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Gian Carlo Garfagnini

La trascendenza nella filosofia cristiana: da Agostino al


Rinascimento

This paper does identify, in a synoptic view, the course of the theological and philosophical
arguments, from the late Antiquity to the end of the Fifteenth Century, on the subject-matter
of the Transcendence of Being and of its relation to the singularity of Existence. The emphasis
in rational reflection is the ground work of the different schools of thought, from Pseudo-
Dyonisius to Charles de Bovelles. We substantially face two schools of thought: the first cur-
rent thinks that Being i.e., the divine principle, is ineffable and that the philosophical reason
is not influential. The second current, according to Thomas Aquinas and other philosophical
masters of the Thirteenth Century, identifies reason as the necessary and obligatory starting-
point in the historical situation for the fundamental data of Being. Anyway, the absolute
knowledge of Being lies outside the intrinsic limits of human possibilities. Our synoptic view
of the historical situation from the end of the Twelfth Century shows the creation of a theologi-
cal “science”. In the first place metaphysics subsumes theology into itself, but subsequently,
with the coming of the modern secular world, there is a differentiation between theology and
philosophy and the crisis of scholastic thought.

Al fine di cogliere con precisione il senso di questo intervento, sarà opportuno


richiamare il significato storico dei due termini di base, posti in relazione tra loro sin
dal titolo: trascendenza e filosofia cristiana sono infatti due termini complessi, e con
un ricco patrimonio esegetico alle spalle.
Sin dal tempo di Platone, e con maggior ampiezza con Plotino, Proclo e la patristica,
nel linguaggio filosofico greco e medievale si intende con trascendenza sia ciò che sta al
di là dell’Essere sia la modalità con cui ciò che sta al di qua dell’Essere e ciò che sta al di
là si confrontano e si pongono in uno stato di tensione dialettica tale da salvaguardarne,
insieme, la coesistenza e l’alterità. La riflessione sulla trascendenza, così intesa, è parte
costitutiva di ogni riflessione filosofica che voglia andare oltre la mera descrizione della
realtà esistente per cogliere i princìpi primi di quella stessa realtà e, quindi, comprender-
la nella sua più intima essenza. Per Platone il Bene, identificato come il principio primo,
si pone «al di là della sostanza»1, mentre per Plotino l’Uno non solo si colloca oltre
l’essenza, ma anche «al di là e prima dell’essere» e «della mente»2 ; il pensiero cristiano

1
Cfr. PLATONE, Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Rusconi, Milano 19944, p. 1235 (Repub-
blica, VI, 509 b): «“Il sole non soltanto dirai –io credo– che fornisce ai visibili la capacità di
essere veduti, ma anche la generazione e la crescita e il nutrimento, pur non essendo esso gene-
razione”. “E come lo sarebbe?”. “E così anche ai conoscibili dirai che proviene dal Bene non
solo l’esser conosciuti, ma anche l’essere e l’essenza provengono loro da questo, pur non essen-
do il Bene essere, ma ancora al di sopra dell’essere, superiore ad esso in dignità e potere”».
2
Cfr. PLOTINO, Enneadi, a cura di G. Faggin, Rusconi, Milano 1992, p. 1331 (VI, 8, 19): «Ma
forse vanno interpretate in questo senso anche le parole “al di là dell’essenza”, che gli antichi

34 Religioni e Società, 49, 2004, pp. 34-41, ISSN 0394-9397


© 2004, Firenze University Press
del tardo antico e dell’alto Medioevo, nella sua opera di recupero e riutilizzazione della
speculazione filosofica greca nei suoi aspetti più assimilabili ai dati della Rivelazione,
mostra di accogliere questo concetto che esalta l’assoluta, essenziale unità/separazione
di Dio dal creato, e lo esprime definendo Dio come ciò che è al di sopra dell’essere,
“super-essente”. Attraverso testi come il De divinis nominibus dello pseudo Dionigi
Areopagita e il De divisione naturae di Giovanni Scoto Eriugena3, assai meno autorevo-
le quanto all’autore ma altrettanto influente in maniera più o meno esplicita, questo
concetto di Dio come principio primo che si pone non solo oltre gli esseri ma al di là
dello stesso essere, giungendo quasi a definirlo come un “nihil superessentiale”, costitui-
rà una caratteristica delle correnti mistiche del Medio Evo e una determinazione costan-
te della cosiddetta “teologia negativa”. Si deve comunque notare che si tratta di una
posizione che il pensiero scolastico, nelle sue formulazioni “classiche”, non accoglierà,
per privilegiare invece una forma di teologia razionale fondata sul concetto di analogia.
Per quanto riguarda la “filosofia cristiana”, v’è da tener presente che questa defini-
zione è stata, e per certi aspetti lo è ancor oggi, oggetto di dibattiti anche aspri tra gli
storici della filosofia e gli stessi filosofi almeno a partire dal secondo Ottocento, e si è
legata alla determinazione degli eventuali caratteri specifici della “filosofia medievale”,
all’interno della storia della filosofia generale e in considerazione della peculiarità del
periodo. La definizione di “filosofia cristiana” è stata resa celebre da uno studioso del
pensiero medievale della statura di Etienne Gilson e successivamente rinominata, mo-
dificata e respinta da Paul Vignaux, Alain de Libera, John Marenbom e Lambert M. De
Rijk, per limitarci all’ambito europeo4. Il panorama più sintetico ed efficace si trova

adoperarono allusivamente, non soltanto perché l’Uno genera l’essenza, ma anche perché non è
schiavo né dell’essenza né di se stesso, né l’essenza è principio per Lui, ma Egli è principio
dell’essenza, che egli non creò per sé ma, dopo averla creata, lasciò fuori di sé, poiché non ne ha
affatto bisogno Colui che l’ha creata. Dunque, neppure in quanto “è”, Egli crea questo “è”»; p.
873 (V, 5, 6): «l’Uno, invece, non si può coglierlo come “questa cosa qui”, poiché allora non
sarebbe principio, ma sarebbe soltanto ciò di cui dici “questa cosa qui”. Ma se tutto ciò che è
determinato appartiene al diveniente, quale determinazione sceglierai per assegnarla a Lui? E
poiché non è alcuna di esse, potrai dire soltanto che Egli è al di là di esse. Queste sono gli esseri
e l’Essere: perciò egli è al di là dell’Essere. L’“al di là dell’Essere” non enuncia un “questo” –non
pone nulla, infatti, di determinato– e non dice nemmeno un suo nome, ma esprime soltanto il
“non-questo”»; p. 525 (III, 8, 10): «L’Uno è la potenza di tutte le cose; se esso non fosse, nulla
esisterebbe, né l’Intelligenza, né la Vita prima, né la Vita universale. […] questo principio non è
alcuna di quelle cose di cui è principio, poiché nulla si può predicare di esso, né l’ente, né la
sostanza, né la vita: egli è sopra tutte queste cose».
3
Cfr. DIONIGI AREOPAGITA, De divinis nominibus, V, in ID., Tutte le opere, a cura di P.
Scazzoso, Rusconi, Milano 1981, pp. 334-345 (Dell’Essere e degli esemplari); IOHANNIS SCOTTI
ERIUGENAE Periphyseon (De divisione naturae), I, a cura di I.P. Sheldon-Williams, The Dublin
Institute for Advanced Studies, Dublin 1968, pp. 78-85.
4
Per una ricostruzione della genesi di questa definizione, cfr. P. VIGNAUX, La filosofia nel
Medioevo, Laterza, Roma-Bari 1990, pp. V-LV; R. IMBACH, A. MAIERÙ (a cura di), Gli studi di
filosofia medievale fra Otto e Novecento. Contributo a un bilancio storiografico, Atti del Con-
vegno internazionale (Roma, 21-23 settembre 1989), Edizioni di Storia e Letteratura, Roma
1991. Per una sintesi della discussione, estesa alla “filosofia medievale”, cfr. L.M. DE REIJK, Le
Moyen Age: période tipiquement médiévale?, in ID., La philosophie au Moyen Age, Brill, Leiden
1985, pp. 1-24 (ora in traduzione italiana in G. BRIGUGLIA (a cura di), Medioevo in discussione.
Temi, problemi, interpretazioni del pensiero medievale, Unicopli, Milano 2001, pp. 99-134).

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forse nell’intervento di De Rijk, il quale, dopo aver passato in rassegna le diverse tipologie
(e ideologie) connesse alle definizioni proposte e dopo aver notato come in effetti nes-
suna di esse riesca a dar conto in maniera soddisfacente della varietà e ricchezza del
pensiero dell’età medievale, propone come soluzione che l’aggettivo “medievale” val-
ga a supportare un significato puramente strumentale nel lavoro storiografico, senza
alcuna pretesa concettuale in sé. Fatte le debite distinzioni, sembra che lo stesso discor-
so possa farsi per la “filosofia cristiana”: non esiste, a mio parere, una filosofia che, in
quanto filosofia, possa dirsi cristiana, mentre naturalmente esiste la filosofia di pensatori
che si dichiarano e sono cristiani. Ed è questo ciò che importa, dal momento che il
cristiano è appunto colui che, accanto ai dati della ragione critica, pone in tensione
dialettica complessa i dati della Rivelazione, dati che egli accoglie o come superiori o
come fondanti la ragione critica stessa e che, per loro conto, costituiscono in realtà
proprio la mediazione, ad opera dell’Essere/Uno che si è rivelato nell’Esodo, tra l’al di
qua e l’al di là. Infatti, per il cristiano, oltre l’esperienza formale della definizione del-
l’Essere come ciò che è, l’Essere è negli esseri come loro fondamento e garanzia, e la
sua assoluta unità è tutt’altro che semplicità, dal momento che si autodefinisce come
unità complessa sia all’interno (Unità – Trinità) sia all’esterno (Creatore – creature).
Per fare un esempio particolarmente significativo, tratto dal periodo più maturo
della riflessione filosofica medievale, possiamo tenere presente quanto ebbe a scrivere
Tommaso d’Aquino nelle Quaestiones de potentia Dei: a fronte della posizione dei
maestri e filosofi arabi (singolarmente vicini, in questo, ai loro colleghi cristiani del-
l’Ordine Francescano), i quali ritenevano che ogni minimo atto della realtà esistenziale
del mondo creato si risolvesse senza soluzioni di continuità nell’onnipotenza e
onnipresenza divina, Tommaso sostiene che Dio non è soltanto la conditio sine qua
non dell’esistenza, ma la garanzia della sussistenza stessa degli esseri, perché Lui è il
Tutto e gli esseri il Nulla dal punto di vista metafisico, e ciò avviene –ed è questo il
punto– proprio per il fatto che egli, dando ad essi l’essere, assicura loro il margine di
autonomia e di funzionalità; di esistenza, in altre parole, senza cui gli enti creati non
sarebbero quel che sono e non potrebbero neppure essere concepiti5. La loro dipen-

5
Cfr. TOMMASO D’AQUINO, La potenza di Dio. Quaestiones disputatae de potentia Dei, I-III,
a cura di A. Campodonico, Nardini, Firenze 1991, pp. 263-275 (q. 3, a. 7, resp.): «È senza dub-
bio vero che Dio agisce nell’attività della natura e della volontà. Ma alcuni, non comprendendo
che cosa questo realmente significhi, caddero in errore, attribuendo a Dio ogni attività della
natura in modo tale che una cosa interamente naturale non farebbe niente per capacità sua pro-
pria. […] Certi pensatori musulmani, come racconta Rabbi Mosè, affermarono che tutte le for-
me naturali sono accidenti, e, poiché un accidente non può passare a un altro sostrato, riteneva-
no impossibile che una cosa naturale grazie alla sua forma possa in qualche modo produrre una
forma simile in un altro sostrato. Dicevano quindi che il calore non riscalda, ma Dio crea il
calore nella cosa riscaldata. […] Anche Avicebron nel libro La fonte della vita dice che nessuna
sostanza corporea agisce. Una forza spirituale agisce in tutti i corpi penetrando attraverso di essi
e un corpo è tanto più attivo quanto più è puro e sottile e di conseguenza più penetrabile da parte
della forza spirituale. […] [In realtà, si dovrà ritenere che] Dio è causa dell’azione di qualsiasi
cosa in quanto le dà la capacità di agire, in quanto la conserva, in quanto la applica nell’azione e
in quanto ogni altra capacità agisce grazie alla sua capacità. E se aggiungiamo a queste considera-
zioni che Dio è la sua capacità e che Egli è all’interno di ogni cosa non nel senso che sia una parte
della loro essenza, ma nel senso che tiene la cose nell’essere, si ha la conseguenza che Egli agisce
direttamente nell’attività di ogni cosa, ivi comprese le attività della volontà e della natura».

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denza essenziale è la condizione della loro esistenza fattuale, concreta. Ed è il Cristo
che rappresenta, nelle parallele discussioni sulla questione cristologica, questo nodo
centrale e fondamentale: Gesù è il Cristo come il Cristo è Gesù; le due nature sono
effettivamente due nell’unica persona della Trinità divina; le creature, nella loro indivi-
duale, singolare esistenza, rappresentano l’altra faccia di Dio, esistendo perché egli è.
Nello stesso modo il filosofo cristiano tende a comporre l’aspirazione all’infinità
dell’Essere con i modi finiti della sua comprensione e capacità di ragionamento. Ed è
per questo che la teologia scolastica, nel momento in cui si svincola dallo statuto
della pura esegesi testuale della lectura historica della sacra pagina, assurge al ruolo di
riflessione critica sia sul testo che sulle opere e le interpretazioni autoritative dei
Padri (a partire dai Libri quattuor Sententiarum di Pietro Lombardo) e ambisce al
ruolo di scienza aristotelicamente intesa, costituisce un vero monumento alla ragio-
ne, proponendosi di dar fondo a tutte le sue risorse, filosofiche per definizione, per
rintracciare quel punto cruciale che permette di gettare uno sguardo (niente più)
sull’essere infinito di Dio. Il concordismo tra ragione e fede trova in ciò la sua ragion
d’essere e, insieme, la spiegazione del suo venir meno di fronte a posizioni che esal-
tano la a-conoscibilità del divino proprio per la sua irriducibilità all’umano finito, la
sua a-razionalità o sovra-razionalità almeno dal punto di vista teoretico, sottoline-
ando invece la valenza pratica del discorso teologico, come in Giovanni Duns Scoto
o in Guglielmo d’Ockham. Le parole della Rivelazione sono pur sempre umane,
dell’uomo e per l’uomo, e rappresentano il canale di comunicazione tra infinito e
finito, percorribile nei due sensi.
Per questo la trascendenza, nella filosofia “cristiana medievale”, è problema sia
filosofico che teologico, e non può essere una semplice presa d’atto; e la discussione
su di essa, sul suo significato, può legittimamente avvenire attraverso due strade,
effettivamente percorse dai nostri autori, talora in simultanea: quella della teologia
razionale o positiva e quella della teologia negativa.
Nel percorso propostoci, tentiamo allora di enucleare alcuni autori che, a nostro
avviso, rappresentano momenti di svolta o di particolare maturazione del problema,
e il primo non può che essere Agostino, vista l’importanza del suo ruolo come fonte
e guida della speculazione filosofica e spirituale di tutto il Medio Evo.
Quello di Agostino, come ci è narrato nelle Confessiones, è un viaggio interiore,
misteriosamente guidato da Dio, che parte dai libri dei neoplatonici e dalla
valorizzazione dell’esperienza intellettuale dell’io che si interroga su di sé e sul mondo,
sulla mutevolezza del reale, alla ricerca di un punto di stabilità: la consapevolezza del-
l’essere / non essere che è la vita, la quale ha un senso soltanto nella misura in cui è
cosciente del “defectus”, della mancanza di essere che le è propria, e aspira all’essere
che è, e questo non può che identificarsi con il Dio dell’Esodo. Il racconto autobiogra-
fico delle Confessiones diviene il fondamento della dottrina del De vera religione, laddove
l’elemento di fondo dell’autocomprensione si realizza nella necessità, razionale,
dell’autosuperamento, del trascendimento della particolarità per individuare il princi-
pio primo e universale. È quindi l’introspezione, la capacità di autoanalisi della ragione
stessa a porre la base del suo superamento nel riconoscimento della sua inadeguatezza:
Dio può essere conosciuto solo attraverso le opere, le creature, che non sono lui ma
che da lui provengono e traggono la ragione del loro esistere; la ragione, finita e incapa-
ce di attingere all’infinito, lo postula nel momento stesso in cui lo nega e, per quel che
riguarda ogni possibile discorso sul divino, è costretta ad ammettere che soltanto ne-

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gando ad esso ogni possibile qualificazione umana, per quanto eccelsa essa sia, può far
intravedere la sua realtà. Su Dio l’uomo non può dire nulla, perché solo la negazione di
ciò che l’uomo conosce è la possibile affermazione. Come dirà, molti secoli dopo, un
filosofo che postula come unica conoscenza vera la “docta ignorantia”, e cioè Niccolò
Cusano, essa è «symbolice comprehendere et incomprehensibiliter cognoscere». La
ragione può far suo il reale («comprehendere»), padroneggiandolo nelle sue pieghe,
solo attraverso il simbolo, come “signum” enigmatico di una essenza, in sé molto più
complessa e contratta, e nel suo dispiegarsi nel concreto («explicatio») giungere a una
possibile conoscenza non razionale, intuitiva («incomprehensibiliter cognoscere»)6.
Scrive, per parte sua, Agostino:
Portato da quelle letture [dei libri dei platonici] a rientrare in me stesso, mi raccolsi nel
mio intimo dietro la tua guida, e, poiché Tu ti eri fatto mio sostegno, ci riuscii. Entrai in
me, e con l’occhio della mia anima, quale che si fosse, vidi, al di là di quell’occhio della mia
anima, al di là della mia mente, la immutabile luce: non questa, comune e visibile ai nostri
sensi, o una più intensa, ma della stessa natura, come se risplendesse, molto, molto più
chiara e si estendesse dilagante per tutto lo spazio. No, no, non quella; altra cosa, ben
diversa da tutte le altre. E non stesa sulla mia mente come olio su acqua o come il cielo
sulla terra, ma essa al di sopra avendomi creato, ed io al di sotto, come sua creatura. […]
Volsi allora il mio pensiero a tutte le cose che sono al di sotto di Te e vidi che hanno
l’esistenza, ma non in senso assoluto; non hanno l’esistenza, pure non in senso assoluto.
L’hanno, in quanto sono opera tua, non l’hanno, perché non sono quello che sei Tu. Esiste
nel vero senso della parola soltanto ciò che immutabilmente permane. «Il mio bene è quel-
lo di stare unito a Dio», se non mi stabilizzerò in lui, non potrò nemmeno essere in me7.
Non andare fuori di, ritorna in te stesso. La verità dimora nell’uomo interiore. E se scopri-
rai che la tua natura è mutevole, trascendi anche te stesso. Ma ricorda, quando trascendi te
stesso, tu trascendi l’anima razionale. Tendi pertanto là donde s’accende il lume stesso
della ragione. Dove giunge, infatti, ogni buon ragionatore, se non alla verità? Poiché la
verità non giunge a se stessa col ragionamento, ma è ciò cui tendono coloro che ragionano.
Vedi lì un’armonia che non ha pari, e congiungiti ad essa. Riconosci che tu non sei ciò che
essa è; appunto perché non cerca se stessa; invece tu sei giunto ad essa cercandola, non di
luogo in luogo, ma con l’appassionato movimento della mente8.
Il platonismo di fondo della posizione agostiniana sottolinea ed esalta la trascen-
denza del Dio cristiano, elimina le caratteristiche impersonali dell’Uno e reinterpreta
i concetti di potenza, sapienza e bontà alla luce della tradizione biblica. Si tratta di un
passaggio necessario per attribuire all’unico Dio il concetto di “super-essente” che,
attraverso gli scritti dello pseudo Dionigi Areopagita entrano in forze nella riflessio-
ne cristiana tardoantica e medievale tramite la mediazione di Giovanni Scoto Eriugena.
Questi usa appunto questo termine concettuale per definire Dio, ed è interessante

6
Cfr. NICCOLÒ CUSANO, La dotta ignoranza, in ID., La dotta ignoranza – Le congetture, a
cura di G. Santinello, Rusconi, Milano 1988, pp. 71-72 (I, 3, 9-10) e 86-90 (I, 11-12, 30-34).
7
SANT’AGOSTINO, Le confessioni, a cura di C. Mohrmann, BUR, Milano 199618, pp. 317-
321 (VIII, 10-11).
8
AURELIO AGOSTINO, La vera religione, in ID., Il filosofo e la fede. Soliloqui – La vera
religione – L’utilità del credere – La fede nelle cose che non si vedono, a cura di O. Grassi,
Rusconi, Milano 1989, pp. 204-205 (XXXIX, 72).

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notare che il termine lo ritroviamo, implicitamente, in molti autori del pieno Medio
Evo, e, alla lettera, nei testi di Meister Eckhart e Niccolò Cusano9. La via propria di
questa linea è quella, appunto, “dionisiana”, della teologia negativa, di un discorso
su Dio che fa leva su ciò che Dio non è, in quanto non è esprimibile in termini umani.
Le discussioni dell’età carolingia e post-carolingia, e il conseguente dibattito tra
dialettici e anti-dialettici, portarono a concentrare il discorso sulla definizione del-
l’essere, e a svilupparne la tematica a partire dalla corretta interpretazione della paro-
la sacra sia nell’ambito della scelta di vita religiosa (vita monastica e ricerca della
perfezione nella contemplazione) sia nell’ambito della vita secolare, nelle città, nelle
scuole e nelle università: il dibattito cessò così di essere solo teorico/spirituale, per
assumere sempre più una coloritura dottrinale e storico-culturale. Ed è a questa al-
tezza cronologica che il rapporto intracreaturale, quello di uomo e natura, diviene
centrale nell’attività dei maestri, sia delle arti che “in sacra pagina”. La “rinascita del
XII secolo” consiste appunto prevalentemente nella riscoperta di una natura che è
viva e ordinata secondo un criterio razionale, che è creata da Dio ma, all’atto della
creazione, ha ricevuto in dono una funzionalità dell’esistere che è sua propria, che ha
sue regole e sue leggi; e in essa, anzi al centro di essa, sta l’uomo, ente naturale che
con gli altri enti condivide questo dono dell’esistenza. L’indagine sulla natura, sul-
l’esistere degli esseri, è quindi anche un’indagine sull’esistenza umana10.
In effetti, se è vero che la tendenza agostiniana sembra per certi aspetti puntare
esclusivamente verso una teologia negativa, o quanto meno a una teologia intesa
come scienza pratica e non teoretica, la discussione scolastica prese criticamente avvio
dalla consapevolezza della polivalenza della parola sacra e, attraverso l’ermeneutica,
condusse necessariamente al discorso teologico di tipo razionale affermativo. Le due
linee si confrontarono sempre più, l’una sublimando la realtà dei nomi divini, l’altra
negando la loro congruità con l’oggetto: l’essere totale e infinito, superessenziale del
De divinis nominibus di Dionigi Areopagita, la superessenza del De divisione naturae
di Giovanni Scoto Eriugena, dopo un periodo di momentanea eclisse, più apparente
in effetti che reale, si ripresenteranno, con la forza e la freschezza di un diverso momen-
to storico, percorso da stimoli e inquietudini nuove.
Scriverà Cusano nel De docta ignorantia:
Dopo esserci sforzati, con l’aiuto divino, di renderci più dotti, nella nostra ignoranza, intor-
no al primo massimo, proseguiamo nella ricerca per ottenere una dottrina più completa sul
nome di Dio. Ed anche questa ricerca risulterà facile se terremo in giusta considerazione
quanto abbiamo già detto più volte. È chiaro che, essendo il massimo massimo assoluto cui
nulla si oppone, nessun nome gli conviene in modo appropriato. Tutti i nomi vengono attri-
buiti in virtù di una certa capacità della ragione, che distingue una cosa dall’altra. Ma dove
tutte le cose sono in unità, non vi può essere nessun nome particolare. Giustamente dice
Ermete Trismegisto: Poiché Dio è la totalità delle cose, nessun nome gli è appropriato; sareb-

9
Cfr. MAESTRO ECKHART, Trattati e prediche, a cura di G. Faggin, Rusconi, Milano 1982;
NICCOLÒ CUSANO, Il dio nascosto, a cura di L. Mannarino, Laterza, Roma-Bari 1995.
10
Cfr., tra i numerosissimi volumi dedicati al XII secolo, C.H. HASKINS, La rinascita del
XII secolo, Il Mulino, Bologna 1998; M.D. CHENU O.P., La teologia nel Medio Evo. La teolo-
gia nel sec. XII, Jaca Book, Milano 1972; R.L. BENSON, G. CONSTABLE (a cura di), Renaissance
and Renewal in the Twelfth Century, Clarendon Press, Oxford 1982; B. RIBÉMONT, La
“Renaissance” du XIIe siècle et l’Encyclopedisme, H. Champion, Paris 2002.

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be necessario o chiamare Dio con tutti i nomi, o chiamare tutte le cose col nome di Dio, dato
che egli, nella sua semplicità, complica l’universalità del tutto. […] Tutto ciò che si dice di Dio
nella teologia affermativa, si fonda sulla considerazione del rapporto divino con le creature.
[…] La sacra ignoranza ci ha insegnato che Dio è indicibile, poiché egli è maggiore all’infinito
di tutte le cose di cui si può parlare. E poiché questo è verissimo, con più verità parliamo di lui
rimuovendo e negando, come sostiene anche Dionigi il grandissimo, il quale volle che Dio
non fosse né verità, né intelletto, né luce, nessuna di quelle cose che si possono dire a parole11.
E Charles de Bovelles, nel De nihilo, riprenderà lo stesso tema e, quasi, le stesse
parole in un capitolo di quel libretto che costituisce una preziosa sintesi sia delle tesi
dionisiane e cusaniane sia delle posizioni che siamo indotti ad attribuire a due dei
massimi esponenti del pensiero filosofico rinascimentale: Marsilio Ficino e Giovan-
ni Pico della Mirandola12. La teologia negativa, non è che l’aperto riconoscimento
dell’impossibilità, per l’uomo, di cogliere la suprema essenza divina, l’Essere che,
partecipato, consente agli esseri di esistere; essa è quindi il punto di arrivo di un
percorso che inizia con la ragione, ma che la ragione, per l’innata finitezza che la
contrassegna, non è in grado di portare a conclusione. Questa constatazione costitu-
isce d’altronde anche la presa d’atto che altro è la metafisica, come filosofia prima,
altro è la teologia, come discorso sul divino. La sintesi di filosofia e teologia, prefigurata
da Aristotele nella Metafisica13, ripresa sin dalla prima apologetica cristiana di

11
CUSANO, La dotta ignoranza, cit., pp. 116, 118-119 (I, 24, 74, 79, 82) e 123 (I, 26, 87).
12
Cfr. CHARLES DE BOVELLES, Il piccolo libro del nulla, a cura di P. Necchi, Il Melangolo,
Genova 1994, pp. 101-113 (XI): «La teologia è la conoscenza della divinità, sia che la ricerchia-
mo nei segni sensibili, sia che la concepiamo in una meditazione interiore, sia che essa ci sia
comunicata per ispirazione angelica o per infusione nelle anime sante dallo Spirito di Dio. La più
profonda scienza di Dio ci viene infatti partecipata in tre modi [per via razionale, dalle creature
al creatore (filosofia della natura); per via contemplativa, meditando sui princìpi primi (metafisi-
ca); per via di illuminazione. Da ciò ne consegue che] la teologia affermativa va dal perfetto
all’imperfetto e discende dalle realtà superiori e migliori alle realtà inferiori e di rango più basso.
[…] La fine della teologia affermativa è l’inizio dell’intera teologia negativa. È infatti dall’ultimo
punto di sviluppo di quella che questa incomincia ad elevarsi fino al suo compimento e alla sua
conclusione in Dio. Gli estremi e i medi di entrambe le teologie sono gli stessi. La via che percor-
rono è la stessa e su di essa, andando da Dio al nulla o dal nulla a Dio, si intersecano. Tutto quello
che si situa tra Dio e la materia è infatti un ente e partecipa dell’essenza. [… Ma] la teologia più
vera, più alta e più compiuta è dunque questa: sapere di non poter conoscere Dio, sapere che egli
è inconoscibile, tanto imperscrutabile allo sguardo della nostra mente quanto invisibile agli oc-
chi del nostro corpo, trascendente tutte le cose, nascosto nelle tenebre e nell’abissale caligine
della luce, ineffabile, inintelligibile, perfettamente conosciuto e visto nella sua essenza solo da se
stesso, presente (com’è) solo a se stesso. Questa ignoranza di Dio è comunemente e per lo più
chiamata dotta ignoranza e conoscenza per eccellenza».
13
Cfr. ARISTOTELE, Metafisica, a cura di A. Russo, Laterza, Bari 1971, pp. 175-176 (VI, 1, 1026
a 10-30): «Se, d’altra parte, esiste qualcosa di eterno e di immobile e di separabile dalla materia, è
evidente che la conoscenza di ciò è pertinenza di una scienza teoretica, ma non certo della fisica,
giacché questa si occupa solo di alcuni enti mobili, né della matematica, ma di un’altra scienza che
ha la precedenza su entrambe. […] se esiste una certa sostanza immobile, la scienza che si occupa
di questa deve avere la precedenza e deve essere filosofia prima, e la sua universalità risiede ap-
punto nel fatto che essa è prima; e sarà compito di questa scienza contemplare l’essere-in-quan-
to-essere, cioè l’essenza e le proprietà che l’essere possiede in-quanto-essere».

40
Giustino, Lattanzio e Clemente Alessandrino, che identificavano i termini di sapien-
za e filosofia come dottrina di Dio, e da Agostino, che strumentalizzava la conoscen-
za della scienza profana alla migliore comprensione della sacra Scrittura nel connubio
di fede e intelletto14, e perseguìta nelle Summae dei maestri e teologi dei secoli XIII e
XIV, giungeva così al suo termine. Ma si trattò di una conclusione in qualche modo
già prefigurata dalla riflessione scolastica sul “quia” e il “quid” della conoscenza.
Nelle Quaestiones disputatae de veritate, Tommaso d’Aquino si era posto il proble-
ma della presenza della nozione di Dio nella mente umana e se essa fosse dello stesso
tipo dei primi princìpi del ragionamento («Utrum Deum esse sit per se notum menti
humanae, sicut prima principia demonstrationis quae non possunt cogitari non esse»)
e, nel fornire la sua risposta, aveva respinto la posizione di Maimonide, secondo il
quale la conoscenza di Dio avviene solo per fede, accogliendo invece come probabili
(«verae opiniones secundum aliquid») le tesi di Avicenna e di Anselmo, che ne avevano
sostenuto la possibilità o per via di argomentazioni o per via di puro pensiero15. In
realtà, se la mera esistenza di Dio non può che esserci nota come un dato evidente e
immutabile che sostiene e giustifica la mutevolezza degli esseri, è la sua essenza che
sfugge al dato di ragione; e tuttavia, proprio la ragione dimostra, oltre al puro dato di
fede, quell’esistenza. Se la teologia negativa, secondo cui «Deus melius scitur nesciendo,
omnis determinatio est negatio», costituisce il percorso, l’unico praticabile, oltre la
possibile affermazione umana dell’esistenza di Dio, è anche vero che la Rivelazione e la
metafisica dell’essere-in-quanto-essere di influenza aristotelica ampliano l’ambito della
definibilità divina e riconoscono al pensiero una potenzialità metaempirica più vasta.
Tommaso applica, nella Summa theologiae (I, q. 1, a. 2), il concetto aristotelico di scienza
alla teologia, e la considera somma scienza teoretica (a. 4) che possiede anche una valenza
pratica, di carattere sapienziale (a. 6) e argomentativo (a. 8); in altre parole, a sua volta
una “summa” di ogni possibile sapere. Sarà l’Umanesimo e il Rinascimento, come si è
visto, a separare di nuovo la dottrina e l’interpretazione della Rivelazione dalla struttura
argomentativo-scientifica che la Scolastica del XIII secolo aveva costruito.

14
Cfr. SANT’AGOSTINO, L’istruzione cristiana, a cura di M. Simonetti, Fondazione Loren-
zo Valla - Mondadori, Milano 1994, p. 163 (II, 40, 60): «Quanto a quelli che si chiamano
filosofi, se hanno detto cose vere e compatibili con la nostra fede, soprattutto i platonici, non
solo non le dobbiamo temere, ma le dobbiamo rivendicare da loro, quasi che non le possegga-
no legittimamente, per usarne noi».
15
Cfr. S. THOMAE AQUINATIS Quaestiones disputatae, I, De veritate, a cura di R. Spiazzi o.p.,
Marietti, Taurini-Romae 1964, p. 219: «Respondeo dicendum quod circa hanc quaestionem
invenitur triplex opinio. Quidam enim dixerunt, ut Rabbi Moyses narrat, quod Deum esse non
est per se notum, nec est per demonstrationem scitum, sed est tantum a fide susceptum; et ad hoc
dicendum induxit eos debilitas rationum quas multi inducunt ad probandum Deum esse. Alii
dixerunt, ut Avicenna, quod Deum esse, non est per se notum, sed per demonstrationem scitum.
Alii vero, ut Anselmus, opinantur quod Deum esse sit per se notum, in tantum ut nullus possit
cogitare interius Deum non esse; quamvis hoc possit exterius proferre, et verba quibus profert
cogitare interius. Prima opinio manifeste falsa apparet: invenitur enim hoc quod est Deum esse,
rationibus irrefragabilibus etiam a philosophis probatum; quamvis etiam a nonnullis ad hoc
ostendendum rationes frivolae inducantur. Duarum vero opinionum sequentium utraque
secundum aliquid vera est. Est enim dupliciter aliquid per se notum; scilicet secundum se, et
quoad nos. Deum igitur esse, secundum se est per se notum; nos autem quoad nos; et ideo nobis
necessarium est, ad hoc cognoscendum, demonstrationes habere ex effectibus sumptas».

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