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marina monego Amado mio 4 novembre 2006

LA LUCE DELLO SCANDALO È SEMPRE TROPPO FORTE

“Amado Mio” contiene due romanzi brevi con un unico filo conduttore: l’eros omosessuale. Si tratta
di due testi incompiuti, da sempre conservati dal loro autore, pubblicati postumi.

Impensabile pensare di renderli pubblici negli anni in cui furono scritti – tra il ’46 e il ’48,
probabilmente – visto il loro scottante argomento.

Successivamente Pasolini non volle ugualmente renderli noti, anche se un progetto di stampa ci fu,
pur non nascondendone l’esistenza. Le vere e profonde ragioni di questa scelta rimangono ormai
sepolte col loro autore.

Nel 1982, col consenso degli eredi, Concetta D’Angelo compie un lavoro filologico sui manoscritti e i
due romanzi vedono finalmente la luce. Il suo procedere e le motivazioni che l’hanno spinta ad
operare certe scelte sono spiegati nella nota finale del libro, nella quale viene riportata anche la
prefazione che Pasolini aveva preparato per i due testi in vista di un’eventuale pubblicazione. La
curatrice ha dovuto occuparsi, per “Atti Impuri”, di una discontinuità nell’uso della prima o della terza
persona (optando per la prima persona, prevalente nel testo), di nomi diversi per designare singoli
personaggi o luoghi, di possibili varianti tra le quali l’Autore non aveva ancora scelto.

“Amado Mio”, invece, è presente in tre cartelle, probabilmente avrebbe dovuto articolarsi in
un’introduzione, in una prima parte e una seconda parte, ma Pasolini rielaborò solo la prima, della
seconda esiste una sola redazione molto incompleta e scritta dopo il trasferimento a Roma da
Casarsa.

Nella sua edizione la D’Angelo riporta solo la prima parte, che è già un romanzo di per sé.

“Amado Mio” è un romanzo di sapore ampiamente autobiografico, narrato appunto in prima persona
e in forma diaristica. Paolo, il narratore-protagonista, è un insegnante, renitente alla leva negli anni
della guerra, che si è rifugiato con la madre, maestra, in un piccolo paese del Friuli, identificabile con
Casarsa, anche se Pasolini ne cambia il nome.

Paolo racconta la scoperta della sua omosessualità e soprattutto il suo amore per il quindicenne
Nisiuti, visto come l’innocenza pura, incontaminato quanto i paesaggi del Friuli, bello, delineato con
grazia e delicatezza.

Paolo è un insegnante appassionato e fantasioso (s’inventa una rappresentazione teatrale per gli
allievi), colto, parla ai ragazzi di poesia, li frequenta e talvolta li corteggia, tanto che il suo
comportamento suscita qualche mormorazione nel piccolo borgo, ma non è di questo che Pasolini
vuol parlare. Centro della narrazione è la passione, l’amore, un amore diverso che provoca nell’io
narrante da un lato esaltazione e dall’altro paura.

Il testo è fitto di passione e di tormento, di sensi di colpa, di timore di rivelarsi troppo o troppo presto
di fronte ai ragazzi che ama.

“Mentre egli è chino sopra il quaderno, io mi trovo di fronte al nostro amore come a un
mostro invisibile” (p. 15).

Soprattutto all’inizio serpeggia il motivo della colpa e del castigo, supportati dalle ultime vestigia di
una religiosità che teme le punizioni divine e vede in una malattia di Nisiuti una conseguenza della
loro relazione. Vi è una continua tensione tra la paura di venire scoperti – in un paese così piccolo e
tradizionale lo scandalo sarebbe stato spaventoso (come di fatto accadde realmente e Pasolini da
Casarsa fuggì a Roma) – e il desiderio di rivelarsi, perché la passione è troppo forte, è inarrestabile ed

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ha come fine ultimo il possesso, il rapporto erotico con i ragazzi, attraenti proprio per la loro
freschezza e giovinezza.

Prima di Nisiuti, il protagonista conosce altri giovincelli, alcuni assai smaliziati come Bruno, ironici, dai
modi popolari, ragazzi che poi s’allontanano senza nemmeno salutarlo oppure semplicemente
crescono e l’Autore li tralascia attratto da altri.

Emerge prepotentemente un senso di vitalità, un disperato e sensuale amore per la vita, le emozioni
forti che il narratore prova alla sola vista o al tocco di un ragazzo spesso devono venir celate,
trattenute, in un’altalena emotiva continua, che oscilla tra rivelazione esplicita, possibile nei momenti
di solitudine e isolamento tra le campagne con l’oggetto del suo amore, e nascondimento agli occhi
del mondo.

Le relazioni che si creano vengono evocate dal narratore con grande delicatezza ed incanto: “le
nostre reciproche timidezze creavano così fra di noi un rapporto emozionante, poetico” (p.
60).

I loro corpi sono di una bellezza che lo lascia quasi tramortito, così descrive Gianni: “Egli, quella
sera, era di una bellezza da potersi toccare come un oggetto: una luce dorata e minerale
che splendeva nell’interno del suo corpo, accendendo più la sua carne molle e tiepida che i
suoi occhi” (p. 65). I problemi si creano quando i giovinetti gli si negano e, come in qualsiasi
passione amorosa, sorgono dolore, sofferenza, solitudine, abbandono e rabbia, senso d’impotenza,
gelosia.

Tra tutti, Nisiuti diviene il prediletto di Paolo, che lo descrive con toni trasognati, idealizzandolo
attratto dal suo candore, dalla sua innocenza e, inizialmente, anche dalla sensazione di
irraggiungibilità del ragazzo.

“Non c’era stato in me un accenno che facesse capire a Nisiuti il nascere del mio amore,
contro il quale io stesso, d’altra parte, per pigrizia mi schermivo. Ma com’era più espresso
Nisiuti, ora, dentro quello sguardo.

Pareva che, molto più di me, prevedesse il nostro futuro, quello che doveva accadere fra
di noi, due interi anni di amicizia, in cui non ci sarebbe stato un giorno in cui non ci
fossimo visti e baciati. Perché, forse più ancora che amore, fu amicizia, e, più che amicizia,
passione. […] Tutto era contenuto in lui, tutto quello che è necessario all’amore. E niente
di chiuso, di inespresso, di adombrato: il suo mistero splendeva chiaro come il suo
sguardo” (p. 78).

Col tempo la confidenza cresce e la relazione prosegue anche se Nisiuti, di famiglia contadina,
continua a dare del lei a Paolo, che in quel borgo, insieme alla madre, è un borghese acculturato e
perciò rispettato.

L’io narrante talvolta, non senza qualche punta di enfasi, sembra lottare con sé stesso, parla del suo
amore come di un male.

“…non c’erano proporzioni tra la purezza e l’onestà a cui ero stato educato e l’obbrobrio
delle azioni che stavo compiendo…” (p. 93).

Vi è una sorta di contraddizione tra l’immagine pubblica, di persona di buona reputazione di cui ormai
gode in paese e la presenza di quest’eros diverso che, alla fine però, prorompe e predomina,
suscitando, quando corrisposto,”gioia, un ‘accorante gratitudine verso la vita” (p. 93).

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“la mattina è stupenda, vivere è stupendo” (p. 111).

L’io di Paolo è un io che lotta, ma non per redimersi:

“Non ho il senso del rimorso, della colpa, della redenzione: ho solo un unico senso del
destino, ma nel suo farsi precario e confuso” (p. 115),

È un io che ha lo straordinario coraggio di vedersi e di ammettersi infine, per quello che è.

“Io ero vinto da una fatalità derivante da tutta la mia vita precedente” (p. 124).

Accanto all’esuberante e stupenda schiera di giovinetti compaiono due sole figure femminili: la madre
di Paolo, appena delineata, donna colta, discreta, forte, comprensiva, ferita a morte dalla scomparsa
dell’altro suo figlio, Guido (e l’episodio del giovane partigiano ferito inseguito dai tedeschi forse lo
ricorda), ucciso a Porzus, in uno dei più terribili e feroci episodi della Resistenza; e Dina, una giovane
musicista che s’innamora invano di Paolo e ne scopre la diversità. Ella cerca di proteggerlo dalle
dicerie del paese, lo corteggia, insieme colloquiano e si confrontano, ma Paolo riesce solo ad
“affezionarsi” a lei, non l’ama, e lei finirà per allontanarsi.

Scenario incantevole – anche se non mancano i bombardamenti, la paura, gli echi della guerra – è il
paesaggio friulano.

Il Friuli descritto da Pasolini è ancora puro, incontaminato, selvaggio, fatto di cieli “stupendamente
azzurri”, di boschetti, di ampie campagne e abitato da quei contadini emblema del popolo più vero e
sincero (quello che Pasolini cercherà nei proletari e sottoproletari di Roma). Antiche usanze, come il
filò serale permangono nei paesi, che al borghese Paolo talvolta paiono sommersi da una “noia
assoluta”, “impenetrabile”, le sagre paesane e le funzioni religiose costituiscono gli unici luoghi di
ritrovo e le occasioni di distrazione.

Il Friuli è il luogo d’origine materno, è il ricordo dell’infanzia e delle prime esperienze, è paesaggio e
scenario per gli amori proibiti.

Pasolini lo descrive con sensibilità pittorica.

“L’Estate compiva lì i suoi silenziosi miracoli: compilava luci lampanti sulla superficie delle
vette degli alberi, luci morbide, intense e preziose, mentre sotto, contro i vuoti e gli
intrichi della roggia, faceva scorrere nitide muraglie d’ombra, inanellate d’oro” (pp. 54-55).

Il Friuli sa essere scintillante.

“In fondo alla curva della Villa, il boschetto di pioppi, coi suoi rami ingemmati arabescava
il cielo e i campi tremavano di verde. Era la primavera. Si sentivano qua e là cantare nel
tepore i primi cuculi…” (p. 91).

“Amado Mio”, il secondo romanzo breve, è decisamente meno autobiografico del primo, è scritto in
terza persona ed appare soprattutto come un’opera corale, pur avendo un protagonista, Desiderio,
giovane elegante, raffinato, colto che, insieme all’amico Gilberto, frequenta un gruppo di ragazzini di
paese, innamorandosi in particolare di Benito, che lui preferirà chiamare Iasìs.

Nel consueto scenario friulano brilla soprattutto un senso di vitalità, d’animazione: i ragazzi si
ritrovano alla balera, alle feste paesane oppure sulle rive del Tagliamento per fare il bagno e prendere
il sole tutti insieme.

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Desi e Gil, brillanti e vivaci, organizzano giochi per loro, li contemplano e talvolta li amano. Ci sono
animazione ed estasi, incanto e passione misti a sofferenza, ansia, rabbia quando Desi si vede prima
accettato e poi respinto da Iasìs.

Vi sono le sregolatezze e le avventure della giovinezza che culminano con una gita al mare, a Caorle,
dove “anche le cucine più povere erano piene di questa grazia rustica e squisita” (p. 181) e
dove lo scenario è ancora selvaggio, non devastato dal turismo di massa.

E proprio qui, in uno scorcio degradato, una sorta di discarica a cielo aperto di rifiuti e carcasse
portate dal mare, vi sarà una discussione tra Iasìs e Desi, laddove il paesaggio sembra riflettere il
cupo stato d’animo di quest’ultimo.

Come in “Atti Impuri” lo stile è elevato, letterario, con arcaismi e diffuso lirismo. Rimane da chiedersi,
pur contenendo questa prima parte già una sua storia, come Pasolini avrebbe inteso continuarlo.

Recensione apparsa su lankelot.eu nel novembre 2006

4/4

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