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Introduzione
«I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che
siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione».
Così si legge nell'art. 97 della Costituzione italiana. Chi ha a suo tempo
proposto questa formula non pensava certo che l'amministrazione operasse
sempre in modo imparziale ed efficiente. Certamente si augurava che
questo obiettivo fosse raggiunto: ma non si nascondeva certo l'eventualità
che l'amministrazione agisse in modo partigiano e inefficiente. Tanto è vero
che, in un articolo successivo della stessa Costituzione, si dice che contro
gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela
giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di
giurisdizione ordinaria e amministrativa (art. 113). Si dà per scontato, cioè,
che l'amministrazione con i suoi comportamenti possa ledere i diritti e gli
interessi legittimi del cittadino cosa che non dovrebbe accadere se essa si
comportasse in modo imparziale ed efficiente: e al cittadino viene garantito
il rimedio del ricorso al giudice, ordinario o amministrativo. Questa doppia
prospettiva esiste un po' in tutti gli ordinamenti. Dappertutto vi è
l'aspirazione a che i pubblici uffici funzionino nel modo migliore,
nell'interesse del cittadino, ma nello stesso tempo nessuno si illude che ciò
avvenga sempre, e a questo scopo viene assicurata al cittadino la tutela
giudiziaria. Generalizzando, si può dire che questa è la realtà universale del
pubblico potere, e non solo del potere amministrativo. Dovunque c'è un
potere, istituito per il bene pubblico, vi è la possibilità di un suo abuso. Il
costituzionalismo moderno ci offre una serie di strumenti contro questi
rischi : dalla separazione dei poteri, una tecnica che si fonda sul controllo e
sul bilanciamento reciproco dei poteri dello Stato, alla supremazia della
legge; dalla giurisdizione di costituzionalità sicché la stessa legge è
sottoposta a un controllo di conformità rispetto alla Costituzione, al sistema
delle impugnazioni delle sentenze (doppio grado di giurisdizione, Corte di
Cassazione); dalla periodicità dell'elezione dei parlamentari al reclutamento
dei burocrati per pubblico concorso (anziché, come in altri tempi e in altri
paesi, con la vendita delle cariche o la chiamata diretta da parte
dell'organo politico, il c.d. spoil system).
Il potere amministrativo
Fra tutti i poteri pubblici il potere amministrativo è quello nel quale più
spesso il cittadino si imbatte. Il Parlamento fa le leggi, centinaia di leggi
all'anno, ma al cittadino singolo solo una o due interessano: gli interessa,
per esempio, quella che istituisce una nuova tassa o quella che modifica i
requisiti per il collocamento in pensione. Un'intera vita può trascorrere
senza che il nostro immaginario cittadino entri in un'aula di giustizia: e
comunque con la giurisdizione avrà contatti sporadici perché, ad esempio, è
chiamato una volta come teste, o un'altra volta come imputato, o ancora
come convenuto in una causa civile. Diverso è il rapporto con il potere
amministrativo, con i pubblici uffici, con la burocrazia. Il nostro amico nasce
e viene iscritto nei registri dello stato civile, dopo qualche anno fa il suo
ingresso in una scuola pubblica, compie quattordici anni e ottiene la carta
di identità che gli serve per circolare col motorino che il padre gli ha
regalato per il compleanno, ottiene qualche anno dopo un diploma di
maturità a chiusura del ciclo di studi secondari, si iscrive in un'università di
Stato, si sposa in municipio, ha un figlio e ne denuncia la nascita all'ufficio
comunale e così via sino a quando cesserà di vivere, e ad ospitarlo in modo
permanente sarà il cimitero comunale. Ma non sono solo quelli che gli
antropologi chiamano «riti di passaggio» gli eventi che mettono a contatto il
cittadino con le pubbliche amministrazioni. È sufficiente che egli attraversi
la strada per calpestare un bene che appartiene al demanio comunale; che
prenda il bus per utilizzare un servizio pubblico locale; che guidi senza
cintura di sicurezza per incappare nei rigori della polizia di Stato.
L'amministrazione sbarra la strada al cittadino in momenti decisivi del suo
esistere sociale. Se, sino a pochi anni fa, avesse voluto fare il portiere di
uno stabile avrebbe avuto bisogno di una licenza di pubblica sicurezza; lo
stesso accade se gli viene offerto un posto di guardia privata. Se ha
studiato e si è laureato e intende fare l'ingegnere deve superare un esame
di Stato e iscriversi all'albo professionale: se non lo fa, il progetto di
costruzione che andrà a firmare costituirà esercizio abusivo della
professione e non gli darà titolo a un compenso. La cosa si complica se,
animato da spirito imprenditoriale, vorrà gestire un canale televisivo o
un'impresa di smaltimento di rifiuti: avrà bisogno, nell'un caso e nell'altro,
di una concessione rilasciata dal ministero delle Telecomunicazioni o di un
provvedimento del sindaco. Molte delle condizioni a cui è subordinato lo
svolgimento di un'attività lavorativa o imprenditoriale vengono poste da
pubbliche amministrazioni. L'interessato ne trae un vantaggio quando l'atto
necessario - una licenza, un'autorizzazione, una concessione - gli viene
rilasciato; ne riceve un danno quando l'atto viene negato. In realtà, a ben
riflettere, il semplice fatto che egli per svolgere una certa attività abbia
bisogno di un assenso della pubblica amministrazione costituisce una
limitazione. Se ne accorge chiunque metta a confronto questa situazione
con una ipotetica nella quale quella attività possa essere svolta
liberamente, senza che l'interessato debba chiedere permesso ad alcuno. Il
cittadino incontra l'amministrazione sul suo cammino anche in altre
occasioni. Il piano regolatore comunale sottopone il suo terreno a vincolo di
inedificabilità: e fa venir meno quindi un beneficio atteso. La chiamata alle
armi, nella quale, in ragione dell'anno in cui è nato, egli incappa, alle soglie
della cessazione del servizio militare obbligatorio, lo sottrae per alcuni mesi
alle sue ordinarie occupazioni. Il trasferimento dal commissariato di polizia
in cui presta servizio ad altro ubicato a mille miglia di distanza altera il suo
piano di vita (come ad esempio l'acquisto di un appartamento, il
fidanzamento con una ragazza del luogo). Quanti benefici il nostro amico
trae dai pubblici poteri! Un impiego pubblico, una pensione di invalidità,
un'autorizzazione all'esercizio di un'attività economica, una concessione di
suolo demaniale, una destinazione urbanistica lucrosa del suo terreno in
periferia, un esonero dal servizio militare. Ma quanti danni subisce da
questi stessi pubblici poteri!
Poiché i danni e i benefici si calcolano a milioni e cadono in modo più o
meno accidentale su Tizio, Caio e Sempronio, senza possibilità di dosaggi in
base a un principio di giustizia distributiva, non è difficile immaginare che
qualcuno riceva soprattutto danni; o che i danni che egli subisce - anche
uno solo di questi - eccedano la somma di tutti i benefici che egli ha potuto
trarre dal complesso delle pubbliche amministrazioni. In altre parole.
Quanto più intensi sono i contatti fra cittadino e potere amministrativo
(rispetto ai contatti con il potere legislativo o il potere giudiziario) tanto più
è probabile che egli subisca un danno. Tanto più intenso il bisogno di tutela.
Amministrazione e legge
Non tutti i danni che la persona subisce nel contatto col suo prossimo danno
diritto a una riparazione. Come si legge nell'art. 2043 cod. civ., occorre che
3.
del diritto, Massimo Severo Giannini. E ciò a prescindere dal fatto che l'atto
sia legittimo o illegittimo. In questo secondo caso l'atto è efficace solo in
via provvisoria, sin quando non venga tolto di mezzo dall'autorità
amministrativa e poi, come vedremo, dal giudice amministrativo: ma in
modo, comunque, da escludere la giurisdizione del giudice ordinario. Per
adire il giudice ordinario occorre essere titolare di un diritto civile o politico
al momento in cui l'azione viene esercitata: non basta essere stato titolare
di quel diritto se esso, quando l'amministrazione viene convenuta, non
esiste più perché è stato affievolito o degradato. La dottrina prende atto
con rammarico di questo risultato. Nelle parole di Vacchelli: «L'atto di
impero, corrispondendo all'esercizio dell'autorità legittima dello Stato,
importa un corrispondente arretramento del diritto del cittadino [...];
ma [...] applicando tale stregua rimarrebbero privati della difesa giudiziale
anche quei casi nei quali il diritto del cittadino sussiste, e l'autorità ha
illegalmente agito».
viene riacquistata. Resta fermo tuttavia il principio per cui l'azione davanti
al giudice amministrativo è a tutela dell'interesse legittimo (l'interesse alla
legittimità dell'esercizio del potere espropriativo), e non del diritto
soggettivo di proprietà.
Anche qui si può ripetere quello che si è detto dell'interesse pretensivo. La
norma che attribuisce il potere di espropriazione e di occupazione è dettata
a protezione dell'interesse pubblico: ma le regole per l'esercizio del potere
possono essere invocate dal soggetto che ne è destinatario, ossia dalla
vittima, per contestare quell'esercizio e vanificarne il risultato, con
l'annullamento del provvedimento illegittimo.
Le sentenze ammesse
Come si combina il divieto di annullare l'atto amministrativo, stabilito
dall'art. 4 l. cont., col sistema delle sentenze del giudice civile, così come
classificate dalla dottrina a partire dal XIX secolo?
Quando condanna una delle parti a fare o a dare qualcosa o a non fare ciò
che essa pretende di fare il giudice civile emette una sentenza di condanna:
a pagare una somma di denaro, a sloggiare dall'appartamento preso in
locazione, ad abbattere un muro, a riassumere il lavoratore licenziato, ad
astenersi dalla concorrenza illecita.
In un secondo gruppo di casi l'interesse di chi agisce in giudizio è
soddisfatto da una sentenza di mero accertamento. Se Caio pretende di
essere titolare di una servitù di passaggio sul fondo di Tizio, quest'ultimo
verrà soddisfatto da una pronuncia che nega fondamento a quella pretesa:
una sentenza con cui si chiarisce che Caio non ha alcun diritto di passare
per il fondo altrui.
In un terzo gruppo di casi, chi agisce chiede al giudice di costituire,
modificare o estinguere una situazione giuridica o un rapporto giuridico. Per
esempio di annullare un contratto perché il consenso di chi l'ha concluso è
stato carpito con dolo; o di emettere una sentenza che faccia le veci del
contratto definitivo non concluso quando il convenuto rifiuta di adempiere
al contratto preliminare; di costituire una servitù coattiva sul fondo altrui.
Si parla, in questi casi, di sentenze costitutive (art. 2908 cod. civ.).
Sentenze di accertamento (o di mero accertamento), sentenze costitutive,
sentenze di condanna. Quali di queste sentenze sono ammesse contro la
pubblica amministrazione? Quali sono compatibili col divieto stabilito
dall'art. 4 l. cont.?
Il giudice civile, nelle controversie in cui è parte una pubblica
amministrazione, ha sempre ritenuto che le sentenze di mero accertamento
fossero ammissibili. Dichiarando che un bene non è demaniale (come
pretende nel corso della lite l'amministrazione), ma è del privato, il giudice
non annulla alcun atto amministrativo né si sostituisce all'amministrazione
nell'esercizio di una potestà amministrativa; lo stesso accade ogni qual
volta dichiara che un tributo non è dovuto, che un'attività non è soggetta ad
autorizzazione, o che l'inadempimento dell'appaltatore non c'è stato
(sebbene l'autorità, sul presupposto della sua esistenza, abbia rescisso il
contratto di appalto).
Per la ragione opposta non sono ammesse contro l'amministrazione che
abbia esercitato un potere amministrativo le sentenze costitutive.
Il giudice civile non solo non può annullare l'atto amministrativo (mentre, se
si trattasse di privati, ben potrebbe annullare il contratto invalido) o
modificarlo (per esempio annullando una singola clausola dell'atto o una
condizione o un termine apposti allo stesso): ma non può neppure emettere
alcuna misura che equivalga ad una sua sostituzione all'amministrazione
(per esempio rilasciare l'autorizzazione che l'autorità amministrativa ha
negato).
Per quanto riguarda le sentenze di condanna la soluzione offerta dalla
giurisprudenza è più articolata. Sono ammesse le condanne pecuniarie
(ossia le condanne a pagare una somma di denaro), ma non sono ammesse
le altre (a un dare, a un fare, a un non fare): salvo casi espressamente
previsti (per esempio è ammessa la condanna a restituire l'immobile
espropriato quando l'opera pubblica non venga più realizzata). La dottrina
ha sempre criticato questa distinzione osservando che le sentenze di
condanna o vanno ammesse in blocco perché la modificazione giuridica che
ne deriva verrà posta in essere pur sempre dall'amministrazione, anche se
nell'adempimento di un obbligo (sicché il giudice non annulla alcunché né si
sostituisce alla pubblica amministrazione), o vanno escluse in blocco. Anche
la sentenza di condanna comporta una coazione a carico
dell'amministrazione che è obbligata a tenere un certo comportamento e
non è più libera di tenerlo o meno. Ma il sistema è assestato da più di un
secolo in conformità a questa regola: ammesse le condanne pecuniarie,
escluse le altre.
La giurisprudenza degli ultimi decenni ha, piuttosto, circoscritto l'ambito del
divieto (di annullamento o revoca dell'atto amministrativo) ai casi in cui il
privato si trovi di fronte ad un potere amministrativo. Nessun divieto opera
quando l'amministrazione intrattiene un rapporto di diritto privato.
L'altra ipotesi che la giurisprudenza ha isolato (negando anche qui
l'applicazione dell'art. 4 l. cont.) è quello della c.d. carenza di potere.
L'ente pubblico agisce pretendendo di comportarsi da autorità
amministrativa: per esempio immettendosi nel possesso del
fondo privato in attesa che venga adottato un decreto di occupazione
d'urgenza. In realtà mancano i presupposti perché quel comportamento
possa essere riconosciuto come esercizio (sia pure illegittimo) di potestà
amministrativa e l'ente ha agito senza potere.
Quel fatto (immissione in possesso) non può essere identificato con un atto
amministrativo: sicché il proprietario potrà rivolgersi al giudice civile con
un'azione possessoria, rivolta ad ottenere un provvedimento che imponga
all'ente pubblico di cessare lo «spoglio», reintegrando il privato nel
possesso (art. 1168 cod. civ.).
La stessa azione (di spoglio o di reintegrazione) non sarebbe ammessa se il
comportamento dell'amministrazione fosse stato autorizzato da un decreto
di occupazione. In questo caso, infatti, il giudice che intimasse la
cessazione dello spoglio revocherebbe, implicitamente, il decreto di
occupazione: in violazione dell'art. 4 l. cont.
La disapplicazione
Il giudice ordinario non può annullare l'atto amministrativo (art. 4), ma può
disapplicarlo (art. 5): non solo «quando la contestazione cade sopra un
diritto che si pretende leso da un atto dell'autorità amministrativa» (così
l'art. 4), ma anche «in ogni altro caso».
La formula dell'art. 5 («in questo, come in ogni altro caso, le autorità
giudiziarie applicheranno gli atti amministrativi e i regolamenti generali e
locali in quanto siano conformi alla legge») fa capire che il suo ambito di
operatività è più ampio di quello dell'art. 4.
L'atto illegittimo («non conforme alle leggi») va disapplicato non solo
quando il privato lamenti di essere stato dall'atto leso in un suo diritto: ma
anche nell'ipotesi opposta che il privato fondi sull'atto amministrativo la
sua pretesa, che ravvisi, cioè, nell'atto il fatto costitutivo (anziché lesivo)
del diritto. Rientra nell'ambito dell'art. 5 anche il caso che sia
l'amministrazione a fondare sull'atto amministrativo la sua pretesa e il
privato la contesti perché ritiene l'atto illegittimo.
Secondo le intenzioni degli autori della legge del 1865, l'atto
amministrativo andrebbe disapplicato in ciascuno dei seguenti tre esempi: il
privato che rifiuta di rilasciare il suo immobile sostenendo che il decreto di
espropriazione è illegittimo (con argomenti ritenuti plausibili dal giudice); il
privato che pretende di immettersi nei locali della tesoreria comunale
sostenendo di essere lui il nuovo tesoriere (ma il giudice accoglie le ragioni
del vecchio tesoriere, disapplicando la nuova concessione perché
illegittima); l'amministrazione che pretende il pagamento di un supplemento
di tributo, disposto in applicazione di una modifica regolamentare (di cui il
contribuente dimostra l'illegittimità, ottenendone la disapplicazione).
Così concepita, la disapplicazione sarebbe una misura alternativa
all'annullamento (precluso al giudice civile dall'art. 4): meno efficace di
questo perché non toglie di mezzo l'atto, e produce effetti limitati alle parti
del giudizio, ma altrettanto garantista del diritto del privato (al quale
interessa che l'atto amministrativo o il regolamento non sia a lui applicato
e poco gli importa che ad altri, che non si sono rivolti al giudice, continui ad
essere applicato).
In concreto, la vicenda sopra descritta (della degradazione o affievolimento)
ha di molto ristretto i margini della disapplicazione. Nell'ipotesi che la
contestazione cada sopra un diritto che si pretende leso da un atto
dell'autorità amministrativa (art. 4) il giudice ordinario ha finito col negare
il più delle volte la sua giurisdizione: proprio perché il diritto che si
pretende leso dall'atto amministrativo è degradato a interesse legittimo.
Nel primo dei tre esempi fatti (il privato che rifiuta il rilascio dell'immobile
chiedendo la disapplicazione del decreto di espropriazione illegittimo) il
giudice civile, dopo una prima fase in cui ha conosciuto e giudicato di atti
del genere, ha poi negato la sua giurisdizione: perché il diritto di proprietà,
in conseguenza del decreto (anche se illegittimo), si è affievolito a
interesse legittimo. Sull'atto eserciterà il suo sindacato il giudice
amministrativo, al quale (dopo il 1889) il proprietario espropriato potrà
rivolgersi con una domanda di annullamento.
Si può dire, cioè, che delle due ipotesi previste dall'art. 5 come presupposto
della disapplicazione («in questo, come in ogni altro caso»), sia oggi
prevalente «l'altro caso»: ossia il caso del conflitto fra privati, uno dei quali
fa valere come titolo un atto amministrativo di cui il giudice accerta
l'illegittimità (disapplicandolo): e il caso in cui è l'amministrazione a far
valere come titolo il suo provvedimento contro un privato che invece ne
contesta la legittimità, ottenendone la disapplicazione.
L'art. 5, pur avendo subito una così rilevante amputazione della sua area di
applicazione, continua ad esprimere un valore altamente garantista.
Stabilendo che il giudice civile applicherà gli atti amministrativi e i
regolamenti solo se conformi alle leggi, il legislatore del 1865 afferma il
principio di legalità o di supremazia della legge (sull'attività
dell'amministrazione). Lo stesso principio che oggi è consacrato dall'art.
101 Cost. dove è scritto che i giudici sono soggetti soltanto alla legge
(sicché non possono dare applicazione ad atti amministrativi non conformi
alla legge).
I Tar
Come si è visto nel secondo capitolo, il primo giudice amministrativo è stato
in Italia il Consiglio di Stato.
Gli autori della legge del 1889 in realtà non pensavano di avere creato un
nuovo giudice, aggiungendo una IV sezione alle tre sezioni già esistenti di
un organo amministrativo di consulenza: e appunto per questo attribuirono
alla nuova sezione il potere di annullare gli atti amministrativi, senza
avvertire alcuna contraddizione col principio della divisione dei poteri (sulla
base del quale, invece, era stata negata al giudice ordinario la facoltà di
revocare o modificare l'atto lesivo del diritto). In realtà - lo si è spiegato
sopra - la giurisprudenza e la prevalente dottrina si orientarono subito per
la natura giurisdizionale dell'organo: ammettendo contro le sue pronunce il
ricorso per Cassazione per difetto di giurisdizione, cosa che, da sempre, si è
ritenuto indizio sicuro della natura giurisdizionale dell'organo.
L'altro giudice amministrativo è stato per oltre ottant'anni la Giunta
provinciale amministrativa. Dalla sua istituzione nel 1890 al 1967, anno in
cui fu dichiarata costituzionalmente illegittima per la sua composizione,
inidonea a garantire l'indipendenza richiesta al giudice (art. 108 Cost.; sent.
C. cost. n. 30/1967), la G P A ha deciso le controversie minori tra enti locali e
privati. E le sue sentenze erano impugnabili davanti al Consiglio di Stato
che, in questi casi, fungeva da giudice d'appello.
L'assetto attuale poggia su Tribunali amministrativi regionali, uno in
ciascun capoluogo di regione, con sezioni staccate in altre province, almeno
in alcune regioni: Lombardia, Emilia Romagna, Lazio, Abruzzo, Campania,
Puglia, Calabria, Sicilia e Trentino-Alto Adige. Ciascun tribunale è composto
da tre giudici reclutati, a differenza dei magistrati ordinari, mediante un
concorso di secondo grado. Per accedervi occorre essere magistrato
ordinario, avvocato o procuratore dello Stato, avvocato libero
professionista, dipendente pubblico, ricercatore universitario e vantare una
certa anzianità in detta posizione.
La competenza per territorio dei T A R (ossia la risposta alla domanda: a quale
T A R rivolgersi?) è disciplinata da due regole semplici. Quando l'autorità che
ha emesso l'atto impugnato ha sede all'interno di una regione (il Comune di
Brescia, la provincia di Catanzaro, la regione Molise), competente sarà il T A R
della regione interessata (negli esempi, il T A R Lombardia, il T A R Calabria, il
T A R Molise). Quando l'atto proviene dallo Stato o da un ente pubblico a
carattere ultraregionale (per esempio I' I N P S o il C N R ) competente sarà il T A R
della regione nella quale l'atto produce i suoi effetti: se questi effetti,
invece, hanno una portata ultraregionale (per esempio l'approvazione del
progetto di autostrada che attraverserà più territori regionali), competente
sarà il T A R Lazio. Una sottospecie del criterio dell'efficacia dell'atto vale per
le controversie in tema di pubblico impiego (quelle che rimangono di
competenza del giudice amministrativo). Il ricorso in questi casi andrà
proposto davanti al T A R della regione in cui il dipendente presta servizio.
Vi sono, infine, dei casi in cui il T A R territorialmente competente è
specificamente indicato da leggi di settore. Per esempio è il T A R Lazio che
41.
L'interesse ad agire
Chi ritiene di esser leso da un atto amministrativo in un suo interesse
legittimo - perché gli è stata negata un'autorizzazione, o è stata data ad
altri una concessione cui aspirava o si vede occupato in via d'urgenza un
suo terreno - non chiede al giudice amministrativo di tutelare il suo
interesse, di dichiarare che esso non può essere pregiudicato dalla pubblica
amministrazione, come invece farebbe il proprietario di un immobile nei cui
confronti altri (anche un ente pubblico) pretendesse di essere titolare di
una servitù. In quest'ultimo caso, che rientra nella giurisdizione ordinaria, il
giudice soddisferà l'attore semplicemente dichiarando che il bene è libero
dal peso che la parte convenuta vorrebbe imporgli.
43.
I motivi di ricorso
La richiesta di annullamento dell'atto impugnato deve essere sorretta da
motivi, ossia dall'indicazione dei vizi (incompetenza, eccesso di potere,
violazione di legge) nei quali l'amministrazione sarebbe incorsa. Il
ricorrente chiede l'annullamento a tutela del suo interesse (legittimo): può
ottenerlo, tuttavia, come si è detto, non perché l'atto leda il suo interesse,
ma perché è illegittimo.
I motivi di ricorso tracciano la pista lungo la quale il giudice amministrativo
deve muoversi.
II T A R non può ignorare un motivo ma deve esaminarli tutti. Potrebbe essere
infondato (giudicato infondato) il motivo relativo
all'incompetenza dell'organo, ma non quello con cui si lamenta un difetto di
istruttoria; inesistente una delle violazioni di legge
denunciate, ma non un'altra. Basta che sia fondato uno solo dei motivi
perché il ricorso venga accolto: anche se, come vedremo, le
conseguenze sono diverse a seconda dei motivi di ricorso che vengono
accolti.
Sulla base di questa considerazione il giudice amministrativo, una volta che
abbia giudicato meritevole di accoglimento un motivo di ricorso, e quindi
idoneo a giustificare l'annullamento dell'atto, spesso non procede all'esame
degli altri motivi e li dichiara «assorbiti». Assorbiti dall'accoglimento di uno
o più motivi diversi: sicché appare superfluo il loro esame una volta che
comunque l'atto impugnato viene annullato.
Per converso il giudice non può annullare l'atto per vizi che la parte non ha
denunciato. Anche se, poniamo, accerta un clamoroso vizio di incompetenza
- perché il sindaco, ad esempio, ha imposto un vincolo di interesse storico-
artistico a un immobile sostituendosi all'amministrazione dei beni culturali -
il T A R non può rilevarlo se la parte non ha denunciato l'incompetenza del
sindaco. Si tratta dell'applicazione del processo amministrativo di un
fondamentale principio del processo civile, il principio della
«corrisp ondenza tra il chiesto e il pronunciato». Il giudice deve pronunciare
su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa (art. 112 cod. proc. civ.).
Ciò conferma che il processo amministrativo non ha per scopo il controllo
sulla legittimità dell'azione amministrativa (come ha a lungo ritenuto la
dottrina francese). Se invece quello fosse lo scopo, il ricorso non dovrebbe
passare per la strettoia dell'interesse e della domanda. Chiunque potrebbe
impugnare qualunque atto denunciandone l'illegittimità; e il giudice non
sarebbe vincolato ai motivi di parte.
La parte, in certi casi, intenzionalmente omette di denunciare certi vizi
quando punta a una pronuncia più radicale.
Nell'esempio fatto, il ricorrente potrebbe avere omesso di dedurre il vizio di
incompetenza perché non vuole correre il rischio che, una volta annullato
l'atto per incompetenza, esso venga riproposto tale e quale dall'organo
competente (nel nostro esempio l'amministrazione regionale dei beni
culturali). Egli punta, pertanto, a contestare in modo più incisivo il
provvedimento dimostrando, per esempio, che l'immobile è stato realizzato
meno di cinquant'anni prima: sicché il decreto di vincolo viola la norma che
limita la possibilità di dichiarare l'interesse storico- artistico agli edifici più
vecchi di cinquantanni.
I controinteressati
L'atto impugnato, che lede il ricorrente, può essere vantaggioso per altri.
Se io impugno il permesso di costruire rilasciato al mio vicino o
l'aggiudicazione di un appalto a un'altra ditta, altri soggetti risulteranno
pregiudicati dalla mia iniziativa ed avranno quindi interesse ad opporvisi.
Rispetto all'atto impugnato vi è un interessato all'annullamento (o vi sono
più interessati all'annullamento); ma può esserci un controinteressato o
possono esserci più controinteressati, ossia portatori di un interesse
contrario. Se l'atto impugnato è la graduatoria di un concorso, che il
ricorrente assume esser viziata dall'irregolare composizione della
commissione esaminatrice, a fronte di un interessato all'annullamento (il
concorrente non incluso in graduatoria) sono controinteressati tutti coloro
che sono inclusi nella graduatoria. L'annullamento dell'atto travolgerebbe la
loro idoneità e quindi impedirebbe loro di essere nominati pubblici
impiegati.
Da questa ovvia esigenza di tutela nasce l'onere del ricorrente di notificare
il ricorso non solo all'organo che ha emanato l'atto ma anche ai
controinteressati all'annullamento di quest'ultimo. E ad almeno uno di essi
la notifica va fatta entro il termine per ricorrere, restando salva la
possibilità di estendere la notifica agli altri successivamente, nel corso del
giudizio. Si tratta di un principio che è oggi espressamente
costituzionalizzato. Secondo l'art. 111 Cost., come riformulato con legge
costituzionale 2/1999, ogni processo si svolge nel contraddittorio fra le
parti.
Come il ricorso tardivamente proposto è irricevibile, così il ricorso non
notificato a tutti i controinteressati è inammissibile. Nell'uno come nell'altro
caso il T A R non esaminerà il ricorso nel merito ma si arresterà alla
dichiarazione preliminare di irricevibilità o di inammissibilità. In altre
parole, perché il ricorso possa essere accolto, è necessario che abbia
superato con successo la soglia della ricevibilità (è stato proposto entro il
termine) e la soglia della inammissibilità (è stato notificato a tutti i
controinteressati).
Il controinteressato chiamato in giudizio potrà difendersi con memorie
(difendendo l'atto impugnato dal ricorrente e la sua legittimità). Ma potrà a
sua volta contrattaccare proponendo ricorso incidentale contro lo stesso
atto che forma oggetto del ricorso principale. La cosa può suonare strana.
Se io, come controinteressato, ho interesse a che l'atto impugnato dal
ricorrente rimanga in vita, come posso, nello stesso tempo, avere interesse
a farlo cadere a mezzo di un ricorso che io stesso vado a proporre (ricorso
incidentale)? La risposta alla domanda è la seguente. L'atto impugnato ha
spesso una struttura composta, ed è quindi scomponibile in più parti: contro
una di queste rivolge i suoi strali il ricorrente, contro un'altra, diversa, si
rivolge con ricorso incidentale il controinteressato.
Un esempio vale a chiarire questo concetto.
La ditta A , che ha partecipato ad una gara d'appalto ed ha presentato la
seconda offerta migliore, impugna l'aggiudicazione dell'appalto alla ditta B:
sostenendo, ad esempio, che questa doveva essere esclusa per non aver
documentato la capacità finanziaria come richiesto dalla legge e dal bando.
La ditta B , controinteressata, si difende sul punto, sostenendo di aver
documentato la capacità finanziaria. Ma contrattacca a sua volta
impugnando la determinazione del seggio di gara di ammettere a
partecipare la ditta A sebbene questa fosse da escludere, poniamo, per non
avere presentato la cauzione nella forma prescritta dal bando. A questo
punto la questione dedotta col ricorso incidentale, circa la legittimità o
meno dell'ammissione della ditta A, diventa pregiudiziale perché mette in
discussione lo stesso interesse a ricorrere di A. Se il ricorso incidentale, che
in ordine logico va esaminato per primo (almeno in questo caso), fosse
accolto, la ditta A verrebbe esclusa e verrebbe meno il suo interesse (e il
suo titolo) ad impugnare le operazioni di gara. Sicché l'aggiudicazione a
favore di B resterebbe salva, e il ricorso di A non verrebbe neppure
esaminato nel merito: proprio perché proposto da un soggetto che, dovendo
essere escluso dalla competizione, non ha interesse ad impugnare
l'aggiudicazione fatta ad altri.
L'istruttoria
Anche nel suo svolgimento il processo davanti al giudice amministrativo
(giurisdizione generale di legittimità) è piuttosto semplice.
Depositato l'originale del ricorso notificato con la copia dell'atto impugnato,
e gli altri atti rilevanti, il ricorrente chiederà la fissazione dell'udienza di
trattazione (di solito un'unica udienza). Il presidente del T A R provvederà
(spesso dopo anni, considerato il massiccio contenzioso) a fissare
un'udienza, e a farne dare comunicazione alle parti (ricorrenti,
amministrazione resistente, eventuali controinteressati).
La richiesta va fatta entro due anni dal deposito del ricorso; e nel caso che
sia disposta dal giudice un'istruttoria (v. più avanti), va rinnovata dopo
l'esecuzione di questa. In ciò il processo amministrativo si distingue dal
processo civile dove l'attore cita il convenuto ad udienza fissa, indicando
cioè l'udienza alla quale quest'ultimo deve comparire (se vuole).
Se la domanda di fissazione d'udienza non è presentata entro il biennio (dal
deposito del ricorso o dall'esecuzione dell'istruttoria) il processo finisce: in
termini tecnici, viene dichiarato «perento» (dal presidente del tribunale o
dal giudice da lui delegato).
Questo meccanismo conferma, se ce ne fosse bisogno, che il processo
amministrativo è un processo fondato sull'interesse della parte: e non uno
strumento di controllo dell'operato dell'amministrazione. Se scopo del
processo amministrativo fosse il controllo dell'amministrazione, esso
dovrebbe essere portato a compimento a prescindere dall'iniziativa della
parte.
Entro venti giorni prima dell'udienza stabilita dal giudice le parti possono
presentare documenti, ed entro dieci giorni memorie.
L'udienza è un'udienza di discussione. Gli avvocati delle parti possono
rinunciare (oggi è questo l'atteggiamento prevalente, in ragione del gran
numero di ricorsi assegnati a quella udienza) e chiedere che la causa «passi
in decisione».
Può accadere che per decidere il T A R debba acquisire mezzi istruttori. Se il
ricorrente denuncia un eccesso di potere per contraddittorietà con
precedenti determinazioni - per esempio perché per gli stessi fatti ha
inflitto in passato ad altro dipendente la sanzione lieve della censura
anziché, come oggi, quella grave della destituzione - il tribunale potrà
effettuare il confronto solo se dispone degli atti precedenti, invocati nel
ricorso. E se il ricorrente non li produce, perché ne ignora gli estremi
ovvero, avendoli richiesti, si è visto opporre un rifiuto, il T A R chiederà
all'amministrazione resistente di produrre quei documenti. Ovvero, in altri
casi, potrà chiedere all'amministrazione chiarimenti o, infine, potrà ordinare
verificazioni (una specie di consulenza tecnica). Se il ricorrente assume, per
esempio, che l'edificio da lui realizzato non supera l'altezza prevista in
progetto, e deposita una perizia sul punto, per contestare l'ordine di
demolizione fondato sul presupposto che la costruzione superi di un metro
l'altezza autorizzata, il T A R chiederà all'amministrazione di verificare, in
contraddittorio con la parte, l'altezza dell'edificio.
Richiesta di documenti, richiesta di chiarimenti e ordine di verificazione
esaurivano l'ambito dei mezzi di prova ammessi nel processo
amministrativo. La recente riforma del 2000 ha aggiunto la consulenza
tecnica.
Tali mezzi sono soltanto eventuali perché il più delle volte la causa può
essere decisa sulla scorta dei documenti depositati dalle parti. E perché
certi vizi del provvedimento sono suscettibili di essere accertati a
prescindere da qualsiasi istruttoria. Si pensi al vizio di incompetenza e a
quasi tutte le ipotesi di violazione di legge. Per verificare se l'organo è
incompetente basta mettere a confronto l'atto con la norma che attribuisce
la competenza. E lo stesso vale, di solito, per il vizio di violazione di legge.
L'inerzia amministrativa
Il privato può essere danneggiato dagli atti della pubblica amministrazione:
contro i quali la Costituzione ammette sempre la tutela giurisdizionale (art.
113 Cost.). Ma può essere leso anche da un'amministrazione che non
agisce: un'amministrazione che rimane inerte quando dovrebbe agire.
Chiedo un'autorizzazione o una concessione e il sindaco non mi dice né sì
né no; chiedo un contributo e non ottengo risposta alcuna.
In alcuni di questi casi la legge prevede il silenzio-assenso. Decorsi
sessanta giorni dalla richiesta di autorizzazione edilizia (che mi serve per
installare un ascensore o per collocare sul tetto dei serbatoi),
l'autorizzazione si intende rilasciata. Io posso avviare i lavori come se il
comune avesse accolto la mia domanda. In altri casi il meccanismo non può
funzionare. Non avrebbe senso dire che il contributo richiesto (e previsto)
per il restauro di un palazzo di pregio architettonico mi viene rilasciato
tacitamente, decorso un certo termine: quel che mi serve sono i soldi e per
ottenerli ho bisogno che l'amministrazione si attivi. In un terzo gruppo di
casi il silenzio-assenso è escluso da ragioni giuridiche. Come ha precisato la
Corte di giustizia delle comunità europee, ci sono certe attività (istruttorie
e di valutazione), soprattutto nella materia della tutela ambientale, che
l'amministrazione è tenuta a svolgere senza che esse possano essere
surrogate da una finzione (l'assenso tacito, appunto).
Al di fuori delle ipotesi in cui funziona il silenzio-assenso l'inerzia
dell'amministrazione produce un danno perché impedisce lo svolgimento
delle attività private che sono subordinate ad un atto di consenso dello
Stato o dell'ente pubblico. Sino a poco tempo addietro il privato, di fronte
all'amministrazione inerte, poteva avvalersi del congegno del silenzio-
rifiuto. Decorso un certo termine dalla presentazione della domanda
(almeno sessanta giorni), poteva intimare all'amministrazione di provvedere
con un atto
notificato a mezzo di ufficiale giudiziario con cui veniva assegnato un
ulteriore termine di trenta giorni. Decorsi infruttuosamente anche questi, si
formava, secondo la giurisprudenza, il silenzio-rifiuto impugnabile davanti
al giudice amministrativo. In altre parole l'interessato, con l'atto di diffida,
si costruiva da sé un atto tacito di rifiuto che poteva poi impugnare davanti
al giudice amministrativo come se si fosse trattato di un atto esplicito di
rifiuto. Poiché, per definizione, il silenzio-rifiuto non enuncia le ragioni del
rifiuto (mentre le enuncia, ed è tenuta a farlo, l'amministrazione quando
provvede in modo esplicito), poteva accadere che, a distanza di anni, il T A R
accogliesse il ricorso ribadendo l'obbligo dell'amministrazione di
provvedere; ma che questa, adempiendo a quell'obbligo, respingesse la
domanda (di autorizzazione, di concessione, di contributo) adducendo
ragioni che non aveva espresso a suo tempo proprio perché era rimasta
inerte. Sicché l'interessato era costretto a ricominciare da capo impugnando
questa volta non il silenzio-rifiuto, ma il rifiuto esplicito: e, nel frattempo,
erano trascorsi alcuni anni.
La riforma del 2000 ha in parte ovviato a questo inconveniente. Il ricorso
contro il silenzio dell'amministrazione deve essere deciso entro sessanta
giorni da quando viene proposto. Se il T A R l'accoglie (e non può non
accoglierlo salvo i casi in cui l'amministrazione non avesse l'obbligo di
provvedere o fosse destinataria di una richiesta rispetto a cui fosse del
tutto incompetente), ordina all'amministrazione di provvedere entro un
breve lasso di tempo (di norma non superiore a trenta giorni). Se anche
questo ulteriore termine decorre infruttuosamente, il giudice nomina un
commissario che è incaricato di provvedere in luogo dell'amministrazione.
L'ente pubblico inerte viene così ad essere sostituito dal giudice o meglio
dal commissario indicato dal giudice: non in prima battuta, ma dopo la
sentenza di accoglimento del ricorso contro il silenzio e comunque entro un
arco di tempo di pochi mesi dall'istanza originaria. Ovviamente resta ferma
la possibilità che a conclusione di questo iter elaborato il privato si veda
respingere (dal commissario) l'istanza. Ma non avrà perduto degli anni,
come in passato. In pochi mesi, anche se deluso, uscirà da uno stato di
incertezza.
Con la recente legge 15/2005 il meccanismo è stato ulteriormente
semplificato. Decorso il termine per la conclusione del procedimento,
stabilito dalla legge o in via generale dall'amministrazione (o, in assenza
dell'uno e dell'altro, di trenta giorni), senza che l'amministrazione abbia
provveduto, l'interessato potrà ricorrere immediatamente senza necessità di
diffidare l'amministrazione (così l'art. 2 co. 4 bis l. 241/90 come modificato
dalla l. 15/05). La posizione del privato è equiparata a quella del creditore
che può agire contro il debitore inadempiente senza necessità di costituirlo
in mora (art. 1219 cod. civ.).
Dopo la sentenza
Quando accoglie il ricorso il T A R riporta la situazione al momento che
immediatamente precede l'emissione dell'atto impugnato. La multa che il
ministro del Tesoro ha inflitto alla banca tesoriere del comune per non
avere versato certe somme nella tesoreria provinciale, in attuazione degli
obblighi che derivano dalla legislazione sulla tesoreria unica, viene
cancellata. Così come viene cancellato l'ordine di demolizione di manufatto
abusivo emesso dal sindaco, se giudicato illegittimo; o viene annullata la
graduatoria di un concorso se è accolta la censura di irregolare
composizione della commissione giudicatrice.
A seconda delle ragioni dell'annullamento (ossia dei motivi di ricorso
ritenuti fondati) si può stabilire se la partita amministrativa viene
definitivamente chiusa ovvero se è destinata a riaprirsi. Ritorniamo agli
esempi fatti. Se l'ordine di demolizione viene annullato perché la
costruzione, secondo il T A R , non è abusiva ma è autorizzata da una
concessione edilizia, il sindaco non avrà più nulla da decidere sul caso.
Se invece l'ordine è annullato perché non è stato acquisito il parere della
commissione edilizia, ossia per un vizio del procedimento, nulla esclude che
il procedimento sia rinnovato, che la commissione edilizia sia chiamata ad
esprimere il suo avviso e che la demolizione, sulla base di tale avviso, sia
nuovamente ordinata. Se viene annullata la graduatoria di un concorso
perché della commissione faceva parte un componente che non poteva
farne parte (ad esempio perché cugino in primo grado di uno dei candidati),
l'amministrazione dovrà formare una nuova commissione (magari
sostituendo il solo membro incompatibile e confermando gli altri). La nuova
commissione procederà alla ripetizione delle prove: e a queste avranno
diritto di partecipare tutti coloro che avevano fatto originariamente
domanda.
Nell'ultimo degli esempi fatti si dà per scontata una regola. Se l'atto
annullato fa parte di un procedimento amministrativo, l'attività svolta non
viene travolta del tutto: viene travolta quella parte di attività che è stata
posta in essere a partire dall'atto annullato. Sicché, nell'esempio,
rimarranno salvi il bando di concorso e la delibera di ammissione dei
candidati, ossia gli atti che precedono la nomina della commissione (che
avviene dopo che sono scaduti i termini per la presentazione delle
domande): mentre sono invalidate non solo la nomina della commissione,
ma anche le operazioni che ad essa sono seguite (prova scritta, prova orale,
graduatoria di merito).
Un'altra distinzione va tenuta presente: fra atti che comportano un
sacrificio per il ricorrente (un'espropriazione, un'occupazione d'urgenza,
una sanzione amministrativa, un ordine di rimessione in pristino) e atti che
negano un beneficio (un rifiuto di autorizzazione, di concessione, di
contributo, ecc.).
Nel primo caso la partita normalmente si chiude, a meno che il ricorso sia
stato accolto solo per un motivo formale. Se la sanzione pecuniaria viene
annullata perché il T A R esclude l'esistenza dell'illecito, nessun nuovo
procedimento sarà avviato. Se l'ordine di
sgombero di suolo demaniale impartito dalla Capitaneria di porto viene
annullato per un motivo formale, perché non è stato preceduto dalla c.d.
delimitazione del demanio marittimo, ossia dall'accertamento che il terreno
fosse effettivamente di proprietà demaniale, e non privato, come invece
sostiene il ricorrente, la Capitaneria di porto potrà acquietarsi: ma se è
convinta delle sue ragioni procederà a quell'accertamento secondo le
modalità previste dal codice della navigazione e, ove la tesi della
demanialità sia confermata, rinnoverà l'ordine di sgombero.
Nel secondo caso - quando l'atto annullato consiste nel rifiuto di un
provvedimento favorevole - la vicenda amministrativa si riapre
necessariamente. La sentenza del T A R che annulla un diniego di
autorizzazione non sostituisce l'autorizzazione negata, non equivale a tale
autorizzazione. Obbliga, invece, l'amministrazione a rivalutare la richiesta
del privato alla luce dei principi stabiliti in sentenza. Se, per esempio, a
Tizio è stato negato il porto d'armi a causa di un remoto precedente penale,
seguito da una sentenza di riabilitazione, non presa in considerazione dal
provvedimento di diniego, il questore sarà tenuto a riesaminare l'istanza
senza tener in alcun conto quella condanna. Teoricamente il porto d'armi
potrà essere nuovamente rifiutato, ma per una ragione diversa da quella
che il giudice amministrativo ha dichiarato inammissibile.
Possiamo dire che annullato un provvedimento sfavorevole, senza alcun
seguito di attività amministrativa, il ricorrente sarà pienamente soddisfatto:
perché si vedrà reintegrato nella sua condizione di proprietario (se è
annullato un decreto di espropriazione) o di possessore (se è annullato un
decreto di occupazione) o di libero professionista abilitato (se è annullata la
delibera che per ragioni disciplinari lo aveva cancellato dall'albo).
L'annullamento del rifiuto di un provvedimento favorevole non produce
questo effetto di piena soddisfazione. Pone semmai le premesse per una
soddisfazione futura che dipenderà pur sempre dall'autorità amministrativa:
ossia dall'esito della procedura amministrativa che viene rinnovata a
seguito della sentenza. Se, a seguito di tale rinnovo, il porto d'armi mi verrà
rilasciato la sentenza avrà svolto un ruolo decisivo. Ma sarà pur sempre il
questore a rilasciarmi il porto d'armi.
La giurisdizione esclusiva
Si è parlato finora della cosiddetta giurisdizione generale di legittimità: di
un processo in cui la parte impugna un atto (o il silenzio)
dell'amministrazione a tutela di un suo interesse legittimo. Ma si è pure
detto che dal 1923 è attribuita al giudice amministrativo una giurisdizione
esclusiva nella quale egli «conosce anche di tutte le questioni relative ai
diritti» (artt. 29 e 30 r.d. 1054/1924; art. 7 l. 1034/1971). Sul presupposto
che in certe materie la distinzione fra diritti soggettivi e interessi legittimi
sia particolarmente oscura ovvero che nella stessa persona si cumulino
diritti soggettivi e interessi legittimi, la legge ha originariamente (1923)
attribuito l'intera materia al giudice amministrativo: a prescindere dal fatto
che di volta in volta si faccia valere un diritto soggettivo o un interesse
legittimo. In realtà, come il Consiglio di Stato ebbe presto a constatare, la
rilevanza della distinzione tra diritto e interesse non può essere cancellata
mediante la semplice devoluzione di tutte le controversie ad un unico
giudice.
Un esempio. Il ricorso davanti al giudice amministrativo va proposto entro
un termine breve di decadenza (60 giorni). La regola vale anche quando il
ricorrente fa valere un diritto? Anche quando l'impiegato pubblico (l'impiego
pubblico è stato per decenni la principale delle materie attribuite alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo) contesta il foglio paga da
cui risulta il mancato pagamento di un'indennità che egli ritiene spettargli?
Ma se così fosse, con la devoluzione al giudice amministrativo il diritto
soggettivo (tale è quello che il pubblico impiegato fa valere, nell'esempio
fatto) subirebbe una menomazione: perché la relativa azione anziché
prescriversi in un anno (art. 2955 n. 2 cod. civ.) sarebbe soggetta a un
termine di decadenza di due mesi. Altro aspetto. Prima dell'istituzione dei
TAR il ricorrente aveva l'onere di depositare copia del provvedimento
impugnato (o l'attestazione del rifiuto di rilasciarlo). Tale onere vige anche
quando il ricorrente fa valere una pretesa patrimoniale che
l'amministrazione nega con un comportamento di fatto?
Da qui la distinzione, nell'ambito della giurisdizione esclusiva, tra atti
autoritativi e atti paritetici. I secondi sono complementari a diritti
soggettivi: è paritetico, ad esempio, il diniego di corrispondere gli interessi
sulle somme arretrate.
Quando l'atto è paritetico non valgono alcune delle regole proprie del
processo amministrativo: l'onere di deposito dell'atto impugnato, il termine
di decadenza, le limitazioni istruttorie, le limitazioni al potere di decisione.
Come è stato di recente specificato, nelle controversie devolute alla sua
giurisdizione esclusiva il giudice amministrativo può disporre tutti i mezzi di
prova previsti dal codice di procedura civile (testimonianza, ispezioni,
consulenza tecnica), esclusi l'interrogatorio formale e il giuramento (art. 7
lett. c l.
205/2000).
Quanto alle sentenze ammesse, esse non sono limitate alle sentenze di
annullamento: il T A R , nelle materie relative a diritti attribuiti alla sua
giurisdizione esclusiva, può condannare l'amministrazione al pagamento
delle somme di cui risulti debitrice (art. 26 l. T A R ).
In altre parole, nell'ambito della giurisdizione esclusiva la distinzione fra
diritti soggettivi e interessi legittimi riemerge quando vengono in
considerazione le regole processuali. Quando si tratta di atti paritetici (e
quindi di diritti soggettivi) il processo amministrativo si atteggia
tendenzialmente come un processo civile: termine di prescrizione anziché
termine di decadenza, mezzi istruttori modellati sul processo civile,
sentenze di condanna (e di mero accertamento) a fianco delle sentenze
costitutive (annullamento dell'atto impugnato).
L'appello
Il processo amministrativo è retto dal principio del doppio grado di
giurisdizione. Come il processo civile e il processo penale conosce una fase
o un grado di appello. Anzi, come ha rilevato la Corte costituzionale, è il
solo processo nel quale il doppio grado di giurisdizione sia espressamente
costituzionalizzato. L'art. 125 Cost. prevede, infatti l'istituzione, in ciascuna
regione, di «organi di giustizia amministrativa di primo grado» (art. 103
Cost.); rispetto ad essi il Consiglio di Stato funge da giudice d'appello.
La sentenza del T A R può, quindi, essere impugnata davanti al Consiglio di
Stato. Può appellare solo la parte soccombente; il ricorrente quando il
ricorso sia stato respinto o dichiarato irricevibile o inammissibile;
l'amministrazione resistente quando il ricorso venga accolto; o il
controinteressato nel medesimo caso perché è danneggiato
dall'annullamento di un atto che gli arrecav a benefici.
Il giudice d'appello ha gli stessi poteri «di cognizione e di decisione del
giudice di primo grado» (art. 28 ult. co. l. T A R ).
L'appellante non potrà limitarsi a riproporre i motivi del ricorso di primo
grado, non accolti dal T A R , ma dovrà attaccare la sentenza nelle parti in cui i
motivi sono respinti.
Così se il ricorso è stato dichiarato tardivo, il ricorrente, oggi appellante,
dovrà dimostrare che il ricorso di primo grado era tempestivo, dovrà cioè
addurre argomenti contro il ragionamento del primo giudice. Sarà tenuto,
per esempio, a dimostrare che la piena conoscenza dell'atto impugnato, che
il T A R fa risalire ad una certa data per dedurne la tardività del ricorso, in
realtà è stata acquisita in epoca successiva; e comunque avrà l'onere di
attaccare la sentenza nella parte in cui considera provata una piena
conoscenza che in realtà provata non è. Se il ricorso è stato dichiarato
inammissibile per disintegrità del contraddittorio (per esempio per omessa
notifica ad un controinteressato) l'appellante si difenderà dicendo che la
notifica in realtà è stata fatta (per esempio a mani del portiere); ovvero che
quel soggetto non è controinteressato, ossia non rientra fra quelli cui il
ricorso andava notificato, nonostante la diversa opinione del T A R .
Se il giudice d'appello condivide i motivi diretti contro la sentenza del T A R
che ha dichiarato irricevibile o inammissibile o improcedibile il ricorso, non
è detto che per ciò stesso accolga il ricorso. Ben potrebbe il Consiglio di
Stato, pur dopo avere superato le barriere erette dal T A R (che reputando
tardivo o inammissibile il ricorso, non è entrato nel merito), entrare nel
merito del ricorso di primo grado, e respingerlo.
In questo caso l'appellante non avrà ottenuto nemmeno la vittoria di Pirro.
Perché il giudice d'appello, pur escludendo che il ricorso fosse irricevibile o
inammissibile o improcedibile, dirà che il ricorrente aveva comunque torto e
che il ricorso era comunque infondato.
Quando l'appellante è colui che ha proposto ricorso in primo grado, ed è
rimasto soccombente, oggetto, almeno mediato dell'impugnazione, è pur
sempre l'atto amministrativo impugnato davanti al T A R . Il discorso è diverso
quando il ricorso viene accolto dal T A R e ad appellare è la pubblica
amministrazione o il controinteressato. In questo caso l'impugnazione è
diretta solo contro la sentenza: ossia contro la pronuncia che ha tolto di
mezzo l'atto amministrativo che la pubblica amministrazione aveva emesso
e il controinteressato aveva interesse a difendere.
Dal punto di vista procedurale il giudizio d'appello è sottoposto a regole
identiche o comunque molto simili a quelle che reggono il giudizio di primo
grado. Notifica dell'appello (entro sessanta giorni dalla notifica della
sentenza impugnata o, se la notifica manca, entro un anno dal deposito
della sentenza), deposito, costituzione in giudizio delle altre parti, istanza
di fissazione d'udienza, termine per documenti e memorie, udienza di
discussione.
La parte appellata può difendersi, ma può anche proporre contro la
sentenza appello incidentale. Ciò è possibile quando la vittoria di una parte
non è completa. Facciamo l'esempio del ricorrente che abbia proposto
cinque motivi di ricorso e se ne veda accogliere uno e respingere quattro.
L'accoglimento di un solo motivo determina l'annullamento dell'atto e
quindi la vittoria del ricorrente. Se l'amministrazione propone appello
contro la sentenza (ovviamente nella parte o nel «capo» in cui è stato
accolto quell'unico motivo), il ricorrente appellato avrà interesse a
impugnare la sentenza nella parte in cui respinge gli altri quattro motivi.
Il Consiglio di Stato sarà tenuto a riesaminare tutti e cinque i motivi del
ricorso originario: uno in conseguenza dell'appello principale, gli altri
quattro in conseguenza dell'appello incidentale. Può così avvenire che il
giudice d'appello ritenga infondato il motivo accolto dal T A R ; e fondato,
invece, uno dei motivi che il T A R ha respinto. L'economia complessiva del
giudizio rimane inalterata: sull'esempio fatto il ricorrente davanti al T A R
vince comunque, sia pure per una ragione diversa da quella su cui il T A R si è
fondato.
Altro esempio. L'amministrazione, in primo grado, si difende eccependo la
tardività del ricorso, e l'infondatezza nel merito dei due motivi di ricorso. Il
T A R respinge l'eccezione, ma respinge poi il ricorso nel merito. Resistendo
all'appello proposto dal ricorrente, l'amministrazione appellata propone a
sua volta appello incidentale con cui denuncia la tardività del ricorso di
primo grado.
L'appello incidentale, investendo in questo caso una questione
pregiudiziale, va esaminato per primo. Se il Consiglio di Stato dovesse
accoglierlo, verrebbe meno nel privato l'interesse all'esame dell'appello
principale: non può essere esaminato nel merito un ricorso che è
irricevibile. In questo modo l'amministrazione salva l'atto impugnato
dall'annullamento giurisdizionale per una ragione diversa da quella addotta
dal giudice di primo grado.
Se il Consiglio di Stato accerta che il giudice amministrativo difetta di
giurisdizione o che il T A R non era competente (perché, ad esempio, la
competenza era quella funzionale del T A R Lazio) o che il ricorso era nullo o il
giudizio di primo grado doveva essere dichiarato estinto, annulla puramente
e semplicemente la sentenza con cui il T A R aveva accolto il ricorso.
Se invece rileva che la sentenza di primo grado è viziata nella procedura o
nella forma (per esempio non è stato notificato il ricorso ad un
controinteressato), annulla la sentenza e rinvia la causa al primo giudice
perché rinnovi il processo una volta eliminato quel vizio.
Lo stesso avviene quando il T A R si sia dichiarato incompetente e il Consiglio
di Stato ritiene che esso fosse, invece, competente. In caso di rinvio il
giudizio prosegue davanti al T A R che si pronuncerà entro trenta giorni dalla
comunicazione della sentenza del Consiglio di Stato.
In tutti gli altri casi il Consiglio di Stato decide sulla controversia: e quindi
anche nei casi in cui il T A R abbia dichiarato il ricorso irricevibile o
inammissibile o improcedibile. Le parti verranno private così di un grado di
giurisdizione (tale non può considerarsi la fase davanti al T A R conclusa,
erroneamente, con un nulla di fatto). Tra l'esigenza di assicurare alle parti
un doppio grado di giurisdizione (di merito) e un'esigenza di economia
processuale la legge privilegia la seconda.
Il quadro costituzionale
La soluzione data dalla legge del 2000 non è priva di incognite.
Le sezioni unite della Cassazione, nella sentenza più volte citata, hanno
affermato che al risarcimento del danno la parte ha un diritto soggettivo
anche se esso (danno) è stato inferto ad una situazione giuridica che di
diritto non è. In applicazione di tale criterio, che si fonda sull'assunto per
cui ogni qual volta c'è un'azione davanti a un giudice civile c'è un diritto da
tutelare, la lesione dell'interesse legittimo che cagioni un danno ingiusto
genera il diritto soggettivo al risarcimento del danno. Se le cose stanno in
questo modo la conseguenza è evidente.
Attribuendo al giudice amministrativo, nell'ambito della sua giurisdizione, la
cognizione di tutte le questioni relative all'eventuale risarcimento del
danno, la l. 205 finisce per istituire una ulteriore giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo: una giurisdizione esclusiva che, a differenza delle
altre (servizi pubblici, urbanistica, edilizia, ecc.), si caratterizza non per la
materia ma per il tipo di azione (risarcitoria).
Un ennesimo caso in cui il giudice amministrativo è chiamato a tutelare
diritti, e non solo interessi. La Costituzione, come abbiamo visto, individua
nel giudice ordinario il giudice dei diritti: e solo eccezionalmente («in
particolari materie indicate dalla legge», art. 103 Cost.) consente che il
giudice amministrativo, giudice istituzionale ed esclusivo degli interessi
legittimi, abbia giurisdizione anche per la tutela dei diritti soggettivi.
Ora, si può considerare il risarcimento del danno, e più genericamente
l'illecito civile, una «particolare materia»? Non si tratta, piuttosto, di una
giurisdizione generale sui diritti, parallela alla giurisdizione degli interessi
legittimi, se è vero che per ogni interesse legittimo leso vi è,
potenzialmente («eventualmente» dice la l. 205), un diritto di risarcimento
del danno?
Questa è la prima ragione di perplessità. Ma ve n'è un'altra. Se la
responsabilità civile della pubblica amministrazione è tendenzialmente
sottoposta alle stesse regole che governano la responsabilità di tutti i
soggetti dell'ordinamento, come si giustifica la previsione di un giudice
diverso dal giudice (il giudice ordinario) che è chiamato ad accertare la
responsabilità dei privati?
E ancora. La sentenza di merito del giudice d'appello che sia intervenuta in
tema di responsabilità civile dei privati è sottoposta al sindacato della Corte
di Cassazione (art. 360 cod. proc. civ.). Le sentenze del Consiglio di Stato,
giudice d'appello rispetto ai Tribunali amministrativi regionali, chiudono il
processo. Non sono impugnabili in Cassazione se non per motivi inerenti
alla giurisdizione (art. 360 cod. proc. civ.; art. 111 ult. co. Cost.): ossia
quando la parte neghi che il giudice amministrativo abbia giurisdizione o,
all'opposto, assuma che egli abbia giurisdizione sebbene il Consiglio di
Stato lo abbia negato. Si formeranno così due giurisprudenze in tema di
responsabilità: una del giudice amministrativo e una del giudice ordinario.
In altre parole. Il vantaggio ottenuto con l'unificazione presso un unico
giudice dell'azione di annullamento e dell'azione di risarcimento viene
pagato con un'evidente forzatura degli artt. 103 e 28 Cost.
Il ricorso gerarchico
Alla tutela offerta dal giudice (prima ordinario, poi anche amministrativo) si
è sempre accomp agnata la tutela offerta dalla stessa amministrazione.
L'apparente paradosso - di una protezione assicurata dallo stesso soggetto
contro il quale si agisce - si spiega in questo modo. L'autorità alla quale ci
si rivolge non è la stessa autorità che ha emesso l'atto che si intende
attaccare, ma è l'autorità gerarchicamente superiore. Lo si legge nell'art. 3
ult. co. della legge abolitiva del contenzioso (1865) che prevede «il ricorso
in via gerarchica in conformità delle leggi amministrative»; ma anche nella
coeva legge sul Consiglio di Stato (all. D ), che richiede il parere obbligatorio
del Consiglio di Stato sui ricorsi fatti al re contro la legittimità dei
provvedimenti amministrativi, sui quali siano esaurite o non possano
proporsi domande di riparazione in via gerarchica (così la formula contenuta
nel r.d. 1054/1924, art. 16).
Il ricorso gerarchico, che va proposto entro trenta giorni dalla notifica o
dalla conoscenza del provvedimento da impugnare, non solo ha portata
generale, ma costituisce una condizione per proporre ricorso al re (ricorso
straordinario) e, poi, ricorso giurisdizionale al Consiglio di Stato: anch'esso
non ammesso «se non contro il provvedimento definitivo, emanato in sede
amministrativa, sul ricorso presentato in via gerarchica» (art. 34 r.d.
1054/1924).
Il ricorso gerarchico presuppone un'amministrazione strutturata in modo
gerarchico (il questore subordinato al prefetto, il prefetto subordinato al
ministro; il preside sottoposto al provveditore agli studi, il provveditore al
ministro della Pubblica istruzione, ecc.); e si fonda su una presunzione di
maggiore competenza e saggezza del superiore gerarchico. Che poi il
ricorso giurisdizionale (e il ricorso straordinario al re) siano ammessi solo
contro i provvedimenti definitivi, ossia «quando siano esaurite o non
possano proporsi domande di riparazione in via gerarchica», lo si spiega
facilmente. Si vuole impedire che il cittadino si rivolga al giudice
amministrativo (o proponga ricorso straordinario) prima che
l'amministrazione sia stata messa in condizione di risolvere al suo interno il
conflitto: un'applicazione del principio di senso comune secondo cui i panni
sporchi si lavano in famiglia.
In concreto la probabilità che il ricorso gerarchico venga accolto è molto
bassa: perché il superiore gerarchico si atteggia il più delle volte non come
correttore delle illegittimità e delle ingiustizie commesse dall'inferiore, ma
come soggetto con lui solidale e garante della sua azione.
La conseguenza è ovvia. I tempi necessari per la proposizione e la decisione
del ricorso gerarchico valgono nella generalità dei casi a ritardare l'avvio
del ricorso giurisdizionale, non ad impedirlo. Da qui la decisione, presa con
la legge istitutiva dei T A R , di abolire la definitività come presupposto del
ricorso al nuovo giudice territoriale. Anche l'atto non definitivo, ossia l'atto
che è suscettibile di ricorso in via gerarchica, può essere immediatamente
impugnato davanti al T A R .
Con la soppressione del requisito della definitività che faceva del ricorso
gerarchico una strada obbligata per l'accesso al giudice amministrativo,
84.
Il ricorso straordinario
L'altro rimedio amministrativo a carattere generale è il ricorso
straordinario. Non essendoci più un re è oggi qualificato come ricorso
straordinario al presidente della Repubblica.
In realtà la decisione spetta al Consiglio di Stato in sede consultiva (una
sezione o la commissione speciale) anche se la legge parla di «parere».
Formalmente, la decisione è del presidente della Repubblica su proposta del
ministro competente per materia; nella sostanza sia la decisione che la
proposta si limitano a far proprio il parere del Consiglio per superare il
quale occorre una delibera del Consiglio dei ministri (evenienza a quanto
pare mai verificatasi nella storia più che secolare dell'istituto).
Nei vecchi manuali di giustizia amministrativa si spiegava che il ricorso
straordinario è un'espressione della giustizia ritenuta che si contrappone
alla giustizia delegata (agli organi giurisdizionali). L'idea sottostante è che
il monarca sia l'organo della giustizia, e che egli, pur dopo avere delegato
l'amministrazione di quest'ultima agli apparati giudiziari, ne abbia
trattenuto una porzione: un potere di giustizia che è complementare al
potere di grazia. Si tratta di una convinzione che, pur superata da secoli dal
pensiero e dall'esperienza del costituzionalismo, corrisponde a un modo di
sentire diffuso. Quanti sono quelli che si rivolgono al presidente Ciampi per
ottenere quello che l'amministrazione o la giustizia hanno loro negato!
Il ricorso straordinario è stato mantenuto (e disciplinato ex novo) col citato
d.p.r. 1199/1971.
Continua ad essere usato sia perché più economico del ricorso
giurisdizionale (può essere presentato dall'interessato senza necessità
dell'assistenza di un legale) sia perché il termine per ricorrere è di
centoventi giorni dalla data della notificazione o della comunicazione o
della piena conoscenza dell'atto da impugnare. Il ricorso straordinario è
l'ultima spiaggia per chi abbia lasciato trascorrere il termine (di sessanta
giorni) per rivolgersi al T A R .
A differenza del ricorso gerarchico, che può essere seguito dal ricorso
giurisdizionale al T A R quando l'autorità amministrativa lo respinge o rimane
inerte, il ricorso straordinario è alternativo al ricorso al T A R . Scelta una via
non se ne può scegliere un'altra: chi ricorre al T A R non può proporre ricorso
straordinario, chi propone ricorso straordinario non può rivolgersi al T A R .
Questa preclusione viene giustificata col fatto che a rendere il parere sul
ricorso straordinario (e nella sostanza a deciderlo) è il Consiglio di Stato in
sede consultiva; ossia lo stesso organo che (in sede giurisdizionale)
potrebbe essere chiamato a giudicare, come giudice d'appello, sul ricorso
presentato al T A R e da quest'ultimo deciso. Con possibilità di due pronunce
contraddittorie sullo stesso tema.
La scelta è obbligata per chi ricorre. Non per chi resiste al ricorso - come
amministrazione o come controinteressato.
Costoro non sono tenuti a subire la scelta per la via amministrativa
compiuta dal ricorrente. Possono chiedere, entro sessanta giorni dalla
notifica del ricorso straordinario, che questo «sia deciso in sede
giurisdizionale». Quando vien fatta questa richiesta, il ricorrente è tenuto a
costituirsi, entro i successivi sessanta giorni, davanti al T A R competente. È la
c.d. trasposizione del ricorso straordinario in sede giurisdizionale. Essa
costituisce, in termini generici, una manifestazione della preferenza del
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