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SCIENZE DELL’ENOGASTRONOMIA MEDITERRANEA E SALUTE

Relazione
di
Chimica Analitica
Gas cromatografia strumentale
A cura di Ivan Vinci
26/02/2010
Gas cromatografia

La gas cromatografia è una delle tecniche analitiche più comunemente usata


per le analisi quantitative e qualitative e si avvale di appositi dispositivi
strumentali. È suddivisa in due metodi: gas cromatografia gas-liquido e gas
cromatografia gas-solido. Il metodo gas-solido, a causa di interferenze o
scodamenti sui picchi del cromatogramma, dovuti alla ritenzione
semipermanente delle molecole attive o polari dell’analita nella fase
stazionaria rappresentata da un solido, non trova grandi applicazioni ad
esclusione di alcune specie gassose a basso peso molecolare. La gas
cromatografia gas-liquido (GLC) è dunque la più efficiente in merito ad
accuratezza, precisione, campi applicativi, velocità e, di conseguenza, ad
economicità.

Struttura del dispositivo per gas cromatografia.

La denominazione gas-liquido è riferita al sistema del metodo analitico in


questione. La cromatografia, in generale, si basa su metodi chimico-fisici di
separazione che sfrutta la differente disposizione dei costituenti dell’analita
in oggetto in due fasi distinte e separate: una fase mobile e una fase
stazionaria.

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La fase mobile è un gas, detto anche gas di trasporto, gas vettore o gas
carrier. Generalmente, vengono scelti gas chimicamente inerti, a bassa
viscosità ed ottenibili ad elevata purezza (99,9%) quali l'azoto, l'elio o l'argon;
per alcune applicazioni vengono anche utilizzati l'idrogeno o l'anidride
carbonica.

La derivatizzazione1 permette di aumentare la volatilità di certi analiti in


modo da poterli sottoporre ad analisi gas-cromatografica in modo opportuno.
La presenza dell'acqua va limitata in quanto può contribuire al
deterioramento della fase stazionaria o potrebbe danneggiare il rivelatore,
naturalmente tutto dipende dal tipo di analisi, dalla colonna e dal solvente
usato.

La fase stazionaria è generalmente costituita da un liquido non volatile


supportato su una polvere che riempie uniformemente una colonna ("colonna
impaccata") oppure distribuito come film sottile spesso qualche micrometro
sulla parete interna di una colonna di lunghezza che varia dai 2 m fino a più di
50 metri2 e di diametro inferiore al millimetro ("colonna capillare"). Tale
liquido può variare a seconda dell'applicazione, ossia del tipo di composti che
si intendono analizzare.

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La derivatizzazione è un processo mediante il quale diverse reazioni come la metilazione, la silanizzazione,
l'acetilazione e la trifluoroacetil-n-butilazione vengono sfruttate in modo da aumentare la volatilità dei composti che si
vogliono analizzare mediante gascromatografia e che non possono essere altrimenti cromatografati in quanto tali a
causa del fatto che subirebbero denaturazione o verrebbero adsorbiti dalla fase stazionaria (es. acidi grassi, alcoli,
steroli, glucidi, aminoacidi).
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Nel 1987 è stato raggiunto un record mondiale per la lunghezza di una colonna tubolare aperta. La colonna era di
silice fusa in un solo pezzo con un diametro di 0,32 mm e una lunghezza di 2100 m. Una sezione di 1300 m di questa
colonna conteneva più di 2 milioni di piatti teorici.
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Colonne impaccate

Colonna capillare impaccata e colonna impaccata

Le colonne impaccate sono prodotte con tubi di vetro o di metallo; hanno una
lunghezza che varia dai 2 ai 3 metri e il diametro interno da 2 a 4 millimetri. Le
colonne sono riempite con un materiale solido, o materiale di impaccamento,
che dovrebbe, in teoria, possedere caratteristiche ben definite e utili al fine di
una corretta fase:

 Particelle sferiche di piccola dimensione.


 Uniformi.
 Meccanicamente resistenti.
 Con un’area superficiale specifica di almeno 1 m²/g.
 Inerte a temperature elevate.
 Essere uniformemente imbibito dalla fase liquida.

Non è attualmente conosciuta alcuna sostanza che possegga tutti questi


requisiti. I primi e attualmente più utilizzati materiali di impaccamento sono
preparati con terra di diatomee composta da scheletri di migliaia di specie di
piante unicellulari che abitarono anticamente i laghi e mari.

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Diatomee viste al microscopio. Ingrandimento 5000x.

Il materiale di impaccamento è trattato chimicamente al fine di creare uno


strato superficiale contenente gruppi metilici e ridurne la tendenza ad
adsorbire le molecole polari.

Le colonne impaccate sono state quasi del tutto sostituite dalle colonne
tubolari aperte molto più performanti.

Colonne tubolari aperte o capillari

Colonna capillare del tipo WCOT - wide bore - Colonna capillare del tipo WCOT – narrow bore -

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Colonna capillare del tipo SCOT

Come già accennato, quelle utilizzate comunemente in gascromatografia


sono le colonne tubolari aperte o capillari. Per consentire l’introduzione
nell’apparecchiatura, in modo più specifico nel forno, viste le dimensioni in
lunghezza, anche questo tipo di colonna è avvolta a spirale su un apposito
supporto.

Colonna capillare avvolta sull'apposito supporto e alloggiata nel forno termostato.

Per un lavoro preciso, la temperatura della colonna rappresenta una variabile


importante, che deve essere controllata a pochi decimi di grado. La
temperatura ottimale dipende dal punto di ebollizione del campione e dal
grado di separazione richiesto. Approssimativamente, l’uso di una
temperatura circa, uguale o leggermente superiore al punto medio di
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ebollizione del campione dà luogo a tempi di eluizione ragionevoli (compresi
tra 2 e 30 minuti). Per i campioni i cui componenti hanno un ampio intervallo
di ebollizione è spesso usato un “programma di temperatura” , in cui la
temperatura viene aumentata con la progressione della separazione, in modo
continuo o a stadi. In generale, la risoluzione ottimale è associata a una
temperatura minima; il problema associato all’abbassamento di temperatura
è rappresentato dall’aumento del tempo di eluizione e pertanto al tempo
totale di analisi

Alcuni tipi di microsiringhe utilizzate per la gas cromatografia.

Le differenze sostanziali delle varie colonne usate per la fase stazionaria nella
gas cromatografia si possono osservare dalla seguente tabella:

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Tipo di colonna

FSOT3 WCOT4 SCOT5 Impaccata

Lunghezza, m 10-100 10-100 10-100 1-6


Diametro interno, mm 0,1-0,3 0,25-0,75 0,5 2-4
Efficienza, piatti/m 2000-3000 1000-4000 600-1200 500-1000
Dimensione
del campione, ng 10-75 10-1000 10-1000 10-10⁶
Pressione relativa bassa bassa bassa alta
Velocità relativa veloce veloce veloce lenta
Flessibilità si no no no
Inerzia chimica la migliore la peggiore

Le colonne capillari più usate sono le colonne aperte a silice fusa, o FSOT. I
capillari di silice fusa sono costruiti con silice purificata in modo speciale per
contenere quantità minime di ossidi metallici. Queste colonne hanno pareti
molto più sottili rispetto alle analoghe in vetro, e i tubi vengono rinforzati da
un rivestimento esterno. Le colonne che ne risultano sono molto più flessibili
e possono essere foggiate in spirali dal diametro di qualche pollice. Quelle più
largamente usate hanno diametri interni che vanno da 0,32 a 0,25 mm inoltre
offrono vantaggi sostanziali come resistenza meccanica, scarsa reattività nei
confronti dei componenti del campione e flessibilità. Esistono colonne a più
alta risoluzione con diametri da 0,20 a 0,15 mm, ma essendo molto più
esigenti per quanto riguarda l’iniezione e la rivelazione sono utilizzate in casi
particolari.

Iniettori
L’iniettore è un dispositivo posto immediatamente prima della colonna che ha
la funzione di consentire l’introduzione del campione. La sua configurazione è
tale che la sostanza iniettata viene, direttamente o indirettamente, immessa
nel flusso del gas carrier, che la spinge verso l’uscita.

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Colonna tubolare aperta in silice fusa.
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Colonna tubolare aperta a parete ricoperta.
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Colonna tubolare aperta a supporto ricoperto (anche chiamata tubolare aperta a strato poroso o PLOT).
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Gli iniettori si possono raggruppare sostanzialmente in due categorie a
seconda che siano destinati all’impiego con colonne impaccate o con colonne
capillari.

Iniettori per colonne impaccate


Sono costituiti da un corpo cilindrico, di cui un’estremità è posta all’esterno
dello strumento, mentre l’altra è posta all’interno e si collega direttamente
alla colonna. All’esterno vi è una chiusura metallica munita di alette di
raffreddamento nella quale è praticato un foro destinato al passaggio dell’ago
della siringa. Per raggiungere l’interno della colonna l’ago deve perforare una
speciale guarnizione di materiale polimerico che assicura una perfetta tenuta,
sia durante l’iniezione, sia dopo l’estrazione dell’ago.

Nella parte interna dell’iniettore si inserisce la colonna, la cui tenuta è fissata


da apposite guarnizioni. La colonna è separata dall’altro estremo dell’iniettore
da un tubicino di raccordo. Qui arriva il gas di trasporto e arriva anche l’ago
della siringa che vi deposita il campione.

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Iniettori per colonne capillari
Il principale problema delle iniezioni in capillare, è relativo alla piccola
quantità di sostanza accettata da queste colonne ed alla conseguente
difficoltà di selezionarle con una micro siringa. Il problema è stato risolto in
diversi modi a ciascuno dei quali corrisponde un tipo di iniettore. Tra questi i
più comuni sono:

 Iniettore a tecnica split. In questo tipo di iniettore il campione viene


premiscelato con il carrier e la miscela gassosa viene ripartita, in
rapporto prefissato, tra la colonna e una valvola di spurgo. Questo
rapporto può essere scelto di volta in volta dall’operatore agendo su
una valvola a spillo che regola il flusso dello spurgo. Così, selezionando
un rapporto di split uguale a 100 e iniettando 1µl, in colonna si saranno
introdotti 10 nl di campione. La tecnica di split è adatta alle colonne di
tipo WCOT e SCOT specie se di piccolo diametro.
 Iniettori a tecnica splitless. Questa tecnica di iniezione risolve il
problema di base, iniettando le solite quantità di sostanza, ma a grande
diluizione. Per evitare la comparsa del picco del solvente, che sarebbe
di dimensioni inaccettabili, il solvente, una volta iniettato, viene fatto
condensare mantenendolo al di sotto del suo punto di ebollizione.
 Iniettori split-splitless. Un tipo di iniettori tra i più diffusi, consente di
effettuare l’iniezione sia con la tecnica split sia con quella splitless, con
una semplice modifica di montaggio.

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Rivelatori

Il rivelatore (detector) è un dispositivo posto subito al termine della colonna


cui è demandato il compito di trasformare il segnale chimico di
concentrazione del componente eluito in un segnale elettrico di tensione.
Esso effettua pertanto un’analisi continua del gas in uscita, emettendo un
segnale specifico per ogni componente che viene di volta in volta eluito. In
occasione dell’uscita del solo gas di trasporto il segnale dovrà risultare nullo. I
requisiti specifici di un buon rivelatore sono:

 Sensibilità. La sensibilità è un importante requisito per qualsiasi


metodica d’analisi e per qualsiasi strumento. I rivelatori per
cromatografia non fanno certo eccezione a questa regola, specie in
relazione alle moderne esigenze di analizzare sostanze in quantità
sempre più piccola. Nel caso specifico esiste un motivo in più, di natura
cromatografica per la richiesta di elevata sensibilità. La separazione
cromatografica, infatti, risulta tanto migliore, quanto minore è la
sostanza iniettata (si arriva a mandare in colonna un solo nanolitro con
possibilità di rivelazione inferiore al nanogrammo). Per questo occorre
un rivelatore ultrasensibile.

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 Linearità. Anche la linearità della risposta è un importante requisito in
quanto l’analisi quantitativa si basa sul calcolo dell’area dei picchi, che
deve essere proporzionale alla quantità di sostanza eluita.
 Aspecificità. A un rivelatore si richiede di essere aspecifico, cioè di dare
una risposta che è solo funzione della concentrazione e non della
natura chimica della specie eluita. Deve essere ugualmente sensibile a
tutte le sostanze. In certi casi, tuttavia, si richiede l’esatto contrario. In
un prodotto complesso contenente diversi composti di cui solo uno, o
un gruppo di sostanze affini, sia di quello di interesse, è indispensabile
disporre di un rivelatore selettivo evitando così fastidiose interferenze.
 Volume minimo. Questo importante requisito sta a significare che il
rivelatore deve esplicare la sua azione in un minimo volume, evitando
l’accumulo intorno ad esso di grandi volumi di gas, nonché il
conseguente rimescolamento, la qual cosa vanificherebbe la
separazione avvenuta in colonna.

Rivelatore Sensibilità Linearità Selettività


HWD 10⁻¶ 10´
FID 10⁻⁹ 10·
ECD 10⁻¹² 10³ 10µ
SPSD S 10⁻¹⁰ ≈0 10´
P 10⁻¹² 10³
NPSD N 10⁻¹³ 10µ 5∙10³
P 10⁻¹´ 10µ

Nella tabella sopradescritta sono confrontate le principali caratteristiche dei


rivelatori più comuni. La sensibilità è espressa come minimo flusso di analita
rivelabile (g/s); la linearità come ampiezza dell’intervallo lineare; la selettività
come rapporto tra le sensibilità specifiche del rivelatore e le sensibilità verso
gli idrocarburi.

I rivelatori si dividono in due categorie rivelatori differenziali (i più usati) e


rivelatori integrali.

Il rivelatore differenziale mette a confronto la composizione del gas in


entrata nella colonna con la composizione del gas in uscita. Poiché il gas di
entrata è soltanto gas di trasporto il rivelatore non emetterà alcun segnale
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qualora il gas in uscita fosse solo gas di trasporto. Se in uscita il gas dovesse
trasportare anche un componente della miscela, il rivelatore emetterebbe un
segnale in proporzione alla concentrazione del componente stesso. Il
diagramma che ne risulta sarà una successione di picchi, ognuno dei quali
corrisponde all’uscita dalla colonna di un componente.

Il rivelatore integrale non fa altro che sommare i singoli segnali ricevuti in


successione e dà una curva a gradini, nella quale ogni gradino rappresenta
l’uscita di un componente.

Il rivelatore più largamente utilizzato e generalmente applicabile alla gas


cromatografia è quello a “ionizzazione di fiamma”, comunemente indicato con
l’acronimo FID (Flame Ionization Detector).

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L’effluente della colonna viene direzionato in una piccola fiamma
aria/idrogeno. La maggior parte dei composti organici, quando pirolizzati 6 alla
temperatura di una fiamma aria/idrogeno, produca ioni ed elettroni. La
rivelazione implica il monitoraggio della corrente prodotta attraverso la
raccolta di questi trasporti di carica. Un potenziale di alcune centinaia di volt
applicato tra l’ugello del bruciatore e un elettrodo collettore sistemato sopra
la fiamma ha lo scopo di raccogliere gli ioni ed elettroni. La corrente risultante
è misurata con un picoamperometro. Poiché il rivelatore a ionizzazione di
fiamma risponde al numero di atomi di carbonio che entrano nello stesso per
unità di tempo, esso è sensibile alla massa più che alla concentrazione,
pertanto, risulta poco influenzato da variazioni di flusso della fase mobile. Il
FID non è sensibile a gas non combustibili come H₂O, CO₂, SO₂, e NO χ. Queste
proprietà rendo il rivelatore di uso più generale e utile per l’analisi della
maggior parte di campioni organici, inclusi quelli contaminati con acqua e
ossidi di azoto e di zolfo. Il rivelatore a ionizzazione di fiamma presenta alta
sensibilità, un ampio intervallo di risposta lineare e basso rumore di fondo.
Uno svantaggio è rappresentato dalla distruzione del campione durante lo
stadio di combustione.

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La pirolisi è un processo di decomposizione termochimica di materiali organici che avviene in assenza di sostanze
ossidanti (normalmente ossigeno). Riscaldando il materiale in presenza di ossigeno avviene una combustione che
genera calore e produce composti gassosi ossidati, effettuando invece lo stesso riscaldamento in condizioni però di
assenza totale di ossigeno il materiale subisce la scissione dei legami chimici originari con formazione di molecole più
semplici.
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