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Il Partigiano racconta
Credo che sia naturale per ognuno di noi ritornare col pensiero
al passato e rivivere con emozione gli eventi che ci hanno
coinvolti in gioventù.
Sono fatti accaduti durante la guerra che desidero raccontare
per i giovani del giorno d'oggi che, per loro fortuna, quei
dolorosi giorni non li hanno vissuti.
Va detto che la Resistenza e la lotta di Liberazione non furono
soltanto dolorose battaglie o gesti di eroismo individuale ma
un complesso di partecipazione e di solidarietà che coinvolse i
cittadini di ogni condizione e stato sociale. Erano i piccoli
gesti di solidarietà della gente delle vallate appenniniche che
contribuivano a creare un clima di serenità e di fiducia per le
formazioni Partigiane. Era importante e rassicurante per noi
vederci offrire una scodella di latte, appena munto, ed essere
invitati in casa loro per scaldarci vicino alla stufa nelle gelide
giornate invernali, oppure le ragazze che si offrivano di
rammendarci una camicia o un paio di pantaloni o ancora i
giovanotti che ci aiutavano ad occultare le armi e le munizioni
eccedenti le necessità di quel momento, specialmente
nell'avvicinarsi di un rastrellamento.
Questi erano i piccoli granelli "di forza" della Resistenza che
messi insieme formarono quella grossa valanga che spazzò via
il fascismo con tutte le sue menzogne. Non é sempre facile
riportare in forma scritta il clima e le emozioni di quei
momenti, comunque io ci proverò, premettendo che non é mia
intenzione scrivere un pezzo di storia del Movimento
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Partigiano, ma raccontare semplicemente l’esperienza di un
diciottenne fatta nelle Formazioni Partigiane Liguri.
Nello scrivere di fatti accaduti molti anni prima si può
incorrere in qualche piccola imprecisione riguardante i nomi
dei luoghi o dei Partigiani citati, ma ciò nulla toglie alla
veridicità dei fatti descritti.
Raccontare di episodi e di fatti inerenti la Lotta Partigiana,
comporta rigore e trasparenza; anche per rispetto a chi ha
partecipato alla Resistenza, sacrificando la propria vita per un
nobile ideale.
In questa linea rientra anche la precisazione che fece Vagge,
alcuni mesi fa, che si può sintetizzare in questo modo: “La
verità, sulle azioni partigiane che fecero saltare in aria i ponti
della Paglia e di Cavassolo, più un tratto della Statale 45, è
quella che ti raccontai a Noci, nel lontano mese di febbraio
1945, quindi le cose dette o scritte da altre persone sono pura e
semplice invenzione o, se volessimo essere buoni, si potrebbe
dire che si tratta di fervida fantasia.
Disegno ripreso da “IL PARTIGIANO” – Organo della III° Divisione Garibaldi “CICHERO”
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La Resistenza in Liguria
Racconto di Giovanni Battista Bazurro “Ermes”
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Balduzzi, noto come uno dei maggiori promotori della
Resistenza in Italia.3
Il progetto consisteva nel formare un gruppo di giovani,
armarli e trasferirli in montagna. La guida e l'organizzazione
venne assegnata a Virgilio, che aveva accumulato un po' di
esperienza nelle Langhe. Andammo a ritirare le armi dietro la
chiesa di San Pantaleo, nel quartiere di Staglieno, presso
compagni di lotta fidati. Ritornammo, sempre accompagnati e
protetti da tre membri dell'OTO, percorrendo, per sicurezza,
l'acquedotto civico fino a San Cosimo per circa una decina di
chilometri. I tre, giunti all'altezza del Giro del Fullo,
ritornarono verso il centro, noi raggiungemmo San Martino di
Struppa, alla periferia di Genova, e quindi la frazione di Gave,
dove, a suo tempo, avevamo costruito un sicuro e robusto
rifugio e avevamo occultato il materiale bellico recuperato
successivamente all'8 settembre. Pochi giorni dopo vennero
assegnati a ciascuno di noi fucili e munizioni per pulirli,
lubrificarli e custodirli.
Al momento della partenza per Voltaggio, dove il nostro
gruppo avrebbe dovuto essere accorpato alla brigata
“Giancarlo Odino”, nome del partigiano medaglia d'oro
fucilato al Turchino, il gruppo venne giudicato troppo
numeroso e, quindi, facilmente individuabile anche durante
uno spostamento notturno. Gli organizzatori decisero di
dividerlo in due gruppi. Io partii una settimana dopo col
secondo gruppo, accompagnato da un membro della OTO.
Viaggiammo di giorno, arrivando nel tardo pomeriggio sulle
pendici del monte Tobbio, in comune di Voltaggio.
L'accoglienza da parte del primo gruppo fu festosa, anche
perché era viva la curiosità di sapere se ci fossero state delle
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Leggendario eroico personaggio pure lui dimenticato di proposito dai cosiddetti storici e dai
revisionisti nostrani
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reazioni alla loro partenza, forse un po' troppo chiassosa.
Parlammo poi della vita dura in montagna e delle difficoltà da
affrontare.
Non so come spiegarmelo ma, purtroppo, fui subito
sopraffatto da un intimo disagio e da forti timori. Dormii
pochissimo, malgrado avessi camminato dieci ore di seguito, e
riflettei sul da farsi. Decisi di dire a Virgilio, il cui nome di
battaglia era ora Castagna, che non me la sentivo di rimanere
a causa della grande disorganizzazione. Il buon amico e
compagno mi disse: «Qui, sia per tè che per il gruppo, se non
hai la necessaria serenità, non puoi rimanere. Del resto, da
tempo pensavo che uno di noi sarebbe dovuto rimanere a
San Cosimo per tenere il collegamento con l'organizzazione
del centro.» Effettivamente era una necessità, ma sono certo
che Castagna non volle mettermi a disagio nei confronti dei
miei compagni.
Ritornato a San Cosimo il senso di disagio non scomparve,
anzi sentivo nell'aria un reale pericolo. Spesso ritornavo con il
pensiero al primo impatto sulle pendici del Tobbio; vedevo la
casupola col suo disordine, uomini in continua agitazione e
con i nervi a fior di pelle. Tutto questo contrastava con ciò che
mi ero immaginato prima di arrivare in quella zona. Pensavo
che la Resistenza avesse bisogno di persone con una
esperienza organizzativa consolidata, che potessero
trasmettere a noi giovanissimi coraggio e sicurezza. Questo
non lo avvertii a Voltaggio. In tutta coscienza, rimasi,
malgrado l'età e l'inesperienza, molto turbato a motivo di quel
caos e per il totale, evidente abbandono. Ho ancora davanti
agli occhi i giovani partigiani stipati come animali in cascine e
catapecchie, scarsamente armati e affamati come lupi.
Confesso di essere stato contento di aver lasciato quella zona,
assolutamente inidonea alla guerriglia. Alcuni di quei poveri
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ragazzi vennero, poco dopo, catturati e trucidati dai nazi-
fascisti. Una parte venne spedita in Germania a morire nei
campi di sterminio.
Trascorrevo le giornate nelle fasce, i terrazzamenti della
collina genovese, con la mia piccola pistola in tasca,
illudendomi che fosse la mia salvezza. La notte dormivo
spesso fuori casa per evitare possibili retate.
Un giorno arrivò la notizia che il nostro gruppo, trovandosi in
grosse difficoltà a causa delle continue puntate dei nazi-
fascisti, venne trasferito verso levante e, più precisamente, a
Frassinello, in Valbrevenna. Non era un buon segno. Il peggio
comunque, arriverà poco dopo per un atto di leggerezza
compiuto da un nostro compagno: il gruppo organizzato con
tanta fatica e tanto rischio venne irrimediabilmente sciolto.
Tutto ebbe inizio nelle vicinanze di Avosso, quando il
partigiano Saetta, detto anche Braccino,per il suo braccio
destro attaccato dalla poliomielite, fermò un carro che
trasportava tabacco e sigarette, un genere tesserato, destinato
alla popolazione. Senza riflettere sulla gravità dell'atto, fece
deviare il carro verso Valbrevenna. Va precisato che nemmeno
un grammo di tabacco venne sottratto, ma il fatto fu clamoroso
e la notizia arrivò rapidamente al Comando della VI° Zona
che venne indotto a prendere immediati e severi
provvedimenti.
Reggio, comandante del Distaccamento Maffei, accantonato
nel paese di Paio (Pareto) in alta Valbrevenna, con una
squadra raggiunse Frassinello con l'ordine di disarmare il
gruppo responsabile del fatto. La sorpresa fu grande sia per il
nostro gruppo, quando vide apparire sulla porta un uomo
armato che intimava: «Fermi tutti e mani in alto!», che per
Reggio, che si trovò di fronte un gruppo di persone disarmate
che stavano consumando un frugale pasto.
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A mio parere, il fatto più grave era consistito nel totale
abbandono delle armi nel vicino cascinale, negligenza
imperdonabile! Nello sconcerto generale alcuni dei miei
compagni riuscirono a gettarsi dalla finestra e ad allontanarsi
rapidamente, gli altri vennero fatti prigionieri e accompagnati
al Comando; tra questi c'era anche lo sfortunato Polovio.
L'operazione rientrava nel normale controllo del territorio
conseguentemente al quale i comportamenti negativi
dovevano essere stroncati sul nascere. I partigiani, con il loro
rigoroso comportamento, si erano conquistati l'amicizia e la
fiducia delle popolazioni delle vallate e dei monti della
Liguria. La disciplina era il pilastro portante
dell'organizzazione, quindi nessuna tolleranza per le iniziative
individuali non indispensabili. Chiedere e mai pretendere era
la regola. Chi non si atteneva alla "legge della montagna"
arrecava soltanto discredito al movimento e offesa a quella
popolazione che aiutava i partigiani secondo le proprie
possibilità e nel contempo condivideva con loro il pericolo dei
rastrellamenti e delle rappresaglie.
I restanti partigiani dello sventurato gruppo che, durante
l'azione di Reggio, riuscirono a sottrarsi alla cattura, decisi e
animati da un forte spirito di ribellione verso i nazi-fascisti,
ritornarono a riunirsi a San Cosimo.
Fin dal primo incontro, fatta la debita autocritica per gli ultimi
accadimenti, stabilimmo all'unanimità di ritornare in
montagna per rientrare nel pieno della lotta.
Spesso riflettevo sull'accaduto di Frassinello soprattutto, sul
disagio che mi aveva attanagliato sulle pendici del monte
Tobbio. Due situazioni differenti che, però, mi fecero capire
come il sentimento ideale e il rigore morale dovessero
procedere di pari passo con l'organizzazione e la disciplina, o
meglio, con l'autodisciplina. Nel mese di ottobre decidemmo
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di partire per raggiungere le formazioni garibaldine della VI°
Zona. I più anziani entrarono nella Brigata Volante Severino4
guidata dal Comandante Gino, mentre noi, più giovani e con
poca esperienza venimmo inviati al campo reclute presso la
Casa del Romano, vicino al monte Antola, un distaccamento
di ambientamento reclute per gli ultimi saliti in montagna e
facente parte della 3° Divisione Garibaldina “CICHERO”
L'esperienza fatta nelle formazioni garibaldine è stata molto
positiva; ovviamente ci sono stati momenti di grande pericolo
e di privazioni, superati anche grazie al clima di fraterna
solidarietà che creavano i Commissari nelle riunioni serali
accanto al fuoco.
Un giorno di quell'esistenza, durissima sotto ogni aspetto, ma
vissuta con la coscienza delle proprie idee e con rigore morale,
è valsa, per le esperienze fatte e per gli insegnamenti ricevuti,
un mese di vita. Sono convinto di aver beneficiato dei principi
fondamentali di vita e di civismo che allora mi vennero
inculcati e che favorirono anche le mie scelte successive, come
quelle di tanti altri miei compagni di lotta.
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Formazione di montagna tra le più agguerrite e manovriere che operava alla periferia di Genova
(bassa Val Bisogno) composta da validi ed esperti guerriglieri, soggetta giornalmente a
rastrellamenti, puntate, colpi di mano ed altre operazioni nemiche di vario tipo.
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La Banda di Cichero
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II valore storico del Casone della Stecca va difeso e preservato,
ed è con questo spirito che oggi si svolgono incontri e
trattative tra i rappresentanti della Provincia di Genova e i
proprietari della struttura per trasformarla in un piccolo
Museo di Storia Partigiana e di Storia Contadina.
Se questo bellissimo progetto arriverà a felice conclusione sarà
un'ulteriore e importante tassello del Mosaico della Storia
Partigiana Ligure.
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La Missione Alleata Inglese e
il lancio di armi sul Monte Carmo
Disegno (A. Mangini) ripreso dal libro “PARTIGIANI IN AZIONE” di Enzo Rossi (Ròiss)
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Bisagno, Bini e gli Alpini “della Monte Rosa”
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I sette vanno via con Bisagno e due dell’Alpino e noi, con Bini
e il mitragliere, ritorniamo sui nostri passi. Bini semina sulla
strada i volantini rimasti, ma solo fino all’incrocio, e ci spiega
che dopo l’incrocio non ci devono essere più volantini per ché
sarebbe un’indicazione circa la nostra direzione.
Risaliamo verso il nostro Distaccamento, non proprio
soddisfatti per la parziale riuscita dell’operazione ma
orgogliosi di aver partecipato alla prima azione partigiana.
Lettera/Testimonianza inviata a:
- Istituto Ligure per la Storia della Resistenza e dell’Età
contemporanea
- A.N.P.I. – Provinciale di Genova
- A.N.P.I. – Sezione Struppa (GE)
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chi tenta di gettare ombre e fango sulla Lotta di Liberazione,
come ha fatto il sindaco di Favale, Giovanni Boitano (Forza
Italia), che, nel suo intervento, ha insinuato che i partigiani
sarebbero morti perché sorpresi dai tedeschi mentre
dormivano.
Ermanno Baffico, oratore ufficiale dell'ANPI, ha corretto
l'oltraggiosa e provocatoria versione del sindaco, ma senza la
sufficiente efficacia perché, indubbiamente, non era stato
informato nei particolari di ciò che realmente accadde presso il
Casone di Centonoci.
Da parte mia ho contestato al sindaco la sua versione dei fatti,
senza però scendere nei particolari.
Poco tempo dopo detta commemorazione, indignato, ho
consegnato all'ANPI Provinciale di Genova una sintetica
descrizione dei fatti del 22 dicembre 1944.
Ora ritengo (anche perché sono uno dei pochissimi superstiti)
sia mio dovere ricostruire l'accaduto dettagliatamente,
avendolo vissuto dal suo nascere alla fine.
Precisare quello che è successo credo sia il modo migliore per
ricordare, con spirito garibaldino, i nostri compagni caduti in
quella tragica giornata per un errore del comandante Banfi.
Errore forse originato dalla sua formazione militare che mal si
conciliava con la tattica della guerriglia partigiana, fatta di
valutazioni e decisioni rapide, come pure di attacchi e di
sganciamenti altrettanto rapidi. La tragedia avrebbe assunto
proporzioni gigantesche se il colpo di cannoncino che ha
colpito la strafia (teleferica) fosse penetrato tra la casa e la
roccia retrostante dove ci eravamo rifugiati.
La storia di Centonoci inizia nel momento in cui il nostro
distaccamento, accantonato nelle Sciaree, piccola frazione di
Roccatagliata, stava controllando la mulattiera che, inizia nelle
vicinanze di Torriglia, passa per la Buffalora e arriva al Passo
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del Portello. Lo scopo era quello di prevenire attacchi a
sorpresa da parte dei nazi-fascisti che, da alcuni giorni,
stavano preparando il tristemente noto "rastrellamento di
dicembre" (1944).
Nella tarda serata del 20 dicembre arrivò dal Comando di
Brigata l'ordine di ritirarci appena possibile perché la zona
ormai era indifendibile (la storia c'insegna che la difesa non è
mai stata, e non lo sarà mai, tattica della guerriglia). Il nostro
distaccamento faceva parte della Brigata “Berto”, dal nome del
partigiano Berto, caduto nella battaglia di Allegrezze il 27
agosto 1944, decorato con Medaglia d’Oro al Valo Militare.
All'alba del giorno dopo partimmo per il paese di Barbagelata
e arrivammo a Costafinale verso le ore 10. Davide, il nostro
comandante, che nel frattempo aveva preso contatto con la
Brigata, ci comunicò che il Comando aveva deciso che non
dovevamo fermarci in zona, ma proseguire, insieme a loro, per
Favale. Giulin, il nostro commissario, si portò alla testa del
distaccamento e ci avviammo verso la nuova destinazione.
Camminammo fino a mezzogiorno e ci fermammo vicino a
due casupole, in un bosco di castagni, nella frazione Castello,
sopra il paese di Favale. Si preparò e si mangiò un po' di
polenta, fatta con la farina di castagne, la cosiddetta "pattona"
(cioè la nostra alimentazione quotidiana). Nel pomeriggio una
staffetta portò la notizia che i nazi-fascisti erano arrivati nei
pressi di Barbagelata, ma che non si conosceva la loro
direzione. Banfi disse che, al calar della notte, si doveva
ripartire e che non si dovevano lasciare tracce di sorta al fine di
evitare che i nazi-fascisti venissero a conoscenza della nostra
direzione di marcia.
A notte fonda scendemmo a Favale e ci fermammo vicino al
mulino; il proprietario era un antifascista, ci regalò alcune
pagnotte e del formaggio, cibo che ci fu utile il giorno dopo.
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Da lì si ripartì salendo verso il Casone di Centonoci; si salì in
silenzio, per quanto fu possibile, dovendo muoverci di notte e
su un sentiero molto scosceso. La nostra speranza era quella di
portarci fuori dall'area del rastrellamento, ma le cose non
andarono nel modo sperato. Ci attendeva una delle giornate
più tristi vissute in montagna.
Il giorno 22 iniziò con i primi colpi di cannoncino sparati da
oltre il colle e indirizzati verso i monti che racchiudono la
vallata di Favale, con prevalenza verso la Rondanaia dalla
quale, seguendo il profilo del monte, si arrivava sopra il
Casone, dove ci rifugiammo.
Il martellamento del cannoncino con i suoi colpi che si
avvicinavano sempre più al nostro rifugio continuarono fino a
colpire la strafia, che si trovava a circa 20 metri dal casone,
mentre all'interno dello stesso, fra i partigiani, montava la
tensione. Da una parte ci fu chi ritenne giusto sganciarci
subito e ripiegare verso il monte Ramaceto (fra essi, Balin
disse ad alta voce e con decisione: «Banfi andiamo via da
questo posto perché qui si muore tutti.», dall'altra, invece, ci
fu chi ritenne più giusto non muoverci sostenendo che,
avendo viaggiato di notte nel più assoluto silenzio e senza
lasciare tracce, nessuno poteva sapere che eravamo nel
Casone.
Verso le ore 10 dal Passo della Scoglina spuntarono i primi
reparti nemici che scendevano verso Favale. La colonna era
formata da "repubblichini" del Battaglione Aosta, della
Divisione Monterosa e da reparti tedeschi. A questo punto
alcuni di noi vennero inviati di pattuglia per accertarsi che
non ci fossero altre colonne nemiche convergenti su di noi da
altre direzioni: la distanza tra noi e i nazi-fascisti fu tale che,
muovendoci con cautela, non potevamo essere individuati.
Ad agevolare un'eventuale nostro sganciamento c'era un
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canalone che dal Casone portava alla vetta, che ci avrebbe
protetto alla vista di chi si trovava sul versante opposto.
Ma l'idea di non muoverci prevalse e nel Casone
subentrarono una certa rassegnazione e una manifesta paura.
In quel clima ci si avviò verso la tragedia.
La colonna nemica continuò la sua discesa verso Favale e,
arrivati alle due casupole, i nazi-fascisti le dettero alle fiamme.
E qui si doveva capire che le cose stavano volgendo al peggio:
era ormai chiaro che qualcuno li guidava in modo preciso sui
nostri passi.
Banfi però non cambiò idea e continuò a seguire i movimenti
da dietro le imposte delle finestre commentando a bassa voce
che tutto procedeva bene. Verso le 16, Banfi si allontanò dalla
finestra e disse che tutto era finito perché la colonna si era
mossa dal paese andando verso Lorsica; a questa notizia si
levò un urlo di entusiasmo subito raggelato dalle grida degli
assalitori che, arrivati sotto il Casone, urlavano:
«Arrendetevi banditi!». Attimi di panico e di smarrimento,
poi cinque compagni uscirono di corsa per tentare di
conquistare una posizione da cui contrastare gli assalitori, ma
vennero falciati dalla prima raffica di mitragliatore. Il primo
scontro si svolse nel raggio di 8 - 10 metri e nell'arco di poche
decine di secondi: Carlo 3°, uno dei cinque colpiti si rialzò da
terra e con un braccio teso e tre dita della mano aperte gridò:
«Sono solo tre!», ma una seconda raffica lo colpì in pieno
petto scagliandolo contro un albero di rovere. Aveva ragione
perché i primi ad arrivare sotto la casa furono due mitraglieri
e un sergente.
Franco, commissario della Brigata Berto, ferito alle gambe,
rimase a terra immobile e questa decisione gli salvò la vita;
Rino, ferito in modo leggero, si gettò lungo il pendio, mentre
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Milio e Poli, colpiti a morte, rimanevano a terra vicini a
Franco.
In quel trambusto infernale, quelli di noi che erano usciti di
pattuglia al mattino e conoscevano meglio il terreno
circostante si avviarono verso il canalone che portava sulla
cresta del monte. Fra questi c'era anche Balin che camminava
davanti a me e, arrivato su una piccola roccia, anziché
scavalcarla si accasciò a terra gridando: «Mamma, mamma!».
Gli urlai: «Balin alzati!», credendo che fosse inciampato;
invece era stato colpito alle gambe. Scavalcandolo, mi voltai
verso il basso e vidi il sergente "repubblichino" che
imbracciava il mitra e gridava come un'ossesso: «Arrendetevi
vigliacchi!»; ci scaricò contro un'ultima raffica con la quale
colpì a morte il povero Balin. Io, protetto dal suo corpo, mi
salvai.
Nel gruppetto uscito dal Casone c'era un partigiano con il
fucile mitragliatore e questo per noi fu un provvidenziale
punto di forza. Ci posizionammo sulla cresta del monte per
bloccare un'eventuale accerchiamento, ma non ci fu alcun
movimento in tal senso; si sentiva soltanto il crepitio delle
armi automatiche e lo scoppio delle bombe a mano e questo ci
dette la speranza che la situazione fosse migliorata.
La fase successiva ci fu raccontata da chi rimase nel Casone, ci
fu detto: “che nell’istante successivo all’ultima raffica sparata
contro Balin e mentre il Sergente repubblichino ricaricava
l’arma Totò gli scaricò contro una micidiale raffica col suo
efficientissimo MAS, stendendolo a terra. Davide con
altrettanta rapidità sparò contro i due mitraglieri, riducendo
al silenzio quella maledetta mitraglia, imprimendo così una
svolta alla drammatica situazione. A quel punto la circostanza
si capovolse e l’iniziativa passò nelle mani dei Partigiani.
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Tra i primi a portarsi alle finestre, il partigiano Punto che, con
il suo “Bren”, decimò il secondo gruppo nemico che si stava
avvicinando al casone. La battaglia continuò fino
all'imbrunire con lancio di bombe a mano e con tutte le armi
disponibili provocando la morte di 12 "repubblichini" e un
numero imprecisato di feriti (ciò venimmo a sapere, alcuni
giorni dopo il conflitto, dagli abitanti di Favale, che
assistettero al trasporto a valle dei nazi-fascisti caduti e di
quelli feriti).
Da parte nostra i caduti furono cinque: Balin, Carlo 3°, Milio,
Poli e Vino; i feriti quattro, dei quali Franco e Rino furono i
più gravi. Di Vino nessuno ha saputo dire quando e dove fu
colpito; si seppe solo che il suo corpo fu recuperato nelle
vicinanze del casone. Oltre ai caduti, purtroppo, lasciammo
sul terreno anche Franco cui la sorte non fu favorevole in
quanto la battaglia finì quando era già buio e i compagni che
recuperarono le armi dei nostri caduti, quella di Franco e
quelle dei repubblichini, lo fecero nel massimo silenzio.
Franco, pensando che fossero i nazi-fascisti, rimase immobile
e cosi sfumò la possibilità di portarlo via con noi. Col passare
del tempo Franco si rese conto che nel casone e nelle
vicinanze non c'era più nessuno e con fatica e dolore,
facendosi forza con le sole braccia, dato che le gambe erano
ferite, cominciò a salire palmo a palmo il pendio. Trascorsero
ore prima che raggiungesse la cresta del monte, ma, quando
pensava di essere fuori pericolo, mentre il campanile del
paese batteva le 10 di notte, fu investito da un fascio di luce
blu e un gruppetto di fascisti lo assalì con calci e pugni
ricoprendolo d'ingiurie. Solo l'intervento di un ufficiale
tedesco pose fine a quel linciaggio. Fatto prigioniero dai
tedeschi venne trasportato all'ospedale di Chiavari in attesa di
essere fucilato.
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Quanto segue è ciò che successe in paese prima dell’attacco al
Casone e che ci fu riferito dalla gente del posto.
Nel momento in cui la colonna nazi-
fascista entrava in Favale, un gruppo di
bersaglieri travestiti da partigiani
raccontò di essere inseguito dai tedeschi
e chiese di poter raggiungere i partigiani.
Un ragazzo, ingenuamente, disse ai falsi
partigiani di aver visto i guerriglieri nei
pressi del casone di Centonoci, mentre
stava pascolando le pecore,
indirizzandoli,involontariamente, verso
di noi. Nel mese di gennaio iniziarono le trattative con i
tedeschi per uno scambio di prigionieri. A Borzonasca Franco
venne scambiato con un ufficiale tedesco già prigioniero dei
partigiani.
Va ricordato che Borzonasca è il paese in cui il 21 maggio
dell'anno precedente un gruppo di fascisti locali presenti alla
fucilazione del partigiano Severino applaudiva entusiasta al
grido di «Viva Spiotta!», boia e torturatore di partigiani e di
antifascisti che, con le sue squadracce, terrorizzò le
popolazioni dei paesi delle vallate nella zona del Levante.
Non mi spiego perché quanto è accaduto a Centonoci non sia
stato riportato nemmeno dal giornale “Il partigiano”, stampato
in montagna. Nel giornale si trovò soltanto un cenno di
riconoscimento al merito per il Comandante Davide, senza
però precisarne la motivazione, mentre della battaglia di
Centonoci parlò Radio Londra la sera del 27 dicembre 1944
quando, con il nostro distaccamento, eravamo accantonati nel
paese di Magnasco in Val D'Aveto. A quel tempo il mio nome
di battaglia era Castagnino .
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Nel mese di febbraio lasciai il mio distaccamento, che in quel
periodo si trovava nel paese di Castagnello, nelle vicinanze di
Paggi, e passai nella Brigata Volante Severino, guidata dal
Comandante Gino. La Severino operava alle porte di Genova
avendo la sua base tra San Martino di Struppa, Montoggio e
Davagna, prevalentemente nei paesi di Campoveneroso,
Noci, Canate ecc., poi alla periferia della città stessa: San Siro,
Prato, Doria, Ligorna ecc.
Disegno ripreso da “IL PARTIGIANO” – Organo della III° Divisione Garibaldi “CICHERO”
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Chi era Severino?
(Biografia tratta da il giornale “IL PARTIGIANO” del 1 agosto 1944)
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Il monte Aiona, coperto di neve, e due cuochi improvvisati.
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Essiccatoio di castagne
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impensabile dividerci e tantomeno rallentare la nostra marcia
e quindi proseguimmo oltre, alla ricerca di un posto
abbastanza sicuro per riposare qualche ora. Quando
pensammo di aver messo tra noi e i rastrellatori una tale
distanza da garantirci una certa sicurezza, ci avvicinammo a
delle piccole cascine piene di foglie di castagno e stanchi come
eravamo ci addormentammo profondamente, ovviamente
dopo avere stabilito dei rigidi turni di guardia. La mattina
dopo ci incamminammo verso il paese, Prato sopra la Croce,
arrivando attorno a mezzogiorno.
Non mangiavamo da più di 24 ore per cui urgeva accendere il
fuoco e preparare qualcosa da mangiare. Biscia e Garda
andarono alla ricerca di un po’ di salsiccia per fare del sugo
necessario per un buon risotto. Tornarono con un pezzo di
carne di capra che, a prima vista, doveva avere più anni di
noi. Comunque tutto andava bene pur di mettere sotto i denti
qualche cosa di sostanzioso. Due si improvvisarono cuochi e
si misero ad armeggiare attorno a un grosso paiolo ma come
spesso succede a chi si improvvisa cuoco tutto andò in
malora. Per inesperienza avevano buttato il riso nel poco sugo
senza aggiungere dell'acqua, così quel povero riso diventò un
blocco informe di colore marrone. A quel punto non restava
che ritornare alla solita "pattona" per riempirci lo stomaco.
Dopo mangiato partimmo per San Siro Foce arrivando a tarda
sera e da lì si ripartì per la destinazione definitiva, la Val
Graveglia.
Ci si potrebbe domandare perché non avevamo il cuoco nel
Distaccamento, la risposta era che quello che avevamo si era
allontanato il 21 Dicembre senza farne più ritorno. Lo
incontrammo dopo molti giorni nelle vicinanze del
Lavagnola, quando con Punto e Milan ritornavamo a Genova,
avendo ottenuto dal Comando un permesso di dieci giorni.
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Lui non volle parlare del suo allontanamento dalla
formazione né del suo progetto futuro. Io vidi che portava
nella cintura la mia piccola rivoltella Beretta 6.35. Gli chiesi
spiegazioni ma lui me la restituì senza rispondere alle mie
domande. Era sempre stato un giovane poco socievole e facile
a scatti d'ira, parlando della sua vita diceva di essere stato un
navigante e di avere fatto il cuoco sulle navi da carico. Come
nome di battaglia aveva scelto “Grisa” e non dava molta
confidenza agli altri. Si seppe poi che ritornato a Genova si
arruolò nella Repubblica di Salò, ma pur essendo vicino di
casa di Milan non fece nessuna delazione. È sempre difficile
capire certi comportamenti degli uomini.
Disegno ripreso da “IL PARTIGIANO” – Organo della III° Divisione Garibaldi “CICHERO”
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Una spia e lo sfortunato Partigiano Barbera
Disegno ripreso da “IL PARTIGIANO” – Organo della III° Divisione Garibaldi “CICHERO”
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I quattro della Guardia Nazionale Repubblicana
a caccia di generi alimentari
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Il ritorno sui Monti di Noci
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I paesi di Noci e Campoveneroso
fanno parte della storia della Volante Severino
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L’incontro a Noci con due compagne dell’UDI
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Arriva mezzogiorno e con le nostre gradite ospiti, mangiamo
un piatto di spezzatino nel quale i pezzetti di carne si perdono
in un mare di patate, ma tutto sommato è un piatto assai
gustoso. E' stato preparato dal Partigiano Donez, uno che con i
fornelli ci sa fare.
Le compagne chiedono di poter visitare il paese, anche per
farsi un'idea del rapporto che i Partigiani hanno con la gente
del posto. Risso rivendica, "per anzianità partigiana", il
privilegio di fare da guida alle nostre giovani ospiti. Nessuna
obbiezione da parte nostra e Risso dà il via alla passeggiata
tra le “stradine” di Noci con quell' aria seriosa consona al
personaggio che noi scherzosamente gli riconosciamo; lo
chiamiamo il "Dottor Risso" per la sua valigetta, con sopra la
croce rossa dalla quale estrae due o forse tre boccette
contenenti le pasticche che distribuisce per qualsiasi disturbo.
Lui sostiene che con due delle sue pastiglie la guarigione è
assicurata. Ma il vero responsabile sanitario della Brigata era il
Partigiano Castello.
In paese la curiosità è forte perché nessuno sa chi sono le due
giovani donne ospiti della Severino. Vi è un viavai di ragazze
che vanno alla fontana e ritornano con i secchi pieni d'acqua,
scambiandosi occhiate interrogative. Ma il segreto non viene
svelato per garantire l'anonimato alle due compagne. Nel
salire verso la parte alta del paese il "terzetto" incontra Gabir,
seduto sul muretto vicino alla scuola, intento a smontare il suo
fedele fucile mitragliatore, e che prende la palla al balzo per
tenere una lezione sulla funzionalità e la potenza del suo
"BREN", ma Risso lo blocca dicendo: "Oggi non si parla di
armi ma della nostra GENOVA, che non vediamo da troppi
mesi". Gabir fa finta di non prendersela e dice: "È tutta
invidia" e continua a lucidare e lubrificare la sua fedele arma.
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Arrivata l'ora di ripartire, le due compagne si avviano lungo il
sentiero che le riporterà a Valle. voltandosi più volte per
salutarci e facendoci dei segni come dire ritorneremo a
trovarvi. Ma quel pensato e promesso appuntamento non ci
sarà perché dopo una sessantina di giorni noi scenderemo a
Genova per liberarla da quei vili che per troppo tempo l'hanno
martirizzata.
Mi piace pensare che le due compagne saranno state tra la
folla festante ad applaudirci e che con una punta di orgoglio si
saranno rivolte agli altri manifestanti dicendo: noi i Partigiani
della Severino li abbiamo incontrati poco tempo fa sui monti
della Val Noci" e noi custodiremo gelosamente il bellissimo
ricordo della loro visita in Montagna.
GINO
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Grazie all’iniziativa e all’impegno di ex-partigiani dell’A.N.P.I.
di Struppa: Vagge, Romeo, Fulmine, Cristini e del Comitato
“AMICI DI NOCI”, composto da: Risso Marì, Lingua, Ban,
Giuse, Delucchi E., Pesciallo S. e, con il contributo
determinante dell’ex Presidente della Provincia di Genova
Marta Vincenzi, dell’assessore provinciale Piero Fossati e
dell’ex-sindaco di Davagna, GB. Cravino, è stata riparata e resa
transitabile la strada che da Davagna sale al paese di Noci, che
è ridiventato un bellissimo paesino con la sua storia da
raccontare.
Molti proprietari delle vecchie case hanno proceduto alle
necessarie ristrutturazioni e, figli e nipoti dei nostri vecchi
amici contadini del periodo partigiano, frequentano i luoghi
dove i Garibaldini della “Severino” hanno trascorso i più bei
giorni della vita in montagna.
Giorni sereni
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Badoglin, il suo cavallo
e il Commissario della Cichero "Marzo"
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Oggi Vagge (Burlando Agostino) è in vena di raccontare.
Sono trascorsi pochi giorni dal mio arrivo alla Severino e già
mi sento inserito nel clima battagliero dei ragazzi della
"Volante", clima che ho immaginato e sognato nei lunghi
mesi precedenti. Sono le prime ore di un mattino uggioso e
freddo, siamo posizionati sulla cresta del monte sopra il
paese di "Noci" perché ci è stata segnalata la presenza di
repubblichini sulla diga del lago, giù in fondo alla valle Gino
ha prontamente inviato alcune pattuglie in varie direzioni
per accertarsi della consistenza delle truppe nemiche
entrate nella nostra zona. Io mi trovo appostato tra Vagge e
Toua perché il mio compito è anche quello di portare le
granate del "Mortaio" che il bravo Toua gestirà a dovere.
L'attesa si prolunga e Vagge, col suo fare calmo e un po’
ironico mi dice che se i nazifascisti si avventureranno nelle
vicinanze del paese riceveranno l'accoglienza che meritano.
Poi come se volesse raccontarlo a se stesso ripercorre a bassa
voce, le fasi salienti delle azioni fatte dalla Severino al Ponte
della Paglia, a quello di Cavassolo e al "Mattogrillo".
Dopo un paio di ore arriva il cessato allarme in quanto i
repubblichini sono discesi sulla strada per le Tre Fontane, ma
Vagge ormai è come un fiume in piena e continua nel suo
racconto, entrando nei minimi particolari che, per chi ascolta,
rendono chiarissima la strategia che Gino addotta per
salvaguardare, il più possibile la vita dei suoi uomini.
Inizia dicendo che Gino non è soltanto un valente
comandante ma è anche un bravo artificiere che maneggia gli
esplosivi con troppa confidenza e che è sempre lui ad
innescare i detonatori e dar fuoco alle micce. L'altra
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caratteristica di Gino è quella di studiare nei minimi
particolari le fasi dell'azione che sta preparando e questo
rinfranca i suoi Partigiani che lo seguono con fiducia, anche
nelle azioni più pericolose.
Dice che al Ponte della Paglia s’è praticata la migliore tattica
della guerriglia Partigiana. Inizia dicendo che sono partiti
molto presto dalla zona e che sono arrivati nei pressi della
cappelletta di San Rocchino quando era già buio e che Gino
spiegò loro come dovrà svolgersi tutta l’azione, assegnando a
ognuno il proprio compito e i tempi di spostamento, perché
tutto si deve svolgere senza intoppi.
La prima cosa alle quale Gino presta le massima attenzione e
quella di non lasciare spazi ai repubblichini per allontanarsi e
dare l'allarme. A questo scopo è necessario portarsi nei pressi
di una villa frequentata dai repubblichini, per bloccare quelli
che si trovano all'interno della casa e quelli che arriveranno in
seguito, perché è da lì che può partire le segnalazione della
nostra presenza a Prato. Poi manda tre al ponte per disarmare
le sentinelle. Questo è il momento più difficile di tutta
l’azione per cui ci vuole tutta l'esperienza di Polvere, Renzo e
Rosso per sorprendere e disarmare le due sentinelle. Renzo
indossa la divisa della WERHMACHT, portata con
disinvoltura perché egli stesso proveniente dalle truppe
tedesche dalle quali diserto per entrare nelle Formazioni
Partigiane.
Contemporaneamente altri Partigiani irrompono nei locali
del presidio e con il solito: "Fermi tutti e mani in alto" creano
un certo smarrimento tra i presenti. Non c'è reazione e sui
volti dei repubblichini passa un'espressione di sorpresa e di
paura; per noi non c'è tempo per registrare lo stato d'animo
dei prigionieri perché occorre radunare le armi e munizioni e
tutto il materiale trasportabile e tenere sotto tiro i
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repubblichini. Quando tutto è pronto Gino ci dà l'ordine di
partire con i prigionieri carichi del materiale recuperato, e di
radunarci vicino alla chiesetta di San Rocchino dove lui ci
raggiungerà, dopo aver innescato i detonatori alle cariche
dell'esplosivo e dato fuoco alle micce.
Dall'alto noi non possiamo vedere cosa succede giù al ponte e
l'ansia con l'attesa aumenta. Poi un gran bagliore illumina il
greto del Bisagno seguito da un forte boato che fa tremare la
copertura dell'acquedotto, sotto i nostri piedi.
Arriva Gino e dice che è saltata una sola parte del ponte
mentre l'altra ha resistito. Quindi si può pensare che le cariche
di esplosivo sistemate dai tedeschi fossero insufficienti per
quella struttura. Gino non è soddisfatto e pensa di completare
il "lavoro" con il ponte di Cavassolo.
Poi decide che alcuni di noi, con i prigionieri, proseguiranno
lungo l'acquedotto e si fermeranno nel bosco, prima di
Cavassolo e da lì attendere altre istruzioni. Lui con un nutrito
gruppo di Partigiani ridiscende sulla Statale per arrivare dal
basso a Cavassolo e sorprendere le sentinelle al posto di
blocco del ponte. Questa fase sarà più semplice del previsto
perché ora oltre a Renzo, con la divisa da soldato tedesco,
anche Ce e Rosso indossano le divise repubblichine (prese alla
Paglia) e fingono di essere la "ronda" in servizio lungo la
Statale 45. Si avvicineranno alle due sentinelle e le
disarmeranno per farle poi camminare davanti a loro fino alla
casa dove alloggia il corpo di guardia e dove Gino è già lì in
attesa con gli altri Partigiani e, a quel punto, con una rapidità
garibaldina entrano e bloccano gli eroici soldatini delle
repubblichetta di Salò che increduli e smarriti non oppongono
resistenza.
Vagge prosegue il suo racconto dicendo: Per i nostri invece c'è
una bellissima sorpresa, c'è in bella vista una mitraglia
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pesante "BREDA 37" e tante altre armi e munizioni appoggiate
al muro; un ottimo bottino di guerra per la Volante Severino.
Si ripete quanto si è fatto nell'altro presidio, cioè i
repubblichini si caricano sulle spalle tutto il materiale e sotto il
vigile controllo dei Partigiani usciamo tutti dalla casa e ci si
avvia verso la parte alta della borgata.
Bisogna fare presto perché il primo scoppio può aver messo in
allarme i nazifascisti, quindi si deve far allontanare la gente
dalle loro case per evitare possibili vittime civili.
Visto che tutto procede bene e abbastanza velocemente Gino
pensa che ci sia anche il tempo per far saltare in aria un tratto
di strada poco distante: "il Mattogrillo", anche quello già
minato dai tedeschi. Quindi decide di partire con una piccola
squadra, lasciando Turco e Maggi a completare la
preparazione per il "grande botto". Noi in attesa che tutto si
concluda raggiungiamo gli altri che aspettano sull'acquedotto
e con loro iniziare a formare un'unica colonna di prigionieri.
Poi all’improvviso il tanto atteso boato dal "Mattogrillo" e da
parte nostra un grosso sospiro di sollievo. Arriva la squadra
con altri prigionieri e l'ordine del comandante di in
camminarci verso Calvari, mentre lui, Turco e Maggi daranno
fuoco alle micce.
Loro ci raggiungono nel momento stesso dello scoppio che
manda in frantumi tutta la struttura de ponte. A quel punto
sul viso del comandante ritorna il sorriso e con la sua
proverbiale calma dice: "I nazifascisti questa volta hanno
ricevuto quello che mai si sarebbero aspettati".
Le esplosioni avranno certamente messo in allarme le forze
nazi-fasciste, per cui bisogna garantirci una certa sicurezza
alle spalle, e chi, meglio di Malaga, Nipro e la vecchia volpe di
Marinaio ce la possono assicurare. Loro si portano in coda e si
parte più tranquilli.
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La strada è in salita e ad ogni passo la fatica aumenta, in
particolare per i repubblichini poco abituati a portare carichi
pesanti sulle spalle, poiché il loro sport preferito è quello di
"rastrellare" i giovani e mandarli in Germania a morire di
fame e di freddo o ancora rapinare e bruciare case e cose di
povere gente o peggio sparare su vecchi donne e bambini
innocenti e indifesi. Stanotte hanno perso la baldanza e quelle
loro cinica prepotenza che li caratterizzava nei giorni
precedenti. Ora piangono e chiedono perdono per aver
aderito alla repubblichetta di Salò: fino all'ultimo dimostrano
quanto sono vigliacchi.
Il tempo scorre veloce e la strada da percorrere è ancora molto
lunga e con questa andatura c'è il rischio di trovarci in qualche
brutta situazione, per cui occorre trovare un mezzo di
trasporto che alleggerisca il carico ai singoli, per avviarci più
speditamente verso il comando. Arrivati nei pressi di
Dercogna ci fermiamo e andiamo a bussare alla casa di
un’amico, il Ciffuti, e con lui rimediamo un carro, un cavallo
ed un mulo, sui quali sistemiamo la maggior parte del
materiale.
Nella nuova situazione le cose migliorano parecchio e la
colonna ora accelera l'andatura e già si assapora la gioia di
arrivare presto a Carrega, la nostra destinazione finale. Si
transita da Davagna e Moranego quando è ancora buio, la
strada è deserta e arriviamo alla Scoffera quando comincia a
spuntare l’alba.
La gente dei paesi e delle frazioni è ancora chiusa in casa e
molti di loro non si rendono conto di quella colonna di
militari un po’ rumorosa; siamo i Partigiani della Volante
Severino che tornano da un'esemplare azione contro i
repubblichini. Scendiamo verso Laccio dove dobbiamo
traghettare carico e uomini perché il ponte è saltato in aria da
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parecchi mesi. Questo nuovo intralcio comporta ulteriore
perdita di tempo e tanta fatica, ma se guardiamo le armi e i
prigionieri la stanchezza e la fame scompaiono. Si riparte per
Torriglia dove la notizia, che la Severino ha fatto saltare ponti
e strade e catturato decine di repubblichini ha già fatto il giro
del paese e gli amici ci sorridono e ci applaudono. Qualcun
altro allunga il passo e rientra in casa. Si capisce che il tarlo
fascista fa ancora capolino in questa bella cittadina. Noi
stanchi e con molto appetito. Riprendiamo a salire verso
Donetta e Bavastrelli e finalmente arriviamo a Propata dove
passiamo i prigionieri e parte del materiale agli altri Partigiani
e noi passiamo dalle armi alle "forchette". Quello che passa la
cucina e pochino, per i nostri stomaci vuoti da molte ore, ma
non ci lamentiamo perché pensiamo che altre volte abbiamo
digiunato per giorni interi e poi questa è la vita del Partigiano.
La fatica sta scomparendo ed è ora di partire per Carrega,
ultima tappa e dove Gino farà una relazione al comando su
tutte le fasi di questa brillante azione. Sono presenti: Miro
comandante della "VI° Zona operativa", Rolando
Commissario, un'ufficiale della "Missione Alleata Inglese",
Maggiore Davidson e altri comandanti. Miro ci dice che, per
giudizio unanime, i Partigiani della Volante Severino sono
considerati migliori Garibaldini della VI° zona e riconosce a
Gino il merito di aver forgiato una squadra che per coraggio e
disciplina sono di stimolo alle altre formazioni.
Gino è stanco ma felice e chi sa se in questo momento starà
pensando a qualche altra azione da fare.
Tegule, sottovoce, dice: " e pensare che ci chiamavano la
squadra dei silurati".
Alla battuta di Tegole seguì un "conciliante" commento:
"Finalmente quelli che dubitavano delle nostre capacità hanno
dovuto ricredersi, perciò godiamoci questa bella e importante
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giornata perché domani ritorneremo a sfidare e colpire le
forze nemiche".
Si é fatta sera e dalla vicina cucina fíltra un buon profumo di
cibo casalingo, seguito da piatti fumanti di pasta al ragù. Una
delizia per il gruppo di "Ribelli" sempre alle prese con un
formidabile appetito. Finito di cenare apprendiamo, con
piacere, che questa notte non parteciperemo ai turni di
guardia poiché saranno altri Partigiani che vigileranno sul
paese di Carrega e nelle immediate vicinanze. II sonno ha
preso il sopravvento e finalmente abbiamo una notte di tutto
riposo.
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nell'immediata periferia di Genova (Bassa Valbisagno) e cioè
nel cuore stesso dello schieramento nemico.
Verso la fine del 1944 venni convocato dai comandi superiori e
dalle Missioni Militari Alleate americana e inglese
(organizzazioni, queste, che operavano e vivevano la stessa
vita, sotto ogni aspetto, dei comandi partigiani di montagna),
dai quali ebbi l'ordine perentorio di far saltare il tratto di
strada (alcuni tornanti) che attraversa Aggio, una frazione del
Comune di Genova, a suo tempo minata dai nazisti. I miei
tentativi di dimostrare la pericolosità dell'azione, soprattutto
per la gente del posto, furono vani; le Missioni Militari Alleate
furono irremovibili!
La rotabile, che dalla città porta alle valli Scrivia e Trebbia e
quindi al Piemonte, alla Lombardia e all'Emilia Romagna,
una delle pochissime che attraversano l'Appennino, in caso
di ritirata sarebbe stata strategicamente importante sotto ogni
aspetto per i nazifascisti.
Aggio è abbarbicato ai monti di Creto, a strapiombo sul vicino
Mare Ligure, quasi come un quadretto appeso a una parete e i
tre tornanti che l'attraversano sono in accentuata salita.
Grazie a due bravissimi informatori, lì nati e residenti,
sapevamo tutto del paese e in particolare che:
• i tedeschi avevano fatto costruire dall'Organizzazione Todt,
sotto i tornanti una gallona senza uscita (1,50 m di larghezza, 2
m di altezza, circa 80 m di lunghezza) in fondo alla quale
avevano depositato una consistente quantità di tritolo
collegato a un sistema esplosivo a tempo;
• vi era un presidio composto da una quarantina di militi
della GNR (Guardia Nazionale Repubblicana) e di due
tedeschi della Wehrmarcht capeggiati da un tenente emiliano
il cui compito principale era, oltre al servizio continuativo di
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guardia all'entrata della galleria, chiusa da un cancello in ferro,
il posto di blocco permanente all'entrata sud del paese;
• i militi erano accantonati in un edificio a tre piani a una
trentina di metri dall'ingresso della galleria;
• tutto l'abitato della frazione era interamente circondato, a
non più di un tiro di fucile dalle ultime case, da consistenti
reparti nazifascisti con compiti vari (tra l'altro da numerose
postazioni di cannoni e mitragliere, contraeree);
• il parroco, don Nicola Righini, aveva avvertito tutta la gente
del posto che, in caso di pericolo di qualsiasi natura, avrebbe
dato l'allarme suonando le campane a martello.
Il presidio della GNR non ci impensierì, ma fummo
titubanti per gli incalcolabili danni a persone e cose che
l'esplosione avrebbe provocato e per i consistenti reparti
nazifascisti accantonati nelle immediate vicinanze di Aggio.
Motivo per cui l'azione doveva essere organizzata e diretta con
la massima oculatezza.
Dopo l'imbrunire, verso le 20, ci muovemmo dalla nostra
provvisoria base di partenza. San Martino di Struppa
(Comune di Genova). Eravamo una ventina. A metà circa
dell'impervio percorso Biondo scivolò, anche per il buio pesto,
in un dirupo; ci fermammo immediatamente, lo aiutammo a
risalire e lo medicammo (con noi c'era, come sempre,
l'infermiere, il buon Risso, detto “il medico”, con lo zainetto
del pronto soccorso in dotazione all'esercito USA. Malgrado
avesse riportato diverse lesioni, e non solo superficiali, volle
riprendere la marcia con noi. Giunti in un piccolo bosco in
prossimità di Aggio ci riunimmo e spiegai, com'era nella
nostra consuetudine, qual’era la nostra missione, quindi
illustrai dettagliatamente le modalità tattiche e i compiti di
ciascuno. Ricordo che, mentre stavamo togliendoci le scarpe
per evitare rumori di sorta (la sorpresa doveva essere, come
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nelle altre occasioni, totale). Malaga fece cadere il suo fucile
mitragliatore “Bren” facendo molto rumore. Lasciai trascorrere
un po' di tempo e, ormai convinto che nessuno ci avesse
sentiti, gli detti un pugno in viso (lui, poveretto, non disse una
parola; anzi, poi si scusò). Raccomandai ancora a tutti di fare
anche l'impossibile per aiutare e salvare la gente del posto.
Tutti scalzi, o con le sole calze, malgrado il rigido clima
invernale, circondammo la caserma della GNR e un pugno di
guerriglieri entrò, con me, con la massima decisione;
sorprendemmo i militi e i due tedeschi mentre cenavano.
L'assalto repentino li annichilì e, tremanti e sbigottiti, si
arresero. Non potevamo permetterci il lusso di sparare: i
nazifascisti dislocati nelle immediate vicinanze ci avrebbero
indubbiamente sentiti e sarebbero prontamente intervenuti.
Fatti rientrare i guerriglieri che circondavano
l'accantonamento, vennero raccolte tutte le armi e tutti i
materiali militari trasportabili e necessari. Sempre nel più
assoluto silenzio, facemmo togliere le scarpe a tutti i
prigionieri (principalmente per metterli in difficoltà nel caso
avessero tentato di fuggire e poi perché le scarpe servivano a
noi) e li rinchiudemmo provvisoriamente in tre camere
controllate dai "ribelli".
All'appello, però, mancavano un sergente e due militi, ma
venimmo informati che sarebbero rientrati nella tarda serata
con l'ultima corriera proveniente dal centro della città, che
infatti giunse poco dopo. Non appena i tre scesero
dall'automezzo vennero sorpresi e fatti prigionieri, malgrado
un timido tentativo di ribellione da parte del sergente.
Un piccolo, ma significativo particolare: nel momento in cui li
sorprendemmo erano intenti a consumare la cena consistente
in gnocchi col pesto (gli gnocchi col pesto erano un piatto, a
quel tempo, piuttosto raro); notai subito che, alla vista di
67
quella squisitezza, i partigiani, che non li assaggiavano da
molti mesi, perdettero, per qualche istante, la necessaria
concentrazione, tanto che dovetti intervenire piuttosto
energicamente al fine di riportarli alla "ragione".
Alla colonna dei prigionieri, scalzi e stracarichi di armi (che
erano state private dell'otturatore) e materiali militari vari, e
dei partigiani di scorta, in tutto una sessantina, detti l'ordine di
raggiungere la località Ciappa, molto fuori dal paese dove, al
sicuro, dovevano attenderci. Detti le necessario disposizioni a
Vagge e a Toa di avvertire e aiutare don Righini a dare
l'allarme; a Tegule, Volga e Rosso affidai il compito di dare una
mano alla gente del posto a lasciare immediatamente le case
nel massimo silenzio, operazione che non poteva durare più di
10 minuti.
Io, altri due partigiani artificieri e il tenente comandante della
GNR entrammo nella galleria e, circa cinque minuti dopo che
don Righini ebbe finito di suonare le campane a martello,
azionammo il congegno a tempo predisposto dai nazisti, ci
allontanammo e, 10 minuti dopo, i cosiddetti giri di Aggio
saltarono in aria. Così la missione voluta dai comandi
superiori e dalle Missioni Militari Alleate era stata portata a
totale compimento.
Dopo non poche fatiche, soprattutto da parte dei prigionieri
scalzi, carichi di materiali e non abituati a lunghe marce, di
notte e su sentieri e piste impervie, raggiungemmo la tanto
agognata zona di sicurezza. Qui mettemmo in libertà la quasi
totalità dei prigionieri, esclusi il tenente della GNR, due
sottufficiali e un milite, perché era la terza volta che venivano
catturati, i due tedeschi, utilissimi per eventuali scambi di
prigionieri (il caporale era un altoatesino che parlava molto
bene l'italiano).
È doveroso precisare che:
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• tenuto conto della struttura, del compito e della zona nella
quale operava la Brigata Volante Severino, fare dei prigionieri
era assolutamente impossibile (prima di metterli in libertà i
prigionieri venivano sempre ripetutamente ammoniti a non
ritornare nelle organizzazioni della RSI altrimenti, se catturati
per la seconda volta, sarebbero stati passati per le armi sul
posto);
• i militi della GNR godevano di scarsa reputazione da parte
dei nazisti che li consideravano come esseri umani di
second'ordine, tanto che negli scambi volevano sempre e solo
soldati tedeschi.
I sei, con una adeguata scorta di partigiani, vennero
immediatamente inviati al comando e le armi e tutti i
materiali militari catturati vennero occultati in appositi rifugi
temporanei.
La mattina del giorno dopo tramite i nostri eccellenti
informatori venimmo a conoscenza che:
• don Righini, ottima persona sotto ogni aspetto (non ebbe
mai rapporti con la Resistenza e tanto meno con i nazifascisti),
che si curava esclusivamente della sua chiesa e dei suoi
parrocchiani, dopo l’esplosione, si dedicò totalmente alla cura
dei feriti, che non erano pochi;
• vi furono due morti: due ragazzi rimasti a letto (i genitori,
nella confusione di quel momento, se ne dimenticarono);
• molte case erano state distrutte interamente, alcune erano
state scoperchiate e quasi tutte le altre erano inabitabili;
• una ventina di minuti dopo l'esplosione, udita anche nel
centro di Genova, il paese venne invaso dai nazifascisti che,
come prima cosa, presero don Righini e, pubblicamente, lo
bastonarono; tramortito lo gettarono di peso su di un camion
(proprio come un sacco!) dicendo alla gente: «...è in
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collegamento con i ribelli ...ha suonato le campane a martello
per avvertire i banditi di fuggire ...ecc.»
Il povero don Righini, trattato peggio di un criminale, venne
rinchiuso nel carcere di Marassi dove venne più volte torturato
dalle SS (Schutz Staffein). Pochi giorni dopo, unitamente ad
altri prigionieri politici e uomini della Resistenza, venne
caricato su di un treno merci, come un animale, e di lì a pochi
giorni raggiunse il famigerato campo di sterminio di
Mauthausen dove, purtroppo, subì ogni maltrattamento.
Un mese dopo la deportazione, il cardinale di Genova, Boetto,
inviò ad Aggio un sacerdote col compito di dire a quei
parrocchiani, e soprattutto ai genitori di don Righini, molto
anziani, che lui era lì per sostituirlo temporaneamente, fino al
suo ritorno (la solita bugia pietosa!).
Poco prima dell'arrivo degli Alleati al campo, don Righini,
ormai moribondo, venne gettato in una fossa comune.
Subito dopo la liberazione del campo, due sacerdoti genovesi,
pure loro deportati e amici di don Righini, dopo le cure del
caso, vennero messi in libertà e raggiunsero Genova.
Nel frattempo, gli Alleati, nel trasferire i cadaveri dei deportati
dalla fossa comune alle fosse singole per una sepoltura
decorosa, si accorsero che il povero don Righini respirava
ancora (effettivamente quei criminali degli SS lo avevano
gettato nella fossa comune ancora vivo, anche se in condizioni
disperate!).
Dopo alcuni mesi di cure molto intense il buon parroco di
Aggio si riprese, grazie anche alla sua non comune forza di
volontà, e chiese di trascorrere la convalescenza a Genova.
Intanto, i due sacerdoti rientrati a Genova da Mauthausen si
erano subito recati dal cardinale Boetto per informarlo che don
Righini era deceduto. Erano presenti quando le SS lo gettarono
in una fossa comune ormai senza vita. Pochi giorni dopo la
70
curia comunicò al sacerdote che lo sostituiva che don Righini
era deceduto nel campo di sterminio e che, ormai, come
titolare della parrocchia, avrebbe dovuto allestire una funzione
funebre degna della figura, del coraggio e del martirio del suo
predecessore.
Al rito furono presenti tutti indistintamente gli abitanti di
Aggio e dintorni. Fu un giorno di dolore e di indimenticabile
tristezza perché il buon parroco era veramente amato da tutti.
Don Righmi, invece, raggiunta Genova, si recò subito (manco a
dirlo) alla curia il Cardinale Boetto, esterrefatto, lo accolse
come un figlio e lo abbraccia lungamente : Dopo ciò che gli
avevano detto i due sacerdoti ritornati da Mauthausen non
riusciva a credere ai propri occhi.
II prete venne fatto alloggiare presso la Curia il tempo
necessario perché si riprendesse totalmente e anche per
poter preparare convenientemente gli abitanti di Aggio e i
vecchi genitori che lo sapevano ormai deceduto nel campo di
sterminio (non dimentichiamoci che in quella chiesa
parrocchiale era stata officiata una messa solenne per la sua
dipartita).
Compiuti tutti gli atti necessari, il Cardinale Botto riportò il
redivivo, ormai guarito, a casa, riconfermandolo parroco di
Aggio.
Vi furono tre indimenticabili giorni di feste e cerimonie in
onore del buon parroco il quale riprese subito la sua attività
sacerdotale con riservato silenzio e umiltà. Però, bisogna
sottolinearlo, sono pochi quelli che si ricordano ancora di lui.
Lo Stato infatti lo dimenticò totalmente, tanto da non
concedergli il più modesto dei riconoscimenti. (Campanella
Michele "Gino")
71
I Rastrellamenti, le Spie e gli Infiltrati
73
centinaia di scalini inseriti fra le "fasce", terrazzamenti
coltivati.
Il giorno del rastrellamento erano presenti nel paese: Ce,
Vagge, Vespa, Bane e Gimmy, più Detto che essendosi
attardato: la sera prima preferì dormire in paese.
La mattina del 19 Marzo prima dell'alba Vespa sali lungo il
pendio del monte per un normale giro di perlustrazione e si
trovò davanti tanti repubblichini pronti per sferrare l'attacco
al paese. Vespa ritorna indietro e scende a rotta di collo per
dare l'allarme, anche se in quel caso non era proprio
necessario in quanto le fucilate che gli spararono contro
avevano svegliato tutto il paese. I Partigiani resisi conto della
superiorità numerica degli assalitori tentarono di mettersi in
salvo raggiungendo il bosco sottostante.
Quella mattina noi eravamo nel paese di Noci e Tevere, che si
trovava di guardia nella parte superiore del paese, rientra di
corsa dicendo che si sentivano degli spari dalle parti di Canate
e che due uomini si stavano avvicinando a grandi passi al
paese. Sono Renato e Raffica, due bravi Partigiani che spesso
salgono a Noci e a Campoveneroso per portare le notizie che
riguardano il fondo Valle. Dicono che i nazi-fascisti sono
arrivati a Canate e che non hanno notizie dei nostri compagni
perché loro si sono tenuti lontano dal paese. Loro proseguono
per Campoveneroso per informare Gino e, arrivati,
prenderanno le armi e ritorneranno con noi a Canate.
Gino manda un partigiano al "Teitin" per dire a Tegole di
portarsi immediatamente in un punto avanzato dell'altra valle
con il suo mitragliatore Bar, per bloccare la ritirata degli
assalitori. Ma la distanza e il tempo limitato non
consentiranno a Tegole di arrivare in tempo.
Noi partiamo e ci avviamo lungo il sentiero che porta sulla
cresta del monte sopra Canate, ma prima di arrivarci ci
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raggiunge Gino che con voce ferma si rivolge a Sestri,
dicendogli: "Sestri comandante dei...., allungate il passo
perché i nostri compagni e la gente del paese sono in balia dei
nazisti, per cui ogni minuto è prezioso per liberare gli uni e gli
altri”.
Arrivati sulla cresta del monte, vediamo al centro del paese
due cascine in fiamme e ci rendiamo conto che un nostro
piccolo ritardo ci avrebbe fatto trovare un paese in fiamme o
ridotto a un cumulo di macerie fumanti, come successe al
paese di Cichero e a quello di Barbagelata.
Non c’era un minuto da perdere e Gino disse a Ditta di dar
voce al suo bazooka: detto fatto. Ditta indirizza il primo
proiettile fuori dal paese per non provocare danni a case e a
persone, il forte fragore, provocato da quel micidiale proiettile
creò uno scompiglio tra gli assalitori e il mortaio di Toua e il
Bren di Gabir fecero il resto. Noi con le armi leggere
scendemmo velocemente nel paese per "rastrellare" i fascisti,
molto lesti nel maneggiare i fiammiferi e altrettanto veloci nel
fuggire a gambe levate fino a saltare giù dallo sperone di
roccia "il poggio" lasciando liberi un gran numero di giovani
che i fascisti avevano catturato e radunato in un cascinale
all'inizio del paese.
Spesso nelle difficoltà maggiori si inseriscono note di colore
come quella che vide protagonista involontario Vagge che
uscendo dal paese, per portarsi in un posto assai sicuro che lui
conosceva molto bene, venne inseguito da un indiavolato
repubblichino che sparando e urlando “arrenditi, arrenditi”
senza nessun risultato. Vagge continuando a scendere fece
perdere le sue tracce. L’indemoniato trovandosi in mezzo al
bosco e, forse non sapendo cosa fare, si rivolge al suo
superiore urlando “Sergente Mele l’ho inseguito fino a quei
cespugli ma poi è sparito, però era un borghese”. Il Sergente
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Mele di rimando "fesso ecco la sua bustina"; Vagge perse sì la
sua bustina ma salvò la pelle. I nazi-fascisti per stanare i
“ribelli”, diedero fuoco al bosco e Vagge anziché lottare con
l’indemoniato dovette lottare con le fiamme che lambivano
l’anfratto dove si era ricoverato. Rientrò in paese con le mani
bruciacchiate e il viso affumicato ma salvo. Chi non rientrò in
paese fu Gimmy che fu fatto prigioniero. Gimmy poi fuggì
durante un trasferimento.
Ritornata la calma si guardavano i boschi circostanti e ci
chiedevamo come avevano fatto i nazi-fascisti ad arrivare in
quella parte del monte, camminando al buio, attraverso la
boscaglia e superare i dirupi dove sarebbe impossibile
transitare anche di giorno a persone non pratiche del posto. Ci
convincemmo che soltanto una terza persona li avesse guidati
di notte verso di noi, forse una persona da noi più volte
incontrata e salutata come si fa con le persone amiche e invece
era un individuo capace di una vigliaccheria del genere. Forse
sarà stato ripagato con una manciata di banconote come
usavano fare i nazisti.
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Dalla VAL NOCI alla VAL BREVENNA
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Anche dal lato della sicurezza si dovrà prestare la massima
attenzione ai servizi di guardia e di pattuglia, sperando che col
tempo tutto migliori.
Inizia subito la spola tra Frassineto e le zone dove sono
avvenuti gli “aviolanci”, per ritirare armi, munizioni e divise
che serviranno anche per le squadre del fondovalle. A questo
ci penseranno poi i responsabili: Marinaio, Zena, Renato e
Dettu. Il carico migliore è quello prelevato in Val Borbera
presso la Divisione “Pinan Cichero” e che trasportiamo a
dorso di quattro muli, da Vicoponzo a Frassineto, con un
cambio degli animali nel paese di Mongiardino. Le armi sono
le migliori fra quelle ricevute fino a quel momento. La novità
assoluta è quella del Mortaio da “60”, molto leggero e
maneggevole.
Come arma leggera c’è il bellissimo MARLIN che tutti noi
vorremmo possedere ma questo non è possibile, anche perché
il Comandante ha stabilito un organigramma
arma/partigiano, per avere un’organizzazione di tipo militare,
funzionale ad ogni tipo di azione. Si lavora moltissimo sulle
armi; si preparano quelle da trasferire in Val Bisagno per
armare i due nuovi distaccamenti e le squadre S.A.P.; si
sistemano le altre nei rifugi.
Le giornate passano velocemente e il morale è alle stelle. Una
mattina che mi trovo di pattuglia con Tevere, vediamo due
giovani che salgono lungo la mulattiera con passo pesante e ci
viene spontaneo dire: “Quei due non sono certo dei partigiani,
lo si capisce dalla loro andatura”. Ma la sorpresa è grande nel
vedere che si tratta di Campione, accompagnato da suo cugino
Alceste, uno di quella trentina di giovani che i nazi-fascisti
avevano rastrellato nel paese di Canate e che grazie al nostro
tempestivo attacco si salvarono dalla sicura deportazione in
Germania. Campione di ferma nella Severino e Alceste ritorna
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a Canate. L’arrivo di Campione completa il gruppo di coetanei
che si conoscono da tanti anni.
Passano i giorni e fra i Garibaldini della Severino cresce la
voglia di menar le mani (armi) contro i fascisti e i loro padroni
nazisti. Quel desiderio viene soddisfatto il 23 Aprile quando
Gino parte con una quindicina di Partigiani con destinazione
Genova/Città. Tra i partenti c’è un Partigiano con due armi: il
suo fucile “Rifle” e la penna per scrivere, è il Biondo.
Arrivati a Molassana la mattina del 24, ingaggiano subito una
dura battaglia con il presidio tedesco. Si spara da ambedue le
parti ma quando entra in azione il “Bazooka” per i tedeschi le
cose si mettono male e la iniziale resistenza si esaurisce in un
paio d’ore; alzano bandiera bianca e si consegnano prigionieri
alla Brigata Severino.
Ma il fatto più bello ed unico della Liberazione di Genova è
quello che la mattina del 25 Aprile. Prima che le Formazioni
Partigiane entrino in città, il Secolo Liberale esce con un
servizio in prima pagina sulla battaglia di Molassana, fatto non
da un inviato del giornale ma dal Partigiano Biondo, che ha
partecipato alla battaglia.
Noi partiamo la mattina del 24 aprile e raggiungiamo la
Brigata quando la battaglia è già conclusa.
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Articolo di BIONDO apparso su: “Il Secolo Liberale” di Genova il 25 Aprile 1945.
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La morte di Rœa (Ruota)
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La Bandiera della Brigata
ERMES
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