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Bacci (Ermes) ringrazia:

Edvige Boschetto e Sergio Bertorello (Circolo “Luigi Rum-Compagnia Unica)


che, con impegno e passione, hanno curato la grafica e l’impaginazione del racconto

Aldo Delpino e Filippo Di Carmine (Nuova Tipografia A.T.A.)


per la collaborazione tecnica

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Il Partigiano racconta

Dalla formazione Partigiana "Giancarlo Odino"


alle Brigate Garibaldine "Berto" e "Volante Severino",
con il nome di battaglia "Castagnino" prima, e "Ermes" dopo.
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PREMESSA

Credo che sia naturale per ognuno di noi ritornare col pensiero
al passato e rivivere con emozione gli eventi che ci hanno
coinvolti in gioventù.
Sono fatti accaduti durante la guerra che desidero raccontare
per i giovani del giorno d'oggi che, per loro fortuna, quei
dolorosi giorni non li hanno vissuti.
Va detto che la Resistenza e la lotta di Liberazione non furono
soltanto dolorose battaglie o gesti di eroismo individuale ma
un complesso di partecipazione e di solidarietà che coinvolse i
cittadini di ogni condizione e stato sociale. Erano i piccoli
gesti di solidarietà della gente delle vallate appenniniche che
contribuivano a creare un clima di serenità e di fiducia per le
formazioni Partigiane. Era importante e rassicurante per noi
vederci offrire una scodella di latte, appena munto, ed essere
invitati in casa loro per scaldarci vicino alla stufa nelle gelide
giornate invernali, oppure le ragazze che si offrivano di
rammendarci una camicia o un paio di pantaloni o ancora i
giovanotti che ci aiutavano ad occultare le armi e le munizioni
eccedenti le necessità di quel momento, specialmente
nell'avvicinarsi di un rastrellamento.
Questi erano i piccoli granelli "di forza" della Resistenza che
messi insieme formarono quella grossa valanga che spazzò via
il fascismo con tutte le sue menzogne. Non é sempre facile
riportare in forma scritta il clima e le emozioni di quei
momenti, comunque io ci proverò, premettendo che non é mia
intenzione scrivere un pezzo di storia del Movimento

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Partigiano, ma raccontare semplicemente l’esperienza di un
diciottenne fatta nelle Formazioni Partigiane Liguri.
Nello scrivere di fatti accaduti molti anni prima si può
incorrere in qualche piccola imprecisione riguardante i nomi
dei luoghi o dei Partigiani citati, ma ciò nulla toglie alla
veridicità dei fatti descritti.
Raccontare di episodi e di fatti inerenti la Lotta Partigiana,
comporta rigore e trasparenza; anche per rispetto a chi ha
partecipato alla Resistenza, sacrificando la propria vita per un
nobile ideale.
In questa linea rientra anche la precisazione che fece Vagge,
alcuni mesi fa, che si può sintetizzare in questo modo: “La
verità, sulle azioni partigiane che fecero saltare in aria i ponti
della Paglia e di Cavassolo, più un tratto della Statale 45, è
quella che ti raccontai a Noci, nel lontano mese di febbraio
1945, quindi le cose dette o scritte da altre persone sono pura e
semplice invenzione o, se volessimo essere buoni, si potrebbe
dire che si tratta di fervida fantasia.

Disegno ripreso da “IL PARTIGIANO” – Organo della III° Divisione Garibaldi “CICHERO”

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La Resistenza in Liguria
Racconto di Giovanni Battista Bazurro “Ermes”

Come entrai, giovanissimo, nella Resistenza. Le difficoltà


incontrate e i limiti organizzativi di alcune formazioni
partigiane.
Negli anni Quaranta erano molte le strade per introdursi nei
movimenti antifascisti: le scuole, le grandi e le piccole
fabbriche e le realtà locali, dove lo spirito democratico dei
vecchi antifascisti non era, nonostante i vent'anni di dittatura,
venuto meno. La mia scelta maturò in famiglia, tra i miei
compagni d'infanzia e nella piccola fabbrica di cordami della
Doria, nella Valbisagno (Genova), di proprietà dei "signori”
Vicini e Boglione. II primo era una persona tranquilla, che
passava molte ore in fabbrica, il secondo un tipo borioso con
una accentuata inclinazione per la camicia nera, che indossava
prevalentemente il sabato, giorno di paga dei dipendenti.
L'organico dello stabilimento era composto prevalentemente
da personale femminile. Pippo, il capo-operaio, un uomo sui
trent'anni, di poche parole, ma gran lavoratore proveniva dalla
Valpolcevera.1
Ricordo un fatto molto significativo: il giorno in cui l'Italia
entrò in guerra a fianco dei nazisti, ci fecero sospendere il
lavoro e sul piazzale antistante la fabbrica ascoltammo il
discorso di Mussolini.2
Molti dei presenti applaudirono; Pippo, invece, pensieroso,
rimase nel più assoluto silenzio mentre le sue mani erano in
1
Località “Giro del Vento
2 Fu trasmesso dall’EIAR verso le 18.00 del 10 giugno 1940
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preda a un lieve tremolio che nessuno mai aveva notato prima
di quel giorno. Al rientro in fabbrica si attardò con un
gruppetto di noi operai dicendo che non era un giorno di festa,
ma l'inizio di un lungo periodo di lutti e di sofferenze per tutti.
Infatti, e non potrò mai dimenticare quell'infausto giorno, nella
tarda serata Genova venne sottoposta a un brutale
bombardamento aereo dall'aviazione, se non ricordo male,
francese. II giorno dopo venni a sapere che, oltre alle ingenti
distruzioni, vi erano state centinaia di morti e di feriti. Fu
agghiacciante a così poche ore da quella ineffabile
dichiarazione di guerra!
Nei giorni successivi Pippo ritornò sull'argomento e, come sa
fare un uomo maturo che si rivolge a dei ragazzi molto giovani
(eravamo quasi tutti sotto i diciotto anni), ci descrisse con
precisione e con semplicità in che cosa consisteva in realtà il
fascismo, chi erano i Savoia, i nazisti, il perché della guerra...
La mia curiosità mi portava spesso a fargli delle domande
sulle sue esperienze di vita: era sempre disponibile ad
ascoltarmi, ma molto cauto nelle risposte.
Un giorno, mentre lavoravamo insieme nel magazzino, mi
disse che al centro di Genova si potevano comprare delle armi
per la difesa personale e mi propose l'acquisto di una rivoltella
Beretta 6.35, con cinque proiettili, per la somma di 10 lire,
l'equivalente di due giorni e mezzo di paga. Quest'arma, che
oggi può apparire ridicola, nel 1940 era considerata un
gioiellino.
Il problema era come giustificarmi con mia madre: 10 lire in
meno nella busta paga, e le non comuni necessità di quel
brutto periodo erano molte. Non si deve dimenticare che
spesso si era costretti a comprare i generi di prima necessità
alla “borsa nera”. Faticai molto, ma alla fine riuscii a calmare e
a convincere la mia adorata e buona mamma.
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Il tempo trascorreva senza grosse novità, a parte i continui
bombardamenti sulla città. Pippo ci parlava spesso di
cospirazione, parola a noi sconosciuta, che ci riempiva il cuore
di emozione, ma anche di ansia. In aggiunta ai continui
bombardamenti aerei, il 9 febbraio 1941 la morte giunse dal
mare. Mi è impossibile dimenticare l'assordante
cannoneggiamento della flotta inglese schierata di fronte a
Genova proprio come un plotone d'esecuzione di fronte al
condannato. La città tremò per molto tempo come se si fosse
trattato di un terremoto.
Le distruzioni furono immani, i morti e i feriti centinaia e
alcuni dei danni prodotti da quell'attacco dal mare si possono
vedere tuttora.
Il mio distacco da quella realtà avvenne un sabato pomeriggio
del mese di maggio 1943, quando mi recai in ufficio per
ritirare la busta paga e il signor Boglione mi consegnò anche il
libretto di lavoro, dicendomi che ero licenziato e che dovevo
recarmi subito in un certo ufficio per essere inviato a lavorare
in Germania, secondo quanto stabiliva un recente bando
rivolto ai maschi italiani nati nel primo semestre del 1926.
Da quel giorno la mia preoccupazione fu quella di non cadere
in una retata o incappare in un posto di blocco, motivo per cui
di giorno non discesi più alla Doria né a Prato.
Andavo spesso a San Cosimo e a San Martino di Struppa dove
ci si conosceva tutti e molti si trovavano nella mia stessa
situazione.
Nei giorni successivi al 25 luglio 1943, il fatidico giorno della
disfatta del fascismo, io e alcuni compagni andammo
spontaneamente a scrivere sui muri con carbone di legna,
slogan contro i nazi-fascisti e a incollare su muri e pali della
luce i volantini contro il fascismo, la famiglia reale e la guerra
lanciati dagli alleati e raccolti da noi nei boschi.
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Non potrò mai dimenticare il caos che si verificò,
particolarmente nei giorni dall'8 al 15 settembre 1943. La
baraonda fu indescrivibile tanto da non poter, lì per lì,
renderci conto di ciò che in realtà stava accadendo. Fu un
fuggi fuggi generale senza idee, senza scopo, senza meta. Il Re,
per dileggio soprannominato “sciaboletta” a causa della
piccola statura, Badoglio e il governo molto
"coraggiosamente" fuggirono (probabilmente d'accordo con
i tedeschi) al Sud, già liberato dalle forze anglo-americane,
lasciando il popolo italiano e le forze armate in balia degli
invasori. Più codardi di così non si poteva essere!
Fu proprio in quei giorni di confusione che, unitamente ai miei
vecchi compagni, ci dedicammo al recupero di armi e
munizioni. Dopo averle riassettate e oliate le nascondemmo in
un rifugio sicuro.
Le cose cominciarono a chiarirsi col passare delle settimane;
arrivarono notizie dal Piemonte dove molti reparti militari
dell'esercito italiano abbandonarono le caserme con le armi e
salirono sui monti per combattere i nazisti e i repubblichini
mentre, contemporaneamente, la Repubblica di Salò stava
organizzando la Guardia Nazionale Repubblicana, la X° MAS,
le Brigate Nere.
Alla fine di novembre, accompagnati dal Perito, un vecchio
cattolico antifascista, partirono per le Langhe e altre Valli del
Piemonte, quattro giovani della classe 1922 per raggiungere le
brigate partigiane. Nel mese di gennaio due di loro, Virgilio e
Polovio, ritornarono a casa motivando il rientro con i continui
rastrellamenti e la rigidità del clima.
Poco tempo dopo si presentò la possibilità di entrare, tutti
insieme, nella lotta di liberazione tramite l'organizzazione
genovese denominata “OTO”, diretta dal professor Ottorino

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Balduzzi, noto come uno dei maggiori promotori della
Resistenza in Italia.3
Il progetto consisteva nel formare un gruppo di giovani,
armarli e trasferirli in montagna. La guida e l'organizzazione
venne assegnata a Virgilio, che aveva accumulato un po' di
esperienza nelle Langhe. Andammo a ritirare le armi dietro la
chiesa di San Pantaleo, nel quartiere di Staglieno, presso
compagni di lotta fidati. Ritornammo, sempre accompagnati e
protetti da tre membri dell'OTO, percorrendo, per sicurezza,
l'acquedotto civico fino a San Cosimo per circa una decina di
chilometri. I tre, giunti all'altezza del Giro del Fullo,
ritornarono verso il centro, noi raggiungemmo San Martino di
Struppa, alla periferia di Genova, e quindi la frazione di Gave,
dove, a suo tempo, avevamo costruito un sicuro e robusto
rifugio e avevamo occultato il materiale bellico recuperato
successivamente all'8 settembre. Pochi giorni dopo vennero
assegnati a ciascuno di noi fucili e munizioni per pulirli,
lubrificarli e custodirli.
Al momento della partenza per Voltaggio, dove il nostro
gruppo avrebbe dovuto essere accorpato alla brigata
“Giancarlo Odino”, nome del partigiano medaglia d'oro
fucilato al Turchino, il gruppo venne giudicato troppo
numeroso e, quindi, facilmente individuabile anche durante
uno spostamento notturno. Gli organizzatori decisero di
dividerlo in due gruppi. Io partii una settimana dopo col
secondo gruppo, accompagnato da un membro della OTO.
Viaggiammo di giorno, arrivando nel tardo pomeriggio sulle
pendici del monte Tobbio, in comune di Voltaggio.
L'accoglienza da parte del primo gruppo fu festosa, anche
perché era viva la curiosità di sapere se ci fossero state delle
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Leggendario eroico personaggio pure lui dimenticato di proposito dai cosiddetti storici e dai
revisionisti nostrani
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reazioni alla loro partenza, forse un po' troppo chiassosa.
Parlammo poi della vita dura in montagna e delle difficoltà da
affrontare.
Non so come spiegarmelo ma, purtroppo, fui subito
sopraffatto da un intimo disagio e da forti timori. Dormii
pochissimo, malgrado avessi camminato dieci ore di seguito, e
riflettei sul da farsi. Decisi di dire a Virgilio, il cui nome di
battaglia era ora Castagna, che non me la sentivo di rimanere
a causa della grande disorganizzazione. Il buon amico e
compagno mi disse: «Qui, sia per tè che per il gruppo, se non
hai la necessaria serenità, non puoi rimanere. Del resto, da
tempo pensavo che uno di noi sarebbe dovuto rimanere a
San Cosimo per tenere il collegamento con l'organizzazione
del centro.» Effettivamente era una necessità, ma sono certo
che Castagna non volle mettermi a disagio nei confronti dei
miei compagni.
Ritornato a San Cosimo il senso di disagio non scomparve,
anzi sentivo nell'aria un reale pericolo. Spesso ritornavo con il
pensiero al primo impatto sulle pendici del Tobbio; vedevo la
casupola col suo disordine, uomini in continua agitazione e
con i nervi a fior di pelle. Tutto questo contrastava con ciò che
mi ero immaginato prima di arrivare in quella zona. Pensavo
che la Resistenza avesse bisogno di persone con una
esperienza organizzativa consolidata, che potessero
trasmettere a noi giovanissimi coraggio e sicurezza. Questo
non lo avvertii a Voltaggio. In tutta coscienza, rimasi,
malgrado l'età e l'inesperienza, molto turbato a motivo di quel
caos e per il totale, evidente abbandono. Ho ancora davanti
agli occhi i giovani partigiani stipati come animali in cascine e
catapecchie, scarsamente armati e affamati come lupi.
Confesso di essere stato contento di aver lasciato quella zona,
assolutamente inidonea alla guerriglia. Alcuni di quei poveri
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ragazzi vennero, poco dopo, catturati e trucidati dai nazi-
fascisti. Una parte venne spedita in Germania a morire nei
campi di sterminio.
Trascorrevo le giornate nelle fasce, i terrazzamenti della
collina genovese, con la mia piccola pistola in tasca,
illudendomi che fosse la mia salvezza. La notte dormivo
spesso fuori casa per evitare possibili retate.
Un giorno arrivò la notizia che il nostro gruppo, trovandosi in
grosse difficoltà a causa delle continue puntate dei nazi-
fascisti, venne trasferito verso levante e, più precisamente, a
Frassinello, in Valbrevenna. Non era un buon segno. Il peggio
comunque, arriverà poco dopo per un atto di leggerezza
compiuto da un nostro compagno: il gruppo organizzato con
tanta fatica e tanto rischio venne irrimediabilmente sciolto.
Tutto ebbe inizio nelle vicinanze di Avosso, quando il
partigiano Saetta, detto anche Braccino,per il suo braccio
destro attaccato dalla poliomielite, fermò un carro che
trasportava tabacco e sigarette, un genere tesserato, destinato
alla popolazione. Senza riflettere sulla gravità dell'atto, fece
deviare il carro verso Valbrevenna. Va precisato che nemmeno
un grammo di tabacco venne sottratto, ma il fatto fu clamoroso
e la notizia arrivò rapidamente al Comando della VI° Zona
che venne indotto a prendere immediati e severi
provvedimenti.
Reggio, comandante del Distaccamento Maffei, accantonato
nel paese di Paio (Pareto) in alta Valbrevenna, con una
squadra raggiunse Frassinello con l'ordine di disarmare il
gruppo responsabile del fatto. La sorpresa fu grande sia per il
nostro gruppo, quando vide apparire sulla porta un uomo
armato che intimava: «Fermi tutti e mani in alto!», che per
Reggio, che si trovò di fronte un gruppo di persone disarmate
che stavano consumando un frugale pasto.
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A mio parere, il fatto più grave era consistito nel totale
abbandono delle armi nel vicino cascinale, negligenza
imperdonabile! Nello sconcerto generale alcuni dei miei
compagni riuscirono a gettarsi dalla finestra e ad allontanarsi
rapidamente, gli altri vennero fatti prigionieri e accompagnati
al Comando; tra questi c'era anche lo sfortunato Polovio.
L'operazione rientrava nel normale controllo del territorio
conseguentemente al quale i comportamenti negativi
dovevano essere stroncati sul nascere. I partigiani, con il loro
rigoroso comportamento, si erano conquistati l'amicizia e la
fiducia delle popolazioni delle vallate e dei monti della
Liguria. La disciplina era il pilastro portante
dell'organizzazione, quindi nessuna tolleranza per le iniziative
individuali non indispensabili. Chiedere e mai pretendere era
la regola. Chi non si atteneva alla "legge della montagna"
arrecava soltanto discredito al movimento e offesa a quella
popolazione che aiutava i partigiani secondo le proprie
possibilità e nel contempo condivideva con loro il pericolo dei
rastrellamenti e delle rappresaglie.
I restanti partigiani dello sventurato gruppo che, durante
l'azione di Reggio, riuscirono a sottrarsi alla cattura, decisi e
animati da un forte spirito di ribellione verso i nazi-fascisti,
ritornarono a riunirsi a San Cosimo.
Fin dal primo incontro, fatta la debita autocritica per gli ultimi
accadimenti, stabilimmo all'unanimità di ritornare in
montagna per rientrare nel pieno della lotta.
Spesso riflettevo sull'accaduto di Frassinello soprattutto, sul
disagio che mi aveva attanagliato sulle pendici del monte
Tobbio. Due situazioni differenti che, però, mi fecero capire
come il sentimento ideale e il rigore morale dovessero
procedere di pari passo con l'organizzazione e la disciplina, o
meglio, con l'autodisciplina. Nel mese di ottobre decidemmo
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di partire per raggiungere le formazioni garibaldine della VI°
Zona. I più anziani entrarono nella Brigata Volante Severino4
guidata dal Comandante Gino, mentre noi, più giovani e con
poca esperienza venimmo inviati al campo reclute presso la
Casa del Romano, vicino al monte Antola, un distaccamento
di ambientamento reclute per gli ultimi saliti in montagna e
facente parte della 3° Divisione Garibaldina “CICHERO”
L'esperienza fatta nelle formazioni garibaldine è stata molto
positiva; ovviamente ci sono stati momenti di grande pericolo
e di privazioni, superati anche grazie al clima di fraterna
solidarietà che creavano i Commissari nelle riunioni serali
accanto al fuoco.
Un giorno di quell'esistenza, durissima sotto ogni aspetto, ma
vissuta con la coscienza delle proprie idee e con rigore morale,
è valsa, per le esperienze fatte e per gli insegnamenti ricevuti,
un mese di vita. Sono convinto di aver beneficiato dei principi
fondamentali di vita e di civismo che allora mi vennero
inculcati e che favorirono anche le mie scelte successive, come
quelle di tanti altri miei compagni di lotta.

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Formazione di montagna tra le più agguerrite e manovriere che operava alla periferia di Genova
(bassa Val Bisogno) composta da validi ed esperti guerriglieri, soggetta giornalmente a
rastrellamenti, puntate, colpi di mano ed altre operazioni nemiche di vario tipo.
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La Banda di Cichero

II paese di Cichero è stato il punto di partenza della storia


della 6° Zona Operativa tanto che i suo nome fu dato alla 3°
Divisione Garibaldi, come riconoscimento al piccolo paese,
sulle pendici del Monte Ramaceto, che dopo l’8 Settembre 1943
ospitò il primo nucleo di "Ribelli", salito in Montagna per
opporsi, con le armi, agli invasori nazisti. E per quella “grave
colpa” Cichero fu dato alle fiamme dai nazi-fascisti il 27
maggio ’44 dopo averne saccheggiato e razziato quanto
bestiame possibile.
Ma quell'atto di vigliaccheria non scalfí minimamente la
solidarietá degli abitanti del paese verso i Partigiani della
"Banda di Cichero" composta da: Bini, Bisagno, Croce, Dente,
Denis, Gino, Lesta, Lucio, Marco, Marzo, Pinan, Severino e
altri.
I Partigiani si erano radunati e accampati "In to Cason Do
Stecca" e, dove gli amici contadini li avvisavano quando le
squadracce fasciste si avventuravano nelle vicinanze del paese.
II segnale convenuto consisteva nel percuotere il cavo d'acciaio
della strafia - piccola teleferica - che dal basso saliva fino al
prato antistante il casone, dove all'estremità del cavo si
scaricava una vibrazione sonora,
quello era il segnale di allerta per i Partigiani.
II coraggio e la solidarietà della gente di Cichero furono di
insegnamento per tutti gli abitanti dei paesi della 6° Zona
Operativa che accoglievano con fiducia e simpatia la grande
massa di giovani che salivano sui monti per entrare nelle
Resistenza.

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II valore storico del Casone della Stecca va difeso e preservato,
ed è con questo spirito che oggi si svolgono incontri e
trattative tra i rappresentanti della Provincia di Genova e i
proprietari della struttura per trasformarla in un piccolo
Museo di Storia Partigiana e di Storia Contadina.
Se questo bellissimo progetto arriverà a felice conclusione sarà
un'ulteriore e importante tassello del Mosaico della Storia
Partigiana Ligure.

Casone della Stecca

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La Missione Alleata Inglese e
il lancio di armi sul Monte Carmo

Nei primi giorni di novembre, del 1944 la missione alleata


inglese era a Cartasegna, nelle vicinanze di Carrega e, noi
giovani partigiani eravamo alloggiati nella Casa del Romano –
Distaccamento Reclute - in attesa di essere trasferiti nei vari
distaccamenti.
La nostra attività si limitava a qualche ora di guardia e, molto
spesso, facevamo lunghe camminate fino ai paesi di Bruggi e
di Varni, ritornando alla sera stanchi e affamati. Il cibo però
era poco invitante dato che era cucinato senza sale. Il cibo
insipido più le lunghe camminate potevano essere il modo
migliore per prepararci alla dura vita in montagna dei
Partigiani.
Nelle riunioni serali poi ci spiegavano quanto fosse importante
la disciplina nelle formazioni Partigiane ed altrettanto
importante fosse il rispetto e la solidarietà verso la
popolazione che condivideva con i Partigiani il pericolo e le
vili rappresaglie dei nazi-fascisti. Alla notte si sentiva, in
lontananza, il rombo degli aerei alleati impegnati nei
bombardamenti sulle città del nord, mentre i Partigiani
attendevano da tempo un lancio di armi automatiche.
Una notte gli aerei si avvicinarono molto alla nostra zona,
tanto che si potevano distinguere le scure sagome degli
aeroplani che volavano sopra di noi ritornando più volte sulla
stessa rotta. Questo movimento durò una ventina di minuti
poi cessò di colpo e sulle vallate ritornò il silenzio. Nessuno
ritornò a dormire, anche perché il Comandante ci disse di
tenerci pronti perché da un momento all'altro avremmo
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dovuto partire. Infatti partimmo molto presto e arrivammo
sulle pendici del Monte Carmo prima dell'alba. Lo spettacolo
che ci si presentò davanti fu bellissimo: tutti quei paracadute
sparsi sul monte ti davano la sensazione di vedere una distesa
di funghi bianchi spuntare tra i cespugli.
Altri partigiani erano già sul posto e, tutti insieme, iniziammo
a piegare e nascondere sotto i cespugli i paracadute, per
nascondere i segni del lancio ad un eventuale volo di
ricognizione di qualche aereo nemico. Poi radunammo nelle
zone pianeggianti i grossi cilindri di lamiera per trasportarli in
seguito a valle.
Per il trasporto si mobilitarono molti contadini e contadine di
Fontanachiusa, di Maggioncalda e di Carrega che con le loro
"lese", specie di grosse slitte, trainate dalle piccole mucche, dal
manto bruno, trasportarono tutto il materiale nella piazzetta di
Carrega.
L'apertura dei contenitori iniziò alla presenza dei componenti
della missione Alleata Inglese, di alcuni Comandanti della
Divisione Cichero e di Rolando, in rappresentanza del
Comando della Sesta Zona.
La sorpresa fu assai amara nel vedere che dai "bidoni"
uscivano fucili modello 91, anziché armi automatiche, con
impressa sul calcio la sigla A.O.I. e che le munizioni erano
diventate dei blocchetti di metallo a causa dell'umidità dei
depositi. Era chiaro che quelle armi facevano parte del bottino
di guerra che gli Inglesi avevano sottratto all'esercito italiano
in terra africana. Davanti a uno spettacolo del genere Rolando
si rivolse ai componenti della Missione dichiarandosi offeso
per quell'atto irrispettoso nei confronti dei Partigiani e disse
che se avesse avuto a disposizione un aereo sarebbe andato a
sganciare su Londra uno dei contenitori con il suo carico
scadente. Un ufficiale inglese, con l'aiuto dell'interprete, tentò
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di minimizzare dicendo che era da escludere l'intenzione di
offendere il movimento Partigiano e che quanto era accaduto
andava imputato alla leggerezza delle persone che avevano
preparato il materiale per il lancio. Una giustificazione che non
convinse nessuno, ma la questione non ebbe seguito.
Le armi furono, in parte bruciate e poi sotterrate. Furono
invece molto utili le maglie di lana e le coperte militari che
avvolgevano i fucili.
Questa fu la mia prima esperienza in fatto di lanci anglo -
americani. Tutt'altra cosa furono quelli fatti alla Colonia di
Rovegno e a Vigoponzo, fatti dagli Americani, carichi molto
ricchi sia di armi moderne e automatiche, sia di vestiario
militare che permisero al Corpo Volontari della Libertà di
dotarsi di uniformi più consone ad un inquadramento
militare.
La Resistenza ha dovuto superare molti ostacoli ma alla fine ha
raggiunto l'obiettivo di riscattare il nome dell'Italia dalle gravi
colpe del fascismo.

Disegno (A. Mangini) ripreso dal libro “PARTIGIANI IN AZIONE” di Enzo Rossi (Ròiss)

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Bisagno, Bini e gli Alpini “della Monte Rosa”

Siamo a dicembre, le giornate sono corte e piovose. L’Antola e


i monti vicini sono avvolti da una fitta nebbia e, per nostra
fortuna, la neve tarda ad arrivare.
Alla Casa del Romano c’è un
inconsueto movimento e
dall’atteggiamento del
Comando si intuisce che ci
sono novità in arrivo. Subito
si pensa al nostro
trasferimento nei vari
Distaccamenti periferici per
lasciare il posto ai nuovi
arrivati al Distaccamento
“BISAGNO” Comandante III° Divisione Garibaldi Cichero
Reclute. Invece,. Nella
tarda mattinata, arrivano due dei massimi Comandanti:
Bisagno e Bini che noi conosciamo soltanto di nome. Ci fanno
un’ottima impressione anche perché si siedono a terra con noi
e cominciano a spiegarci la loro dura esperienza dell’inverno
precedente, dicendo che anche questo sarà un inverno molto
duro e che dipenderà da tutti noi superarlo senza grosse
perdite. Ribadiscono che la disciplina è la trave portante
dell’organizzazione Partigiana, senza disciplina il Movimento
sarebbe destinato al fallimento e che l’altro aspetto importante
è il corretto comportamento dei partigiani nei confronti della
gente del posto, la quale condivide con noi i rischi e i disagi.
Passando poi al programma della giornata dicono che
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partiremo nel pomeriggio per un’azione importante, senza
specificare di cosa si trattasse.
Dopo aver mangiato partiamo ed arriviamo a Donnetta, presso
il distaccamento Alpino. Bini tira fuori da una saccoccia un
blocchetto di volantini e li consegna al Commissario. Arriva di
lì a poco Santo, il Comandante, e con lui sI parla di uno
scambio, provvisorio, di armi e di chi dovrà scendere con noi,
alla sera, a Torriglia. Ci offrono un po’ di pattona e un
bicchiere di vino.
Vengono scambiate alcune armi, compreso un mitragliatore
BREDA, portato con fierezza da un partigiano dell’Alpino.
A quel punto Bisagno ci dice che si va a prelevare una trentina
di Alpini della Monterosa che intendono disertare, che una
parte di loro rimarrà con noi e gli altri tenteranno di
raggiungere le loro famiglie. Ci raccomanda di attenerci agli
ordini ricevuti e di mantenere il massimo silenzio.
Arrivati nelle vicinanze della Colonia, Bisagno ci dice che in
caso di ritirata precipitosa dobbiamo seguire Bini e che la
mitraglia dovrà coprire la nostra ritirata. Una parte di noi
viene fatta fermare sopra un sentiero e gli altri seguono
Bisagno e Bini.
Trascorre molto tempo prima che arrivino i primi sei Alpini,
forse più impauriti di noi. Il Partigiano dell’Alpino toglie
l’otturatore dei fucili, prende le bombe a mano e mette tutto in
uno zaino che porta a tracolla. Si capisce che è esperto in quel
tipo di operazioni.
Passa ancora altro tempo, poi arrivano i nostri con il Sergente
degli Alpini che ha organizzato la fuga. Lui è armato con il
mitra e una pistola, mentre i primi hanno moschetto e bombe a
mano. Bisagno ci dice, sottovoce, che gli altri all’ultimo
momento non se la sono sentita di disertare quella sera.

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I sette vanno via con Bisagno e due dell’Alpino e noi, con Bini
e il mitragliere, ritorniamo sui nostri passi. Bini semina sulla
strada i volantini rimasti, ma solo fino all’incrocio, e ci spiega
che dopo l’incrocio non ci devono essere più volantini per ché
sarebbe un’indicazione circa la nostra direzione.
Risaliamo verso il nostro Distaccamento, non proprio
soddisfatti per la parziale riuscita dell’operazione ma
orgogliosi di aver partecipato alla prima azione partigiana.

Commemorazione dei cinque partigiani caduti presso il


Casone di Centonoci
Comune di Favale di Malvaro (GE) il 22 dicembre 1944.

Carzino Alfredo MILIO ComandoBrigata “Berto”


Chiesa Mario BALIN Distaccamento “Beppe”
Coppini Battista VINO Distaccamento “Beppe”
Napoli Giovanni POLI Distaccamento “Beppe”
De Giovanni Luigi CARLO III° ComandoBrigata “Berto”

Lettera/Testimonianza inviata a:
- Istituto Ligure per la Storia della Resistenza e dell’Età
contemporanea
- A.N.P.I. – Provinciale di Genova
- A.N.P.I. – Sezione Struppa (GE)

Il 22 dicembre 2001 ho partecipato alla cerimonia in


ricordo dei cinque partigiani caduti a Centonoci e, con
dolorosa sorpresa, ho constatato che, dopo 57 anni, c'è ancora

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chi tenta di gettare ombre e fango sulla Lotta di Liberazione,
come ha fatto il sindaco di Favale, Giovanni Boitano (Forza
Italia), che, nel suo intervento, ha insinuato che i partigiani
sarebbero morti perché sorpresi dai tedeschi mentre
dormivano.
Ermanno Baffico, oratore ufficiale dell'ANPI, ha corretto
l'oltraggiosa e provocatoria versione del sindaco, ma senza la
sufficiente efficacia perché, indubbiamente, non era stato
informato nei particolari di ciò che realmente accadde presso il
Casone di Centonoci.
Da parte mia ho contestato al sindaco la sua versione dei fatti,
senza però scendere nei particolari.
Poco tempo dopo detta commemorazione, indignato, ho
consegnato all'ANPI Provinciale di Genova una sintetica
descrizione dei fatti del 22 dicembre 1944.
Ora ritengo (anche perché sono uno dei pochissimi superstiti)
sia mio dovere ricostruire l'accaduto dettagliatamente,
avendolo vissuto dal suo nascere alla fine.
Precisare quello che è successo credo sia il modo migliore per
ricordare, con spirito garibaldino, i nostri compagni caduti in
quella tragica giornata per un errore del comandante Banfi.
Errore forse originato dalla sua formazione militare che mal si
conciliava con la tattica della guerriglia partigiana, fatta di
valutazioni e decisioni rapide, come pure di attacchi e di
sganciamenti altrettanto rapidi. La tragedia avrebbe assunto
proporzioni gigantesche se il colpo di cannoncino che ha
colpito la strafia (teleferica) fosse penetrato tra la casa e la
roccia retrostante dove ci eravamo rifugiati.
La storia di Centonoci inizia nel momento in cui il nostro
distaccamento, accantonato nelle Sciaree, piccola frazione di
Roccatagliata, stava controllando la mulattiera che, inizia nelle
vicinanze di Torriglia, passa per la Buffalora e arriva al Passo
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del Portello. Lo scopo era quello di prevenire attacchi a
sorpresa da parte dei nazi-fascisti che, da alcuni giorni,
stavano preparando il tristemente noto "rastrellamento di
dicembre" (1944).
Nella tarda serata del 20 dicembre arrivò dal Comando di
Brigata l'ordine di ritirarci appena possibile perché la zona
ormai era indifendibile (la storia c'insegna che la difesa non è
mai stata, e non lo sarà mai, tattica della guerriglia). Il nostro
distaccamento faceva parte della Brigata “Berto”, dal nome del
partigiano Berto, caduto nella battaglia di Allegrezze il 27
agosto 1944, decorato con Medaglia d’Oro al Valo Militare.
All'alba del giorno dopo partimmo per il paese di Barbagelata
e arrivammo a Costafinale verso le ore 10. Davide, il nostro
comandante, che nel frattempo aveva preso contatto con la
Brigata, ci comunicò che il Comando aveva deciso che non
dovevamo fermarci in zona, ma proseguire, insieme a loro, per
Favale. Giulin, il nostro commissario, si portò alla testa del
distaccamento e ci avviammo verso la nuova destinazione.
Camminammo fino a mezzogiorno e ci fermammo vicino a
due casupole, in un bosco di castagni, nella frazione Castello,
sopra il paese di Favale. Si preparò e si mangiò un po' di
polenta, fatta con la farina di castagne, la cosiddetta "pattona"
(cioè la nostra alimentazione quotidiana). Nel pomeriggio una
staffetta portò la notizia che i nazi-fascisti erano arrivati nei
pressi di Barbagelata, ma che non si conosceva la loro
direzione. Banfi disse che, al calar della notte, si doveva
ripartire e che non si dovevano lasciare tracce di sorta al fine di
evitare che i nazi-fascisti venissero a conoscenza della nostra
direzione di marcia.
A notte fonda scendemmo a Favale e ci fermammo vicino al
mulino; il proprietario era un antifascista, ci regalò alcune
pagnotte e del formaggio, cibo che ci fu utile il giorno dopo.
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Da lì si ripartì salendo verso il Casone di Centonoci; si salì in
silenzio, per quanto fu possibile, dovendo muoverci di notte e
su un sentiero molto scosceso. La nostra speranza era quella di
portarci fuori dall'area del rastrellamento, ma le cose non
andarono nel modo sperato. Ci attendeva una delle giornate
più tristi vissute in montagna.
Il giorno 22 iniziò con i primi colpi di cannoncino sparati da
oltre il colle e indirizzati verso i monti che racchiudono la
vallata di Favale, con prevalenza verso la Rondanaia dalla
quale, seguendo il profilo del monte, si arrivava sopra il
Casone, dove ci rifugiammo.
Il martellamento del cannoncino con i suoi colpi che si
avvicinavano sempre più al nostro rifugio continuarono fino a
colpire la strafia, che si trovava a circa 20 metri dal casone,
mentre all'interno dello stesso, fra i partigiani, montava la
tensione. Da una parte ci fu chi ritenne giusto sganciarci
subito e ripiegare verso il monte Ramaceto (fra essi, Balin
disse ad alta voce e con decisione: «Banfi andiamo via da
questo posto perché qui si muore tutti.», dall'altra, invece, ci
fu chi ritenne più giusto non muoverci sostenendo che,
avendo viaggiato di notte nel più assoluto silenzio e senza
lasciare tracce, nessuno poteva sapere che eravamo nel
Casone.
Verso le ore 10 dal Passo della Scoglina spuntarono i primi
reparti nemici che scendevano verso Favale. La colonna era
formata da "repubblichini" del Battaglione Aosta, della
Divisione Monterosa e da reparti tedeschi. A questo punto
alcuni di noi vennero inviati di pattuglia per accertarsi che
non ci fossero altre colonne nemiche convergenti su di noi da
altre direzioni: la distanza tra noi e i nazi-fascisti fu tale che,
muovendoci con cautela, non potevamo essere individuati.
Ad agevolare un'eventuale nostro sganciamento c'era un
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canalone che dal Casone portava alla vetta, che ci avrebbe
protetto alla vista di chi si trovava sul versante opposto.
Ma l'idea di non muoverci prevalse e nel Casone
subentrarono una certa rassegnazione e una manifesta paura.
In quel clima ci si avviò verso la tragedia.
La colonna nemica continuò la sua discesa verso Favale e,
arrivati alle due casupole, i nazi-fascisti le dettero alle fiamme.
E qui si doveva capire che le cose stavano volgendo al peggio:
era ormai chiaro che qualcuno li guidava in modo preciso sui
nostri passi.
Banfi però non cambiò idea e continuò a seguire i movimenti
da dietro le imposte delle finestre commentando a bassa voce
che tutto procedeva bene. Verso le 16, Banfi si allontanò dalla
finestra e disse che tutto era finito perché la colonna si era
mossa dal paese andando verso Lorsica; a questa notizia si
levò un urlo di entusiasmo subito raggelato dalle grida degli
assalitori che, arrivati sotto il Casone, urlavano:
«Arrendetevi banditi!». Attimi di panico e di smarrimento,
poi cinque compagni uscirono di corsa per tentare di
conquistare una posizione da cui contrastare gli assalitori, ma
vennero falciati dalla prima raffica di mitragliatore. Il primo
scontro si svolse nel raggio di 8 - 10 metri e nell'arco di poche
decine di secondi: Carlo 3°, uno dei cinque colpiti si rialzò da
terra e con un braccio teso e tre dita della mano aperte gridò:
«Sono solo tre!», ma una seconda raffica lo colpì in pieno
petto scagliandolo contro un albero di rovere. Aveva ragione
perché i primi ad arrivare sotto la casa furono due mitraglieri
e un sergente.
Franco, commissario della Brigata Berto, ferito alle gambe,
rimase a terra immobile e questa decisione gli salvò la vita;
Rino, ferito in modo leggero, si gettò lungo il pendio, mentre

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Milio e Poli, colpiti a morte, rimanevano a terra vicini a
Franco.
In quel trambusto infernale, quelli di noi che erano usciti di
pattuglia al mattino e conoscevano meglio il terreno
circostante si avviarono verso il canalone che portava sulla
cresta del monte. Fra questi c'era anche Balin che camminava
davanti a me e, arrivato su una piccola roccia, anziché
scavalcarla si accasciò a terra gridando: «Mamma, mamma!».
Gli urlai: «Balin alzati!», credendo che fosse inciampato;
invece era stato colpito alle gambe. Scavalcandolo, mi voltai
verso il basso e vidi il sergente "repubblichino" che
imbracciava il mitra e gridava come un'ossesso: «Arrendetevi
vigliacchi!»; ci scaricò contro un'ultima raffica con la quale
colpì a morte il povero Balin. Io, protetto dal suo corpo, mi
salvai.
Nel gruppetto uscito dal Casone c'era un partigiano con il
fucile mitragliatore e questo per noi fu un provvidenziale
punto di forza. Ci posizionammo sulla cresta del monte per
bloccare un'eventuale accerchiamento, ma non ci fu alcun
movimento in tal senso; si sentiva soltanto il crepitio delle
armi automatiche e lo scoppio delle bombe a mano e questo ci
dette la speranza che la situazione fosse migliorata.
La fase successiva ci fu raccontata da chi rimase nel Casone, ci
fu detto: “che nell’istante successivo all’ultima raffica sparata
contro Balin e mentre il Sergente repubblichino ricaricava
l’arma Totò gli scaricò contro una micidiale raffica col suo
efficientissimo MAS, stendendolo a terra. Davide con
altrettanta rapidità sparò contro i due mitraglieri, riducendo
al silenzio quella maledetta mitraglia, imprimendo così una
svolta alla drammatica situazione. A quel punto la circostanza
si capovolse e l’iniziativa passò nelle mani dei Partigiani.

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Tra i primi a portarsi alle finestre, il partigiano Punto che, con
il suo “Bren”, decimò il secondo gruppo nemico che si stava
avvicinando al casone. La battaglia continuò fino
all'imbrunire con lancio di bombe a mano e con tutte le armi
disponibili provocando la morte di 12 "repubblichini" e un
numero imprecisato di feriti (ciò venimmo a sapere, alcuni
giorni dopo il conflitto, dagli abitanti di Favale, che
assistettero al trasporto a valle dei nazi-fascisti caduti e di
quelli feriti).
Da parte nostra i caduti furono cinque: Balin, Carlo 3°, Milio,
Poli e Vino; i feriti quattro, dei quali Franco e Rino furono i
più gravi. Di Vino nessuno ha saputo dire quando e dove fu
colpito; si seppe solo che il suo corpo fu recuperato nelle
vicinanze del casone. Oltre ai caduti, purtroppo, lasciammo
sul terreno anche Franco cui la sorte non fu favorevole in
quanto la battaglia finì quando era già buio e i compagni che
recuperarono le armi dei nostri caduti, quella di Franco e
quelle dei repubblichini, lo fecero nel massimo silenzio.
Franco, pensando che fossero i nazi-fascisti, rimase immobile
e cosi sfumò la possibilità di portarlo via con noi. Col passare
del tempo Franco si rese conto che nel casone e nelle
vicinanze non c'era più nessuno e con fatica e dolore,
facendosi forza con le sole braccia, dato che le gambe erano
ferite, cominciò a salire palmo a palmo il pendio. Trascorsero
ore prima che raggiungesse la cresta del monte, ma, quando
pensava di essere fuori pericolo, mentre il campanile del
paese batteva le 10 di notte, fu investito da un fascio di luce
blu e un gruppetto di fascisti lo assalì con calci e pugni
ricoprendolo d'ingiurie. Solo l'intervento di un ufficiale
tedesco pose fine a quel linciaggio. Fatto prigioniero dai
tedeschi venne trasportato all'ospedale di Chiavari in attesa di
essere fucilato.
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Quanto segue è ciò che successe in paese prima dell’attacco al
Casone e che ci fu riferito dalla gente del posto.
Nel momento in cui la colonna nazi-
fascista entrava in Favale, un gruppo di
bersaglieri travestiti da partigiani
raccontò di essere inseguito dai tedeschi
e chiese di poter raggiungere i partigiani.
Un ragazzo, ingenuamente, disse ai falsi
partigiani di aver visto i guerriglieri nei
pressi del casone di Centonoci, mentre
stava pascolando le pecore,
indirizzandoli,involontariamente, verso
di noi. Nel mese di gennaio iniziarono le trattative con i
tedeschi per uno scambio di prigionieri. A Borzonasca Franco
venne scambiato con un ufficiale tedesco già prigioniero dei
partigiani.
Va ricordato che Borzonasca è il paese in cui il 21 maggio
dell'anno precedente un gruppo di fascisti locali presenti alla
fucilazione del partigiano Severino applaudiva entusiasta al
grido di «Viva Spiotta!», boia e torturatore di partigiani e di
antifascisti che, con le sue squadracce, terrorizzò le
popolazioni dei paesi delle vallate nella zona del Levante.
Non mi spiego perché quanto è accaduto a Centonoci non sia
stato riportato nemmeno dal giornale “Il partigiano”, stampato
in montagna. Nel giornale si trovò soltanto un cenno di
riconoscimento al merito per il Comandante Davide, senza
però precisarne la motivazione, mentre della battaglia di
Centonoci parlò Radio Londra la sera del 27 dicembre 1944
quando, con il nostro distaccamento, eravamo accantonati nel
paese di Magnasco in Val D'Aveto. A quel tempo il mio nome
di battaglia era Castagnino .

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Nel mese di febbraio lasciai il mio distaccamento, che in quel
periodo si trovava nel paese di Castagnello, nelle vicinanze di
Paggi, e passai nella Brigata Volante Severino, guidata dal
Comandante Gino. La Severino operava alle porte di Genova
avendo la sua base tra San Martino di Struppa, Montoggio e
Davagna, prevalentemente nei paesi di Campoveneroso,
Noci, Canate ecc., poi alla periferia della città stessa: San Siro,
Prato, Doria, Ligorna ecc.

Disegno ripreso da “IL PARTIGIANO” – Organo della III° Divisione Garibaldi “CICHERO”

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Chi era Severino?
(Biografia tratta da il giornale “IL PARTIGIANO” del 1 agosto 1944)

21 maggio 1944: è domenica. All'ora del vespro il piazzale è


semideserto. I patrioti scesi dai monti il mattino per attaccar la
Caserma di Borzonasca han dovuto ritirarsi sotto il fuoco dei
fascisti del paese che sparavan dalle case.
Perché? — si domandan i paesani? — Ritorneranno ed
allora.... — Non ritorneranno, no — assicurano i fascisti —
Verranno i nostri ora.
Difatti i "nostri" vengono : ecco l'auto di Spiotta e dei camion,
tanti camion di fascisti e tedeschi. Ne discende un ragazzo
ancora ventenne. Mani e piedi legati, é trascinato sul piazzale.
La gente accorre rinfrancata: é un bandito. Un bandito
ventenne dallo sguardo chiaro e limpido che contempla la
morte, dai riccioli castani scapigliati, dal corpo esile e nervoso.
E' Severino. Chiede una sola cosa: un prete. Un cane come te
non ha bisogno di un prete per andare all'inferno! Dalla chiesa
è tolta una sedia e lo si fa sedere. .
La folla dei fascisti applaude divertita. — Viva Spiotta! —
Severino s'è portato le mani alle tempie ed attende immobile.
Lo spettacolo incomincia: la prima scarica alle gambe! — Ho
anch'io una mamma! Sono le sue parole, poi cade riverso
rotola sul lastricato; non è ancora morto; morirá cosl poco a
poco, il viso immerso nel suo sangue, il corpo rattrappito.
Aveva anche lui una mamma! Tu no che non l'avevi Spiotta,
che nato da una cagna hai da esser!
Sapete chi era Severino gente di Borzonasca che avete
applaudito ai suoi assassini? Un siciliano era, scappato dalla
guerra e che invece di starsene tranquillo era venuto ai montí
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fin da settembre per combattere coloro che l'avevano voluta, i
veri banditi. Aveva fatto parte dalla prima formazione della
Liguria, quella che poi doveva diventare la terza. Aveva una
mamma, sì, e dei compagni che al primo distaccamento di
una nostra Brigata han dato il suo nome e che han giurato di
vendicarlo. Uno dei suoi assassini è così caduto. Gli altri
cadranno.

SAVERINO RAIMONDO (Severino) di Settimo e di Anna Gioia,


nato il 7 febbraio 1923 a Licata (Agrigento), residente in via Benedir 12, di
professione contadino.
Chiamato alle armi il 6 settembre 1942, fu destinato al 241° reggimento
fanteria Imperia. Combatté in Grecia , nel mese di giugno 1943 rientrò in
Italia.
L’8 settembre 1943 anziché tornarsene a casa, scelse di combattere con i
Partigiani in Liguria.
Morì fucilato (primo martire della “Cichero”) a Borzonasca il 21 maggio
1944.
(Enzo Rossi “RÒISS) (“Il Partigiano in Azione”)

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Il monte Aiona, coperto di neve, e due cuochi improvvisati.

28 Dicembre del ‘44. Dopo alcune giornate fredde e


movimentate arrivammo a Magnasco e ci sistemammo nell’ex
scuola del paese. La consideravamo una buona soluzione in
quanto le colonne nemiche si muovevano in altre direzioni. In
zona c'era già un'altra formazione Partigiana, quella del
Comandante "Istriano" accantonata a Villa Noce e con una
piccola squadra a Cerro come avamposto sulla direttrice
Rezzoaglio/Santo Stefano D'Aveto. I Partigiani dell'Istriano li
avevamo incontrati una ventina di giorni prima, sulla
mulattiera che passa sopra la frazione delle Raspeghee,
mentre noi eravamo di pattuglia. Non ci furono presentazioni
ma Barbera, da buon veterano della Sesta Zona, ci disse che
erano i Partigiani dell'Istriano. Di quella formazione, sempre
in movimento ci colpì il fatto che molte Partigiane fossero
inquadrate nella formazione e armate come vere guerrigliere.
Ritornando al nostro Distaccamento va ricordato che oltre ai
problemi di natura militare ne avevamo uno di natura pratica,
cioè quello di fare una profonda pulizia degli indumenti da
troppo tempo indossati, non avendone altri di ricambio.
Davide pensò di approfittare della vicinanza con Santo
Stefano dove c'era la lavanderia della Colonia, nella quale
praticare un bucato collettivo a temperatura altissima e
liberarci così da quei piccolissimi, fastidiosi e indesiderati
compagni di viaggio. Il problema era come procedere senza
crearci troppe difficoltà. La soluzione fu quella di dividere il
Distaccamento in due gruppi: il primo si sarebbe liberato
degli indumenti avvolgendosi nelle coperte e così avrebbe
fatto il secondo gruppo. Il primo giorno filò tutto liscio ma i
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problemi nacquero con il secondo: il carro con gli indumenti
tornò nel primo pomeriggio, con gli stessi ancora umidi e con
la brutta notizia che una forte colonna nemica muoveva verso
di noi per cui avremmo dovuto spostarci ulteriormente verso
levante.
Nel Casone ci fu molta amarezza e tanto disagio per quelli che
dovevano indossare i vestiti ancora umidi, molti di noi
rimediarono con ciuffi di paglia infilata tra le maglie e la pelle,
altri più fortunati con della carta. C'era pure la
preoccupazione di muoverci di notte su un terreno coperto da
un manto di neve e sconosciuto a molti di noi. Le incertezze
non sono mai buone specie nei momenti difficili: quindi si
organizzò rapidamente la partenza.
I più robusti, Zatta e Barbera, avevano il compito di
raccogliere e portare con noi i pochi generi alimentari: riso,
castagne secche e farina di castagne, più le relative pentole
per cucinare. Partiti con in tasca un pugno di castagne secche
camminammo guidati dai Compagni che conoscevano meglio
la zona. Salimmo verso la vetta del Monte Aiona, ma più si
saliva più alto era il manto nevoso. Quindi fu giocoforza
fermarci e invertire la direzione perché c’era il rischio di
rimanere bloccati sul monte in balia dei nazifascisti. A quel
punto Davide disse di puntare verso il basso dove ci saremmo
mossi meglio. Man mano che si scendeva la situazione
migliorava tanto che arrivando nei primi boschi di castagni la
neve tendeva a scomparire, la luna illuminava i sentieri e
l'andatura riprendeva la sua cadenza normale. Scendendo
arrivammo vicino ad un secchëso5 dal quale usciva un’aria
calda e invitante. Ma questo riparo era di dimensioni troppo
piccole per un gruppo numeroso come il nostro. In più era

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Essiccatoio di castagne
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impensabile dividerci e tantomeno rallentare la nostra marcia
e quindi proseguimmo oltre, alla ricerca di un posto
abbastanza sicuro per riposare qualche ora. Quando
pensammo di aver messo tra noi e i rastrellatori una tale
distanza da garantirci una certa sicurezza, ci avvicinammo a
delle piccole cascine piene di foglie di castagno e stanchi come
eravamo ci addormentammo profondamente, ovviamente
dopo avere stabilito dei rigidi turni di guardia. La mattina
dopo ci incamminammo verso il paese, Prato sopra la Croce,
arrivando attorno a mezzogiorno.
Non mangiavamo da più di 24 ore per cui urgeva accendere il
fuoco e preparare qualcosa da mangiare. Biscia e Garda
andarono alla ricerca di un po’ di salsiccia per fare del sugo
necessario per un buon risotto. Tornarono con un pezzo di
carne di capra che, a prima vista, doveva avere più anni di
noi. Comunque tutto andava bene pur di mettere sotto i denti
qualche cosa di sostanzioso. Due si improvvisarono cuochi e
si misero ad armeggiare attorno a un grosso paiolo ma come
spesso succede a chi si improvvisa cuoco tutto andò in
malora. Per inesperienza avevano buttato il riso nel poco sugo
senza aggiungere dell'acqua, così quel povero riso diventò un
blocco informe di colore marrone. A quel punto non restava
che ritornare alla solita "pattona" per riempirci lo stomaco.
Dopo mangiato partimmo per San Siro Foce arrivando a tarda
sera e da lì si ripartì per la destinazione definitiva, la Val
Graveglia.
Ci si potrebbe domandare perché non avevamo il cuoco nel
Distaccamento, la risposta era che quello che avevamo si era
allontanato il 21 Dicembre senza farne più ritorno. Lo
incontrammo dopo molti giorni nelle vicinanze del
Lavagnola, quando con Punto e Milan ritornavamo a Genova,
avendo ottenuto dal Comando un permesso di dieci giorni.
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Lui non volle parlare del suo allontanamento dalla
formazione né del suo progetto futuro. Io vidi che portava
nella cintura la mia piccola rivoltella Beretta 6.35. Gli chiesi
spiegazioni ma lui me la restituì senza rispondere alle mie
domande. Era sempre stato un giovane poco socievole e facile
a scatti d'ira, parlando della sua vita diceva di essere stato un
navigante e di avere fatto il cuoco sulle navi da carico. Come
nome di battaglia aveva scelto “Grisa” e non dava molta
confidenza agli altri. Si seppe poi che ritornato a Genova si
arruolò nella Repubblica di Salò, ma pur essendo vicino di
casa di Milan non fece nessuna delazione. È sempre difficile
capire certi comportamenti degli uomini.

Disegno ripreso da “IL PARTIGIANO” – Organo della III° Divisione Garibaldi “CICHERO”

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Una spia e lo sfortunato Partigiano Barbera

Barbera era un ex carabiniere che nell'estate del ‘44 entrò nella


Resistenza passando poi nel nostro Distaccamento,”La
volante del Beppe”, dal nome del valoroso comandante
caduto in un'imboscata su un sentiero del Monte Caucaso.
Barbera era sempre allegro e disponibile per qualsiasi compito
che gli venisse assegnato, ma la fortuna non gli è stata
benevola.
Col Distaccamento siamo partiti da San Siro Foce il primo
gennaio del '45 per andare nel paesino di Castagnelo in Val
Graveglia pensando di trascorrervi un periodo di tranquillità
dopo la dura batosta subita al Casone di Centonoci. Ma non fu
come si sperava perché la zona era molto vicina allo
schieramento nemico, tanto che alla notte si sentiva il "chi va
là" dei repubblichini al posto di blocco del ponte di Santa
Lucia. L'unica cosa positiva che trovammo in quella zona
furono gli abitanti del posto, gente semplice e molto generosa
con noi anche se conoscevano il pericolo che correvano
aiutando i "ribelli".
Il primo giorno che arrivammo a Castanelo lo passammo ad
ispezionare il territorio circostante per capire come muoverci e
quelli successivi con lunghe ore di pattuglia e doppia guardia
notturna. Il giorno 6 arrivò una staffetta con l'ordine, della
Brigata, di prelevare una spia nel paese di Conscenti. Si diceva
che per breve tempo, avesse frequentato una formazione della
Coduri ma che si sarebbe allontanato, precipitosamente,
appena resosi conto di essere controllato. Per la profonda
conoscenza che lui aveva della Val Graveglia, oltre alla spia,
iniziò a fare da guida alle squadracce fasciste di Spiotta nelle
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loro scorribande. Di notte li accompagnava su dei sentieri
altrimenti impercorribili per chi non fosse della zona. Questo
servizio permetteva alle Brigate Nere di arrivare sul posto
prima dell'alba e sorprendere così i Partigiani e la popolazione.
Davide, il nostro comandante, assegnò a Zatta il compito di
organizzare e guidare la spedizione essendo il Vice
Comandante e perché conosceva meglio degli altri la zona,
poichè nativo di Reppia. Zatta scelse una squadra poco
numerosa che permettesse di muoversi meglio; scelse Barbera,
Scala, Castagnino (il sottoscritto) e il Biscia, anche lui nativo
della zona di Reppia.
Partimmo ed arrivammo, a tarda sera, nelle vicinanze di
Conscenti dove ci aspettavano due partigiani della SAP di Ne,
ci avvicinammo e circondammo la casa.
Zatta con uno della SAP andarono a bussare ma invece della
porta si aprì una finestra al piano superiore dalla quale
vennero esplosi due colpi di rivoltella, seguiti dallo sbattere di
una imposta che si richiudeva, poi silenzio. Barbera saltò giù
dal terrazzino dove si era appostato e poggiando male il piede
si fratturò il perone della gamba destra. Sorreggendolo a turno
ci portammo fuori dal paese e ci appostammo dietro un
muretto sopra la strada. I compagni di Ne ci proposero di
portare Barbera in un rifugio che secondo loro era molto
sicuro, farlo poi visitare da un medico amico e trasportarlo
successivamente in un ospedale, vestito in borghese, o al
Distaccamento, sentito il parere del medico. Barbera disse che
preferiva ritornare al Distaccamento e anche Zatta fu della
stessa opinione e disse che avremmo informato il Comando e
richiesto un medico per le cure del caso. Ma ora occorreva
qualcosa per poterlo trasportare. Mentre si aspettava il ritorno
dei Sapisti si rifletteva sulle cause del fallimento dell'azione e si
cercava di capire chi avesse sparato ma non si trovava una
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risposta plausibile. La risposta arrivò nei giorni successivi e fu
abbastanza semplice: la spia rientrava al pomeriggio a casa e
con passaggi interni si trasferiva in un locale al piano
superiore, lasciando credere di essere presente in casa sua.
I due ritornarono da lì a poco con una piccola scala a pioli e un
sacco pieno di fieno. Nella scelta di quel materiale c'era tutta
l'intelligenza e l'inventiva del mondo contadino. Con quella
rudimentale barella trasportammo Barbera al Distaccamento.
Arrivati in paese cercammo un rifugio provvisorio e lo
trovammo nel retro del frantoio, protetto da una catasta di
legna. Due giorni dopo Barbera fu trasferito in un altro rifugio
ricavato sotto una grossa frana sulle pendici del Monte
Cornella. Non era molto accogliente ma almeno lui poteva
riposare su un giaciglio di foglie di castagno, in attesa
dell'arrivo del medico che gli immobilizzasse la gamba. Ma
quando la sfortuna ti perseguita non c'è difesa possibile. Una
mattina prima dell'alba Scala, che divideva il rifugio con
Barbera, uscì per ispezionare il bosco e si trovò circondato dalle
Brigate Nere (questo era il classico rastrellamento guidato
da un accompagnatore notturno). Scala cercò di allontanarsi
ma fu colpito a morte. Per Barbera iniziò il secondo calvario,
fu prelevato dal rifugio e trasferito in una casupola fuori dal
paese. Le Brigate Nere continuarono il rastrellamento. Ma le
fucilate contro il povero Scala misero in allarme gli altri due
gruppi che si trovavano più in alto nel bosco, avendo così il
tempo di portarsi fuori dal rastrellamento.
Noi che eravamo accampati sopra il paese di Paggi non
avvertimmo nulla di quanto accadeva sulle pendici del Monte
Cornella. Solo nel pomeriggio si seppe della morte di Scala e
della cattura di Barbera. Questo fatto creò uno stato d'animo
negativo, svanivano le teorie del Comando della Brigata Berto
che ritenevano idonea la zona per trascorrere l'inverno. La
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strategia era quella di dividere in quattro squadre il
Distaccamento e approntare dei rifugi per trascorrervi le
giornate. Ma con gli ultimi avvenimenti questa strategia non
reggeva più e la paura serpeggiava tra noi.
Barbera fu trasferito a Chiavari e non ricordo come si concluse
la sua disavventura. Io non capivo perché si doveva vivere nei
rifugi con la paura di essere aggrediti e catturati senza
combattere, senza vedere in faccia i repubblichini e i loro
padroni tedeschi.

Disegno ripreso da “IL PARTIGIANO” – Organo della III° Divisione Garibaldi “CICHERO”

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I quattro della Guardia Nazionale Repubblicana
a caccia di generi alimentari

E' quasi mezzogiorno quando arriva al Casone; la sorella del


nostro compagno Drin dicendoci che in paese – Paggi - sono
arrivati quattro repubblichini che sotto la minaccia delle armi
si fanno consegnare ogni tipo di prodotto. Dice che sono
giovani della vallata e che tra questi c'è anche un loro lontano
parente, che abita nei "cianetti", un tipo strano che da sempre
viene considerato un "nello". Titolo poco onorifico perché da
quelle parti vengono chiamati così quelli un po' ritardati
mentalmente. Si dice che sia stato lui insieme ad un altro, a
entrare in casa di un loro zio portandogli via due "sciappe",
grossi pezzi di lardo.
Biscia, il nostro caposquadra, dice che Drin non può scendere
in paese perché la sua partecipazione svelerebbe la nostra
presenza in zona, mentre la nostra puntata deve apparire come
occasionale. Arrivati in paese ci viene incontro una donna che
ci indica uno dei quattro seduto su una grossa latta con la
mano poggiata su una cesta, piena di fagotti, come a dire
"questa è roba mia". Biscia gli punta contro lo "Sten" e gli
intima di sdraiarsi a terra e Giuva gli toglie la bomba a mano
che porta appesa alla cintura. Io e il Milan ci posizioniamo a
copertura dei due compagni.
Biscia chiede al "nello" dove sono andati gli altri tre ma lui fa
scena muta fino quando sente la canna dell'arma sfiorargli la
testa. A quel punto dice che sono andati al frantoio e ci indica
la strada. Ci sistemiamo in modo da prenderli tra quattro
fuochi e catturarli. Aspettiamo per pochi minuti il loro ritorno
40
e quando si sentono dei passi che si avvicinano il "nello",
sempre steso a terra, si mette a urlare "i banditi, i banditi"
mentre dall'angolo della casa sbucano i tre fascisti ai quali
Biscia intima: "Mani in alto". Ma quello col mitra spara cinque
o sci colpi senza un bersaglio preciso, ritirandosi poi
velocemente insieme ad un altro, arrancando sui ciottoli con le
scarpe ferrate: si sente un tonfo e un urlo di dolore, poi
silenzio. Il terzo uomo si getta a terra con le mani sopra la testa
e grida "non sparate, non sparate".
Giuva lo disarma e lo porta vicino al "nello", dopo di che ci
avviamo verso la parte alta del paese; la gente si è ritirata in
casa soltanto la donna che prima ci aveva indicato il
repubblichino è sulla porta e ci saluta sorridendo come una
vecchia amica. Quanto rapinato dai quattro ladroni resta sulla
strada a disposizione dei legittimi proprietari.
Facciamo camminare davanti i prigionieri, per non avere delle
sorprese. Questi tentano di rallentare l'andatura ma basta che
Giuva gli avvicini la canna del fucile alla testa di uno dei due
per passare ad una andatura da veri camminatori.
Arrivati al Casone i due repubblichini vengono rinchiusi in un
piccolo magazzino usato come deposito per gli attrezzi. Biscia
dice che i due prigionieri resteranno soltanto per la notte e che
l’indomani verranno accompagnati a San Siro Foce dove sarà
compito del Comando trasferirli in zona sicura.
Ma il giorno dopo i due non fanno molta strada perché ad un
certo punto del percorso chiedono che gli vengano slegate le
mani per potere bere un po' d'acqua da un piccolo ruscello:
bevono, si guardano attorno, poi con uno scatto fulmineo
tentano di fuggire. Ma due micidiali raffiche di STEN mettono
fine al loro illusorio piano di fuga.

41
Il ritorno sui Monti di Noci

Pensavo ai Monti di Genova e di Torriglia, alla Volante


Severino, nelle cui file alcuni mesi prima avevo chiesto di fare
parte. Da parte mia il disagio aumentava e cercavo una via
d'uscita. Una sera con Punto e Milan decidemmo di chiedere
una settimana di permesso per rientrare a Genova e poi
decidere se ritornare o meno in quella zona.
Davide e Giulin dissero che loro
non si opponevano alla nostra
richiesta ma che un permesso
scritto lo poteva rilasciare solo il
Comando, che in quel momento
si trovava in Val D'Aveto.
Partimmo prestissimo in
direzione del lago di Giacopiane
e proseguendo lungo
l'acquedotto scendemmo vicino a
Parazzuolo e di lì verso la
Ventarola.
Al comando spiegammo il
perché della nostra decisione e
dopo alcune raccomandazioni ci
Commissario “GIULIN” (a sinistra)
e Comandante “DAVIDE” rilasciarono un permesso di 10
giorni, quale lascia-passare per
tutta la sesta zona.
Ripartimmo e arrivammo sul Lavagnola dove si dovette
attendere la notte per scendere sulla statale 45, nel tratto
Laccio- Scoffera, ed aspettare che passasse la pattuglia tedesca
42
che faceva la spola tra i due paesi. Questo era il punto più
pericoloso per il fatto che nel Castello di Tercesi vi stanziava
un reparto tedesco e questo comportava un grosso rischio
perché a un qualsiasi rumore provocato da noi ci saremmo
trovati fra due fuochi e in una trappola mortale.
Superato il punto critico di Tercesi, attraverso i monti,
arrivammo vicino a casa mia dove ci separammo con
l'impegno di trovarci dopo otto giorni a Noci per proseguire
insieme verso la Val D'Aveto e poi decidere se ritornare o no
nel precedente Distaccamento.
Loro proseguirono verso la città dove Punto abitava in Via
Montaldo e Milan in Vico Tacconi, nel centro storico. Era bello
ritornare a casa dopo aver trascorso alcuni mesi in
"montagna". Ma le cose non furono così semplici per il fatto
che un vicino di casa si era arruolato nella Repubblica di Salò
e, in questa situazione, la mia presenza in casa diventava
molto pericolosa, quindi decisi di ritornare ai monti e mi recai
a Campoveneroso.
E per la seconda volta chiesi a Gino se potevo fermarmi nella
Severino, gli spiegai i motivi che avevano portato alla decisione
di lasciare temporaneamente il mio reparto e la situazione che
avevo trovato a casa. Dopo alcune considerazioni Gino decise
che potevo restare e disse di farmi consegnare armi e divise e
mettermi a disposizione di Sestri che si trovava nel vicino
paese di Noci, con il suo Distaccamento. Arrivato a Noci, su
suggerimento di Volga, cambiai anche il nome di battaglia,
scegliendo come nuovo nome "Ermes".

43
I paesi di Noci e Campoveneroso
fanno parte della storia della Volante Severino

Dopo il pesante rastrellamento di Agosto 44; per decisione dei


comandi della VI zona operativa e della 3a Divisione Garibaldi
“Cichero” Gino venne incaricato di formare una squadra di
volontari e con loro spostarsi alla periferia di Genova, cioè
all'interno dello schieramento nemico e da lì colpire al cuore le
forze nazifasciste. Il gruppo che si apprestava a lasciare il
"Cichero" per la nuova destinazione veniva definito, più o
meno scherzosamente, "la squadra dei silurati", ma ben presto
verranno riconosciuti come i migliori Garibaldini della VI°
zona operativa. Essi erano: Ce – Ditta – Gianni – Maggi –
Giuda – Marinaio – Polvere – Risso – Rosso – Sestri – Tegole
– Turco – Zena – Comandante Gino.
Gino, con i suoi 13 uomini, il 14 Settembre del ‘44 entrò nella
nuova zona assegnatagli e il 4 Ottobre si spostarono nel paese
di Campoveneroso dove si accantonarono nella "Casetta Rosa"
che diventerà per lungo tempo la base principale della
Severino. Le armi erano poche, quindi bisognava darsi da fare
per procurarsele individuando le fonti di approvvigionamento
44
nei presidi nemici della bassa Val Bisagno, oltre che disarmare
le pattuglie e i singoli nazifascisti che si attardavano, la sera,
nelle strade della periferia della città.
La gente è affascinata
da questi guerriglieri
che quotidianamente
sfidano i nazifascisti,
andandoli a stanare
nei loro fortilizi
protetti da zone
minate e da molteplici
file di filo spinato. Le
notizie passano di
bocca in bocca e fra le gente matura l’idea che è possibile
sconfiggere gli invasori e i loro vili mercenari che tanti lutti
arrecano alla nostra città. Gino e i suoi uomini, col loro
comportamento, si conquistano la simpatia e la solidarietà
degli abitanti dei paesi della Vallata i quali aiutano, come
possono, i Partigiani.
Il 14 febbraio del 1945 la zona fu investita da un importante
rastrellamento: vista la superiorità numerica dei nazifascisti
Gino non si fece cogliere impreparato e con una mossa
intelligente spostò la formazione lungo un canalone del Monte
Candelozzo beffando i rastrellatori. A quel punto gli “eroi del
fiammifero” non trovarono di meglio che dare alle fiamme la
Casetta Rosa.
Oggi Campoveneroso, conosciuto dai più, come
Camponevoso è praticamente scomparso sotto l'avanzare dei
rovi e della boscaglia. Durante la guerra era un piccolo paese,
come tanti altri dell'Appennino Ligure, dove gli abitanti
campavano coltivando la terra, tagliando la legna nei boschi e
producendo carbone vegetale.
45
Per testimoniare la presenza Partigiana in questi siti, nel paese
di Noci è stato eretto un cippo e una lapide in ricordo del
Partigiano Giuda (Gildo Pensiero) morto tragicamente a
Campoveneroso. Anche sul muro dell’osteria della Reglia c’è
una targa in marmo. In questo luogo, nelle fredde giornate
invernali, i Partigiani sostavano qualche ora a scaldarsi vicino
alla stufa.
Anche a Campoveneroso c'era un'osteria, quella della Genia,
ma più che di osteria si trattava di locali dove veniva esercitata
la mescita del vino. Mancando le strade il vino veniva
trasportato nelle pelli di capra (otre) e a dorso di mulo.
A quel tempo si era sempre presi dai problemi della vita in
montagna e le piccole cose che succedevano nei paesi
aiutavano a stemperare la tensione e in certi casi diventavano
un divertimento, come quella specie di gara fra la Genia e la
Reglia, le due padrone delle osterie che avevano ambedue un
figlio che studiava musica e tutti e due suonavano la
fisarmonica. Tra i due ragazzini vi era una bonaria
competizione. Ma la Genia spronava suo figlio ad un
maggiore impegno per eguagliare l'altro ragazzino. La gara
però era impari poiché il figlio della Reglia era più dotato
"musicalmente" tanto che diventò poi un musicista di
professione. Era logico che si formassero due accanite tifoserie
e che noi imparziali spettatori assistessimo divertiti alle accese
discussioni.

46
L’incontro a Noci con due compagne dell’UDI

Gli arrivi in paese non riguardavano soltanto persone che


venivano per acquistare piccole quantità di patate per la
propria famiglia ma anche nostri amici che ci portavano le
notizie che riguardavano le nostre famiglie, o più
semplicemente per manifestarci la loro solidarietà.
Un giorno a "Noci" arrivano due giovani e belle donne. Sono
le compagne dell'UDI Genovese (Unione Donne Italiane) le
quali ci trasmettono un messaggio di solidarietà
dell'organizzazione medesima. Ci portano anche delle calze di
lana, fatte a mano dalle donne antifasciste del Centro Storico
Genovese. Poca cosa per la nostra formazione, assai
numerosa, ma questo modesto dono racchiude in sé tutto
l'affetto che la maggioranza dei Genovesi nutre per noi
Partigiani. A noi piaceva pensare che delle donne avessero
raccolto e confezionato indumenti per i "RIBELLI"; pensando e
fantasticando su quei mitici guerriglieri che spesso scendono
dai "monti" ed assestano duri colpi ai nazisti e ai loro accoliti
repubblichini.
Le due Compagne sono felici e un po’ emozionate nel trovarsi
fra i Partigiani della Severino, dei quali hanno spesso
apprezzato le temerarie azioni fatte alla periferia e in certi casi
anche all'interno della città. Oggi possono osservarli da vicino
mentre partono e quando rientrano dai loro turni di pattuglia,
stanchi e affamati ma col sorriso sulle labbra, dicendo
"Comandante nella nostra zona è tutto tranquillo" e Gino
come solitamente fa li ripaga con un sorriso paterno ed una
strizzatina d'occhio.

47
Arriva mezzogiorno e con le nostre gradite ospiti, mangiamo
un piatto di spezzatino nel quale i pezzetti di carne si perdono
in un mare di patate, ma tutto sommato è un piatto assai
gustoso. E' stato preparato dal Partigiano Donez, uno che con i
fornelli ci sa fare.
Le compagne chiedono di poter visitare il paese, anche per
farsi un'idea del rapporto che i Partigiani hanno con la gente
del posto. Risso rivendica, "per anzianità partigiana", il
privilegio di fare da guida alle nostre giovani ospiti. Nessuna
obbiezione da parte nostra e Risso dà il via alla passeggiata
tra le “stradine” di Noci con quell' aria seriosa consona al
personaggio che noi scherzosamente gli riconosciamo; lo
chiamiamo il "Dottor Risso" per la sua valigetta, con sopra la
croce rossa dalla quale estrae due o forse tre boccette
contenenti le pasticche che distribuisce per qualsiasi disturbo.
Lui sostiene che con due delle sue pastiglie la guarigione è
assicurata. Ma il vero responsabile sanitario della Brigata era il
Partigiano Castello.
In paese la curiosità è forte perché nessuno sa chi sono le due
giovani donne ospiti della Severino. Vi è un viavai di ragazze
che vanno alla fontana e ritornano con i secchi pieni d'acqua,
scambiandosi occhiate interrogative. Ma il segreto non viene
svelato per garantire l'anonimato alle due compagne. Nel
salire verso la parte alta del paese il "terzetto" incontra Gabir,
seduto sul muretto vicino alla scuola, intento a smontare il suo
fedele fucile mitragliatore, e che prende la palla al balzo per
tenere una lezione sulla funzionalità e la potenza del suo
"BREN", ma Risso lo blocca dicendo: "Oggi non si parla di
armi ma della nostra GENOVA, che non vediamo da troppi
mesi". Gabir fa finta di non prendersela e dice: "È tutta
invidia" e continua a lucidare e lubrificare la sua fedele arma.

48
Arrivata l'ora di ripartire, le due compagne si avviano lungo il
sentiero che le riporterà a Valle. voltandosi più volte per
salutarci e facendoci dei segni come dire ritorneremo a
trovarvi. Ma quel pensato e promesso appuntamento non ci
sarà perché dopo una sessantina di giorni noi scenderemo a
Genova per liberarla da quei vili che per troppo tempo l'hanno
martirizzata.
Mi piace pensare che le due compagne saranno state tra la
folla festante ad applaudirci e che con una punta di orgoglio si
saranno rivolte agli altri manifestanti dicendo: noi i Partigiani
della Severino li abbiamo incontrati poco tempo fa sui monti
della Val Noci" e noi custodiremo gelosamente il bellissimo
ricordo della loro visita in Montagna.

Arriva in paese un pittoresco personaggio.

Nelle osterie della Reglia e della Genia, capitavano i


personaggi più strani e pittoreschi per cui si doveva
mantenere una costante attenzione verso i nuovi arrivati.
Un giorno che la “Severino” era riunita a Campoveneroso,
arrivò da Noci una ragazza dicendo che nell’osteria della
Reglia c’era un uomo mai visto prima in paese. Gino mandò
due di noi a Noci per verificare chi fosse il nuovo arrivato.
Giunti all’osteria ci avvicinammo all’uomo che era seduto ad
un tavolo, dicendogli che si trovava in zona partigiana, e che ci
spiegasse il motivo della sua presenza in paese. Per tutta
risposta lui si alzò e con un gesto teatrale disse: “Io sono Balin,
il sabotatore del Porto di Genova”. Gli ripetemmo la stessa
domanda e venne fuori che il vero motivo della sua venuta a
49
Noci era quello di acquistare delle patate per la sua famiglia e
fu chiaro che la roboante dichiarazione di essere un sabotatore
del porto era stata fatta per far colpo su di noi e forse per
scontare un buon prezzo sulle patate.
Ma il perché si fosse attribuito, gratuitamente, tanto onore lo
capimmo in seguito. Parlando ci spiegò di aver partecipato ad
un fatto che nulla aveva a che fare con i sabotaggi in porto, ma
per chi ci aveva partecipato veniva considerato tale. Era
successo che alla “piccola” - il binario tronco che da Ponte
Calvi arrivava davanti a Piazza Caricamento - da alcuni giorni
sostavano dei vagoni ferroviari sorvegliati dai repubblichini e
“radio carruggi” aveva diffuso la voce che i vagoni erano pieni
di pasta alimentare destinata all’esercito. Detto fatto gli
abitanti della zona si organizzarono per dare l’assalto a tanto
ben di Dio. Alle ragazze il compito di distrarre i militi
repubblichini e ai “sabotatori” quello di spiombare i vagoni e
fare man bassa. Ma ecco la sgradita sorpresa: i vagoni erano
carichi di filo spinato e nei carruggi dovettero rinviare la tanto
sospirata “spaghettata”. Questa fu la vera storia del
“sabotatore Balin” (Germano Bo).
Passavano i giorni e la “Severino” continuava nella sua
martellante azione contro i presidi nazi-fascisti dell’Alta e
Bassa Val Bisagno. La popolazione di quelle località, parlando
dei paesi di Noci e Campoveneroso li collegava
automaticamente ai Garibaldini della Severino. Tutti
stimavano Gino e i suoi uomini e consideravano la “Severino”
parte integrante della loro comunità.
Le ragazze di Noci e Campoveneroso facevano a gara nel
confezionare, per i Partigiani, i fazzoletti rossi, orlati del
tricolore, così come la stella a cinque punte che era il simbolo
delle Brigate Garibaldi. I giovani davano la loro disponibilità
quando era necessario, citandone uno per tutti “Fisio”, che
50
all’occorrenza sollevava con una sola mano il piccolo mortaio
del Partigiano Toua e con passo da bersagliere ci seguiva nei
nostri spostamenti.

25 febbraio ’45: i Garibaldini della Severino sono felici e


orgogliosi della promozione del loro Comandante: La 3°
Divisione Garibaldi “Cichero” ha promosso Gino a
Comandante di Brigata con la seguente motivazione:
“Partigiano Gino: Comandante di una formazione speciale chiamata
ad agire in zona particolarmente pericolosa nel cuore dello stesso
schieramento nemico, durante lunghi mesi di lotta incessante, con
brillanti e riuscite azioni dimostrava alte qualità di organizzatore, di
Comandante e di educatore dei suoi uomini”. Gino continuò a
guidare i suoi Garibaldini fino alla Liberazione e,
successivamente nella Polizia Partigiana.

GINO

51
Grazie all’iniziativa e all’impegno di ex-partigiani dell’A.N.P.I.
di Struppa: Vagge, Romeo, Fulmine, Cristini e del Comitato
“AMICI DI NOCI”, composto da: Risso Marì, Lingua, Ban,
Giuse, Delucchi E., Pesciallo S. e, con il contributo
determinante dell’ex Presidente della Provincia di Genova
Marta Vincenzi, dell’assessore provinciale Piero Fossati e
dell’ex-sindaco di Davagna, GB. Cravino, è stata riparata e resa
transitabile la strada che da Davagna sale al paese di Noci, che
è ridiventato un bellissimo paesino con la sua storia da
raccontare.
Molti proprietari delle vecchie case hanno proceduto alle
necessarie ristrutturazioni e, figli e nipoti dei nostri vecchi
amici contadini del periodo partigiano, frequentano i luoghi
dove i Garibaldini della “Severino” hanno trascorso i più bei
giorni della vita in montagna.

Giorni sereni

In montagna non ci furono soltanto giorni carichi di tensione e


di pericoli ma anche giorni trascorsi in allegria, come quando
assistemmo al “lancio” degli Americani alla Colonia di
Rovegno. Fu un giorno pieno di euforia nel vedere scendere,
in pieno giorno, una grande quantità di coloratissimi
paracadute, carichi di contenitori e di soldati americani. Quello
spettacolo ti riempiva di gioia anche perché sapevi che dentro
a quei "bidoni" c'erano armi e munizioni necessarie alla
guerriglia.
Già all'uscita dai quadrimotori si distinguevano i contenitori
perché sembravano delle minuscole sigarette mentre gli
uomini prendevano la forma di una piccola esse stilizzata.
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Quell'allegro movimento ti impegnava nel soccorrere i soldati
che a causa del vento venivano spinti verso gli alberi del bosco
anziché scendere al centro del prato. Sembravamo un grosso
gruppo di scimmie che salivano e scendevano dagli alberi, per
portare aiuto ai malcapitati, impigliati nei rami dei castagni.
Una bella scenetta fu quella di un soldato che il suo
paracadute gonfio d'aria lo trascinava contro il reticolato che
delimita il prato dal bosco e che vedendo avvicinarsi quella
folla variopinta intenta a portargli aiuto, istintivamente
metteva mano alla pistola come per difendersi dal nemico. Ma
tutto finì con un abbraccio tra sconosciuti.
La parte ancora più bella ci fu al pomeriggio quando,
terminato il trasporto di tutto il materiale – compresi i generi
alimentari - a Casanova. Alcuni, di noi si auto-offrirono
qualche scatoletta di spezzatino e di carne in gelatina e tanto
per gradire, pure tavolette di cioccolato. Tutto questo avveniva
sotto gli occhi degli Americani, arrivati al mattino con una
grossa scorta di generi di prima necessità e che, ignari della
nostra marachella, ci salutavano con gesti
di riverenza. La nostra fortuna fu, che, il "Comandante" non
seppe nulla della nostra piccola libertà altrimenti non
avremmo certo potuto schivare alcune ore di “palo”.

53
Badoglin, il suo cavallo
e il Commissario della Cichero "Marzo"

Un’aItra bella scenetta si svolse, sempre a Casanova, alla


presenza di una parte del Comando di Divisione e di alcune
Partigiane: la Marietta, la Maruscenka e la Tania.
Fu un caso che in quel momento passasse Badoglin col suo
cavallo e Marzo gli chiedesse di poter fare una breve
galoppata. Marzo salì in sella e si allontanò per poi ritornare e
quando fu vicino all'albergo, pensando di far colpo sui
presenti, spronò l'animale per passare dal trotto al galoppo.
Ma il cavallo si impennò e Marzo cadde a terra. La Tania,
prontamente, pronunciò una feroce frase in genovese "belin
Marzu che patta". Fu uno spasso generale. Badoglin ci rimase
male e motivò l'accaduto spiegando che il cavallo non
accettava i passaggi bruschi.
Badoglin era nato a Bolzaneto e salì in montagna
giovanissimo, partecipando alla costituzione del
Distaccamento Bellucci rimanendovi fino alla Liberazione. In
una azione contro un reparto delle S.S. naziste disarcionò un
ufficiale e lo catturò insieme al suo bellissimo cavallo e per
decisione del Comando di Divisione, Badoglin ne diventò il
custode e il conduttore.
Badoglin lo conobbi alla fine,di dicembre del '44 incontrandolo
sulla strada che da Rezzoaglio va verso Pievetta; lui era sul
cavallo, si fermò e mi disse di non andare avanti perché a
Vicosoprano c'era una colonna di tedeschi con un reparto di
mongoli e non si sapeva se avrebbero risalito l'Aveto o
ridisceso verso Marsaglia. Come primo incontro mi fece una
54
bella impressione, vuoi per quel viso da ragazzino intelligente
che per quel suo fare disinvolto. I vecchi genovesi lo avrebbero
definito in modo bonario "un batûso".

Non tutti i Partigiani della 6° Zona Operativa


erano di nazionalità italiana

Durante la Resistenza furono molti gli stranieri che militavano


nelle formazioni Partigiane della sesta zona operativa, erano
giovani fuggiti dei campi di prigionia della Liguria, dai reparti
aggregati alla WEHRMARCHT e anche qualche singolo
disertore dalle stesse forze armate tedesche. I più numerosi
furono i Russi, tanto che il Comando di zona li riunì in un
unico Distaccamento, con ottimi risultati, sia per il coraggio
che per la disciplina che dimostrarono. Mentre Polacchi, Slavi
e Francesi furono inseriti nelle varie formazioni operanti in
zona. Un discorso diverso va fatto per gli Americani e gli
Inglesi che, dopo 1'8 Settembre ‘43, fuggirono dalla colonia di
Chiavari "FARA" che era stata trasformata in un campo di
prigionia per i soldati delle truppe alleate fatti prigionieri sui
vari fronti Questi prigionieri si allontanarono da Chiavari e,
aiutati dalla popolazione indossarono abiti civili e vagarono
per lungo tempo per le vallate, alla ricerca di una soluzione
che non fosse quella di ritornare prigionieri dei nazisti. Col
passare del tempo il Movimento Partigiano cresceva e con la
prima Missione Alleata, avio-lanciata sul Forca quel vagare su
monti ebbe fine; molti di loro vennero fatti attraversare il
fronte e gli altri seguirono la Missione Alleata nei propri
55
spostamenti; in attesa di altra soluzione. Del Francese "Toto"
ne ho già parlato, raccontando la battaglia al Casone di
Centonoci, che per merito suo e del Comandante Davide, che
col loro tempestivo intervento impressero una svolta alla
battaglia a vantaggio dei Partigiani.
Anche noi della Severino abbiamo avuto un compagno
Partigiano,che aveva disertato da un reparto della
WEHRMARCHT, accantonato in città — Corso Firenze - e che
dopo un breve vagare per i monti arrivò nella nostra zona e
chiese al comandante di poter entrare nella nostra Brigata,
della quale aveva già sentito parlare. Gino prese tempo, ma
dopo la valutazione sul caso pensò che uno che parlava
correttamente la lingua tedesca poteva essere utile in casi
particolari, quindi acconsenti all'inserimento di Renzo nella
Brigata e diede disposizioni in merito. Renzo si dimostrò un
giovane sveglio e coraggioso, sempre pronto per le azioni più
pericolose," in più si distinse per il sangue freddo che dimostrò
in un'azione delicata e pericolosa, portata a buon fine, in città e
all’interno di un presidio nazista.
La sua partecipazione alle molteplici azioni della Volante
Severino fu importantissima; il suo approccio con l’attacco al
presidio nemico consisteva nell’indossare la divisa
dell’esercito germanico e con fare sicuro avvicinarsi alle
sentinelle pronunciando alcune frasi in tedesco che i poveretti
repubblichini non capivano; seguivano attimi di incertezza dei
quali prontamente ne approfittavano gli altri due partigiani
per intervenire e disarmare i militi neri, mentre il grosso della
squadra partigiana portava a termine l’operazione. Questa
tattica durò a lungo dando ottimi risultati.
Per il suo carattere gioioso Renzo si inserì molto bene nel clima
di serenità e di amicizia propri della Severino. Quando
qualcuno gli chiedeva: "Ma Renzo di che paese sei?", lui
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rispondeva "Mi son do canneto o longo". Parlava meglio il
genovese che l'italiano. Ma questo era un altro discorso. II suo
vero nome era: HEINZ DEILAMANN - nato a UNNA in
WESTFALIA-DORTURESTI, nel Maggio del 1924.

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Oggi Vagge (Burlando Agostino) è in vena di raccontare.

Sono trascorsi pochi giorni dal mio arrivo alla Severino e già
mi sento inserito nel clima battagliero dei ragazzi della
"Volante", clima che ho immaginato e sognato nei lunghi
mesi precedenti. Sono le prime ore di un mattino uggioso e
freddo, siamo posizionati sulla cresta del monte sopra il
paese di "Noci" perché ci è stata segnalata la presenza di
repubblichini sulla diga del lago, giù in fondo alla valle Gino
ha prontamente inviato alcune pattuglie in varie direzioni
per accertarsi della consistenza delle truppe nemiche
entrate nella nostra zona. Io mi trovo appostato tra Vagge e
Toua perché il mio compito è anche quello di portare le
granate del "Mortaio" che il bravo Toua gestirà a dovere.
L'attesa si prolunga e Vagge, col suo fare calmo e un po’
ironico mi dice che se i nazifascisti si avventureranno nelle
vicinanze del paese riceveranno l'accoglienza che meritano.
Poi come se volesse raccontarlo a se stesso ripercorre a bassa
voce, le fasi salienti delle azioni fatte dalla Severino al Ponte
della Paglia, a quello di Cavassolo e al "Mattogrillo".
Dopo un paio di ore arriva il cessato allarme in quanto i
repubblichini sono discesi sulla strada per le Tre Fontane, ma
Vagge ormai è come un fiume in piena e continua nel suo
racconto, entrando nei minimi particolari che, per chi ascolta,
rendono chiarissima la strategia che Gino addotta per
salvaguardare, il più possibile la vita dei suoi uomini.
Inizia dicendo che Gino non è soltanto un valente
comandante ma è anche un bravo artificiere che maneggia gli
esplosivi con troppa confidenza e che è sempre lui ad
innescare i detonatori e dar fuoco alle micce. L'altra
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caratteristica di Gino è quella di studiare nei minimi
particolari le fasi dell'azione che sta preparando e questo
rinfranca i suoi Partigiani che lo seguono con fiducia, anche
nelle azioni più pericolose.
Dice che al Ponte della Paglia s’è praticata la migliore tattica
della guerriglia Partigiana. Inizia dicendo che sono partiti
molto presto dalla zona e che sono arrivati nei pressi della
cappelletta di San Rocchino quando era già buio e che Gino
spiegò loro come dovrà svolgersi tutta l’azione, assegnando a
ognuno il proprio compito e i tempi di spostamento, perché
tutto si deve svolgere senza intoppi.
La prima cosa alle quale Gino presta le massima attenzione e
quella di non lasciare spazi ai repubblichini per allontanarsi e
dare l'allarme. A questo scopo è necessario portarsi nei pressi
di una villa frequentata dai repubblichini, per bloccare quelli
che si trovano all'interno della casa e quelli che arriveranno in
seguito, perché è da lì che può partire le segnalazione della
nostra presenza a Prato. Poi manda tre al ponte per disarmare
le sentinelle. Questo è il momento più difficile di tutta
l’azione per cui ci vuole tutta l'esperienza di Polvere, Renzo e
Rosso per sorprendere e disarmare le due sentinelle. Renzo
indossa la divisa della WERHMACHT, portata con
disinvoltura perché egli stesso proveniente dalle truppe
tedesche dalle quali diserto per entrare nelle Formazioni
Partigiane.
Contemporaneamente altri Partigiani irrompono nei locali
del presidio e con il solito: "Fermi tutti e mani in alto" creano
un certo smarrimento tra i presenti. Non c'è reazione e sui
volti dei repubblichini passa un'espressione di sorpresa e di
paura; per noi non c'è tempo per registrare lo stato d'animo
dei prigionieri perché occorre radunare le armi e munizioni e
tutto il materiale trasportabile e tenere sotto tiro i
59
repubblichini. Quando tutto è pronto Gino ci dà l'ordine di
partire con i prigionieri carichi del materiale recuperato, e di
radunarci vicino alla chiesetta di San Rocchino dove lui ci
raggiungerà, dopo aver innescato i detonatori alle cariche
dell'esplosivo e dato fuoco alle micce.
Dall'alto noi non possiamo vedere cosa succede giù al ponte e
l'ansia con l'attesa aumenta. Poi un gran bagliore illumina il
greto del Bisagno seguito da un forte boato che fa tremare la
copertura dell'acquedotto, sotto i nostri piedi.
Arriva Gino e dice che è saltata una sola parte del ponte
mentre l'altra ha resistito. Quindi si può pensare che le cariche
di esplosivo sistemate dai tedeschi fossero insufficienti per
quella struttura. Gino non è soddisfatto e pensa di completare
il "lavoro" con il ponte di Cavassolo.
Poi decide che alcuni di noi, con i prigionieri, proseguiranno
lungo l'acquedotto e si fermeranno nel bosco, prima di
Cavassolo e da lì attendere altre istruzioni. Lui con un nutrito
gruppo di Partigiani ridiscende sulla Statale per arrivare dal
basso a Cavassolo e sorprendere le sentinelle al posto di
blocco del ponte. Questa fase sarà più semplice del previsto
perché ora oltre a Renzo, con la divisa da soldato tedesco,
anche Ce e Rosso indossano le divise repubblichine (prese alla
Paglia) e fingono di essere la "ronda" in servizio lungo la
Statale 45. Si avvicineranno alle due sentinelle e le
disarmeranno per farle poi camminare davanti a loro fino alla
casa dove alloggia il corpo di guardia e dove Gino è già lì in
attesa con gli altri Partigiani e, a quel punto, con una rapidità
garibaldina entrano e bloccano gli eroici soldatini delle
repubblichetta di Salò che increduli e smarriti non oppongono
resistenza.
Vagge prosegue il suo racconto dicendo: Per i nostri invece c'è
una bellissima sorpresa, c'è in bella vista una mitraglia
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pesante "BREDA 37" e tante altre armi e munizioni appoggiate
al muro; un ottimo bottino di guerra per la Volante Severino.
Si ripete quanto si è fatto nell'altro presidio, cioè i
repubblichini si caricano sulle spalle tutto il materiale e sotto il
vigile controllo dei Partigiani usciamo tutti dalla casa e ci si
avvia verso la parte alta della borgata.
Bisogna fare presto perché il primo scoppio può aver messo in
allarme i nazifascisti, quindi si deve far allontanare la gente
dalle loro case per evitare possibili vittime civili.
Visto che tutto procede bene e abbastanza velocemente Gino
pensa che ci sia anche il tempo per far saltare in aria un tratto
di strada poco distante: "il Mattogrillo", anche quello già
minato dai tedeschi. Quindi decide di partire con una piccola
squadra, lasciando Turco e Maggi a completare la
preparazione per il "grande botto". Noi in attesa che tutto si
concluda raggiungiamo gli altri che aspettano sull'acquedotto
e con loro iniziare a formare un'unica colonna di prigionieri.
Poi all’improvviso il tanto atteso boato dal "Mattogrillo" e da
parte nostra un grosso sospiro di sollievo. Arriva la squadra
con altri prigionieri e l'ordine del comandante di in
camminarci verso Calvari, mentre lui, Turco e Maggi daranno
fuoco alle micce.
Loro ci raggiungono nel momento stesso dello scoppio che
manda in frantumi tutta la struttura de ponte. A quel punto
sul viso del comandante ritorna il sorriso e con la sua
proverbiale calma dice: "I nazifascisti questa volta hanno
ricevuto quello che mai si sarebbero aspettati".
Le esplosioni avranno certamente messo in allarme le forze
nazi-fasciste, per cui bisogna garantirci una certa sicurezza
alle spalle, e chi, meglio di Malaga, Nipro e la vecchia volpe di
Marinaio ce la possono assicurare. Loro si portano in coda e si
parte più tranquilli.
61
La strada è in salita e ad ogni passo la fatica aumenta, in
particolare per i repubblichini poco abituati a portare carichi
pesanti sulle spalle, poiché il loro sport preferito è quello di
"rastrellare" i giovani e mandarli in Germania a morire di
fame e di freddo o ancora rapinare e bruciare case e cose di
povere gente o peggio sparare su vecchi donne e bambini
innocenti e indifesi. Stanotte hanno perso la baldanza e quelle
loro cinica prepotenza che li caratterizzava nei giorni
precedenti. Ora piangono e chiedono perdono per aver
aderito alla repubblichetta di Salò: fino all'ultimo dimostrano
quanto sono vigliacchi.
Il tempo scorre veloce e la strada da percorrere è ancora molto
lunga e con questa andatura c'è il rischio di trovarci in qualche
brutta situazione, per cui occorre trovare un mezzo di
trasporto che alleggerisca il carico ai singoli, per avviarci più
speditamente verso il comando. Arrivati nei pressi di
Dercogna ci fermiamo e andiamo a bussare alla casa di
un’amico, il Ciffuti, e con lui rimediamo un carro, un cavallo
ed un mulo, sui quali sistemiamo la maggior parte del
materiale.
Nella nuova situazione le cose migliorano parecchio e la
colonna ora accelera l'andatura e già si assapora la gioia di
arrivare presto a Carrega, la nostra destinazione finale. Si
transita da Davagna e Moranego quando è ancora buio, la
strada è deserta e arriviamo alla Scoffera quando comincia a
spuntare l’alba.
La gente dei paesi e delle frazioni è ancora chiusa in casa e
molti di loro non si rendono conto di quella colonna di
militari un po’ rumorosa; siamo i Partigiani della Volante
Severino che tornano da un'esemplare azione contro i
repubblichini. Scendiamo verso Laccio dove dobbiamo
traghettare carico e uomini perché il ponte è saltato in aria da
62
parecchi mesi. Questo nuovo intralcio comporta ulteriore
perdita di tempo e tanta fatica, ma se guardiamo le armi e i
prigionieri la stanchezza e la fame scompaiono. Si riparte per
Torriglia dove la notizia, che la Severino ha fatto saltare ponti
e strade e catturato decine di repubblichini ha già fatto il giro
del paese e gli amici ci sorridono e ci applaudono. Qualcun
altro allunga il passo e rientra in casa. Si capisce che il tarlo
fascista fa ancora capolino in questa bella cittadina. Noi
stanchi e con molto appetito. Riprendiamo a salire verso
Donetta e Bavastrelli e finalmente arriviamo a Propata dove
passiamo i prigionieri e parte del materiale agli altri Partigiani
e noi passiamo dalle armi alle "forchette". Quello che passa la
cucina e pochino, per i nostri stomaci vuoti da molte ore, ma
non ci lamentiamo perché pensiamo che altre volte abbiamo
digiunato per giorni interi e poi questa è la vita del Partigiano.
La fatica sta scomparendo ed è ora di partire per Carrega,
ultima tappa e dove Gino farà una relazione al comando su
tutte le fasi di questa brillante azione. Sono presenti: Miro
comandante della "VI° Zona operativa", Rolando
Commissario, un'ufficiale della "Missione Alleata Inglese",
Maggiore Davidson e altri comandanti. Miro ci dice che, per
giudizio unanime, i Partigiani della Volante Severino sono
considerati migliori Garibaldini della VI° zona e riconosce a
Gino il merito di aver forgiato una squadra che per coraggio e
disciplina sono di stimolo alle altre formazioni.
Gino è stanco ma felice e chi sa se in questo momento starà
pensando a qualche altra azione da fare.
Tegule, sottovoce, dice: " e pensare che ci chiamavano la
squadra dei silurati".
Alla battuta di Tegole seguì un "conciliante" commento:
"Finalmente quelli che dubitavano delle nostre capacità hanno
dovuto ricredersi, perciò godiamoci questa bella e importante
63
giornata perché domani ritorneremo a sfidare e colpire le
forze nemiche".
Si é fatta sera e dalla vicina cucina fíltra un buon profumo di
cibo casalingo, seguito da piatti fumanti di pasta al ragù. Una
delizia per il gruppo di "Ribelli" sempre alle prese con un
formidabile appetito. Finito di cenare apprendiamo, con
piacere, che questa notte non parteciperemo ai turni di
guardia poiché saranno altri Partigiani che vigileranno sul
paese di Carrega e nelle immediate vicinanze. II sonno ha
preso il sopravvento e finalmente abbiamo una notte di tutto
riposo.

1944: storia di un’azione di guerriglia


e di Don Nicola Righini, Parroco di Genova/Aggio
( articolo di GINO)

Breve stona di un'azione di guerriglia e di don Nicola Righini,


parroco di Aggio (Comune di Genova), il quale, nel 1944, per aver
salvato la sua gente dalle brutture e dalle atrocità della guerra fu dai
nazifascisti malmenato, incarcerato e infine rinchiuso nel famigerato
campo di sterminio di Mauthausen dove venne umiliato e più volte
torturato. A fine guerra gli Alleati lo estrassero, ormai morente, da
una fossa comune e, dopo intense cure riuscirono a riportarlo in vita.

La Brigata Volante Severino, di cui ero comandante, una


formazione partigiana molto manovriera e decisamente
agguerrita, composta da validi ed esperti guerriglieri
dipendeva dalla III° Divisione Garibaldina “Cichero “ e dal
Comando VI° Zona Operativa. Agiva, fin dal settembre 1944,

64
nell'immediata periferia di Genova (Bassa Valbisagno) e cioè
nel cuore stesso dello schieramento nemico.
Verso la fine del 1944 venni convocato dai comandi superiori e
dalle Missioni Militari Alleate americana e inglese
(organizzazioni, queste, che operavano e vivevano la stessa
vita, sotto ogni aspetto, dei comandi partigiani di montagna),
dai quali ebbi l'ordine perentorio di far saltare il tratto di
strada (alcuni tornanti) che attraversa Aggio, una frazione del
Comune di Genova, a suo tempo minata dai nazisti. I miei
tentativi di dimostrare la pericolosità dell'azione, soprattutto
per la gente del posto, furono vani; le Missioni Militari Alleate
furono irremovibili!
La rotabile, che dalla città porta alle valli Scrivia e Trebbia e
quindi al Piemonte, alla Lombardia e all'Emilia Romagna,
una delle pochissime che attraversano l'Appennino, in caso
di ritirata sarebbe stata strategicamente importante sotto ogni
aspetto per i nazifascisti.
Aggio è abbarbicato ai monti di Creto, a strapiombo sul vicino
Mare Ligure, quasi come un quadretto appeso a una parete e i
tre tornanti che l'attraversano sono in accentuata salita.
Grazie a due bravissimi informatori, lì nati e residenti,
sapevamo tutto del paese e in particolare che:
• i tedeschi avevano fatto costruire dall'Organizzazione Todt,
sotto i tornanti una gallona senza uscita (1,50 m di larghezza, 2
m di altezza, circa 80 m di lunghezza) in fondo alla quale
avevano depositato una consistente quantità di tritolo
collegato a un sistema esplosivo a tempo;
• vi era un presidio composto da una quarantina di militi
della GNR (Guardia Nazionale Repubblicana) e di due
tedeschi della Wehrmarcht capeggiati da un tenente emiliano
il cui compito principale era, oltre al servizio continuativo di

65
guardia all'entrata della galleria, chiusa da un cancello in ferro,
il posto di blocco permanente all'entrata sud del paese;
• i militi erano accantonati in un edificio a tre piani a una
trentina di metri dall'ingresso della galleria;
• tutto l'abitato della frazione era interamente circondato, a
non più di un tiro di fucile dalle ultime case, da consistenti
reparti nazifascisti con compiti vari (tra l'altro da numerose
postazioni di cannoni e mitragliere, contraeree);
• il parroco, don Nicola Righini, aveva avvertito tutta la gente
del posto che, in caso di pericolo di qualsiasi natura, avrebbe
dato l'allarme suonando le campane a martello.
Il presidio della GNR non ci impensierì, ma fummo
titubanti per gli incalcolabili danni a persone e cose che
l'esplosione avrebbe provocato e per i consistenti reparti
nazifascisti accantonati nelle immediate vicinanze di Aggio.
Motivo per cui l'azione doveva essere organizzata e diretta con
la massima oculatezza.
Dopo l'imbrunire, verso le 20, ci muovemmo dalla nostra
provvisoria base di partenza. San Martino di Struppa
(Comune di Genova). Eravamo una ventina. A metà circa
dell'impervio percorso Biondo scivolò, anche per il buio pesto,
in un dirupo; ci fermammo immediatamente, lo aiutammo a
risalire e lo medicammo (con noi c'era, come sempre,
l'infermiere, il buon Risso, detto “il medico”, con lo zainetto
del pronto soccorso in dotazione all'esercito USA. Malgrado
avesse riportato diverse lesioni, e non solo superficiali, volle
riprendere la marcia con noi. Giunti in un piccolo bosco in
prossimità di Aggio ci riunimmo e spiegai, com'era nella
nostra consuetudine, qual’era la nostra missione, quindi
illustrai dettagliatamente le modalità tattiche e i compiti di
ciascuno. Ricordo che, mentre stavamo togliendoci le scarpe
per evitare rumori di sorta (la sorpresa doveva essere, come
66
nelle altre occasioni, totale). Malaga fece cadere il suo fucile
mitragliatore “Bren” facendo molto rumore. Lasciai trascorrere
un po' di tempo e, ormai convinto che nessuno ci avesse
sentiti, gli detti un pugno in viso (lui, poveretto, non disse una
parola; anzi, poi si scusò). Raccomandai ancora a tutti di fare
anche l'impossibile per aiutare e salvare la gente del posto.
Tutti scalzi, o con le sole calze, malgrado il rigido clima
invernale, circondammo la caserma della GNR e un pugno di
guerriglieri entrò, con me, con la massima decisione;
sorprendemmo i militi e i due tedeschi mentre cenavano.
L'assalto repentino li annichilì e, tremanti e sbigottiti, si
arresero. Non potevamo permetterci il lusso di sparare: i
nazifascisti dislocati nelle immediate vicinanze ci avrebbero
indubbiamente sentiti e sarebbero prontamente intervenuti.
Fatti rientrare i guerriglieri che circondavano
l'accantonamento, vennero raccolte tutte le armi e tutti i
materiali militari trasportabili e necessari. Sempre nel più
assoluto silenzio, facemmo togliere le scarpe a tutti i
prigionieri (principalmente per metterli in difficoltà nel caso
avessero tentato di fuggire e poi perché le scarpe servivano a
noi) e li rinchiudemmo provvisoriamente in tre camere
controllate dai "ribelli".
All'appello, però, mancavano un sergente e due militi, ma
venimmo informati che sarebbero rientrati nella tarda serata
con l'ultima corriera proveniente dal centro della città, che
infatti giunse poco dopo. Non appena i tre scesero
dall'automezzo vennero sorpresi e fatti prigionieri, malgrado
un timido tentativo di ribellione da parte del sergente.
Un piccolo, ma significativo particolare: nel momento in cui li
sorprendemmo erano intenti a consumare la cena consistente
in gnocchi col pesto (gli gnocchi col pesto erano un piatto, a
quel tempo, piuttosto raro); notai subito che, alla vista di
67
quella squisitezza, i partigiani, che non li assaggiavano da
molti mesi, perdettero, per qualche istante, la necessaria
concentrazione, tanto che dovetti intervenire piuttosto
energicamente al fine di riportarli alla "ragione".
Alla colonna dei prigionieri, scalzi e stracarichi di armi (che
erano state private dell'otturatore) e materiali militari vari, e
dei partigiani di scorta, in tutto una sessantina, detti l'ordine di
raggiungere la località Ciappa, molto fuori dal paese dove, al
sicuro, dovevano attenderci. Detti le necessario disposizioni a
Vagge e a Toa di avvertire e aiutare don Righini a dare
l'allarme; a Tegule, Volga e Rosso affidai il compito di dare una
mano alla gente del posto a lasciare immediatamente le case
nel massimo silenzio, operazione che non poteva durare più di
10 minuti.
Io, altri due partigiani artificieri e il tenente comandante della
GNR entrammo nella galleria e, circa cinque minuti dopo che
don Righini ebbe finito di suonare le campane a martello,
azionammo il congegno a tempo predisposto dai nazisti, ci
allontanammo e, 10 minuti dopo, i cosiddetti giri di Aggio
saltarono in aria. Così la missione voluta dai comandi
superiori e dalle Missioni Militari Alleate era stata portata a
totale compimento.
Dopo non poche fatiche, soprattutto da parte dei prigionieri
scalzi, carichi di materiali e non abituati a lunghe marce, di
notte e su sentieri e piste impervie, raggiungemmo la tanto
agognata zona di sicurezza. Qui mettemmo in libertà la quasi
totalità dei prigionieri, esclusi il tenente della GNR, due
sottufficiali e un milite, perché era la terza volta che venivano
catturati, i due tedeschi, utilissimi per eventuali scambi di
prigionieri (il caporale era un altoatesino che parlava molto
bene l'italiano).
È doveroso precisare che:
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• tenuto conto della struttura, del compito e della zona nella
quale operava la Brigata Volante Severino, fare dei prigionieri
era assolutamente impossibile (prima di metterli in libertà i
prigionieri venivano sempre ripetutamente ammoniti a non
ritornare nelle organizzazioni della RSI altrimenti, se catturati
per la seconda volta, sarebbero stati passati per le armi sul
posto);
• i militi della GNR godevano di scarsa reputazione da parte
dei nazisti che li consideravano come esseri umani di
second'ordine, tanto che negli scambi volevano sempre e solo
soldati tedeschi.
I sei, con una adeguata scorta di partigiani, vennero
immediatamente inviati al comando e le armi e tutti i
materiali militari catturati vennero occultati in appositi rifugi
temporanei.
La mattina del giorno dopo tramite i nostri eccellenti
informatori venimmo a conoscenza che:
• don Righini, ottima persona sotto ogni aspetto (non ebbe
mai rapporti con la Resistenza e tanto meno con i nazifascisti),
che si curava esclusivamente della sua chiesa e dei suoi
parrocchiani, dopo l’esplosione, si dedicò totalmente alla cura
dei feriti, che non erano pochi;
• vi furono due morti: due ragazzi rimasti a letto (i genitori,
nella confusione di quel momento, se ne dimenticarono);
• molte case erano state distrutte interamente, alcune erano
state scoperchiate e quasi tutte le altre erano inabitabili;
• una ventina di minuti dopo l'esplosione, udita anche nel
centro di Genova, il paese venne invaso dai nazifascisti che,
come prima cosa, presero don Righini e, pubblicamente, lo
bastonarono; tramortito lo gettarono di peso su di un camion
(proprio come un sacco!) dicendo alla gente: «...è in

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collegamento con i ribelli ...ha suonato le campane a martello
per avvertire i banditi di fuggire ...ecc.»
Il povero don Righini, trattato peggio di un criminale, venne
rinchiuso nel carcere di Marassi dove venne più volte torturato
dalle SS (Schutz Staffein). Pochi giorni dopo, unitamente ad
altri prigionieri politici e uomini della Resistenza, venne
caricato su di un treno merci, come un animale, e di lì a pochi
giorni raggiunse il famigerato campo di sterminio di
Mauthausen dove, purtroppo, subì ogni maltrattamento.
Un mese dopo la deportazione, il cardinale di Genova, Boetto,
inviò ad Aggio un sacerdote col compito di dire a quei
parrocchiani, e soprattutto ai genitori di don Righini, molto
anziani, che lui era lì per sostituirlo temporaneamente, fino al
suo ritorno (la solita bugia pietosa!).
Poco prima dell'arrivo degli Alleati al campo, don Righini,
ormai moribondo, venne gettato in una fossa comune.
Subito dopo la liberazione del campo, due sacerdoti genovesi,
pure loro deportati e amici di don Righini, dopo le cure del
caso, vennero messi in libertà e raggiunsero Genova.
Nel frattempo, gli Alleati, nel trasferire i cadaveri dei deportati
dalla fossa comune alle fosse singole per una sepoltura
decorosa, si accorsero che il povero don Righini respirava
ancora (effettivamente quei criminali degli SS lo avevano
gettato nella fossa comune ancora vivo, anche se in condizioni
disperate!).
Dopo alcuni mesi di cure molto intense il buon parroco di
Aggio si riprese, grazie anche alla sua non comune forza di
volontà, e chiese di trascorrere la convalescenza a Genova.
Intanto, i due sacerdoti rientrati a Genova da Mauthausen si
erano subito recati dal cardinale Boetto per informarlo che don
Righini era deceduto. Erano presenti quando le SS lo gettarono
in una fossa comune ormai senza vita. Pochi giorni dopo la
70
curia comunicò al sacerdote che lo sostituiva che don Righini
era deceduto nel campo di sterminio e che, ormai, come
titolare della parrocchia, avrebbe dovuto allestire una funzione
funebre degna della figura, del coraggio e del martirio del suo
predecessore.
Al rito furono presenti tutti indistintamente gli abitanti di
Aggio e dintorni. Fu un giorno di dolore e di indimenticabile
tristezza perché il buon parroco era veramente amato da tutti.
Don Righmi, invece, raggiunta Genova, si recò subito (manco a
dirlo) alla curia il Cardinale Boetto, esterrefatto, lo accolse
come un figlio e lo abbraccia lungamente : Dopo ciò che gli
avevano detto i due sacerdoti ritornati da Mauthausen non
riusciva a credere ai propri occhi.
II prete venne fatto alloggiare presso la Curia il tempo
necessario perché si riprendesse totalmente e anche per
poter preparare convenientemente gli abitanti di Aggio e i
vecchi genitori che lo sapevano ormai deceduto nel campo di
sterminio (non dimentichiamoci che in quella chiesa
parrocchiale era stata officiata una messa solenne per la sua
dipartita).
Compiuti tutti gli atti necessari, il Cardinale Botto riportò il
redivivo, ormai guarito, a casa, riconfermandolo parroco di
Aggio.
Vi furono tre indimenticabili giorni di feste e cerimonie in
onore del buon parroco il quale riprese subito la sua attività
sacerdotale con riservato silenzio e umiltà. Però, bisogna
sottolinearlo, sono pochi quelli che si ricordano ancora di lui.
Lo Stato infatti lo dimenticò totalmente, tanto da non
concedergli il più modesto dei riconoscimenti. (Campanella
Michele "Gino")

71
I Rastrellamenti, le Spie e gli Infiltrati

Oltre ai rastrellamenti i Partigiani dovevano difendersi dalle


spie e dagli infiltrati. Questi ultimi se riuscivano a inserirsi
nelle formazioni Partigiane senza destare sospetti
diventavano delle pedine importanti per i nazi-fascisti; mentre
i Partigiani trovavano difficoltà nello smascherarli. Se non
quando venivano scoperti i loro ripetuti incontri con dei
sedicenti sfollati, e in quel caso si prendevano due piccioni
con una fava. Ci furono anche casi definiti dubbi, come quello
di Walter, del campo prigionieri di Buggi, che durante un
rastrellamento - Marzo 45 - si affiancò ai nazi-fascisti e lungo il
percorso, verso Cabella. Secondo testimonianze di quel
periodo, pare che lui indicasse ai rastrellatori luoghi e case
dove avevano soggiornato i Partigiani e i tedeschi
intervenivano saccheggiando e bruciando cose e case di chi
aveva ospitato i "ribelli". Si seppe anche che la colonna giunta
nelle vicinanze di Rosano, si fermò per un breve riposo e,
l'ufficiale tedesco fece salire su uno spiazzo Walter e per la
collaborazione ricevuta lo pagò con un colpo di pistola alla
testa. Questo fatto e certi suoi comportamenti precedenti
fecero pensare che si trattasse di persona poco limpida.
Le spie invece cercavano di passare per dei tranquilli sfollati,
ma la costante attenzione dei comandanti e dei commissari
lasciava poco spazio alla loro poco nobile azione, quindi o
sparivano dai paesi o venivano arrestate. Gli uomini si
avventuravano fino alle vallate del Trebbia, dello Scrivia e
della Val D'Aveto, mentre le donne limitavano il loro raggio
d'azione nei paesi vicini alle città. Il loro compito era quello di
carpire notizie circa la consistenza numerica delle formazioni
72
partigiane operanti in quella determinala zona. Ma i
Partigiani, sempre allerta non le davano un minuto di tregua
e, una volta scoperta la spia veniva giudicata dal Tribunale
Partigiano e se ritenuta colpevole veniva condannata alla
fucilazione come prevedeva l'articolo n. 1 della Legge Bonomi.
Altre volte entravano in gioco dei biechi personaggi con un
doppio ruolo, quello di spia e quello di guida, anche notturna,
per le forze nazifascisti, le quali praticavano un nuovo tipo di
rastrellamento, "le puntate" con l'intenzione di sorprendere i
partigiani alle prime luci dell'alba. Questi accompagnatori, o
guide che dir si voglia, erano certamente persone del posto
che conoscevano molto bene il territorio. Forse si trattava di
cacciatori o di cercatori di funghi praticissimi di quei sentieri,
altrimenti inpercorribili ai rastrellatori.
In questo tipo di rastrellamento furono coinvolte anche la
Volante Severino e la Brigata Ballila. I Partigiani delle due
Brigate non si tiravano mai indietro quando c'era da
combattere nemmeno quando avevano di fronte forze
preponderanti e con quello spirito garibaldino che li animava,
contrattaccavano incalzando gli assalitori costringendoli alla
fuga.
La Ballila fu accerchiata sul monte Sella, il 14 Aprile ‘45, da
ingenti forze nazi-fasciste alle quali Battista e i suoi uomini
diedero una dura lezione. Ma in quella battaglia anche la
Ballila subì una dolorosa perdita: Lino caduto in
combattimento e Luci (Vice Comandante) ferito gravemente
morì il giorno dopo a Montoggio dove era stato trasferito per
essere curato.
La Severino subì lo stesso tipo di rastrellamento nel paese di
Canate. Canate è un piccolo paese nell'alta Valle del Concasco,
costruito su un costone roccioso: per arrivarci bisogna salire

73
centinaia di scalini inseriti fra le "fasce", terrazzamenti
coltivati.
Il giorno del rastrellamento erano presenti nel paese: Ce,
Vagge, Vespa, Bane e Gimmy, più Detto che essendosi
attardato: la sera prima preferì dormire in paese.
La mattina del 19 Marzo prima dell'alba Vespa sali lungo il
pendio del monte per un normale giro di perlustrazione e si
trovò davanti tanti repubblichini pronti per sferrare l'attacco
al paese. Vespa ritorna indietro e scende a rotta di collo per
dare l'allarme, anche se in quel caso non era proprio
necessario in quanto le fucilate che gli spararono contro
avevano svegliato tutto il paese. I Partigiani resisi conto della
superiorità numerica degli assalitori tentarono di mettersi in
salvo raggiungendo il bosco sottostante.
Quella mattina noi eravamo nel paese di Noci e Tevere, che si
trovava di guardia nella parte superiore del paese, rientra di
corsa dicendo che si sentivano degli spari dalle parti di Canate
e che due uomini si stavano avvicinando a grandi passi al
paese. Sono Renato e Raffica, due bravi Partigiani che spesso
salgono a Noci e a Campoveneroso per portare le notizie che
riguardano il fondo Valle. Dicono che i nazi-fascisti sono
arrivati a Canate e che non hanno notizie dei nostri compagni
perché loro si sono tenuti lontano dal paese. Loro proseguono
per Campoveneroso per informare Gino e, arrivati,
prenderanno le armi e ritorneranno con noi a Canate.
Gino manda un partigiano al "Teitin" per dire a Tegole di
portarsi immediatamente in un punto avanzato dell'altra valle
con il suo mitragliatore Bar, per bloccare la ritirata degli
assalitori. Ma la distanza e il tempo limitato non
consentiranno a Tegole di arrivare in tempo.
Noi partiamo e ci avviamo lungo il sentiero che porta sulla
cresta del monte sopra Canate, ma prima di arrivarci ci
74
raggiunge Gino che con voce ferma si rivolge a Sestri,
dicendogli: "Sestri comandante dei...., allungate il passo
perché i nostri compagni e la gente del paese sono in balia dei
nazisti, per cui ogni minuto è prezioso per liberare gli uni e gli
altri”.
Arrivati sulla cresta del monte, vediamo al centro del paese
due cascine in fiamme e ci rendiamo conto che un nostro
piccolo ritardo ci avrebbe fatto trovare un paese in fiamme o
ridotto a un cumulo di macerie fumanti, come successe al
paese di Cichero e a quello di Barbagelata.
Non c’era un minuto da perdere e Gino disse a Ditta di dar
voce al suo bazooka: detto fatto. Ditta indirizza il primo
proiettile fuori dal paese per non provocare danni a case e a
persone, il forte fragore, provocato da quel micidiale proiettile
creò uno scompiglio tra gli assalitori e il mortaio di Toua e il
Bren di Gabir fecero il resto. Noi con le armi leggere
scendemmo velocemente nel paese per "rastrellare" i fascisti,
molto lesti nel maneggiare i fiammiferi e altrettanto veloci nel
fuggire a gambe levate fino a saltare giù dallo sperone di
roccia "il poggio" lasciando liberi un gran numero di giovani
che i fascisti avevano catturato e radunato in un cascinale
all'inizio del paese.
Spesso nelle difficoltà maggiori si inseriscono note di colore
come quella che vide protagonista involontario Vagge che
uscendo dal paese, per portarsi in un posto assai sicuro che lui
conosceva molto bene, venne inseguito da un indiavolato
repubblichino che sparando e urlando “arrenditi, arrenditi”
senza nessun risultato. Vagge continuando a scendere fece
perdere le sue tracce. L’indemoniato trovandosi in mezzo al
bosco e, forse non sapendo cosa fare, si rivolge al suo
superiore urlando “Sergente Mele l’ho inseguito fino a quei
cespugli ma poi è sparito, però era un borghese”. Il Sergente
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Mele di rimando "fesso ecco la sua bustina"; Vagge perse sì la
sua bustina ma salvò la pelle. I nazi-fascisti per stanare i
“ribelli”, diedero fuoco al bosco e Vagge anziché lottare con
l’indemoniato dovette lottare con le fiamme che lambivano
l’anfratto dove si era ricoverato. Rientrò in paese con le mani
bruciacchiate e il viso affumicato ma salvo. Chi non rientrò in
paese fu Gimmy che fu fatto prigioniero. Gimmy poi fuggì
durante un trasferimento.
Ritornata la calma si guardavano i boschi circostanti e ci
chiedevamo come avevano fatto i nazi-fascisti ad arrivare in
quella parte del monte, camminando al buio, attraverso la
boscaglia e superare i dirupi dove sarebbe impossibile
transitare anche di giorno a persone non pratiche del posto. Ci
convincemmo che soltanto una terza persona li avesse guidati
di notte verso di noi, forse una persona da noi più volte
incontrata e salutata come si fa con le persone amiche e invece
era un individuo capace di una vigliaccheria del genere. Forse
sarà stato ripagato con una manciata di banconote come
usavano fare i nazisti.

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Dalla VAL NOCI alla VAL BREVENNA

Oggi, 20 marzo 1945, “Il Partigiano”, Organo di stampa della


III° Divisione Garibaldi Cichero, diretto da Bini e stampato in
montagna, ha ripreso le sue pubblicazioni annunciando che si
sta avvicinando la battaglia finale e invitando i Comandanti e i
Commissari a preparare le formazioni per la cacciata definitiva
dei nazi-fascisti dalle nostre città evidenzia la poderosa
avanzata dell’Armata Rossa e le brillanti vittorie delle Armate
Alleate sul fronte occidentale.
Per quanto riguarda il fronte italiano, tutto fermo in Lucchesia,
e visto come si mettono le cose la “Severino” dovrà ancora
misurarsi con i nazi-fascisti.
Da informazioni attendibili si apprende che presto ci sarà un
rastrellamento, numericamente superiore a quello del 14
febbraio. Valutando bene la situazione sembra poco prudente
rimanere in zona ma nello stesso tempo non bisogna
allontanarsi troppo dalla città; quindi la soluzione migliore
sembra essere quella di spostarsi in Val Brevenna. Gino con
una piccola squadra rimase in zona prendendo posizione nelle
vicinanze di Brugo Secco, mentre il grosso della Brigata partì
per la nuova destinazione.
Si parte per Montoggio e si arriva a “Casà” - Casale di
Montoggio- dove ci fermiamo per la notte. Si riparte il giorno
dopo , si sale lungo la mulattiera “a muntà da banca” e si arriva
a Frassineto, il paese che diventerà la nostra nuova base. La
gente del paese appare cordiale , una cordialità più formale
che spontanea e sarà compito nostro conquistarci la loro
fiducia. Comunque non ci sarà mai il clima di Campoveneroso
e di Noci.

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Anche dal lato della sicurezza si dovrà prestare la massima
attenzione ai servizi di guardia e di pattuglia, sperando che col
tempo tutto migliori.
Inizia subito la spola tra Frassineto e le zone dove sono
avvenuti gli “aviolanci”, per ritirare armi, munizioni e divise
che serviranno anche per le squadre del fondovalle. A questo
ci penseranno poi i responsabili: Marinaio, Zena, Renato e
Dettu. Il carico migliore è quello prelevato in Val Borbera
presso la Divisione “Pinan Cichero” e che trasportiamo a
dorso di quattro muli, da Vicoponzo a Frassineto, con un
cambio degli animali nel paese di Mongiardino. Le armi sono
le migliori fra quelle ricevute fino a quel momento. La novità
assoluta è quella del Mortaio da “60”, molto leggero e
maneggevole.
Come arma leggera c’è il bellissimo MARLIN che tutti noi
vorremmo possedere ma questo non è possibile, anche perché
il Comandante ha stabilito un organigramma
arma/partigiano, per avere un’organizzazione di tipo militare,
funzionale ad ogni tipo di azione. Si lavora moltissimo sulle
armi; si preparano quelle da trasferire in Val Bisagno per
armare i due nuovi distaccamenti e le squadre S.A.P.; si
sistemano le altre nei rifugi.
Le giornate passano velocemente e il morale è alle stelle. Una
mattina che mi trovo di pattuglia con Tevere, vediamo due
giovani che salgono lungo la mulattiera con passo pesante e ci
viene spontaneo dire: “Quei due non sono certo dei partigiani,
lo si capisce dalla loro andatura”. Ma la sorpresa è grande nel
vedere che si tratta di Campione, accompagnato da suo cugino
Alceste, uno di quella trentina di giovani che i nazi-fascisti
avevano rastrellato nel paese di Canate e che grazie al nostro
tempestivo attacco si salvarono dalla sicura deportazione in
Germania. Campione di ferma nella Severino e Alceste ritorna
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a Canate. L’arrivo di Campione completa il gruppo di coetanei
che si conoscono da tanti anni.
Passano i giorni e fra i Garibaldini della Severino cresce la
voglia di menar le mani (armi) contro i fascisti e i loro padroni
nazisti. Quel desiderio viene soddisfatto il 23 Aprile quando
Gino parte con una quindicina di Partigiani con destinazione
Genova/Città. Tra i partenti c’è un Partigiano con due armi: il
suo fucile “Rifle” e la penna per scrivere, è il Biondo.
Arrivati a Molassana la mattina del 24, ingaggiano subito una
dura battaglia con il presidio tedesco. Si spara da ambedue le
parti ma quando entra in azione il “Bazooka” per i tedeschi le
cose si mettono male e la iniziale resistenza si esaurisce in un
paio d’ore; alzano bandiera bianca e si consegnano prigionieri
alla Brigata Severino.
Ma il fatto più bello ed unico della Liberazione di Genova è
quello che la mattina del 25 Aprile. Prima che le Formazioni
Partigiane entrino in città, il Secolo Liberale esce con un
servizio in prima pagina sulla battaglia di Molassana, fatto non
da un inviato del giornale ma dal Partigiano Biondo, che ha
partecipato alla battaglia.
Noi partiamo la mattina del 24 aprile e raggiungiamo la
Brigata quando la battaglia è già conclusa.

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Articolo di BIONDO apparso su: “Il Secolo Liberale” di Genova il 25 Aprile 1945.

Un Partigiano racconta: “Come venne vinto a Molassana un forte gruppo di Tedeschi”.

I Partigiani sono scesi in città: sono i garibaldini della volante “Severino”!.


La popolazione applaude, civilmente commossa; le donne hanno le lacrime agli
occhi e gli uomini ci baciano e i bambini ci corrono incontro entusiasmati. Anche
noi abbiamo le lacrime agli occhi e c’è in noi la fierezza che ci hanno dato i mesi e
mesi di montagna, di patimenti, di fame e di freddo; però gli stenti non hanno
affievolito la nostra irruente baldanza. Ci accolgono le strade ampie che un tempo ci
furono amiche; ci sorridono le donne dalle finestre, mentre attraversiamo villaggi e
paesi.
La gente ci viene incontro e ci offre dell’acqua; abbiamo sete e l’acqua si mischia al
sudore. Siamo scesi dai monti, abbiamo raggiunto le strade carrozzabili, poi
abbiamo proseguito la marcia: Montaggio, Tre Fontane, Acquafredda, Creto. Ogni
passo che percorriamo sulla strada ci avvicina alla città.
A Molassana, in alcuni casamenti, i tedeschi si battono tenacenebte ma prima la
“Bazouka” ben coadiuvata dai “Bren”, dagli “Sten”, dai “Marlen” poi dai cannoni
che abbiamo catturato ai nemici, consigliano a non intestardirsi troppo nella loro
resistenza. Sono tre ore di battaglia: i si affondano sui nidi di resistenza. Sta per
venire la sera: i traccianti veloci ci illuminano sulla traiettoria fissata. Siché, visto
che contro il nostro fuoco non c’è nulla da fare, i tedeschi si arrendono.
S’alzano nel cielo i razzi bianchi, sono segnalazioni di resa: s’impone così una
tregua al nostro fuoco. I tedeschi chiedono l’onore delle armi. Il nostro Comandante
che è finalmente sorridente, lo concede.
Ci schieriamo sulla provinciale e presentiamo le armi al nemico battuto: ci passa
davanti una lunga teoria di uomini, tra essi sono molti i feriti. Alle 21.00 Molassana
Viene liberata. E alla liberazione ha attivaente collaborato la S.A.P. che già in
mattinata aveva preparato il terreno e che si unisce all’entusiasmo della nostra
azione, ci è prodiga di consigli.
Intanto vengono stabiliti posti di blocco: un gruppetto di partigiani s’è fermato di
una strada e canta, canta le nostre canzoni quelle che da mesi abbiamo cantato sui
monti e che ora porteremo in città:”Siamo i ribelli della montagna.”
Stanotte non si dorme: le pattuglie vigilano. Poi proseguiremo la marcia verso la
città.
Firmato: BIONDO

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La morte di Rœa (Ruota)

Scendendo lungo la Valbisagno, la volante Severino e le SAP


del posto diedero una sonora lezione ai presidi nazifascisti
restii ad arrendersi. Arrivati poi in città la nostra attenzione si
concentrò prevalentemente, nella zona della Foce, di Albaro,
Puntavagno, Forte San Giuliano, Villa Gaslini e altri punti
della città dove i nazifascisti opponevano una disperata
resistenza, ma bastarono poche raffiche di BREN e qualche
colpo di BAZOOKA perché si rendessero conto che per loro la
festa era finita. Restava il grosso pericolo dei cecchini che dai
tetti e dalle case sparavano contro Partigiani e civili. Ma
individuate le loro postazioni fu per noi facile ridurli al
silenzio.
In quelle caotiche giornate, nelle quali i colpi di Mortaio, di
Bazooka e le raffiche di mitraglia s'incrociavano, in un gioco di
morte, noi subimmo una dolorosa perdita, quella del
giovanissimo Partigiano “Ruota” - Mario Tolari classe 1926 -
caduto sotto i colpi di un cecchino. Fu una scena straziante
vedere il corpo di Rœa immobile e senza vita sul selciato di
una strada nella zona del Lagaccio, mentre poche ore prima lo
avevamo visto spostarsi da un punto all'altro delle strade di
Genova sparando senza tregua contro i reparti nemici restii
alla resa. Ruota, come tanti giovani italiani ha combattuto e
perduto la vita per dare all'Italia Libertà e Democrazia.
II grande merito dei Partigiani in generale, fu quello che in
pochi giorni riportarono la città ad un buon grado di normalità
e di legalità. Tanto é vero che la V° Armata Americana entrò in
città senza sparare un solo colpo. In più il Comitato di
Liberazione Nazionale con impegno e tanta fatica ripristinò
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(parzialmente) i servizi pubblici essenziali. Successivamente la
Brigata Severino fu inquadrata nella Polizia Partigiana e anche
in questo suo nuovo ruolo si distinse per serietà e rigore,
nell'assicurare alla giustizia centinaia di delatori, torturatori e
briganti neri.
La quasi totalità dei Partigiani della Severino rimase nella
Polizia fino alla Costituente, dopo alcuni si fermarono in
Polizia con il Comandante Gino mentre gli altri si
smobilitarono ed entrarono nel mondo del lavoro.
1 Partigiani della Severino hanno mantenuto tra loro e il
territorio un rapporto di amicizia solidale, che potrebbe essere
di esempio per altre realtà. In ragione di questo Gino ritorna
spesso a Genova Prato per incontrare i suoi Ragazzi della
Montagna, gli amici dei Partigiani e la gente del posto.

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La Bandiera della Brigata

In montagna, la volante Severino aveva la sua bandiera di


colore rosso orlata col tricolore con al centro la stella a cinque
punte simbolo delle Brigate Garibaldi, confezionata dalle
sorelle del Comandante Gino: loro lavorano e pensano al
proprio fratello che, lassù sui monti della Val Noci, con altri
compagni sempre esposti al pericolo e alle intemperie e
combattono per dare all’Italia la Pace, la Libertà e la
Democrazia.
II portabandiera della Brigata era il Partigiano Donez che ne
aveva la massima cura e la portava sempre appesa al
cinturone, in una piccola custodia. Era durante le azioni
importanti che la Bandiera Partigiana veniva dispiegata per
dimostrare ai nazifascisti il livello organizzativo delle
formazioni Partigiane.
Alla Liberazione di Genova la nostra Bandiera fu il primo
vessillo partigiano ad entrare in città alla testa dei Garibaldini.
I cittadini Genovesi che incontravano per la prima volta i
Partigiani rimanevano allibiti nel vedere quelle formazioni,
composte da giovani ragazzi e ragazze in perfetta uniforme
come un vero esercito di Liberazione, mentre la propaganda
fascista li definiva “Banditi e Straccioni”. Quel giorno finiva la
tragedia della guerra ma ancor di più la grande menzogna del
fascismo e si apriva una nuova prospettiva di Libertà e
Democrazia.
Oggi la gloriosa Bandiera é esposta nella sede della Società di
Mutuo Soccorso “7 Novembre” che si trova alla Ligorna
(Valbisagno) in Via Cipressi 2. Ligorna era una delle zone
dove la Severino aveva una sua squadra di Partigiani, come a
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San Siro, San Cosimo, San Martino di Struppa, Lavagna e in
altre località del fondovalle, con rifugi e armi efficienti per le
esigenze operative.
La Società “7 Novembre” ha una lunga e nobile storia di
antifascismo militante, e per questo motivo fu distrutta dalle
squadracce fasciste e i suoi associati subirono arresti, pestaggi
e "olio di ricino” ma non si piegarono mai alle prepotenze
delle squadracce fasciste. La nostra gloriosa Bandiera non
poteva avere migliore collocazione di quella attuale.
La Bandiera della Volante Severino, per noi vecchi Partigiani,
non è solo un cimelio da custodire in una bacheca, ma
rappresenta gli ideali per i quali abbiamo combattuto: Libertà
Democrazia e Uguaglianza.
Inoltre il nostro impegno come democratici deve essere quello
di contestare il revisionismo storico destroide,
contrapponendo verità e trasparenza, mantenendo vivi gli
ideali della Resistenza, come spesso ci ricorda il nostro
Presidente della Repubblica – Carlo Azeglio Ciampi.

ERMES

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