per l'ambiente: una lottizzazione edilizia, una deroga ai
divieti che operano in un parco regionale, un'autorizzazione allo scarico di
rifiuti industriali in un fiume. Di analogo potere dispongono le associazioni
di tutela dei consumatori nei riguardi di provvedimenti tariffari, di
determinazione autoritativa dei prezzi, ecc.

I motivi di ricorso
La richiesta di annullamento dell'atto impugnato deve essere sorretta da
motivi, ossia dall'indicazione dei vizi (incompetenza, eccesso di potere,
violazione di legge) nei quali l'amministrazione sarebbe incorsa. Il
ricorrente chiede l'annullamento a tutela del suo interesse (legittimo): può
ottenerlo, tuttavia, come si è detto, non perché l'atto leda il suo interesse,
ma perché è illegittimo.
I motivi di ricorso tracciano la pista lungo la quale il giudice amministrativo
deve muoversi.
II T A R non può ignorare un motivo ma deve esaminarli tutti. Potrebbe essere
infondato (giudicato infondato) il motivo relativo
all'incompetenza dell'organo, ma non quello con cui si lamenta un difetto di
istruttoria; inesistente una delle violazioni di legge
denunciate, ma non un'altra. Basta che sia fondato uno solo dei motivi
perché il ricorso venga accolto: anche se, come vedremo, le
conseguenze sono diverse a seconda dei motivi di ricorso che vengono
accolti.
Sulla base di questa considerazione il giudice amministrativo, una volta che
abbia giudicato meritevole di accoglimento un motivo di ricorso, e quindi
idoneo a giustificare l'annullamento dell'atto, spesso non procede all'esame
degli altri motivi e li dichiara «assorbiti». Assorbiti dall'accoglimento di uno
o più motivi diversi: sicché appare superfluo il loro esame una volta che
comunque l'atto impugnato viene annullato.
Per converso il giudice non può annullare l'atto per vizi che la parte non ha
denunciato. Anche se, poniamo, accerta un clamoroso vizio di incompetenza
- perché il sindaco, ad esempio, ha imposto un vincolo di interesse storico-
artistico a un immobile sostituendosi all'amministrazione dei beni culturali -
il T A R non può rilevarlo se la parte non ha denunciato l'incompetenza del
sindaco. Si tratta dell'applicazione del processo amministrativo di un
fondamentale principio del processo civile, il principio della
«corrisp ondenza tra il chiesto e il pronunciato». Il giudice deve pronunciare
su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa (art. 112 cod. proc. civ.).
Ciò conferma che il processo amministrativo non ha per scopo il controllo
sulla legittimità dell'azione amministrativa (come ha a lungo ritenuto la
dottrina francese). Se invece quello fosse lo scopo, il ricorso non dovrebbe
passare per la strettoia dell'interesse e della domanda. Chiunque potrebbe
impugnare qualunque atto denunciandone l'illegittimità; e il giudice non
sarebbe vincolato ai motivi di parte.
La parte, in certi casi, intenzionalmente omette di denunciare certi vizi
quando punta a una pronuncia più radicale.
Nell'esempio fatto, il ricorrente potrebbe avere omesso di dedurre il vizio di
incompetenza perché non vuole correre il rischio che, una volta annullato
l'atto per incompetenza, esso venga riproposto tale e quale dall'organo
competente (nel nostro esempio l'amministrazione regionale dei beni
culturali). Egli punta, pertanto, a contestare in modo più incisivo il
provvedimento dimostrando, per esempio, che l'immobile è stato realizzato
meno di cinquant'anni prima: sicché il decreto di vincolo viola la norma che
limita la possibilità di dichiarare l'interesse storico- artistico agli edifici più
vecchi di cinquantanni.

Vizi di legittimità e vizi di merito


I vizi che la parte può denunciare (o i motivi che può proporre) sono vizi (e
motivi) di legittimità. Solo eccezionalmente le norme sulla giustizia
amministrativa prevedono una giurisdizione di merito (art. 27 r.d.
1054/1924 e art. 7 co. 1 l. 1034/1971).
Della questione non varrebbe la pena di occuparsi se la giurisdizione di
merito, nella generalità dei casi, non segnasse il limite al quale deve
arrestarsi il giudice amministrativo e il suo sindacato. La linea di confine tra
legittimità e merito serve quindi a stabilire sino a che punto il giudice
amministrativo può spingersi nel valutare l'atto impugnato.
Nel linguaggio della dottrina e della prassi amministrativa il merito dell'atto
amministrativo ha a che fare con la sua opportunità o convenienza: qualità
che possono essere dissociate dalla legittimità. Ordinare la demolizione
delle case abusive che si trovano nel territorio comunale e che sono state
costruite nel corso dei decenni può essere perfettamente legittimo: ma può
essere politicamente inopportuno perché susciterebbe la rivolta di una
parte considerevole della popolazione. Negare un'autorizzazione a lottizzare
può essere illegittimo. Ma può risultare opportuno se il diniego precede di
qualche giorno l'adozione da parte del consiglio comunale di un nuovo piano
regolatore che destina l'area da lottizzare (ed edificare) a verde pubblico.
II problema è allora quello di stabilire dove finisce la legittimità (e il
giudizio di legittimità) e dove comincia il merito (e il giudizio di
merito). Non ci sarebbe alcun margine di dubbio se l'illegittimità
coincidesse con la violazione di legge e si esaurisse nella violazione
di legge. La violazione di legge, infatti, viene accertata mediante il
confronto tra la norma e l'atto: se si discosta dalla norma, o per
quanto riguarda il modo di formazione o sotto il profilo dei presupposti o dal
punto di vista del procedimento, l'atto è illegittimo.
Ma tra i vizi di legittimità è compreso, come è noto, l'eccesso di potere. Per
mezzo di esso il sindacato che il giudice amministrativo è chiamato ad
esercitare va ben oltre il riscontro della conformità o difformità dell'atto
rispetto alla legge. Tale sindacato può investire le finalità perseguite, che
potrebbero risultare diverse da quelle enunciate, la coerenza con i risultati
dell'istruttoria (ordine di abbattimento di capi di bestiame infetti in base ad
analisi clinica), la valutazione comparativa di interessi (ordine di chiusura,
per ragioni igieniche, di una fabbrica che dà lavoro a decine di operai), la
congruenza del provvedimento rispetto ad atti analoghi precedenti, ecc.
L'accertamento dell'eccesso di potere sfiora il giudizio di merito.
Storicamente l'eccesso di potere ha inglobato valutazioni che un tempo
venivano considerate valutazioni di merito. Un esempio. Il controllo sulla
valutazione di una commissione medica ospedaliera che ha escluso che una
certa infermità (per esempio l'ipertensione arteriosa) dipenda da causa di
servizio (per esempio da stress per super lavoro) una volta era ritenuto un
controllo di merito. Oggi è considerato un controllo di legittimità, aperto al
giudice amministrativo. Il quale potrebbe stabilire, ad esempio, che la
valutazione negativa della commissione è viziata dalla omessa
considerazione dello specifico ambiente di lavoro in cui la menomazione è
insorta (per esempio un servizio neurologico di ospedale pubblico ove il
medico che richiede la causa di servizio è a contatto continuo con
tossicodipendenti che chiedono la somministrazione di metadone).
Rimane salva, concettualmente, la distinzione. Ogni valutazione di
opportunità attiene al merito, ed è preclusa, in generale, al giudice
amministrativo. Se questo potesse annullare l'atto impugnato perché lo
giudica inopportuno, non si comporterebbe da giudice, ma da
amministratore. Sostituirebbe il suo giudizio a quello della pubblica
amministrazione.

Il termine per ricorrere


Il ricorso al giudice amministrativo va proposto entro un termine di sessanta
giorni. Il termine decorre dal momento in cui l'atto che si intende
impugnare è stato comunicato o, in assenza di comunicazione, dal momento
in cui la parte ne ha avuto piena conoscenza. La piena conoscenza fa
scattare il termine per ricorrere soprattutto quando a impugnare è un terzo
rispetto al provvedimento, e quindi un soggetto al quale nessuna
comunicazione viene fatta. È il caso del vicino che impugni il permesso di
costruire, o del titolare di concessione che impugni il rilascio ad altri di una
nuova concessione. Il ricorrente assume di avere avuto piena conoscenza
dell'atto in una certa data: non più di sessanta giorni prima della
proposizione del ricorso, ossia della notifica del ricorso all'organo che ha
emesso il provvedimento impugnato. Spetta all'autorità provare
eventualmente che il ricorrente la piena conoscenza dell'atto l'ha acquisita
prima di 60 giorni dalla notifica del ricorso e che perciò il ricorso è tardivo.
La presenza di un termine (breve) per la proposizione del ricorso è uno dei
tratti che distinguono la tutela degli interessi legittimi dalla tutela dei diritti
soggettivi.
I diritti soggettivi possono essere fatti valere davanti al giudice ordinario
entro il termine di prescrizione che, d'ordinario, è di dieci anni. Solo in casi
sporadici la tutela del diritto è sottoposta a un termine breve di decadenza
(per esempio entro trenta giorni vanno impugnate le deliberazioni
dell'assemblea di condominio, art. 1137 cod. civ.).
II termine per ricorrere al giudice amministrativo è considerato una misura
a tutela della pubblica amministrazione, o comunque
della stabilità dei rapporti amministrativi. Decorsi i sessanta giorni (o i
centoventi giorni previsti per il ricorso straordinario: v. art. 9
d.p.r. 1199/1971) l'atto risulterà inoppugnabile e quindi spiegherà
tranquillamente e stabilmente i suoi effetti, anche se affetto da vizi
macroscopici.
Dopo che il termine per proporre ricorso è scaduto solo l'amministrazione
potrà annullare il suo atto («d'ufficio») quando esso sia illegittimo e vi sia
un concreto interesse pubblico all'annullamento. Tale interesse si
affievolisce col decorso del tempo. Turbare una situazione consolidata può
comportare un costo superiore al beneficio che deriva dal ripristino della
legalità violata; ed è per questo che, in casi del genere, è meglio lasciare in
vita l'atto illegittimo.

I controinteressati
L'atto impugnato, che lede il ricorrente, può essere vantaggioso per altri.
Se io impugno il permesso di costruire rilasciato al mio vicino o
l'aggiudicazione di un appalto a un'altra ditta, altri soggetti risulteranno
pregiudicati dalla mia iniziativa ed avranno quindi interesse ad opporvisi.
Rispetto all'atto impugnato vi è un interessato all'annullamento (o vi sono
più interessati all'annullamento); ma può esserci un controinteressato o
possono esserci più controinteressati, ossia portatori di un interesse
contrario. Se l'atto impugnato è la graduatoria di un concorso, che il
ricorrente assume esser viziata dall'irregolare composizione della
commissione esaminatrice, a fronte di un interessato all'annullamento (il
concorrente non incluso in graduatoria) sono controinteressati tutti coloro
che sono inclusi nella graduatoria. L'annullamento dell'atto travolgerebbe la
loro idoneità e quindi impedirebbe loro di essere nominati pubblici
impiegati.
Da questa ovvia esigenza di tutela nasce l'onere del ricorrente di notificare
il ricorso non solo all'organo che ha emanato l'atto ma anche ai
controinteressati all'annullamento di quest'ultimo. E ad almeno uno di essi
la notifica va fatta entro il termine per ricorrere, restando salva la
possibilità di estendere la notifica agli altri successivamente, nel corso del
giudizio. Si tratta di un principio che è oggi espressamente
costituzionalizzato. Secondo l'art. 111 Cost., come riformulato con legge
costituzionale 2/1999, ogni processo si svolge nel contraddittorio fra le
parti.
Come il ricorso tardivamente proposto è irricevibile, così il ricorso non
notificato a tutti i controinteressati è inammissibile. Nell'uno come nell'altro
caso il T A R non esaminerà il ricorso nel merito ma si arresterà alla
dichiarazione preliminare di irricevibilità o di inammissibilità. In altre
parole, perché il ricorso possa essere accolto, è necessario che abbia
superato con successo la soglia della ricevibilità (è stato proposto entro il
termine) e la soglia della inammissibilità (è stato notificato a tutti i
controinteressati).
Il controinteressato chiamato in giudizio potrà difendersi con memorie
(difendendo l'atto impugnato dal ricorrente e la sua legittimità). Ma potrà a
sua volta contrattaccare proponendo ricorso incidentale contro lo stesso
atto che forma oggetto del ricorso principale. La cosa può suonare strana.
Se io, come controinteressato, ho interesse a che l'atto impugnato dal
ricorrente rimanga in vita, come posso, nello stesso tempo, avere interesse
a farlo cadere a mezzo di un ricorso che io stesso vado a proporre (ricorso
incidentale)? La risposta alla domanda è la seguente. L'atto impugnato ha
spesso una struttura composta, ed è quindi scomponibile in più parti: contro
una di queste rivolge i suoi strali il ricorrente, contro un'altra, diversa, si
rivolge con ricorso incidentale il controinteressato.
Un esempio vale a chiarire questo concetto.
La ditta A , che ha partecipato ad una gara d'appalto ed ha presentato la
seconda offerta migliore, impugna l'aggiudicazione dell'appalto alla ditta B:
sostenendo, ad esempio, che questa doveva essere esclusa per non aver
documentato la capacità finanziaria come richiesto dalla legge e dal bando.
La ditta B , controinteressata, si difende sul punto, sostenendo di aver
documentato la capacità finanziaria. Ma contrattacca a sua volta
impugnando la determinazione del seggio di gara di ammettere a
partecipare la ditta A sebbene questa fosse da escludere, poniamo, per non
avere presentato la cauzione nella forma prescritta dal bando. A questo
punto la questione dedotta col ricorso incidentale, circa la legittimità o
meno dell'ammissione della ditta A, diventa pregiudiziale perché mette in
discussione lo stesso interesse a ricorrere di A. Se il ricorso incidentale, che
in ordine logico va esaminato per primo (almeno in questo caso), fosse
accolto, la ditta A verrebbe esclusa e verrebbe meno il suo interesse (e il
suo titolo) ad impugnare le operazioni di gara. Sicché l'aggiudicazione a
favore di B resterebbe salva, e il ricorso di A non verrebbe neppure
esaminato nel merito: proprio perché proposto da un soggetto che, dovendo
essere escluso dalla competizione, non ha interesse ad impugnare
l'aggiudicazione fatta ad altri.
L'istruttoria
Anche nel suo svolgimento il processo davanti al giudice amministrativo
(giurisdizione generale di legittimità) è piuttosto semplice.
Depositato l'originale del ricorso notificato con la copia dell'atto impugnato,
e gli altri atti rilevanti, il ricorrente chiederà la fissazione dell'udienza di
trattazione (di solito un'unica udienza). Il presidente del T A R provvederà
(spesso dopo anni, considerato il massiccio contenzioso) a fissare
un'udienza, e a farne dare comunicazione alle parti (ricorrenti,
amministrazione resistente, eventuali controinteressati).
La richiesta va fatta entro due anni dal deposito del ricorso; e nel caso che
sia disposta dal giudice un'istruttoria (v. più avanti), va rinnovata dopo
l'esecuzione di questa. In ciò il processo amministrativo si distingue dal
processo civile dove l'attore cita il convenuto ad udienza fissa, indicando
cioè l'udienza alla quale quest'ultimo deve comparire (se vuole).
Se la domanda di fissazione d'udienza non è presentata entro il biennio (dal
deposito del ricorso o dall'esecuzione dell'istruttoria) il processo finisce: in
termini tecnici, viene dichiarato «perento» (dal presidente del tribunale o
dal giudice da lui delegato).
Questo meccanismo conferma, se ce ne fosse bisogno, che il processo
amministrativo è un processo fondato sull'interesse della parte: e non uno
strumento di controllo dell'operato dell'amministrazione. Se scopo del
processo amministrativo fosse il controllo dell'amministrazione, esso
dovrebbe essere portato a compimento a prescindere dall'iniziativa della
parte.
Entro venti giorni prima dell'udienza stabilita dal giudice le parti possono
presentare documenti, ed entro dieci giorni memorie.
L'udienza è un'udienza di discussione. Gli avvocati delle parti possono
rinunciare (oggi è questo l'atteggiamento prevalente, in ragione del gran
numero di ricorsi assegnati a quella udienza) e chiedere che la causa «passi
in decisione».
Può accadere che per decidere il T A R debba acquisire mezzi istruttori. Se il
ricorrente denuncia un eccesso di potere per contraddittorietà con
precedenti determinazioni - per esempio perché per gli stessi fatti ha
inflitto in passato ad altro dipendente la sanzione lieve della censura
anziché, come oggi, quella grave della destituzione - il tribunale potrà
effettuare il confronto solo se dispone degli atti precedenti, invocati nel
ricorso. E se il ricorrente non li produce, perché ne ignora gli estremi
ovvero, avendoli richiesti, si è visto opporre un rifiuto, il T A R chiederà
all'amministrazione resistente di produrre quei documenti. Ovvero, in altri
casi, potrà chiedere all'amministrazione chiarimenti o, infine, potrà ordinare
verificazioni (una specie di consulenza tecnica). Se il ricorrente assume, per
esempio, che l'edificio da lui realizzato non supera l'altezza prevista in
progetto, e deposita una perizia sul punto, per contestare l'ordine di
demolizione fondato sul presupposto che la costruzione superi di un metro
l'altezza autorizzata, il T A R chiederà all'amministrazione di verificare, in
contraddittorio con la parte, l'altezza dell'edificio.
Richiesta di documenti, richiesta di chiarimenti e ordine di verificazione
esaurivano l'ambito dei mezzi di prova ammessi nel processo
amministrativo. La recente riforma del 2000 ha aggiunto la consulenza
tecnica.
Tali mezzi sono soltanto eventuali perché il più delle volte la causa può
essere decisa sulla scorta dei documenti depositati dalle parti. E perché
certi vizi del provvedimento sono suscettibili di essere accertati a
prescindere da qualsiasi istruttoria. Si pensi al vizio di incompetenza e a
quasi tutte le ipotesi di violazione di legge. Per verificare se l'organo è
incompetente basta mettere a confronto l'atto con la norma che attribuisce
la competenza. E lo stesso vale, di solito, per il vizio di violazione di legge.

L'inerzia amministrativa
Il privato può essere danneggiato dagli atti della pubblica amministrazione:
contro i quali la Costituzione ammette sempre la tutela giurisdizionale (art.
113 Cost.). Ma può essere leso anche da un'amministrazione che non
agisce: un'amministrazione che rimane inerte quando dovrebbe agire.
Chiedo un'autorizzazione o una concessione e il sindaco non mi dice né sì
né no; chiedo un contributo e non ottengo risposta alcuna.
In alcuni di questi casi la legge prevede il silenzio-assenso. Decorsi
sessanta giorni dalla richiesta di autorizzazione edilizia (che mi serve per
installare un ascensore o per collocare sul tetto dei serbatoi),
l'autorizzazione si intende rilasciata. Io posso avviare i lavori come se il
comune avesse accolto la mia domanda. In altri casi il meccanismo non può
funzionare. Non avrebbe senso dire che il contributo richiesto (e previsto)
per il restauro di un palazzo di pregio architettonico mi viene rilasciato
tacitamente, decorso un certo termine: quel che mi serve sono i soldi e per
ottenerli ho bisogno che l'amministrazione si attivi. In un terzo gruppo di
casi il silenzio-assenso è escluso da ragioni giuridiche. Come ha precisato la
Corte di giustizia delle comunità europee, ci sono certe attività (istruttorie
e di valutazione), soprattutto nella materia della tutela ambientale, che
l'amministrazione è tenuta a svolgere senza che esse possano essere
surrogate da una finzione (l'assenso tacito, appunto).
Al di fuori delle ipotesi in cui funziona il silenzio-assenso l'inerzia
dell'amministrazione produce un danno perché impedisce lo svolgimento
delle attività private che sono subordinate ad un atto di consenso dello
Stato o dell'ente pubblico. Sino a poco tempo addietro il privato, di fronte
all'amministrazione inerte, poteva avvalersi del congegno del silenzio-
rifiuto. Decorso un certo termine dalla presentazione della domanda
(almeno sessanta giorni), poteva intimare all'amministrazione di provvedere
con un atto
notificato a mezzo di ufficiale giudiziario con cui veniva assegnato un
ulteriore termine di trenta giorni. Decorsi infruttuosamente anche questi, si
formava, secondo la giurisprudenza, il silenzio-rifiuto impugnabile davanti
al giudice amministrativo. In altre parole l'interessato, con l'atto di diffida,
si costruiva da sé un atto tacito di rifiuto che poteva poi impugnare davanti
al giudice amministrativo come se si fosse trattato di un atto esplicito di
rifiuto. Poiché, per definizione, il silenzio-rifiuto non enuncia le ragioni del
rifiuto (mentre le enuncia, ed è tenuta a farlo, l'amministrazione quando
provvede in modo esplicito), poteva accadere che, a distanza di anni, il T A R
accogliesse il ricorso ribadendo l'obbligo dell'amministrazione di
provvedere; ma che questa, adempiendo a quell'obbligo, respingesse la
domanda (di autorizzazione, di concessione, di contributo) adducendo
ragioni che non aveva espresso a suo tempo proprio perché era rimasta
inerte. Sicché l'interessato era costretto a ricominciare da capo impugnando
questa volta non il silenzio-rifiuto, ma il rifiuto esplicito: e, nel frattempo,
erano trascorsi alcuni anni.
La riforma del 2000 ha in parte ovviato a questo inconveniente. Il ricorso
contro il silenzio dell'amministrazione deve essere deciso entro sessanta
giorni da quando viene proposto. Se il T A R l'accoglie (e non può non
accoglierlo salvo i casi in cui l'amministrazione non avesse l'obbligo di
provvedere o fosse destinataria di una richiesta rispetto a cui fosse del
tutto incompetente), ordina all'amministrazione di provvedere entro un
breve lasso di tempo (di norma non superiore a trenta giorni). Se anche
questo ulteriore termine decorre infruttuosamente, il giudice nomina un
commissario che è incaricato di provvedere in luogo dell'amministrazione.
L'ente pubblico inerte viene così ad essere sostituito dal giudice o meglio
dal commissario indicato dal giudice: non in prima battuta, ma dopo la
sentenza di accoglimento del ricorso contro il silenzio e comunque entro un
arco di tempo di pochi mesi dall'istanza originaria. Ovviamente resta ferma
la possibilità che a conclusione di questo iter elaborato il privato si veda
respingere (dal commissario) l'istanza. Ma non avrà perduto degli anni,
come in passato. In pochi mesi, anche se deluso, uscirà da uno stato di
incertezza.
Con la recente legge 15/2005 il meccanismo è stato ulteriormente
semplificato. Decorso il termine per la conclusione del procedimento,
stabilito dalla legge o in via generale dall'amministrazione (o, in assenza
dell'uno e dell'altro, di trenta giorni), senza che l'amministrazione abbia
provveduto, l'interessato potrà ricorrere immediatamente senza necessità di
diffidare l'amministrazione (così l'art. 2 co. 4 bis l. 241/90 come modificato
dalla l. 15/05). La posizione del privato è equiparata a quella del creditore
che può agire contro il debitore inadempiente senza necessità di costituirlo
in mora (art. 1219 cod. civ.).

Dopo la sentenza
Quando accoglie il ricorso il T A R riporta la situazione al momento che
immediatamente precede l'emissione dell'atto impugnato. La multa che il
ministro del Tesoro ha inflitto alla banca tesoriere del comune per non
avere versato certe somme nella tesoreria provinciale, in attuazione degli
obblighi che derivano dalla legislazione sulla tesoreria unica, viene
cancellata. Così come viene cancellato l'ordine di demolizione di manufatto
abusivo emesso dal sindaco, se giudicato illegittimo; o viene annullata la
graduatoria di un concorso se è accolta la censura di irregolare
composizione della commissione giudicatrice.
A seconda delle ragioni dell'annullamento (ossia dei motivi di ricorso
ritenuti fondati) si può stabilire se la partita amministrativa viene
definitivamente chiusa ovvero se è destinata a riaprirsi. Ritorniamo agli
esempi fatti. Se l'ordine di demolizione viene annullato perché la
costruzione, secondo il T A R , non è abusiva ma è autorizzata da una
concessione edilizia, il sindaco non avrà più nulla da decidere sul caso.
Se invece l'ordine è annullato perché non è stato acquisito il parere della
commissione edilizia, ossia per un vizio del procedimento, nulla esclude che
il procedimento sia rinnovato, che la commissione edilizia sia chiamata ad
esprimere il suo avviso e che la demolizione, sulla base di tale avviso, sia
nuovamente ordinata. Se viene annullata la graduatoria di un concorso
perché della commissione faceva parte un componente che non poteva
farne parte (ad esempio perché cugino in primo grado di uno dei candidati),
l'amministrazione dovrà formare una nuova commissione (magari
sostituendo il solo membro incompatibile e confermando gli altri). La nuova
commissione procederà alla ripetizione delle prove: e a queste avranno
diritto di partecipare tutti coloro che avevano fatto originariamente
domanda.
Nell'ultimo degli esempi fatti si dà per scontata una regola. Se l'atto
annullato fa parte di un procedimento amministrativo, l'attività svolta non
viene travolta del tutto: viene travolta quella parte di attività che è stata
posta in essere a partire dall'atto annullato. Sicché, nell'esempio,
rimarranno salvi il bando di concorso e la delibera di ammissione dei
candidati, ossia gli atti che precedono la nomina della commissione (che
avviene dopo che sono scaduti i termini per la presentazione delle
domande): mentre sono invalidate non solo la nomina della commissione,
ma anche le operazioni che ad essa sono seguite (prova scritta, prova orale,
graduatoria di merito).
Un'altra distinzione va tenuta presente: fra atti che comportano un
sacrificio per il ricorrente (un'espropriazione, un'occupazione d'urgenza,
una sanzione amministrativa, un ordine di rimessione in pristino) e atti che
negano un beneficio (un rifiuto di autorizzazione, di concessione, di
contributo, ecc.).
Nel primo caso la partita normalmente si chiude, a meno che il ricorso sia
stato accolto solo per un motivo formale. Se la sanzione pecuniaria viene
annullata perché il T A R esclude l'esistenza dell'illecito, nessun nuovo
procedimento sarà avviato. Se l'ordine di
sgombero di suolo demaniale impartito dalla Capitaneria di porto viene
annullato per un motivo formale, perché non è stato preceduto dalla c.d.
delimitazione del demanio marittimo, ossia dall'accertamento che il terreno
fosse effettivamente di proprietà demaniale, e non privato, come invece
sostiene il ricorrente, la Capitaneria di porto potrà acquietarsi: ma se è
convinta delle sue ragioni procederà a quell'accertamento secondo le
modalità previste dal codice della navigazione e, ove la tesi della
demanialità sia confermata, rinnoverà l'ordine di sgombero.
Nel secondo caso - quando l'atto annullato consiste nel rifiuto di un
provvedimento favorevole - la vicenda amministrativa si riapre
necessariamente. La sentenza del T A R che annulla un diniego di
autorizzazione non sostituisce l'autorizzazione negata, non equivale a tale
autorizzazione. Obbliga, invece, l'amministrazione a rivalutare la richiesta
del privato alla luce dei principi stabiliti in sentenza. Se, per esempio, a
Tizio è stato negato il porto d'armi a causa di un remoto precedente penale,
seguito da una sentenza di riabilitazione, non presa in considerazione dal
provvedimento di diniego, il questore sarà tenuto a riesaminare l'istanza
senza tener in alcun conto quella condanna. Teoricamente il porto d'armi
potrà essere nuovamente rifiutato, ma per una ragione diversa da quella
che il giudice amministrativo ha dichiarato inammissibile.
Possiamo dire che annullato un provvedimento sfavorevole, senza alcun
seguito di attività amministrativa, il ricorrente sarà pienamente soddisfatto:
perché si vedrà reintegrato nella sua condizione di proprietario (se è
annullato un decreto di espropriazione) o di possessore (se è annullato un
decreto di occupazione) o di libero professionista abilitato (se è annullata la
delibera che per ragioni disciplinari lo aveva cancellato dall'albo).
L'annullamento del rifiuto di un provvedimento favorevole non produce
questo effetto di piena soddisfazione. Pone semmai le premesse per una
soddisfazione futura che dipenderà pur sempre dall'autorità amministrativa:
ossia dall'esito della procedura amministrativa che viene rinnovata a
seguito della sentenza. Se, a seguito di tale rinnovo, il porto d'armi mi verrà
rilasciato la sentenza avrà svolto un ruolo decisivo. Ma sarà pur sempre il
questore a rilasciarmi il porto d'armi.

Sentenze di merito e sentenze di rito


Il ricorso, è ovvio, non sempre viene accolto.
Stando alle statistiche il ricorrente ha meno del 50% di probabilità di
vittoria. La vittoria può mancare perché il ricorrente ha torto: perché, a
giudizio del T A R , i vizi da lui denunciati non esistono, non esiste
l'incompetenza dell'autore dell'atto, non c'è la violazione di legge che è
stata segnalata (o le violazioni di legge che sono state segnalate), non c'è
l'eccesso di potere denunciato. Ma il ricorrente può perdere la causa anche
per altre ragioni. Il processo amministrativo, come ogni processo, è una
sorta di corsa a ostacoli. Bisogna superarli tutti per arrivare alla decisione
di merito: alla decisione con cui il giudice stabilisce se tu hai ragione o hai
torto.
Il ricorrente può inciampare in uno degli ostacoli che si frappongono alla
meta. Può, per esempio, aver proposto il ricorso con ritardo (rispetto al
termine di sessanta giorni), e allora il giudice dichiarerà che il ricorso è
irricevibile. Non si pronuncerà sul merito del ricorso: si limiterà a dire che
non può pronunciarsi perché il ricorso è stato notificato con ritardo.
Può darsi che il ricorrente abbia omesso di notificare il ricorso alla persona
che è avvantaggiata dal provvedimento da lui impugnato (per esempio il
permesso di costruire rilasciato al vicino). In questi casi c'è la violazione
della regola del contraddittorio.
Poiché la decisione non può essere presa senza che tutte le parti siano
state poste in condizione di difendersi (nell'esempio fatto, di difendere
l'atto che il ricorrente attacca) il giudice dichiarerà il ricorso
inammissibile. Anche qui, senza entrare nel merito della questione: senza
valutare cioè i motivi del ricorso proposto contro il provvedimento.
Può darsi che, nel corso del processo, le cose cambino in modo da incidere
sulla decisione. Se l'atto che ho impugnato viene annullato dall'autorità
amministrativa, mancherà al giudice la materia della decisione: il
presidente del T A R o un giudice da lui delegato dichiarerà cessata la materia
del contendere. Può darsi che il processo sia stato sospeso (per esempio
perché è stata rimessa alla Corte costituzionale la questione di legittimità
costituzionale della norma invocata dal ricorrente nell'ambito di una
denuncia di violazione di legge) e non sia stato tempestivamente ripreso
(«riassunto» con parola tecnica), una volta cessata la causa di sospensione,
entro il termine stabilito. Il presidente del T A R o il giudice da lui delegato
dichiarerà estinto il processo.
Nel gergo forense si distinguono le sentenze di merito - quelle che,
entrando nel merito, stabiliscono la ragione e il torto - dalle sentenze di
rito. Quelle di cui abbiamo parlato sono tutte sentenze di rito: sentenze che
nella stragrande maggioranza dei casi lasciano il ricorrente a bocca asciutta
come se il giudice gli avesse dato torto. In realtà non gli ha dato torto: solo
che non ha preso in considerazione le sue ragioni. E ciò, sotto un certo
aspetto, è anche peggio.
Certamente è peggio per l'avvocato quando a lui è imputabile il fatto che ha
dato luogo ad una pronuncia di irricevibilità, o inammissibilità del ricorso o
di estinzione o perenzione del processo.
Un posto a sé tra le sentenze di rito sono quelle con cui il T A R nega la
giurisdizione del giudice amministrativo. Neppure in questo caso al
ricorrente viene dato torto. Il giudice non entra nel merito perché la
situazione soggettiva che il ricorrente ha fatto valere non
è un interesse legittimo ma un diritto soggettivo. Salvo i casi in cui il
giudice amministrativo disponga di giurisdizione esclusiva (di giurisdizione
anche sui diritti), la tutela dei diritti soggettivi spetta al giudice ordinario.
La sentenza che nega la giurisdizione del giudice amministrativo, a
differenza della maggior parte delle altre sentenze di rito, non chiude
definitivamente la partita tra cittadino e pubblica amministrazione.
Il cittadino, se non è stanco di contendere, potrà far valere le sue ragioni
davanti al giudice civile (o davanti al giudice contabile o al giudice
tributario, secondo i casi). Anche perché l'azione giudiziaria davanti al
giudice civile non è sottoposta a un termine breve di decadenza (60 giorni),
ma al ben più lungo termine di prescrizione (dieci anni, per la prescrizione
ordinaria). Tale termine di solito non è decorso quando interviene la
sentenza che dichiara il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo;
e comunque è interrotto dall'azione proposta davanti a un giudice
incompetente.

La giurisdizione esclusiva
Si è parlato finora della cosiddetta giurisdizione generale di legittimità: di
un processo in cui la parte impugna un atto (o il silenzio)
dell'amministrazione a tutela di un suo interesse legittimo. Ma si è pure
detto che dal 1923 è attribuita al giudice amministrativo una giurisdizione
esclusiva nella quale egli «conosce anche di tutte le questioni relative ai
diritti» (artt. 29 e 30 r.d. 1054/1924; art. 7 l. 1034/1971). Sul presupposto
che in certe materie la distinzione fra diritti soggettivi e interessi legittimi
sia particolarmente oscura ovvero che nella stessa persona si cumulino
diritti soggettivi e interessi legittimi, la legge ha originariamente (1923)
attribuito l'intera materia al giudice amministrativo: a prescindere dal fatto
che di volta in volta si faccia valere un diritto soggettivo o un interesse
legittimo. In realtà, come il Consiglio di Stato ebbe presto a constatare, la
rilevanza della distinzione tra diritto e interesse non può essere cancellata
mediante la semplice devoluzione di tutte le controversie ad un unico
giudice.
Un esempio. Il ricorso davanti al giudice amministrativo va proposto entro
un termine breve di decadenza (60 giorni). La regola vale anche quando il
ricorrente fa valere un diritto? Anche quando l'impiegato pubblico (l'impiego
pubblico è stato per decenni la principale delle materie attribuite alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo) contesta il foglio paga da
cui risulta il mancato pagamento di un'indennità che egli ritiene spettargli?
Ma se così fosse, con la devoluzione al giudice amministrativo il diritto
soggettivo (tale è quello che il pubblico impiegato fa valere, nell'esempio
fatto) subirebbe una menomazione: perché la relativa azione anziché
prescriversi in un anno (art. 2955 n. 2 cod. civ.) sarebbe soggetta a un
termine di decadenza di due mesi. Altro aspetto. Prima dell'istituzione dei
TAR il ricorrente aveva l'onere di depositare copia del provvedimento
impugnato (o l'attestazione del rifiuto di rilasciarlo). Tale onere vige anche
quando il ricorrente fa valere una pretesa patrimoniale che
l'amministrazione nega con un comportamento di fatto?
Da qui la distinzione, nell'ambito della giurisdizione esclusiva, tra atti
autoritativi e atti paritetici. I secondi sono complementari a diritti
soggettivi: è paritetico, ad esempio, il diniego di corrispondere gli interessi
sulle somme arretrate.
Quando l'atto è paritetico non valgono alcune delle regole proprie del
processo amministrativo: l'onere di deposito dell'atto impugnato, il termine
di decadenza, le limitazioni istruttorie, le limitazioni al potere di decisione.
Come è stato di recente specificato, nelle controversie devolute alla sua
giurisdizione esclusiva il giudice amministrativo può disporre tutti i mezzi di
prova previsti dal codice di procedura civile (testimonianza, ispezioni,
consulenza tecnica), esclusi l'interrogatorio formale e il giuramento (art. 7
lett. c l.
205/2000).
Quanto alle sentenze ammesse, esse non sono limitate alle sentenze di
annullamento: il T A R , nelle materie relative a diritti attribuiti alla sua
giurisdizione esclusiva, può condannare l'amministrazione al pagamento
delle somme di cui risulti debitrice (art. 26 l. T A R ).
In altre parole, nell'ambito della giurisdizione esclusiva la distinzione fra
diritti soggettivi e interessi legittimi riemerge quando vengono in
considerazione le regole processuali. Quando si tratta di atti paritetici (e
quindi di diritti soggettivi) il processo amministrativo si atteggia
tendenzialmente come un processo civile: termine di prescrizione anziché
termine di decadenza, mezzi istruttori modellati sul processo civile,
sentenze di condanna (e di mero accertamento) a fianco delle sentenze
costitutive (annullamento dell'atto impugnato).

Esecuzione della sentenza


Quando il T A R respinge il ricorso, l'amministrazione non ha nulla da fare. Può
solo portare ad esecuzione l'atto impugnato, se non lo ha fatto prima o se
l'esecuzione era stata sospesa dal T A R . La situazione continua ad essere
regolata esclusivamente dal provvedimento che è uscito indenne dal
giudizio.
Quando il ricorso è accolto le cose stanno diversamente. Solo in casi
rarissimi la sentenza è autoesecutiva: fornisce cioè al ricorrente quella
soddisfazione piena che non richiede alcuna attività di esecuzione da parte
dell'amministrazione. Si pensi all'annullamento di una misura disciplinare
come la censura, inflitta a un funzionario di polizia. Poiché la sanzione ha
un valore quasi esclusivamente morale, il suo annullamento soddisfa in
pieno l'interessato senza che l'amministrazione di appartenenza debba fare
alcunché.
Nella generalità dei casi l'amministrazione è invece tenuta a fare qualcosa.
«L'esecuzione delle decisioni si fa in via amministrativa», dice il vecchio
regolamento di procedura del Consiglio di Stato (risale al 1907).
Se viene annullato un decreto di occupazione d'urgenza l'amministrazione
occupante dovrà restituire il terreno al proprietario: un'attività materiale
che è dovuta perché è venuto meno il titolo che giustificava il possesso
dell'ente pubblico. Se viene annullato il provvedimento di degradazione di
un ufficiale dell'esercito, l'amministrazione militare dovrà reintegrarlo nel
grado, attribuendogli le funzioni corrispondenti (e corrispondendogli la
retribuzione che nel frattempo gli era stata negata). Se viene annullato un
diniego di concessione, l'amministrazione dovrà riesaminare l'istanza alla
stregua dei criteri enunciati in sentenza. Se viene annullato per una parte
un piano regolatore comunale, il consiglio comunale dovrà nuovamente
provvedere a disciplinare quella porzione di territorio che, per effetto
dell'annullamento parziale, diventa «zona bianca» (ossia zona che è
sottoposta alla restrittiva disciplina stabilita per i comuni privi di piano
regolatore fin quando il comune non ne regoli la destinazione d'uso col
proprio strumento urbanistico).
Che succede se l'amministrazione non fa quello che dovrebbe fare per
adeguarsi alla sentenza? Se non restituisce il terreno che costituisce
oggetto del decreto di occupazione annullato, se non reintegra l'ufficiale nel
suo grado e non gli dà quanto a lui dovuto, se la domanda di concessione il
cui diniego è stato annullato viene accantonata, se il consiglio comunale
non viene convocato per dare ad una parte di territorio comunale una nuova
sistemazione, in luogo di quella annullata?
Il rimedio previsto è quello del ricorso per esecuzione del giudicato (o del
ricorso in ottemperanza). La parte insoddisfatta, dopo avere intimato
all'amministrazione di provvedere, con atto notificato nelle forme degli atti
giudiziari assegnandole un termine non inferiore a trenta giorni, si rivolge
allo stesso giudice che gli ha dato ragione (il T A R se la causa l'ha vinta al
T A R , il Consiglio di Stato se la vittoria l'ha ottenuta in appello) chiedendo
che sia accertato l'obbligo dell'amministrazione di «ottemperare» alla
sentenza. Poiché una nuova dichiarazione dell'obbligo rischia di rimanere
lettera morta, come lo è stata la sentenza originaria, la prassi ha inventato
un espediente che viene sempre più spesso utilizzato. Il giudice cui la parte
si rivolge per l'esecuzione del giudicato accerta che l'amministrazione non
ha ottemperato e nomina un commissario ad acta (per esempio un
funzionario di un'amministrazione addetta al controllo o al limite un
funzionario della stessa amministrazione inadempiente) con il preciso
compito di provvedere in luogo dell'amministrazione: ossia di porre in
essere gli atti e i comportamenti che risultano dovuti sulla base della
sentenza originaria.
L'amministrazione che si è sottratta agli obblighi nascenti dalla sentenza
viene sostituita, nell'attività di adempimento, da un funzionario che di tale
adempimento risponde personalmente al giudice che lo ha nominato. Se la
parte ritiene che anche il commissario ad acta (letteralmente, colui che ha
la commissione o l'incarico di porre in essere certi atti) persiste
nell'inadempimento o adempie solo in parte, essa può rivolgersi allo stesso
giudice dell'ottemperanza: ossia a colui che vigila sull'operato del
commissario da lui nominato.
Quando l'esecuzione richieda il pagamento di somme di denaro a favore del
ricorrente vittorioso, il commissario ad acta porrà in essere tutte le
operazioni contabili (impegno di spesa, mandato di pagamento ed altro) che
sono richieste dalle norme di contabilità pubblica per l'esborso di somme di
denaro da parte di una pubblica amministrazione.

L'appello
Il processo amministrativo è retto dal principio del doppio grado di
giurisdizione. Come il processo civile e il processo penale conosce una fase
o un grado di appello. Anzi, come ha rilevato la Corte costituzionale, è il
solo processo nel quale il doppio grado di giurisdizione sia espressamente
costituzionalizzato. L'art. 125 Cost. prevede, infatti l'istituzione, in ciascuna
regione, di «organi di giustizia amministrativa di primo grado» (art. 103
Cost.); rispetto ad essi il Consiglio di Stato funge da giudice d'appello.
La sentenza del T A R può, quindi, essere impugnata davanti al Consiglio di
Stato. Può appellare solo la parte soccombente; il ricorrente quando il
ricorso sia stato respinto o dichiarato irricevibile o inammissibile;
l'amministrazione resistente quando il ricorso venga accolto; o il
controinteressato nel medesimo caso perché è danneggiato
dall'annullamento di un atto che gli arrecav a benefici.
Il giudice d'appello ha gli stessi poteri «di cognizione e di decisione del
giudice di primo grado» (art. 28 ult. co. l. T A R ).
L'appellante non potrà limitarsi a riproporre i motivi del ricorso di primo
grado, non accolti dal T A R , ma dovrà attaccare la sentenza nelle parti in cui i
motivi sono respinti.
Così se il ricorso è stato dichiarato tardivo, il ricorrente, oggi appellante,
dovrà dimostrare che il ricorso di primo grado era tempestivo, dovrà cioè
addurre argomenti contro il ragionamento del primo giudice. Sarà tenuto,
per esempio, a dimostrare che la piena conoscenza dell'atto impugnato, che
il T A R fa risalire ad una certa data per dedurne la tardività del ricorso, in
realtà è stata acquisita in epoca successiva; e comunque avrà l'onere di
attaccare la sentenza nella parte in cui considera provata una piena
conoscenza che in realtà provata non è. Se il ricorso è stato dichiarato
inammissibile per disintegrità del contraddittorio (per esempio per omessa
notifica ad un controinteressato) l'appellante si difenderà dicendo che la
notifica in realtà è stata fatta (per esempio a mani del portiere); ovvero che
quel soggetto non è controinteressato, ossia non rientra fra quelli cui il
ricorso andava notificato, nonostante la diversa opinione del T A R .
Se il giudice d'appello condivide i motivi diretti contro la sentenza del T A R
che ha dichiarato irricevibile o inammissibile o improcedibile il ricorso, non
è detto che per ciò stesso accolga il ricorso. Ben potrebbe il Consiglio di
Stato, pur dopo avere superato le barriere erette dal T A R (che reputando
tardivo o inammissibile il ricorso, non è entrato nel merito), entrare nel
merito del ricorso di primo grado, e respingerlo.
In questo caso l'appellante non avrà ottenuto nemmeno la vittoria di Pirro.
Perché il giudice d'appello, pur escludendo che il ricorso fosse irricevibile o
inammissibile o improcedibile, dirà che il ricorrente aveva comunque torto e
che il ricorso era comunque infondato.
Quando l'appellante è colui che ha proposto ricorso in primo grado, ed è
rimasto soccombente, oggetto, almeno mediato dell'impugnazione, è pur
sempre l'atto amministrativo impugnato davanti al T A R . Il discorso è diverso
quando il ricorso viene accolto dal T A R e ad appellare è la pubblica
amministrazione o il controinteressato. In questo caso l'impugnazione è
diretta solo contro la sentenza: ossia contro la pronuncia che ha tolto di
mezzo l'atto amministrativo che la pubblica amministrazione aveva emesso
e il controinteressato aveva interesse a difendere.
Dal punto di vista procedurale il giudizio d'appello è sottoposto a regole
identiche o comunque molto simili a quelle che reggono il giudizio di primo
grado. Notifica dell'appello (entro sessanta giorni dalla notifica della
sentenza impugnata o, se la notifica manca, entro un anno dal deposito
della sentenza), deposito, costituzione in giudizio delle altre parti, istanza
di fissazione d'udienza, termine per documenti e memorie, udienza di
discussione.
La parte appellata può difendersi, ma può anche proporre contro la
sentenza appello incidentale. Ciò è possibile quando la vittoria di una parte
non è completa. Facciamo l'esempio del ricorrente che abbia proposto
cinque motivi di ricorso e se ne veda accogliere uno e respingere quattro.
L'accoglimento di un solo motivo determina l'annullamento dell'atto e
quindi la vittoria del ricorrente. Se l'amministrazione propone appello
contro la sentenza (ovviamente nella parte o nel «capo» in cui è stato
accolto quell'unico motivo), il ricorrente appellato avrà interesse a
impugnare la sentenza nella parte in cui respinge gli altri quattro motivi.
Il Consiglio di Stato sarà tenuto a riesaminare tutti e cinque i motivi del
ricorso originario: uno in conseguenza dell'appello principale, gli altri
quattro in conseguenza dell'appello incidentale. Può così avvenire che il
giudice d'appello ritenga infondato il motivo accolto dal T A R ; e fondato,
invece, uno dei motivi che il T A R ha respinto. L'economia complessiva del
giudizio rimane inalterata: sull'esempio fatto il ricorrente davanti al T A R
vince comunque, sia pure per una ragione diversa da quella su cui il T A R si è
fondato.
Altro esempio. L'amministrazione, in primo grado, si difende eccependo la
tardività del ricorso, e l'infondatezza nel merito dei due motivi di ricorso. Il
T A R respinge l'eccezione, ma respinge poi il ricorso nel merito. Resistendo
all'appello proposto dal ricorrente, l'amministrazione appellata propone a
sua volta appello incidentale con cui denuncia la tardività del ricorso di
primo grado.
L'appello incidentale, investendo in questo caso una questione
pregiudiziale, va esaminato per primo. Se il Consiglio di Stato dovesse
accoglierlo, verrebbe meno nel privato l'interesse all'esame dell'appello
principale: non può essere esaminato nel merito un ricorso che è
irricevibile. In questo modo l'amministrazione salva l'atto impugnato
dall'annullamento giurisdizionale per una ragione diversa da quella addotta
dal giudice di primo grado.
Se il Consiglio di Stato accerta che il giudice amministrativo difetta di
giurisdizione o che il T A R non era competente (perché, ad esempio, la
competenza era quella funzionale del T A R Lazio) o che il ricorso era nullo o il
giudizio di primo grado doveva essere dichiarato estinto, annulla puramente
e semplicemente la sentenza con cui il T A R aveva accolto il ricorso.
Se invece rileva che la sentenza di primo grado è viziata nella procedura o
nella forma (per esempio non è stato notificato il ricorso ad un
controinteressato), annulla la sentenza e rinvia la causa al primo giudice
perché rinnovi il processo una volta eliminato quel vizio.
Lo stesso avviene quando il T A R si sia dichiarato incompetente e il Consiglio
di Stato ritiene che esso fosse, invece, competente. In caso di rinvio il
giudizio prosegue davanti al T A R che si pronuncerà entro trenta giorni dalla
comunicazione della sentenza del Consiglio di Stato.
In tutti gli altri casi il Consiglio di Stato decide sulla controversia: e quindi
anche nei casi in cui il T A R abbia dichiarato il ricorso irricevibile o
inammissibile o improcedibile. Le parti verranno private così di un grado di
giurisdizione (tale non può considerarsi la fase davanti al T A R conclusa,
erroneamente, con un nulla di fatto). Tra l'esigenza di assicurare alle parti
un doppio grado di giurisdizione (di merito) e un'esigenza di economia
processuale la legge privilegia la seconda.

I tempi del processo e la tutela cautelare


Il processo amministrativo si chiude, con la sentenza di primo grado, dopo
molti anni. I tempi si allungano se la sentenza del T A R viene impugnata
davanti al Consiglio di Stato. Come si conciliano questi tempi lunghi con le
esigenze del ricorrente? Ciò soprattutto nei casi in cui l'esecuzione dell'atto
impugnato produce effetti irreversibili.
Tizio impugna l'ordine di demolizione di una costruzione abusiva. Se
dovesse attendere la fine della causa, la costruzione verrebbe nel frattempo
abbattuta (se non lo fa il proprietario che vi è tenuto, lo fa d'ufficio il
comune). Caio impugna l'esclusione dalla gara per l'assegnazione delle
licenze U M T S (Universal mobile telecommunications system): che utilità trarrà
da una sentenza eventualmente favorevole intervenuta dopo che
l'aggiudicatario avrà per anni sfruttato la licenza cui Caio riteneva di aver
titolo? Sempronio si classifica secondo in una gara d'appalto di lavori
pubblici. Impugna il risultato sostenendo che l'aggiudicatario andava
escluso perché non in possesso dei titoli richiesti dal bando. Ottiene ragione
dopo anni ma nel frattempo i lavori sono stati eseguiti dalla ditta che, a
posteriori, si rivela priva di titolo a partecipare.
Proprio in considerazione di situazioni del genere la legge istitutiva della IV
sezione del Consiglio di Stato e poi la legge istitutiva dei T A R hanno previsto
la possibilità, per il ricorrente che allega danni gravi ed irreparabili
derivanti dall'esecuzione dell'atto, di chiedere al giudice la sospensione
dell'atto stesso: con un procedimento da chiudersi in tempi brevi (venti
giorni, un mese dalla notifica del ricorso nel quale la domanda di
sospensione è di solito inserita).
Quanto più si sono allungati i tempi del processo amministrativo (dai pochi
mesi necessari negli anni immediatamente successivi all'istituzione dei T A R
ai sette anni circa richiesti oggi) tanto più ha acquistato rilevanza la fase
c.d. cautelare: nella quale il T A R esamina, per accoglierla o respingerla, la
domanda di sospensione.
Il rapporto tra i due momenti si è rovesciato. È molto più importante, per il
ricorrente, ottenere una sospensione a distanza di poche settimane
dall'emanazione del provvedimento impugnato, anziché ottenere
l'annullamento di quest'ultimo a distanza di anni. Gli stessi mezzi di
comunicazione di massa segnalano sospensive di grosso rilievo economico e
sociale (la sospensione dell'aggiudicazione di un grosso appalto, o
dell'esclusione di studenti da facoltà universitarie a numero chiuso, o della
nomina del presidente di un grosso ente pubblico) ma raramente
menzionano sentenze di merito.
La sospensione dell'atto impugnato costituisce una misura cautelare. Come
tutte le misure cautelari previste nel processo (nel processo civile, nel
processo penale, ecc.), essa mira ad impedire che la durata del processo
giochi a sfavore della parte che ha ragione. Col provvedimento cautelare il
giudice tende ad anticipare all'inizio del processo gli effetti della futura
sentenza (presumibilmente) favorevole.
Nella concreta esperienza la sospensione dell'atto amministrativo
impugnato ha rivelato un grosso limite. Strumento efficace quando viene
impugnato un provvedimento sfavorevole, lo è molto meno, o non lo è
affatto, quando l'atto impugnato ha contenuto negativo: rifiuto del
provvedimento richiesto, esclusione da un procedimento destinato a
sfociare in un provvedimento che la parte si augura favorevole, atti tutti
lesivi di interessi pretensivi. Si pensi all'esclusione di un candidato da un
concorso a pubblico impiego; o all'esclusione di una ditta da una gara
d'appalto; o al rifiuto di un'autorizzazione o di una concessione. Nei primi
due casi la giurisprudenza ha ovviato all'inefficienza strutturale della
sospensione dando a quest'ultima il valore di un'ammissione con riserva
alla procedura: con riserva dell'esito del giudizio (che può essere favorevole
o sfavorevole). Il candidato escluso dal concorso con provvedimento di
dubbia legittimità viene ammesso con riserva al concorso stesso. Se
risulterà tra i vincitori, la sua vittoria sarà consolidata da una pronuncia del
T A R favorevole nel merito (con la quale sia definitivamente accertato che
egli non doveva essere escluso). Se invece non risulterà tra i vincitori, e il
giudizio sarà ancora pendente, verrà meno il suo interesse ad una pronuncia
favorevole nel merito: perché, a posteriori, l'ammissione con riserva si è
rivelata inutile.
Nell'ultimo caso - di rifiuto di provvedimento favorevole (autorizzazione,
concessione, sovvenzione, abilitazione, ammissione) - la sospensione non
può essere neppure concepita.
Non può, di certo, equivalere la sospensione del rifiuto al rilascio del
provvedimento. Se adottasse lui il provvedimento negato dall'autorità
amministrativa, il giudice darebbe al ricorrente, in sede cautelare, un
beneficio superiore a quello che gli potrebbe attribuire la sentenza (la quale
magari accerterà l'illegittimità del rifiuto di provvedimento, ma non
sostituirà mai il provvedimento rifiutato né potrà imporre
all'amministrazione di rilasciarlo col contenuto voluto dalla parte).
Ciò contrasterebbe con un principio essenziale in tema di tutela cautelare.
La misura cautelare può anticipare a favore della parte che ha ragione i
benefici propri della sentenza di merito: non può attribuire alla parte più di
quanto può attribuirle la sentenza di merito.
L'insufficienza di una tutela cautelare consistente nella sospensione
dell'atto impugnato è ancora più palese quando la parte ricorre contro un
atto tacito (silenzio-rifiuto). Si può annullare un silenzio-rifiuto, ma non ha
alcun senso sospenderlo.
Su queste premesse (crescente rilevanza della tutela cautelare,
inadeguatezza, nel caso di interessi c.d. pretensivi, della misura della
sospensione dell'atto) la l. 205/2000 ha disciplinato e x novo l'istituto: sia
per quanto riguarda le misure ammesse, sia per quanto riguarda il
procedimento cautelare e i suoi rapporti col procedimento principale.
In luogo della semplice sospensione dell'atto impugnato il giudice
amministrativo può adottare tutte le misure cautelari che appaiono,
secondo le circostanze, più idonee ad assicurare provvisoriamente gli effetti
della decisione sul ricorso (art. 3 l. 205/2000 che modifica l'art. 21 della l.
T A R ). La formula è mutuata, con qualche variante, dall'art. 700 del codice di
procedura civile (provvedimenti
d'urgenza).
A parte la vecchia misura della sospensione dell'esecuzione dell'atto
impugnato il T A R ne può adottare altre. Si va dall'ingiunzione a pagare una
somma di denaro (di solito una quota di quanto il ricorrente pretende)
all'ordine all'amministrazione di riesaminare l'istanza del privato alla luce
dei motivi di ricorso (o di taluno di essi), alla richiesta, fatta
all'amministrazione, di fornire documenti o chiarimenti in base ai quali la
misura possa essere presa dal giudice con cognizione di causa.
Il procedimento è stato modificato in due importanti aspetti.
Se l'urgenza è massima, la misura può essere chiesta al presidente del T A R
che provvederà in via provvisoria con decreto da sottoporre al collegio nella
prima camera di consiglio utile.
Quando il contraddittorio è stato rispettato e non è necessario acquisire
mezzi istruttori, il T A R , sentite le parti, può definire il giudizio nel merito:
può cioè accorpare la misura cautelare (o il diniego di essa) e la sentenza di
merito. In altre parole, l'accertamento compiuto per decidere sulla misura
cautelare è utilizzato per portare il processo a conclusione: nei tempi brevi
del giudizio cautelare anziché nei tempi lunghi del giudizio di merito.
Perché la domanda di misura cautelare venga accolta occorre che ci sia un
danno grave e irreparabile e ci sia anche una ragionevole previsione di
accoglimento del ricorso (il c.d.fumus boni iuris). Il ricorso deve apparire,
ad un esame sommario, fondato. Non lo è quando il ricorso appaia
irricevibile perché tardivo o inammissibile o perché non è stato notificato
debitamente ad almeno un controinteressato o è palesemente infondato.
Non avrebbe senso sospendere un provvedimento o prendere altra misura
cautelare quando il giudice ha la percezione che il ricorso non possa essere
accolto: verrebbe meno il valore della cautela come anticipazione della
pronuncia di merito.
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Anni Novanta. Le modifiche del sistema

Privatizzazione del rapporto di impiego pubblico e giudice del lavoro


Negli anni Novanta il sistema italiano di giustizia amministrativa subisce
alcuni scossoni.
I confini tra giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa vengono
spostati.
Per effetto della cosiddetta «privatizzazione» dell'impiego pubblico il
contenzioso tra pubbliche amministrazioni e loro dipendenti, che costituiva
il nucleo della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, viene
sottratto a quest'ultimo e trasferito all'autorità giudiziaria ordinaria (e alla
competenza del giudice del lavoro).
Lavoratore pubblico e lavoratore privato vengono equiparati. L'impiegato
statale o regionale a cui sia negato un inquadramento o un trasferimento o
una voce retributiva si rivolgerà al Tribunale del lavoro come il lavoratore
privato. Fanno eccezione, e quindi continuano a rimanere sottoposti alla
giurisdizione amministrativa, alcune categorie di dipendenti che conservano
uno status pubblicistico: magistrati, forze di polizia, militari, docenti
universitari.
La giustificazione di questo mutamento, operato col d.lgs. 29/1993, più
volte modificato (e oggi sostituito dal d.lgs. 165/2001), si rinviene in uno
dei primi articoli: «le determinazioni per l'organizzazione degli uffici e le
misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro sono assunte dagli
organi preposti alla gestione con la capacità e i poteri del privato datore di
lavoro» (art. 4 co. 2).
Quando assegna il dipendente a un ufficio, o lo trasferisce, e lo inquadra in
una qualifica diversa, o lo sospende dall'impiego per motivi disciplinari, o lo
licenzia, l'ente pubblico si comporta come un qualsiasi datore di lavoro; i
suoi atti costituiscono esercizio dei poteri che al datore di lavoro derivano
dal contratto di lavoro (in forza del quale una persona si impegna a prestare
il suo lavoro «alle dipendenze e sotto la direzione» dell'altra, art. 2094 cod.
civ.). Gli atti di gestione e di modificazione e di risoluzione del rapporto di
lavoro non sono più atti amministrativi; e non si giustifica più quindi la
giurisdizione del giudice amministrativo che anche dal punto di vista della
Costituzione (artt. 103 e 113 Cost.) è legata all'atto amministrativo.
Dietro questa motivazione, che parrebbe una sorta di uovo di Colombo, ce
n'è un'altra.
II sistema delle fonti dell'impiego pubblico, ossia degli atti normativi che lo
disciplinano, viene mutato. D'ora in poi troveranno
applicazione solo le norme del codice civile e le norme contenute nei
contratti collettivi di lavoro, proprio come nel rapporto di lavoro
con privati (art. 2 d.lgs. 29/1993): e il rapporto di impiego sarà costituito
non in forza di un atto unilaterale di nomina da parte della
pubblica amministrazione, ma in forza di un contratto (art. 2 co. 3 d.lgs.
29/1993). In questo modo viene soddisfatta una vecchia
richiesta delle organizzazioni sindacali, volta a omologare lavoro pubblico e
lavoro privato e, soprattutto, a sottoporre il lavoro
pubblico alla contrattazione collettiva, ossia ad un atto normativo bilaterale
alla cui formazione i sindacati concorrono (mentre,
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almeno formalmente, erano estranei alla formazione delle leggi e dei


regolamenti che in passato disciplinavano l'impiego pubblico). Il
d.lgs. 29, sul piano giuridico, realizza la privatizzazione del pubblico
impiego (con la ovvia implicazione del trasferimento del
contenzioso al giudice ordinario); sul piano politico conferisce ai sindacati
una nuova legittimazione, quasi a compensare la perdita di
rappresentatività che è documentata dall'inesorabile calo delle iscrizioni dei
lavoratori alle organizzazioni di categoria. In questa
chiave essenzialmente simbolica va letta la modifica del procedimento di
formazione del contratto collettivo introdotta dallo stesso
decreto 29.
Mentre fino ad allora il contratto collettivo di un qualsiasi settore pubblico
(statali, regionali, enti locali, enti pubblici, scuola, sanità, ecc.) costituiva
una «ipotesi di accord o» che diventava vincolante con l'approvazione da
parte del Consiglio dei ministri e la sua trasfusione in un decreto del Capo
dello Stato, sottoposto al controllo della Corte dei Conti, oggi il contratto
collettivo viene sottoscritto definitivamente (dal presidente dell'Agenzia per
la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni, un nuovo
organismo cui è attribuito il monopolio della rappresentanza della parte
pubblica) dopo che la fase pubblicistica è esaurita.
L'accordo collettivo non è più il presupposto di un atto regolamentare
imputabile ai pubblici poteri (così era considerato il decreto del presidente
della Repubblica che approvava l'ipotesi di accordo), ma è fonte immediata
di disciplina del rapporto di impiego.
I sindacati possono sostenere oggi che anche formalmente concorrono a
governare l'impiego pubblico.
Nella versione originaria del d.lgs. 29/1993 una serie di materie venivano
riservate alla legge e quindi sottratte alla contrattazione collettiva: le
responsabilità, i modi di conferimento degli uffici, le incompatibilità, la
dirigenza (art. 2 lett. c l. 421/1992). Nel corso del decennio anche queste
materie sono state inglobate nella contrattazione collettiva attraverso
successive modifiche del d.lgs. 29. È
stata correlativamente ampliata la giurisdizione del giudice ordinario dal
momento che per le materie in origine riservate alla legge era stata
mantenuta la giurisdizione del giudice amministrativo. Oggi quest'ultimo
giudica solo delle controversie in materia di concorsi per l'assunzione (art.
68 co. 4 d.lgs. 29/1993 e successive modifiche); oltre che del contenzioso
relativo all'impiego pubblico non privatizzato. Il procedimento concorsuale -
ossia il procedimento che si apre col bando di concorso e si chiude con
l'approvazione della graduatoria da parte della commissione giudicatrice -
continua ad essere considerato un procedimento amministrativo, anche
sulla scorta della norma costituzionale («Agli impieghi nelle pubbliche
amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla
legge», art. 97 Cost.). Si giustifica in questo modo la persistente
giurisdizione del giudice amministrativo.

Giudice del lavoro e atti amministrativi presupposti


Lo spostamento sul giudice ordinario della giurisdizione sull'impiego
pubblico «privatizzato» avrebbe potuto comportare il rischio di una
riduzione di tutela del lavoratore in dipendenza delle note limitazioni che la
legge abolitiva del contenzioso pone a carico dei poteri del giudice ordinario
(divieto di annullamento e revoca degli atti amministrativi, art. 4).
In realtà un'eventualità del genere doveva ritenersi esclusa in ragione del
principio, già richiamato, secondo cui le misure inerenti alla gestione dei
rapporti di lavoro sono assunte (dagli enti pubblici) con la capacità e i
poteri del privato datore di lavoro. Se gli atti di gestione del rapporto di
impiego pubblico non sono più atti amministrativi, non può trovare
applicazione, nel processo del lavoro in cui viene a confluire l'impiego
pubblico non privatizzato, l'art. 4 della legge abolitiva del contenzioso: che
appunto vieta al giudice ordinario l'annullamento e la revoca dell'atto
amministrativo.
A dissipare ogni dubbio la legge prevede che «il giudice adotti, nei confronti
delle pubbliche amministrazioni, tutti i provvedimenti di accertamento,
costitutivi o di condanna richiesti dalla natura dei diritti tutelati» (art. 63
co. 2 d.lgs. 165/2001 e successive modifiche). In altre parole il giudice del
lavoro può annullare un licenziamento (sentenza costitutiva), può dichiarare
il diritto del lavoratore ad essere inquadrato in una qualifica diversa
(sentenza di accertamento), può condannare l'amministrazione a pagare lo
straordinario non corrisposto o a modificare i turni di lavoro notturno del
medico o dell'infermiere del Servizio sanitario nazionale (sentenza di
condanna).
Poiché a monte degli atti di gestione del rapporto di lavoro ci sono atti
amministrativi di organizzazione che condizionano i primi, non è escluso che
il giudice del lavoro sia chiamato a valutarli. Se il medico dipendente
dell'Azienda U S L viene trasferito ad altro presidio sanitario perché l'ospedale
cui è addetto viene chiuso (con un provvedimento amministrativo), il ricorso
contro il trasferimento finirà con l'investire l'atto presupposto se rilevante
ai fini della decisione (nel nostro esempio lo è). Il giudice potrà disapplicare
questo atto, se illegittimo (art. 63 co. 1 d.lgs. 165/2001). Un vecchio istituto
della giustizia amministrativa (la disapplicazione prevista dall'art. 5 l. cont.)
viene riesumato per risolvere i problemi posti dall'intreccio tra atti
(amministrativi) di organizzazione e atti (privatistici) di gestione del
rapporto di lavoro.

La nuova giurisdizione esclusiva


Con il trasferimento al giudice ordinario del contenzioso sull'impiego
pubblico il giudice amministrativo vede drasticamente ridotto il suo ambito
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di intervento (anche se nel 2000 i ricorsi proposti da pubblici impiegati non


«privatizzati» continuano a incidere sul totale nella misura del 53,80%).
Nello stesso periodo il progetto di riforma della seconda parte della
Costituzione elaborato dalla Commissione D'Alema prevede la soppressione
della giurisdizione amministrativa e il mantenimento del Consiglio di Stato
come organo munito di sole funzioni consultive. Sembra un momento di crisi
gravissima di un'istituzione vecchia quasi due secoli, e gli interessati
reagiscono in modo vigoroso. I consiglieri di Stato non sono soltanto giudici
e consulenti del governo (pochi in tutto, un centinaio circa). Ricoprono
spesso ruoli a stretto contatto con i ministri, come capi di uffici legislativi,
capi di gabinetto, consulenti giuridici: partecipano ai processi legislativi
concorrendo a determinare i contenuti degli atti normativi in modo spesso
più determinante degli attori formali (i parlamentari). Non sono disposti a
vivere da spettatori la loro eutanasia.
Con la l. 59/1997 (la c.d. legge Bassanini che prende il nome dal ministro
della Funzione pubblica) il governo è delegato a estendere la giurisdizione
del giudice amministrativo alle controversie aventi ad oggetto diritti
patrimoniali conseguenziali, ivi comprese quelle relative al risarcimento del
danno, in materia edilizia, urbanistica e di servizi pubblici (art. 11 co. 4 lett.
g).
Col decreto delegato (n. 80/1998) vengono assegnate alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo tutte le controversie in materia di
pubblici servizi, di urbanistica e di edilizia. Viene precisato che in esse il
giudice amministrativo dispone, anche attraverso la reintegrazione in forma
specifica, il risarcimento del danno ingiusto. In altre parole, il giudice
amministrativo che annulla la revoca di una concessione edilizia può anche,
su richiesta della parte, liquidare il danno conseguente al mancato utilizzo
della concessione per tutta la durata del processo - dal momento in cui la
concessione è revocata al momento in cui viene depositata la sentenza che
accoglie il ricorso.
La giurisdizione esclusiva, per effetto della quale il giudice amministrativo
in determinate materie (prima fra tutte il pubblico
impiego) tutelava non solo interessi legittimi ma anche diritti soggettivi,
aveva sempre incontrato il limite dei diritti patrimoniali conseguenziali
ossia il limite del risarcimento del danno. La condanna al risarcimento dei
danni era sempre rimasta salda prerogativa del giudice ordinario.
Il licenziamento illegittimo, per esempio, poteva avere costretto un
impiegato a contrarre un mutuo presso una banca per far fronte ai bisogni
della vita quotidiana prima affrontati e risolti con lo stipendio. Ebbene, il
pagamento degli interessi alla banca era stato sempre considerato un danno
conseguenziale e solo il giudice civile poteva condannare l'amministrazione
a risarcirlo (dopo che il giudice amministrativo avesse annullato il
licenziamento).
Con la riforma del 1997-98 questa barriera viene abbattuta. Nelle tre nuove
materie di giurisdizione esclusiva (servizi pubblici, urbanistica, edilizia) il
giudice amministrativo può condannare l'amministrazione a reintegrare
l'interessato nei suoi diritti patrimoniali conseguenziali, ossia a risarcire il
danno prodotto da un atto illegittimo o da un'inerzia illegittima.
Il giudice amministrativo viene ampiamente compensato della perdita che
aveva subito, per effetto del trasferimento al giudice ordinario del
contenzioso sull'impiego pubblico privatizzato, non solo con l'attribuzione
alla sua esclusiva giurisdizione di tre nuove materie, ma anche con il nuovo
potere di condannare l'amministrazione, nell'ambito di queste materie, al
risarcimento del danno.

Interesse legittimo e risarcimento del danno


Col d.lgs. 80/1998 viene infranto un tabù. Il tabù della non risarcibilità
dell'interesse legittimo. Almeno nelle tre nuove materie di giurisdizione
esclusiva il danno prodotto all'interesse legittimo dall'esercizio abusivo del
potere amministrativo può essere risarcito: risarcito dallo stesso giudice
amministrativo che è chiamato a sindacare l'operato dell'amministrazione.
Perché tale limitazione alle controversie che ricadono in queste tre materie?
Perché può essere risarcito il proprietario cui sia indebitamente revocata la
concessione edilizia e non il commerciante cui sia indebitamente revocata
l'autorizzazione all'esercizio del commercio? Come si giustifica la
limitazione della risarcibilità ai tre ambiti dei pubblici servizi,
dell'urbanistica e dell'edilizia?
Questa anomala situazione offre l'occasione alle sezioni unite della Corte di
Cassazione per riprendere in termini generali la questione. Con una
memorabile sentenza del 1999 (n. 500) le sezioni unite ribaltano
l'orientamento tradizionale, e affermano che anche il danno arrecato
all'interesse legittimo può essere risarcito. Alla base del complesso
ragionamento c'è una considerazione di questo tipo. La norma del codice
civile (art. 2043 cod. civ.) che regola la materia obbliga l'autore del fatto
colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto a risarcire il danno, ma non
dice che il danno debba essere arrecato a un diritto soggettivo. Al centro
del sistema c'è l'ingiustizia del danno, ossia l'inesistenza per chi lo ha
prodotto di una causa di giustificazione: mentre non viene in rilievo la
situazione soggettiva di diritto o di interesse di colui che il danno lo ha
subito.
Da questo punto di vista, così ragiona la Cassazione, non si vede perché la
pubblica amministrazione debba ricevere un trattamento diverso rispetto ai
comuni mortali e godere di una vera e propria immunità. Se il
provvedimento amministrativo illegittimo ha cagionato un danno - un danno
che è per definizione ingiusto a causa dell'illegittimità da cui è affetto il
provvedimento - essa è tenuta a risarcirlo. Ciò non significa - si affretta a
precisare la sentenza - che ogni illegittimità dia titolo anche al risarcimento
del danno. Ci sono atti illegittimi che non producono un danno risarcibile:
occorre, dicono le sezioni unite, che l'interesse legittimo sia legato ad un
interesse materiale che a sua volta forma oggetto di tutela giuridica. Può
chiedere il risarcimento del danno il tassista cui sia stata illegittimamente
revocata la licenza e che a causa di ciò non abbia potuto svolgere la sua
attività per tutta la durata del processo. Non può chiederlo il presidente di
consiglio comunale colpito da sfiducia illegittimamente espressa (poiché la
mozione di sfiducia non era corredata dal numero delle firme necessarie).
Egli deve ritenersi pago dell'annullamento della delibera che lo ha
sfiduciato. Più generalmente, almeno di regola, non v'è titolo al
risarcimento quando il vizio dell'atto impugnato, denunciato dalla parte e
accertato dal giudice, sia di natura formale (difetto di motivazione,
omissione di un parere obbligatorio, irregolarità della convocazione
dell'adunanza per gli atti collegiali, ecc.).
La domanda di risarcimento del danno, in tutti i casi di lesione di interesse
legittimo, va proposta al giudice ordinario. Anche se la situazione
soggettiva lesa non è un diritto soggettivo (ma è, appunto, un interesse
legittimo), al risarcimento del danno la parte ha un diritto (soggettivo): e la
giurisdizione sui diritti soggettivi spetta al giudice ordinario.
All'indomani della sentenza n. 500/1999 lo stato della questione è il
seguente.
Quando l'interesse legittimo leso attenga alla materia di servizi pubblici,
all'urbanistica o all'edilizia, la domanda di risarcimento del danno va
proposta davanti allo stesso giudice amministrativo a cui si chiede di
accertare, innanzitutto, l'illegittimità dell'atto (un diniego di autorizzazione
a lottizzare, la revoca di una concessione edilizia, la mancata
autorizzazione al trasferimento di una farmacia, la decadenza da una
concessione di autolinea).
Quando la controversia riguardi una materia diversa (commercio, attività di
polizia, industria, agricoltura, professioni, artigianato, ecc.) l'interessato
deve prima rivolgersi al giudice amministrativo per ottenere l'annullamento
dell'atto illegittimo; e poi rivolgersi al giudice ordinario per ottenere il
risarcimento del danno. Ovvero può indirizzare la domanda di risarcimento
direttamente al giudice
ordinario chiedendogli di accertare preliminarmente l'illegittimità dell'atto
amministrativo. In questo secondo caso la sentenza non annullerà l'atto
illegittimo, ma si limiterà a disapplicarlo o, secondo altra impostazione, a
verificarne l'illegittimità condannando l'amministrazione al risarcimento del
danno. Una ripresa, è appena il caso di ricordarlo, del vecchio istituto
previsto dall'art. 5 della legge abolitiva del contenzioso. Il giudice ordinario,
al quale non è permesso di annullare l'atto lesivo (art. 4), può e deve invece
disapplicarlo se illegittimo. Ovvero, secondo la diversa impostazione
richiamata, un'operazione di accertamento dell'illecito della pubblica
amministrazione che passa attraverso l'accertamento dell'illegittimità
dell'atto.

La legge 205 del 2000


Quella descritta è la penultima tappa del processo di
aggiustamento del nostro sistema di giustizia amministrativa. La
fase più recente si apre e chiude nell'anno 2000.
La Corte costituzionale (sent. n. 292) annulla perché costituzionalmente
illegittima una disposizione del d.lgs. 80/1998. Il Governo ha violato la
delega conferitagli dal Parlamento istituendo una giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo in materia di pubblici servizi, anziché limitarsi ad
estendere in tali materie la giurisdizione del giudice amministrativo alle
controversie sul risarcimento del danno.
A giudizio della Corte, nelle tre materie indicate dalla legge delega (servizi
pubblici, urbanistica ed edilizia) rimane immutato il criterio di riparto della
giurisdizione, fondato sulla distinzione fra diritti e interessi legittimi, e
quindi non viene meno la giurisdizione sui diritti del giudice civile: con la
sola eccezione dell'azione di danni che, nelle tre materie, risulta trasferita
all'interno della giurisdizione amministrativa.
Al vizio di illegittimità costituzionale sanzionato dalla Corte costituzionale il
Parlamento ripara immediatamente.
Negli stessi giorni in cui viene depositata la sentenza di annullamento viene
pubblicata la l. 205/2000, che introduce alcune significative modifiche al
sistema di giustizia amministrativa e conferma, con una significativa
variante, il contenuto del d.lgs. 80/1998. Poiché questa volta è il
Parlamento a provvedere, e non il Governo in sede di esercizio della delega
parlamentare, viene superata la questione dell'eccesso di delega. Le stesse
norme che potevano essere giudicate illegittime in quanto estranee alla
delega sono perfettamente legittime (almeno sotto questo profilo di
competenza) una volta che è il Parlamento a deliberarle, con legge
ordinaria.
Al giudice amministrativo è attribuita giurisdizione esclusiva sulle
controversie in tema di pubblici servizi, di urbanistica e di edilizia. In realtà
l'ambito del trasferimento è più vasto. Le controversie in tema di vigilanza
sul credito, sulle assicurazioni e sul mercato mobiliare non hanno nulla a
che fare con i servizi pubblici (anche se vengono indicate come
sottomaterie della materia servizi pubblici); la «vigilanza» sulle attività
private è per definizione una «funzione» pubblica e non un servizio
pubblico, per riprendere una distinzione che viene fatta dal codice penale.
Non hanno nulla a che spartire con i servizi pubblici neppure le procedure di
scelta del contraente negli appalti di opere pubbliche, o di servizi e
forniture sottoposti alla normativa comunitaria. Eppure anch'esse vengono
indicate come esempi di servizi pubblici e le relative controversie sono
assegnate all'esclusiva giurisdizione del giudice amministrativo. Tale
giurisdizione è estesa pure alle controversie riguardanti le attività e le
prestazioni di ogni genere, anche di natura patrimoniale, rese
nell'espletamento di pubblici servizi, ivi comprese quelle fornite nell'ambito
del servizio sanitario nazionale e della pubblica istruzione, esclusi i rapporti
individuali di utenza con soggetti privati. Ciò significa che la casa
farmaceutica o la casa produttrice di attrezzature sanitarie che vanta un
credito verso l'Azienda USL sarà tenuta a rivolgersi al giudice
amministrativo. Si rivolgerà invece al giudice ordinario, se vuole essere
risarcito, il paziente che assuma di aver subito una menomazione
permanente in conseguenza di un'operazione praticata in un ospedale
pubblico. Si tratta, infatti, di un rapporto individuale di utenza sottratto alla
giurisdizione amministrativa.

Al giudice amministrativo la giurisdizione sul danno


Ma la novità più clamorosa è un'altra.
Il Tribunale amministrativo regionale, «nell'ambito della sua giurisdizione,
conosce anche di tutte le questioni relative all'eventuale risarcimento del
danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e agli altri
diritti patrimoniali conseguenziali» (così l'art. 7 della l. 205/2000). Al
giudice amministrativo, anche quando non ha giurisdizione esclusiva (e
quindi anche fuori dalle materie di giurisdizione esclusiva), la parte potrà
chiedere, oltre all'annullamento dell'atto, anche il risarcimento del danno. Il
potere di condannare l'amministrazione a risarcire il danno da lesione di
interessi legittimi, che le sezioni unite appena un anno prima avevano
ritenuto appartenesse al giudice civile (salvo i casi di giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo), ora è attribuito in modo generale ai
Tribunali amministrativi regionali e, in appello, al Consiglio di Stato. Non
più, quindi, due processi, uno davanti al giudice amministrativo per
ottenere l'annullamento dell'atto e uno davanti al giudice ordinario per
ottenere il risarcimento del danno. Nell'ambito di un unico giudizio,
l'interessato potrà chiedere al giudice amministrativo, per esempio,
l'annullamento del diniego opposto dal comune alla richiesta di aver
riconosciuto la qualifica di imprenditore agricolo a titolo principale e il
risarcimento
del danno derivante dall'impossibilità di avviare nel frattempo un'attività di
agriturismo: considerato che nel nostro sistema l'attività ricettiva di
agriturismo può essere svolta solo da chi dedichi all'agricoltura almeno due
terzi del suo tempo (e ne ricavi un reddito pari ad almeno due terzi del suo
reddito da lavoro: questo è l'imprenditore agricolo a titolo principale).
Sicché il diniego di quella qualifica impedisce lo svolgimento dell'attività
ricettiva di agriturismo.
Dire che, nell'ambito della sua giurisdizione, il giudice amministrativo
conosce anche di tutte le questioni relative all'eventuale risarcimento del
danno (così l'art. 7 l. 205/2000) non significa che, ogni volta che l'atto è
illegittimo, il privato leso ha diritto ad aver risarcito il danno. Il danno, ci
dice il legislatore del 2000, è soltanto «eventuale». E lo dice facendo
proprio, implicitamente, il ragionamento della Cassazione. Non basta la
lesione dell'interesse legittimo perché sorga il titolo al risarcimento del
danno: occorre anche che l'interesse legittimo sia legato a un interesse
materiale o sostanziale sicché è la lesione di quest'ultimo che dà
consistenza alla pretesa di aver risarcito il danno. Anche il giudice
amministrativo, come il giudice ordinario, dovrà preliminarmente accertare
se un danno vi sia stato e se questo danno non sia stato integralmente
riparato dall'annullamento giurisdizionale dell'atto lesivo. Se
l'amministrazione della polizia di Stato ha inflitto a un poliziotto la sanzione
disciplinare della riduzione dello stipendio e l'atto viene annullato dal
giudice amministrativo, la restituzione delle somme indebitamente
trattenute sarà dovuta in forza dell'annullamento: e non residuerà, nella
normalità dei casi, un danno che debba essere autonomamente risarcito.
L'annullamento dell'atto impugnato fornisce al ricorrente una tutela
esauriente: sicché nessuno spazio rimane per un'azione risarcitoria. Si è
fatto l'esempio del poliziotto a ragion veduta. Il personale di polizia rientra
fra quello il cui rapporto di impiego non è stato privatizzato e continua ad
essere affidato alla giurisdizione del giudice amministrativo.
Analoga è la situazione quando il ricorrente fa valere un vizio formale o
comunque un vizio del procedimento. Se io partecipo a un pubblico concorso
per pubblico impiego e non rientro nella rosa dei vincitori posso ottenere
l'annullamento della graduatoria e di tutte le operazioni concorsuali se il T A R
accoglie il motivo di ricorso contro la composizione della commissione
giudicatrice. Ma non potrò aspirare ad alcun risarcimento: perché non potrò
mai dimostrare che con una diversa (e regolare) commissione giudicatrice io
sarei risultato vincitore.
Non è escluso, tuttavia, che anche dalla presenza di un vizio formale possa
derivare alla parte un danno. Si faccia l'ipotesi di una gara d'appalto
pubblico cui partecipino due sole ditte. Se risulta al termine del processo
avviato dalla ditta soccombente che la ditta vincitrice non poteva essere
ammessa, per esempio perché carente della capacità finanziaria richiesta in
relazione al valore dell'appalto, la ditta ricorrente avrà diritto non solo
all'annullamento dell'aggiudicazione ma anche al risarcimento del danno. Se
la sentenza sopravviene dopo che i lavori sono stati eseguiti (dalla ditta non
avente titolo) la ditta ricorrente non avrà altro ristoro al di fuori del
risarcimento: risarcimento che, in casi del genere, viene commisurato al
profitto che l'impresa avrebbe conseguito se fosse stata aggiudicataria e
avesse eseguito i lavori (il 10% del valore dell'appalto posto a base d'asta,
diminuito della somma corrispondente alla percentuale di ribasso offerto).
Se, nell'esempio, la base d'asta è di 10 milioni di euro e la ditta ricorrente
ha offerto un ribasso del 20%, il danno risarcibile sarà pari a 800 mila euro
(il 10% della base d'asta ridotta del 20%, ossia 8 milioni).
Se la lesione di un interesse legittimo dà diritto al risarcimento del danno,
liquidato dallo stesso giudice cui viene rivolta la richiesta di annullamento,
viene meno una vera e propria immunità della pubblica amministrazione.
L'art. 28 della Costituzione prevede che lo Stato, gli enti pubblici e le
persone fisiche che agiscono per loro conto («funzionari e dipendenti») sono
responsabili degli atti compiuti in violazione dei diritti secondo le leggi
penali, civili e amministrative. Nessuno ha mai letto nel riferimento ai
«diritti» la volontà di escludere le responsabilità per lesione di interessi
legittimi. Coloro che si sono occupati della questione hanno, in prevalenza,
ravvisato in quel rinvio alle leggi penali, civili e amministrative («secondo le
leggi penali, ecc.») l'enunciazione di una regola di parità. Le
amministrazioni sono responsabili come i cittadini comuni e al pari di
costoro rispondono secondo le leggi penali, civili e amministrative.
Ora, questa parità era stata faticosamente raggiunta per i danni che
l'amministrazione cagiona ingiustamente con i suoi comportamenti di fatto
o con gli atti posti in essere nella sua qualità di soggetto di diritto comune:
quando un'auto di scorta di un magistrato investe un passante o quando un
vaccino infetto, somministrato obbligatoriamente in un ambulatorio
dell'Azienda USL, cagiona una malattia grave. Non così quando
l'amministrazione ha agito a mezzo dei suoi poteri amministrativi. In questo
caso, si è sempre detto, il privato danneggiato viene leso in un suo
interesse legittimo, e non in un diritto soggettivo: e l'interesse legittimo
non è risarcibile.
La l. 205/2000, ammettendo in forma generalizzata la possibilità di risarcire
l'interesse legittimo, toglie all'amministrazione l'immunità di cui finora ha
goduto e concorre a dare più piena attuazione ai principi costituzionali in
tema di responsabilità dello Stato e degli enti pubblici.
Naturalmente si pone un problema di spesa pubblica. Il legislatore del 2000
sembra farsene carico quando prevede che il giudice amministrativo,
investito della richiesta di risarcimento (nell'ambito della sua giurisdizione
esclusiva), possa stabilire il criterio in base al quale la pubblica
amministrazione propone a chi ne ha diritto il pagamento di una somma
entro un certo termine; se le parti non raggiungono l'accordo, sarà il
giudice a determinare la somma.
Rinviando alle parti, e al loro accordo, la legge ipotizza una forma
transattiva di risarcimento: alla quale l'interessato finirà il più delle volte
per piegarsi per non subire le lungaggini dell'ulteriore fase giudiziaria.
Non è difficile immaginare che nell'elaborazione dei criteri per la
quantificazione delle somme dovute a titolo di risarcimento il Consiglio di
Stato, più sensibile dei Tribunali amministrativi alle ragioni del bilancio
pubblico, eserciterà un ruolo di contenimento.

Il quadro costituzionale
La soluzione data dalla legge del 2000 non è priva di incognite.
Le sezioni unite della Cassazione, nella sentenza più volte citata, hanno
affermato che al risarcimento del danno la parte ha un diritto soggettivo
anche se esso (danno) è stato inferto ad una situazione giuridica che di
diritto non è. In applicazione di tale criterio, che si fonda sull'assunto per
cui ogni qual volta c'è un'azione davanti a un giudice civile c'è un diritto da
tutelare, la lesione dell'interesse legittimo che cagioni un danno ingiusto
genera il diritto soggettivo al risarcimento del danno. Se le cose stanno in
questo modo la conseguenza è evidente.
Attribuendo al giudice amministrativo, nell'ambito della sua giurisdizione, la
cognizione di tutte le questioni relative all'eventuale risarcimento del
danno, la l. 205 finisce per istituire una ulteriore giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo: una giurisdizione esclusiva che, a differenza delle
altre (servizi pubblici, urbanistica, edilizia, ecc.), si caratterizza non per la
materia ma per il tipo di azione (risarcitoria).
Un ennesimo caso in cui il giudice amministrativo è chiamato a tutelare
diritti, e non solo interessi. La Costituzione, come abbiamo visto, individua
nel giudice ordinario il giudice dei diritti: e solo eccezionalmente («in
particolari materie indicate dalla legge», art. 103 Cost.) consente che il
giudice amministrativo, giudice istituzionale ed esclusivo degli interessi
legittimi, abbia giurisdizione anche per la tutela dei diritti soggettivi.
Ora, si può considerare il risarcimento del danno, e più genericamente
l'illecito civile, una «particolare materia»? Non si tratta, piuttosto, di una
giurisdizione generale sui diritti, parallela alla giurisdizione degli interessi
legittimi, se è vero che per ogni interesse legittimo leso vi è,
potenzialmente («eventualmente» dice la l. 205), un diritto di risarcimento
del danno?
Questa è la prima ragione di perplessità. Ma ve n'è un'altra. Se la
responsabilità civile della pubblica amministrazione è tendenzialmente
sottoposta alle stesse regole che governano la responsabilità di tutti i
soggetti dell'ordinamento, come si giustifica la previsione di un giudice
diverso dal giudice (il giudice ordinario) che è chiamato ad accertare la
responsabilità dei privati?
E ancora. La sentenza di merito del giudice d'appello che sia intervenuta in
tema di responsabilità civile dei privati è sottoposta al sindacato della Corte
di Cassazione (art. 360 cod. proc. civ.). Le sentenze del Consiglio di Stato,
giudice d'appello rispetto ai Tribunali amministrativi regionali, chiudono il
processo. Non sono impugnabili in Cassazione se non per motivi inerenti
alla giurisdizione (art. 360 cod. proc. civ.; art. 111 ult. co. Cost.): ossia
quando la parte neghi che il giudice amministrativo abbia giurisdizione o,
all'opposto, assuma che egli abbia giurisdizione sebbene il Consiglio di
Stato lo abbia negato. Si formeranno così due giurisprudenze in tema di
responsabilità: una del giudice amministrativo e una del giudice ordinario.
In altre parole. Il vantaggio ottenuto con l'unificazione presso un unico
giudice dell'azione di annullamento e dell'azione di risarcimento viene
pagato con un'evidente forzatura degli artt. 103 e 28 Cost.

La Corte costituzionale e la sentenza n. 204/2004


I problemi di costituzionalità aperti dalla l. 205/2000 vengono portati
davanti alla Corte costituzionale che li risolve nel 2004 con la sentenza n.
204.
La Corte muove dall'assunto che la Costituzione ha sostanzialmente fatto
proprio il sistema che è costituito dalla legge abolitiva del contenzioso del
1865 e dalla legge istitutiva della IV Sezione del Consiglio di Stato del 1889,
così come integrata nel 1923 dalla previsione della giurisdizione esclusiva.
II criterio costituzionale di riparto della giurisdizione, fondato sulla
distinzione fra diritti soggettivi e interessi legittimi, non
autorizza il legislatore ordinario a distribuire le controversie in base al
criterio della materia («blocchi di materie») né gli consente di
riservare al giudice amministrativo, escludendo il giudice ordinario, le
controversie in cui sia parte una pubblica amministrazione
(quale giudice naturale della pubblica amministrazione).
Tale criterio non è contraddetto dall'art. 103 Cost. secondo cui il Consiglio
di Stato e gli altri organi di giustizia amministrativa hanno giurisdizione per
la tutela «in particolari materie indicate dalla legge, anche dei diritti
soggettivi».
Le materie non soltanto sono «particolari» (sicché non si giustifica, ad
esempio, la previsione di una giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo per l'intero comparto dei «servizi pubblici»): ma sono
materie nelle quali si impone la necessità di tutelare «anche diritti
soggettivi» sicché la loro caratteristi ca essenziale è la presenza di interessi
legittimi. Poiché l'interesse legittimo è
correlato ad un potere amministrativo, ossia ad una amministrazione
autorità, non è consentito sottrarre al giudice ordinario - il giudice naturale
dei diritti - controversie di puro diritto soggettivo nelle quali
l'amministrazione figuri come «qualsiasi litigante privato».
Il legislatore ordinario, dice la Corte, ben può ampliare l'area della
giurisdizione esclusiva purché lo faccia con riguardo a materie (in tal senso,
particolari) che, in assenza di tale previsione, contemplerebbero pur
sempre, in quanto vi opera la pubblica amministrazione-autorità, la
giurisdizione generale di legittimità: con il che, da un lato, è escluso che la
mera partecipazione della pubblica amministrazione al giudizio sia
sufficiente perché si radichi la giurisdizione del giudice amministrativo (il
quale davvero assumerebbe le sembianze di giudice «della» pubblica
amministrazione: con violazione degli artt. 25 e 102, co. 2 Cost.) e,
dall'altro lato, è escluso che sia sufficiente il generico coinvolgimento di un
pubblico interesse nella controversia perché questa possa essere devoluta
al giudice amministrativo.
Le conseguenze? Una serie di disposizioni della l. 205/00 sono illegittime.
Non tutte le controversie in materia di pubblici servizi sono devolute alla
giurisdizione amministrativa, ma solo quelle relative a concessioni,
affidamenti, controlli in tema di pubblici servizi; non tutte le controversie in
materia urbanistica ed edilizia, ma solo quelle relative ad atti e
provvedimenti amministrativi intervenuti in questa materia (con esclusione,
quindi, dei meri comportamenti la cognizione dei quali viene attratta
nuovamente dal giudice ordinario).
Al giudice ordinario ritornano così le controversie tra privati e
amministrazione nelle quali quest'ultima figuri come un qualsiasi litigante
privato, creditore o debitore: dal rimborso prezzi a favore del farmacista,
alle controversie sui tassi di interesse tra banche e regioni e così via.
L'altra possibile questione di legittimità costituzionale - la devoluzione al
giudice amministrativo della giurisdizione sul «diritto» al risarcimento dei
danni cagionati da lesione di interessi legittimi, e ciò a prescindere da una
«particolare» materia - viene risolta dalla Corte costituzionale in questi
termini.
Il potere riconosciuto al giudice amministrativo di disporre il risarcimento
del danno ingiusto non costituisce una nuova «materia» attribuita alla sua
giurisdizione, bensì uno strumento di tutela ulteriore rispetto a quello
classico dell'annullamento dell'atto impugnato, da utilizzare per rendere
giustizia al cittadino nei confronti della pubblica amministrazione.
Secondo il Consiglio di Stato questa forma di tutela (la tutela risarcitoria)
non è alternativa alla tutela costitutiva (di annullamento), ma additiva
rispetto a quest'ultima, che ha carattere pregiudiziale.
Poiché essa viene assegnata dalla legge al giudice amministrativo
«nell'ambito della sua giurisdizione» (che è tradizionalmente una
giurisdizione d'annullamento), la parte deve chiedere l'annullamento
dell'atto per poter chiedere e ottenere il risarcimento del danno; e non può,
invece, come nel processo civile, chiedere il risarcimento del danno in luogo
dell'annullamento dell'atto.
Ciò comporta che la domanda di risarcimento va fatta non entro il termine
di prescrizione di cinque anni (come stabilisce l'art. 2947 cod. civ.) ma
entro il termine di decadenza di sessanta giorni, previsto per proporre
ricorso giurisdizionale amministrativo (art. 21, l. T A R ).
I tempi del processo amministrativo e le procedure accelerate
Uno dei problemi fondamentali del processo amministrativo, come in genere
dell'amministrazione della giustizia in Italia, è quello dei tempi necessari
per definire il giudizio: problema che è strettamente connesso a quello del
numero dei ricorsi. Nel dicembre 2000 pendevano davanti ai T A R ben
906.519 ricorsi. Un numero spaventoso considerato che i giudici dei T A R ,
esclusi i presidenti, sono 255 in tutto: un numero che è aumentato di anno
in anno vista la permanente sproporzione tra ricorsi avviati nell'anno e
ricorsi definiti. I primi superano i secondi di un 30%. Sempre nel 2000 sono
stati depositati 100.473 nuovi ricorsi mentre ne sono stati decisi 70.565.
Questo scarto ha dato luogo ad un incremento progessivo della durata
media del processo davanti al T A R .
Su questo aspetto, dei tempi del processo, la l. 205/2000 è intervenuta in
cinque modi diversi.
a) Quando il ricorso risulti manifestamente fondato o manifestamente
infondato ovvero manifestamente irricevibile (perché tardivo) o
manifestamente improcedibile (perché è venuto meno l'interesse e non è
stata estesa la notifica ad altri controinteressati nei tempi fissati dal
giudice) o manifestamente inammissibile (perché proposto contro un atto
non impugnabile o da un ricorrente privo di legittimazione o non è stato
notificato entro i termini ad almeno un controinteressato), il Tribunale
amministrativo regionale decide con sentenza succintamente motivata.
È sufficiente un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto
risolutivo: che il tribunale dica, per esempio, che l'atto amministrativo
impugnato era stato notificato al ricorrente il 10 gennaio e che il ricorso è
stato notificato il 20 marzo e quindi deve considerarsi irricevibile per
mancata osservanza del termine di sessanta giorni. L'esclusivo rilievo
attribuito al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo esonera il T A R
dall'esame di tutto il resto.
Il guadagno sulla durata del processo sarebbe irrisorio se la modifica desse
luogo soltanto ad una riduzione dei tempi di elaborazione della sentenza (45
giorni, secondo le regole). La cosa più importante è che la «decisione in
forma semplificata» viene presa dal giudice nella camera di consiglio fissata
per l'esame dell'istanza cautelare (e quindi a ridosso della data in cui il
ricorso è stato notificato) ovvero nell'udienza successiva all'espletamento
dell'istruttoria. Viene presa, cioè, in una fase precoce del processo e
comunque in un momento anteriore a quello in cui, secondo le regole
ordinarie, la causa sarebbe decisa.
In altre parole la semplificazione della stesura della sentenza e
l'anticipazione del verdetto dovrebbero ridurre la durata dei processi
interessati.
Rientrano fra le decisioni in forza semplificata anche quelle con cui il
giudice prende atto della rinuncia al ricorso, o della cessazione della
materia del contendere (perché, ad esempio, l'atto impugnato è stato
annullato d'ufficio dall'amministrazione), o dell'estinzione del giudizio
(perché, ad esempio, sospeso in pendenza di un giudizio di costituzionalità
davanti alla Corte costituzionale, non è stato ripreso - «riassunto» in termini
tecnici - entro il termine in cui doveva essere ripreso), o della perenzione
(perché l'istanza di fissazione d'udienza non è stata presentata o
ripresentata entro il termine biennale). La pronuncia ha carattere
sostanzialmente vincolato. Mentre in via ordinaria, essa compete al
collegio, in questi casi è presa dal presidente (o da un magistrato da lui
delegato) e la forma è quella del decreto (anziché quella della sentenza),
ossia di un atto sostanzialmente non motivato. O meglio, motivato solo con
riferimento alla circostanza che ha determinato l'estinzione o la perenzione
del processo o al fatto della rinuncia o all'atto che ha fatto venire meno la
materia della lite.
b)Per falcidiare i ricorsi pendenti la l. 205 ha previsto un secondo
meccanismo. Quando il ricorso è vecchio di oltre un decennio (sembra
incredibile, ma si contano a decine di migliaia i ricorsi con tale anzianità),
la parte personalmente è invitata a firmare una nuova istanza di fissazione
d'udienza entro sei mesi dalla comunicazione della segreteria. Se questo
non accade, il giudizio cessa (il ricorso è «perento», tecnicamente
parlando).
Si presume, cioè, che la parte, per via del tempo trascorso, abbia perduto
interesse alla causa: e che non firmi, quindi, l'istanza di fissazione
d'udienza. Almeno questo è l'auspicio. Non ci potrebbe essere migliore
dimostrazione dell'equazione giustizia lenta = giustizia negata.
c)Il terzo tipo di intervento acceleratorio consiste nella riduzione dei termini
processuali nelle cause che riguardano alcuni settori c.d. sensibili: gare
d'appalto di opere e di servizi pubblici, provvedimenti delle autorità
amministrative indipendenti (Autorità garante della concorrenza e del
mercato, Autorità per l'informatica nella pubblica amministrazione, Autorità
di regolazione dei servizi di pubblica utilità, Autorità per le garanzie nelle
comunicazioni, ecc.), provvedimenti relativi alla privatizzazione o
dismissione di imprese e beni pubblici, provvedimenti di nomina dei
dirigenti generali o relative ad altre cariche elevate, scioglimento degli
organi di enti locali.
In questi casi i termini processuali (salvo quello per proporre ricorso) sono
ridotti a metà.
Se viene proposta domanda di tutela cautelare e il ricorso «evidenzia
l'illegittimità dell'atto impugnato e la sussistenza di un pregiudizio grave e
irreparabile», il T A R fissa con ordinanza l'udienza di merito dopo un lasso di
tempo di trenta giorni. In questo modo viene saltata la fase cautelare e il
ricorrente viene compensato con un'anticipazione della fase di merito (e col
preannuncio, sostanzialmente, dell'accoglimento del ricorso).
In caso di estrema gravità ed urgenza il giudice, con l'ordinanza di
fissazione dell'udienza di merito, dispone le misure cautelari opportune: ma
ha l'obbligo di indicare le ragioni che, ad un sommario esame, rendono
probabile l'accoglimento del ricorso.
In altre parole la l. 205, riprendendo e unificando le disposizioni precedenti,
ha creato una corsia privilegiata per i ricorsi che riguardano materie
ritenute di particolare importanza economica e sociale. Ovviamente il
prezzo di questa accelerazione lo pagheranno i ricorsi che attengono a
materie diverse dai settori sensibili: ricorsi che dal punto di vista dei valori
economici in gioco sono spesso non meno importanti (grosse lottizzazioni
urbanistiche, grande distribuzione commerciale, ecc.).
d)Quando sia presentata istanza cautelare, anche al di fuori dei settori
sensibili indicati al punto c), il T A R , accertata la completezza del
contraddittorio e l'esistenza dei presupposti, può definire il giudizio nel
merito.
È il meccanismo descritto sopra quando si è parlato del procedimento
cautelare.
Mentre nel caso precedente la fase cautelare viene di solito a saltare con
un'anticipazione della fase di merito, in questo caso fase cautelare e fase di
merito sono unificate, con una pronuncia unica.
e)Anche dell'ultimo dei procedimenti accelerati si è già parlato. Si tratta dei
ricorsi avverso il silenzio decisi in Camera di consiglio con sentenza
succintamente motivata entro trenta giorni dal termine per il deposito del
ricorso. Alla sentenza, che contiene l'ordine all'amministrazione di
provvedere, segue, in caso di inadempimento, la fase in cui viene nominato
dal giudice il commissario incaricato di provvedere in luogo dell'autorità
rimasta inerte.
82.
La tutela amministrativa

Il ricorso gerarchico
Alla tutela offerta dal giudice (prima ordinario, poi anche amministrativo) si
è sempre accomp agnata la tutela offerta dalla stessa amministrazione.
L'apparente paradosso - di una protezione assicurata dallo stesso soggetto
contro il quale si agisce - si spiega in questo modo. L'autorità alla quale ci
si rivolge non è la stessa autorità che ha emesso l'atto che si intende
attaccare, ma è l'autorità gerarchicamente superiore. Lo si legge nell'art. 3
ult. co. della legge abolitiva del contenzioso (1865) che prevede «il ricorso
in via gerarchica in conformità delle leggi amministrative»; ma anche nella
coeva legge sul Consiglio di Stato (all. D ), che richiede il parere obbligatorio
del Consiglio di Stato sui ricorsi fatti al re contro la legittimità dei
provvedimenti amministrativi, sui quali siano esaurite o non possano
proporsi domande di riparazione in via gerarchica (così la formula contenuta
nel r.d. 1054/1924, art. 16).
Il ricorso gerarchico, che va proposto entro trenta giorni dalla notifica o
dalla conoscenza del provvedimento da impugnare, non solo ha portata
generale, ma costituisce una condizione per proporre ricorso al re (ricorso
straordinario) e, poi, ricorso giurisdizionale al Consiglio di Stato: anch'esso
non ammesso «se non contro il provvedimento definitivo, emanato in sede
amministrativa, sul ricorso presentato in via gerarchica» (art. 34 r.d.
1054/1924).
Il ricorso gerarchico presuppone un'amministrazione strutturata in modo
gerarchico (il questore subordinato al prefetto, il prefetto subordinato al
ministro; il preside sottoposto al provveditore agli studi, il provveditore al
ministro della Pubblica istruzione, ecc.); e si fonda su una presunzione di
maggiore competenza e saggezza del superiore gerarchico. Che poi il
ricorso giurisdizionale (e il ricorso straordinario al re) siano ammessi solo
contro i provvedimenti definitivi, ossia «quando siano esaurite o non
possano proporsi domande di riparazione in via gerarchica», lo si spiega
facilmente. Si vuole impedire che il cittadino si rivolga al giudice
amministrativo (o proponga ricorso straordinario) prima che
l'amministrazione sia stata messa in condizione di risolvere al suo interno il
conflitto: un'applicazione del principio di senso comune secondo cui i panni
sporchi si lavano in famiglia.
In concreto la probabilità che il ricorso gerarchico venga accolto è molto
bassa: perché il superiore gerarchico si atteggia il più delle volte non come
correttore delle illegittimità e delle ingiustizie commesse dall'inferiore, ma
come soggetto con lui solidale e garante della sua azione.
La conseguenza è ovvia. I tempi necessari per la proposizione e la decisione
del ricorso gerarchico valgono nella generalità dei casi a ritardare l'avvio
del ricorso giurisdizionale, non ad impedirlo. Da qui la decisione, presa con
la legge istitutiva dei T A R , di abolire la definitività come presupposto del
ricorso al nuovo giudice territoriale. Anche l'atto non definitivo, ossia l'atto
che è suscettibile di ricorso in via gerarchica, può essere immediatamente
impugnato davanti al T A R .
Con la soppressione del requisito della definitività che faceva del ricorso
gerarchico una strada obbligata per l'accesso al giudice amministrativo,
84.

questo rimedio ha perduto molta della sua importanza. Disciplinato in


termini generali con d.p.r. 1199/1971, esso deve essere preposto,
naturalmente contro gli atti di autorità che hanno un superiore gerarchico
(non quindi contro gli atti di chi è al vertice della gerarchia o di un organo
collegiale); il termine per ricorrere è di trenta giorni; i motivi che possono
essere fatti valere possono essere non solo di legittimità ma anche di
merito.
Mentre nel ricorso giurisdizionale al T A R si può denunciare l'illegittimità
dell'atto, ma non la sua ingiustizia, chi ricorre in via gerarchica può
chiedere che l'atto sia annullato per motivi di merito: perché inopportuno,
perché iniquo, perché controproducente, ecc. Questa maggiore apertura si
giustifica perché a decidere è pur sempre un'autorità amministrativa:
un'autorità cui competono quelle valutazioni (di opportunità, convenienza,
equità, ecc.) che sono in genere precluse al giudice.
Se l'interessato ha proposto ricorso gerarchico non può proporre
simultaneamente ricorso al T A R . Può farlo solo dopo che sono decorsi
novanta giorni: ossia dal momento in cui, non essendo intervenuta nessuna
decisione, «il ricorso si intende respinto a tutti gli effetti, e contro il
provvedimento impugnato è esperibile il ricorso all'autorità giurisdizionale
competente» (art. 6 d.p.r. 1199/1971).
L'equiparazione, per legge, del silenzio dell'autorità (protratto oltre tre
mesi) al rigetto del ricorso gerarchico ha generalizzato l'abitudine delle
amministrazioni di non rispondere al privato. È stata interpretata, cioè,
come un'autorizzazione all'autorità amministrativa a non decidere il ricorso
gerarchico, sebbene fosse diverso l'intento del legislatore (l'intento era
quello di non allontanare troppo nel tempo il momento dell'accesso al
giudice).
In altre parole. O l'amministrazione accoglie il ricorso gerarchico (evenienza
rara) e allora viene meno l'esigenza di rivolgersi al giudice perché la parte
è stata soddisfatta; o lo respinge, e allora l'interessato, almeno di solito, si
rivolgerà al T A R ; o non lo decide
(entro 90 giorni), e allora l'interessato si comporterà come se il ricorso
fosse stato rigettato.

Il ricorso straordinario
L'altro rimedio amministrativo a carattere generale è il ricorso
straordinario. Non essendoci più un re è oggi qualificato come ricorso
straordinario al presidente della Repubblica.
In realtà la decisione spetta al Consiglio di Stato in sede consultiva (una
sezione o la commissione speciale) anche se la legge parla di «parere».
Formalmente, la decisione è del presidente della Repubblica su proposta del
ministro competente per materia; nella sostanza sia la decisione che la
proposta si limitano a far proprio il parere del Consiglio per superare il
quale occorre una delibera del Consiglio dei ministri (evenienza a quanto
pare mai verificatasi nella storia più che secolare dell'istituto).
Nei vecchi manuali di giustizia amministrativa si spiegava che il ricorso
straordinario è un'espressione della giustizia ritenuta che si contrappone
alla giustizia delegata (agli organi giurisdizionali). L'idea sottostante è che
il monarca sia l'organo della giustizia, e che egli, pur dopo avere delegato
l'amministrazione di quest'ultima agli apparati giudiziari, ne abbia
trattenuto una porzione: un potere di giustizia che è complementare al
potere di grazia. Si tratta di una convinzione che, pur superata da secoli dal
pensiero e dall'esperienza del costituzionalismo, corrisponde a un modo di
sentire diffuso. Quanti sono quelli che si rivolgono al presidente Ciampi per
ottenere quello che l'amministrazione o la giustizia hanno loro negato!
Il ricorso straordinario è stato mantenuto (e disciplinato ex novo) col citato
d.p.r. 1199/1971.
Continua ad essere usato sia perché più economico del ricorso
giurisdizionale (può essere presentato dall'interessato senza necessità
dell'assistenza di un legale) sia perché il termine per ricorrere è di
centoventi giorni dalla data della notificazione o della comunicazione o
della piena conoscenza dell'atto da impugnare. Il ricorso straordinario è
l'ultima spiaggia per chi abbia lasciato trascorrere il termine (di sessanta
giorni) per rivolgersi al T A R .
A differenza del ricorso gerarchico, che può essere seguito dal ricorso
giurisdizionale al T A R quando l'autorità amministrativa lo respinge o rimane
inerte, il ricorso straordinario è alternativo al ricorso al T A R . Scelta una via
non se ne può scegliere un'altra: chi ricorre al T A R non può proporre ricorso
straordinario, chi propone ricorso straordinario non può rivolgersi al T A R .
Questa preclusione viene giustificata col fatto che a rendere il parere sul
ricorso straordinario (e nella sostanza a deciderlo) è il Consiglio di Stato in
sede consultiva; ossia lo stesso organo che (in sede giurisdizionale)
potrebbe essere chiamato a giudicare, come giudice d'appello, sul ricorso
presentato al T A R e da quest'ultimo deciso. Con possibilità di due pronunce
contraddittorie sullo stesso tema.
La scelta è obbligata per chi ricorre. Non per chi resiste al ricorso - come
amministrazione o come controinteressato.
Costoro non sono tenuti a subire la scelta per la via amministrativa
compiuta dal ricorrente. Possono chiedere, entro sessanta giorni dalla
notifica del ricorso straordinario, che questo «sia deciso in sede
giurisdizionale». Quando vien fatta questa richiesta, il ricorrente è tenuto a
costituirsi, entro i successivi sessanta giorni, davanti al T A R competente. È la
c.d. trasposizione del ricorso straordinario in sede giurisdizionale. Essa
costituisce, in termini generici, una manifestazione della preferenza del
86.

nostro ordinamento per la via giurisdizionale; più specificamente,


costituisce uno dei modi per la garanzia del contraddittorio. Coloro che
subiscono il ricorso hanno non soltanto il diritto di venirne a conoscenza
(mediante la notifica da effettuarsi come per il ricorso giurisdizionale), e il
diritto di difendersi con memorie e documenti, ma anche il diritto di optare
per la giurisdizione nel presupposto che questa offra garanzie più complete.
Tra queste garanzie vi è la possibilità dell'impugnazione, ammessa contro le
sentenze dei T A R ma non contro la decisione su ricorso straordinario.
Chi non si è avvalso della facoltà di trasposizione del ricorso straordinario
in sede giurisdizionale potrà impugnare la decisione davanti al T A R solo per
vizi di forma o di procedimento. In altri termini, solo se il procedimento di
decisione del ricorso straordinario è stato irregolare (perché ad esempio è
stata omessa la notifica a un controinteressato), la decisione potrà essere
impugnata.
Dal ricorso giurisdizionale il ricorso straordinario si distingue, oltre che nei
tratti già indicati (termini per ricorrere, procedimento di decisione,
competenza a decidere, ecc.), anche perché esso può essere proposto solo
contro atti definitivi (art. 8 d.p.r. 1199): ossia contro atti «sui quali siano
esaurite o non possano proporsi domande di riparazione in via gerarchica»
(art. 16 n. 4 r.d. 1054/1924). Al ricorso giurisdizionale è accomunato - e in
questo si distingue dal ricorso gerarchico - perché i soli motivi di
annullamento che possono essere fatti valere sono vizi di legittimità.
Nuovamente si distingue dal ricorso giurisdizionale perché mentre questo è
previsto (o era previsto) essenzialmente a protezione degli interessi
legittimi, il ricorso straordinario può essere proposto anche a tutela di
diritti soggettivi.
È del tutto irrilevante, quindi, la natura della situazione soggettiva di cui
viene chiesta protezione.

La tutela del privato nel procedimento amministrativo


Come si ricorderà, la legge abolitiva del contenzioso affidava alle autorità
amministrative «gli affari non compresi», ossia le
controversie che non fossero relative a «diritti civili o politici» (art. 3). Le
autorità dovevano ammettere «le deduzioni e osservazioni in iscritto delle
parti interessate» e provvedere «con decreti motivati, previo parere dei
consigli amministrativi che per diversi casi siano dalla legge stabiliti».
Questo ambizioso e garantistico programma non è stato mai attuato: non è
stato mai osservato, come regola generale, l'onere per l'amministrazione,
prima di provvedere, di acquisire le «deduzioni e osservazioni» degli
interessati; non ha mai avuto portata generale l'obbligo di far precedere il
provvedimento da un parere, né ha avuto mai portata generale l'obbligo di
motivazione degli atti amministrativi. Il programma è tuttavia rimasto
sempre vivo nella cultura amministrativa come un modello di
amministrazione partecipata e garantista, che assicura al suo interno
protezione al cittadino, che consente a quest'ultimo di far sentire la sua
voce prima che la decisione sia presa invece di essere costretto ad
impugnarla dopo che è intervenuta.
Le cose sono cambiate solo dopo oltre un secolo. Nel 1990 è stata
approvata la legge sul procedimento amministrativo e sul diritto di accesso
che può essere considerata come una sorta di attuazione postuma di un
progetto che, nelle sue linee essenziali, rimonta a 125 anni prima: legge
che è stata modificata e arricchita di contenuti nel 2005 (l. 15/2005).
La legge stabilisce alcune regole generali che valgono per tutti i
procedimenti amministrativi: obbligo per l'amministrazione di portare a
termine il procedimento con un provvedimento espresso, entro un termine
prefissato, obbligo di comunicare all'interessato l'avvio del procedimento
che lo riguarda, diritto dell'interessato di partecipare al procedimento
presentando memorie o documenti, istituzione di un responsabile per ogni
procedimento, incaricato di portarlo a termine dopo avere curato
l'accertamento dei fatti rilevanti, obbligo di motivare il provvedimento
conclusivo anche in relazione all'esito dell'istruttoria e all'apporto del
privato quale risulta dalle memorie e documenti presentati, possibilità di
concord are con l'interessato il contenuto del provvedimento finale o di
sostituire il provvedimento con un accordo.
Vediamo alcuni dettagli particolarmente significativi per la tutela del
cittadino.
Accanto a procedimenti amministrativi che vengono avviati dall'interessato
- per esempio con una domanda di autorizzazione o di concessione o di
contributo - ve ne sono altri che sono instaurati «d'ufficio», ossia
dall'amministrazione. Tra questi, molti sono preordinati a un provvedimento
che limita i diritti e gli interessi dei privati: un'espropriazione, una sanzione
disciplinare, una sanzione amministrativa.
Perché l'interessato possa difendersi - non quando il provvedimento è stato
preso, ma prima che sia preso - occorre che egli venga messo a parte
dell'avvio del procedimento che lo riguarda: del suo contenuto, del progetto
di provvedimento, dell'autorità competente.
La comunicazione dell'avvio del procedimento, che deve esser fatta da un
funzionario «responsabile del procedimento», pone l'interessato nella
condizione di far valere le sue ragioni, mediante memorie o documenti da
produrre all'amministrazione. Di essi l'amministrazione dovrà tener conto
nel decidere. È possibile, quindi, che il progetto di provvedimento venga
modificato proprio sulla base delle osservazioni dell'interessato. Quando il
procedimento riguarda, ad esempio, la scelta dell'area da destinare a opera
pubblica (ai fini della c.d. dichiarazione di pubblica utilità) il proprietario
debitamente e tempestivamente informato potrà dimostrare che l'area è
tecnicamente inidonea (per esempio per la sua instabilità geologica) all'uso
cui la si vorrebbe destinare, corredando la sua affermazione con una
relazione di consulenza tecnica. Per confermare la sua scelta
l'amministrazione dovrà farsi carico di confutare le affermazioni del privato.
Se non lo fa, ignorandole, o lo fa in maniera immotivata, la decisione finale
sarà per questa sola ragione illegittima, ma l'interessato sarà costretto a
rivolgersi al giudice amministrativo per far valere tale illegittimità e
ottenere l'annullamento dell'atto. Se invece prende sul serio le osservazioni
del privato e fa cadere la sua scelta su un'area diversa da quella di
progetto, l'amministrazione soddisferà il privato senza costringerlo ad adire
il giudice. Partecipando al procedimento di formazione dell'atto il privato
otterrà una forma di protezione anticipata. Un'altra garanzia introdotta
dalla l. 241/1990 è data dall'obbligo di motivare il provvedimento
conclusivo ossia di enunciare i presupposti e le ragioni di diritto che stanno
a base della decisione, in relazione alle risultanze dell'attività istruttoria.
Non si dimentichi che uno dei vizi che danno luogo all'annullamento
giurisdizionale dell'atto impugnato è il difetto di motivazione o
l'insufficienza della motivazione. Ma l'obbligo di motivazione ha anche una
funzione preventiva. Esso dovrebbe indurre l'amministrazione ad astenersi
dal prendere decisioni irrazionali, non suscettibili di una motivazione
plausibile, o palesemente in contrasto con le risultanze dell'istruttoria.
Una recente misura, introdotta nel 2005 con una legge che modifica la
normativa sul procedimento amministrativo (l. 15/2005), prevede infine che
l'amministrazione, se crede di dover rigettare la domanda del cittadino,
deve comunicargli la sua intenzione: in modo che egli, nei successivi dieci
giorni, possa enunciare le sue ragioni per convincere l'autorità del
contrario.
La legge sul procedimento ha rafforzato la posizione del privato sotto altri
due aspetti. Come si è visto, l'amministrazione può danneggiare il privato
non soltanto quando agisce ma anche quando rimane inerte: anche quando,
cioè, omette di provvedere mentre dovrebbe provvedere. Si pensi ad
un'istanza di autorizzazione o di concessione o di altro provvedimento
favorevole che non trovi risposta nell'amministrazione. La l. 241 si propone
di contrastare l'inerzia dell'amministrazione in due modi. In linea generale,
stabilendo il dovere dell'amministrazione «di concludere il procedimento
mediante l'adozione di un provvedimento espresso». Non è più lecito, per
l'autorità, omettere di provvedere, adagiandosi sul meccanismo del silenzio-
rifiuto. Il silenzio-rifiuto, come si ricorderà,
è il congegno grazie al quale il privato, diffidando l'amministrazione a
provvedere e assegnandole un termine non inferiore a 30 giorni, si
confeziona da sé un atto negativo (silenzio-rifiuto): ossia quell'atto al quale
viene equiparata l'inerzia protratta oltre il termine assegnato con la diffida.
Con la modifica del 2005, il meccanismo viene ulteriormente semplificato.
Scaduto il termine per la conclusione del procedimento, senza che abbia
provveduto, l'amministrazione è considerata inadempiente: e contro di essa
l'interessato potrà rivolgersi al giudice senza necessità di diffidarla.
L'altra misura, anch'essa introdotta in forma ampia dalla l. 241 per una
serie di autorizzazioni amministrative, è costituita dal silenzio-assenso.
Decorso un certo termine dalla presentazione della domanda di
autorizzazione, essa si considera accolta se l'amministrazione non ha
comunicato il suo diniego.
Il silenzio-assenso è, per il cittadino, un istituto giuridico molto più benigno
del silenzio-rifiuto (o del silenzio-diniego). Presuppone che il potere
dell'amministrazione di impedire lo svolgimento dell'attività del privato sia
circoscritto entro un termine ragionevole (per esempio di 60 giorni, di 90
giorni o più secondo i casi); così che, decorso questo termine, l'attività
privata può essere svolta come se fosse stata tacitamente autorizzata. Nel
silenzio-rifiuto o nel silenzio-diniego, invece, l'inerzia dell'amministrazione
equivale a un provvedimento negativo che inibisce lo svolgimento di
quell'attività.
Molti degli studiosi che si sono battuti per la legge sul procedimento
amministrativo ritenevano, confortati dall'esempio della Gran Bretagna, che
una più efficace tutela del cittadino nella fase di formazione dell'atto
amministrativo riducesse il contenzioso contro l'atto già preso. Questa
prospettiva si è rivelata illusoria.
Il numero dei ricorsi davanti ai Tribunali amministrativi è costantemente
aumentato nei quindici anni che ci separano dall'entrata in vigore della l.
241. Paradossalmente, quest'ultima ha aggiunto nuove frecce all'arco del
ricorrente: introducendo nuove regole la cui violazione può essere fatta
valere come vizio di legittimità dell'atto impugnato. Centinaia di
provvedimenti amministrativi vengono annullati ogni anno dai T A R perché è
stata omessa la comunicazione dell'avvio del procedimento o perché
l'amministrazione non ha tenuto conto delle osservazioni del privato o
perché manca o è insufficiente la motivazione.
La disciplina legislativa del procedimento amministrativo ha, tuttavia, posto
le premesse di un più civile rapporto tra cittadino e pubblica
amministrazione, un rapporto più rispettoso del cittadino; e contribuito ad
una graduale correzione delle cattive abitudini della nostra burocrazia.

La liberalizzazione delle attività private


Contro l'atto o il comportamento dell'amministrazione che lede un suo
diritto o un suo interesse il privato può ricorrere al giudice, amministrativo
o civile. Può, sia pure con certe limitazioni, proporre ricorso amministrativo
(ricorso gerarchico, ricorso straordinario al capo dello Stato). Può avvalersi
di quella forma di protezione preventiva che è offerta dalla partecipazione
al procedimento amministrativo. Con essa, almeno teoricamente, potrà
influire sul contenuto dell'atto amministrativo, limitandone gli effetti lesivi.
Per esempio, può ottenere una riduzione dell'area che l'amministrazione
intende espropriare rispetto al progetto.
Ma ciò a cui il privato aspira, quando l'assenso dell'amministrazione
condiziona la sua attività e di conseguenza egli non può esplicare tale
attività senza quell'assenso (o in presenza di un diniego), è una cosa
diversa. Egli aspira a fare a meno di quell'assenso: gli piacerebbe, più che
un'amministrazione benevola, un'amministrazione assente o non necessaria.
Fuor di metafora, preferirebbe un assetto normativo che lo lasciasse libero
di esplicare quell'attività (aprire un negozio, andare a caccia armato,
esportare capitali all'estero) senza dover chiedere alcun permesso.
Questa prospettiva, che molti avrebbero definito utopistica fino a una
decina d'anni fa, oggi è divenuta concreta.
Negli anni Novanta è stato avviato un processo di liberalizzazione delle
attività private. Operazioni che prima erano subordinate ad autorizzazione
amministrativa, come l'aprire una bottega o esportare capitali oltre una
certa soglia, o erano addirittura vietate in assoluto (come la mediazione fra
domanda e offerta di lavoro) sono oggi in buona parte libere. Ha influito
soprattutto il diritto europeo. Il trattato di Roma e gli atti normativi degli
organi comunitari (regolamenti, direttive) sono ispirati ai principi della
concorrenza e del mercato, e tutelano le c.d. libertà economiche: libertà di
circolazione, delle persone, dei servizi, dei capitali.
Alla stregua delle norme che tutelano queste libertà molti dei meccanismi
autorizzativi interni appaiono illegittimi: perché colpiscono anche le persone
e le imprese straniere, ostacolando il loro diritto di esportarvi capitali (e
quindi di investire in un qualunque paese della Comunità europea) o di
insediarsi al di fuori del proprio territorio.
La liberalizzazione ha trovato anche un'espressione più attenuata. Certe
attività private, già sottoposte ad autorizzazione, sono state assoggettate
ad un onere di denuncia di inizio di attività. Chi, per esempio, deve fare dei
lavori all'interno della sua abitazione non ha più bisogno di chiedere
l'autorizzazione comunale e di attendere il suo rilascio. Può direttamente
fare i lavori purché ne dia comunicazione al comune. Questi potrà inibirne la
continuazione se risulta che, oltre all'attività sottoposta a denuncia di
inizio, l'interessato ne svolge altra (per esempio una sopraelevazione) che
continua ad essere subordinata ad autorizzazione.
Sulla stessa linea liberalizzante si colloca il meccanismo, già illustrato, del
silenzio-assenso. In questo caso l'interessato è pur sempre tenuto a
chiedere l'autorizzazione, ma trascorso un certo lasso di tempo (60 giorni,
90 giorni, ecc.) senza che l'amministrazione abbia provveduto, egli potrà
esplicare l'attività come se questa fosse autorizzata.

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