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l'uomo e l'intera sua società in un efficiente formicaio, fallisce perché non ha studiato
(credendosi Dio) e non ha osservato né le formiche né gli uomini». (Wiener, “Introduzione
alla cibernetica”).
L’OPINIONE PUBBLICA
Walter Lippman, nel suo lavoro pubblicato negli Stati Uniti nel
1922 intitolato "Public Opinion" ("L'Opinione Pubblica", Donzelli
Editore, Roma, 1999) riassume con efficacia il processo
attraverso il quale le opinioni della gente diventano l'opinione
pubblica. Per Lippmann, una opinione pubblica esiste quando il
pubblico riesce a disporre di informazioni tali, per qualità e
quantità, da possedere una corretta rappresentazione del mondo.
Una élite di scienziati sociali organizzati in una burocrazia semi-
pubblica avrebbe quindi dovuto analizzare statisticamente la
realtà per poi comunicare i risultati di questi studi alla cittadinanza.
Fu nel ricoprire il ruolo di sottosegretario aggiunto alla Guerra nel
1917 che Lippman ebbe l'occasione di osservare il crescente intreccio di interessi tra
l'apparato militare e il mondo economico americano. Erano gli anni in cui il grande esercito
centralizzato, voluto da Elihu Root - Ministro della Guerra dal 1899 al 1904 e intimo amico
di Theodore Roosevelt - sostituiva la National Guard e diventava un referente privilegiato
per il grande capitalismo industriale (Oliviero Bergamini, "Un Esercito per la Nazione. Elihu
Root e la nascita del moderno sistema militare negli Stati Uniti", Marcos y Marcos, Milano,
1996). Nel suo volume, Lippman descriveva come l'opinione pubblica abbia costruito i
propri miti, i propri eroi, i propri nemici, strappandoli alla storia per catapultarli dal "deserto
del reale" al "mondo dell'effimero". In un'epoca ancora dominata dai giornali, la sua
preoccupazione per un giornalismo esaustivo, in grado di documentare in modo completo
l'attività dei ceti dirigenti, come fondamento di una società democratica, si scontrava con la
necessità da parte delle élite al potere di fornire un'immagine stereotipata della realtà,
costruita attraverso colloqui confidenziali e telefonate segrete, da trasmettere al grande
pubblico. Secondo il filosofo pragmatista John Dewey, è il pubblico stesso che deve
costruirsi una autonoma rappresentazione della realtà attraverso il dibattito pubblico,
continuo e sistematico, sulle diverse opzioni in campo. Secondo Dewey, nella vita sociale
e politica americana mancava proprio questo lavoro di scavo e discussione permanente
della realtà.
CITIZEN KANE
VERITA' E MENZOGNA
Ad una stazione ferroviaria, Orson Welles esegue alcuni truchi
magici e, promettendo di raccontare una storia vera, introduce i
protagonisti di un'intricata vicenda: il falsario ungherese Elmyr
de Hory, specializzato in dipinti post-impressionisti, in grado di
riprodurre un Matisse nel giro di pochissimi frame, e il suo
biografo Clifford Irving, un giornalista che vantava di essere
entrato in possesso dell'autobiografia del magnate Howard
Hughes, ovviamente falsa. Il film, interpretato dallo stesso Orson
Welles, è una lunga riflessione - tramite aneddoti, ricordi
autobiografici e alcune interviste a noti falsari - sul rapporto che
esiste tra la verità e l'arte. Cos'è la verità? Chi stabilisce se un
quadro è arte o no? Come si fa a riconoscere il bello? Numerosi
a questo proposito sono i commenti ironici sui critici d'arte, che
spesso incensano e fanno aumentare il valore economico di
quadri falsi scambiandoli per veri. Pensato a partire da un
documentario incompiuto di François Reichenbach sui falsari, il film è un brillantissimo, ma
disilluso, testamento sull'inutilità dell'arte, a cui non sembra disposto a concedere alcuna
funzione sociale, storica o culturale. Orson Welles era del resto molto sensibile su questo
tema della verità e menzogna ("Véritée et Mensonges" è il titolo originale). Il suo primo
successo, la trasposizione radiofonica della "Guerra dei Mondi", che parlava di una
invasione aliena e che aveva scatenato fenomeni di isteria collettiva negli USA, era un
evidente falso scambiato per vero. Anche la sua celeberrima pellicola "Quarto Potere", da
molti critici ritenuto il miglior film di ogni tempo, era la storia falsa e romanzata di un
personaggio vero, l'arcimiliardario William Randolph Hearst, che aveva sconfitto tutti i
concorrenti nel suo mercato, si era enormemente arricchito poi si era progressivamente
isolato dal mondo. Da questa riflessione «verbosa, narcisistica, incontinente, ma
affascinante» sui rapporti tra arte e vita, Welles esce come un abilissimo falsario che
paragona il cinema a «un gioco di furbi castelli e specchi e rimandi»: come dice lui stesso,
«la mia carriera è cominciata con un falso, l'invasione dei marziani. Sarei dovuto andare in
prigione. Non posso lamentarmi. Sono finito a Hollywood!».
F come falso - Wikipedia
Al contrario di Elmyr de Hory, che prima di uscire allo scoperto era riuscito a piazzare sue
copie al MoMa di New York senza che nessuno scoprisse nulla, Daniel Dondè è il primo
"falsario legale" nella storia dell'arte. Tra i suoi falsi più noti, ''Il Dottor Gachet" di Van
Gogh, acquistato per 180 miliardi di lire dal collezionista giapponese Saito. Sempre di
VanGogh, 'Il Campo di Iris'', acquistato da un magnate australiano per 120 miliardi di lire,
e il famosissimo ''Vaso di Girasoli''. Tra i famosi acquirenti, Sophia Loren, Roger Moore,
Frank Sinatra, Arnold Schwarzenegger, ma anche importanti teste coronate quali il
principe Alberto di Monaco ed Emanuele Filiberto di Savoia. Alcuni vip hanno acquistato i
falsi durante le mostre, come Frank Sinatra, che trovandosi in un lussuoso hotel di
Montecarlo, lo stesso in cui Dondè esponeva una serie di falsi di Modigliani, finì per
portarsene nella sua casa di Los Angeles ben 22. Le opere di Dondè sono state ammirate
persino da alcuni tra gli autori originali, come Fernando Botero, che andò a guardare
estasiato i ''suoi falsi'' nell'atelier spagnolo di Dondè. È stato perfino insignito da una
prestigiosa università di New York di una laurea honoris causa in Pittura e Storia dell'Arte.
È proprio il caso di dire: "Falso è bello".
"I miei capolavori? Sono veramente falsi" laprovinciadicomo 03 agosto 2010
Scrivendo "Sull'utilità e il danno della storia per la vita" (seconda delle "Considerazioni
IInattuali"), Nietzsche sostiene che i fatti di per sé sono poco significativi senza
l'interpretazione: sono le teorie relative ai fatti ad essere determinanti. Contro la "tirannia
della storia", l' "idolatria del fatto", contro il formarsi di una pura erudizione da enciclopedie
ambulanti, che annulla la personalità. Solo la storia critica è davvero positiva, in quanto
non si limita a favorire l'imitazione del passato, anche eroico, ma lo vuole superare: essa
trascina il passato davanti al tribunale, lo giudica e lo condanna. In realtà, non esistono
dati e fatti oggettivi (antipositivisticamente), ma solo interpretazioni. Questa incondizionata
"volontà di verità", che cos'è dunque? Pur non essendo negativa (come afferma Nietzsche
in "Umano, troppo Umano", "Aurora", "La Gaia Scienza"), in quanto libera dalla vecchia
concezione del mondo, essa facilmente conduce all'adorazione della verità oggettiva,
rende l'uomo schiavo dell'oggettività esterna, contrapposta alla vita, l'eterno movimento
del divenire. Nietzsche denuncia lo schematismo degli scientisti, che non si accorgono
della polimorfia del reale, pretendendo di ricondurlo a pochi principi meccanici. Pur
avendolo duramente criticato nella sua opera d'esordio, "La Nascita della Tragedia",
Nietzsche si ricongiunge con il motto principe del socratismo: "Sò di non sapere".
Lasciando ai posteri l'ardua sentenza: «L’uomo contemporaneo è afflitto da una ferita di
cui a mala pena si rende conto. È la crisi di verità».
QUINTO POTERE
Ai giorni nostri, circo mediatico, infotainment, reality
show, gossip, pornografia, rappresentano la
degenerazione del Quarto Potere in Quinto Potere,
ovvero lo strapotere del sistema integrato e
concertato dei mass-media, la cui funzione principale
è quella di intorpidire e neutralizzare la reattività della
sfera pubblica. Ma è già nella società novecentesca
che il pubblico comincia a diventare sempre più
“audience”, a perdere progressivamente ogni
possibilità di esercitare una funzione critica e
partecipativa, a trasformarsi in un mero “auditore”, un
“target”, un consumatore passivo di cultura, le cui
opinioni sono usate e strumentalizzate dal potere ai
fini della “fabbrica del consenso” (Chomsky). Secondo
Jurgen Habermas, autore di “Strukturwandel der
Öffentlichkeit” (1962) - “Storia e Critica dell’Opinione
Pubblica”, Roma-Bari, 1977 - si assiste al tramonto
della sfera discorsiva pubblica, intesa come critica
degli argomenti volti alla ricerca del consenso, alla
persuasione sociopolitica. La fine della sfera pubblica
intesa come partecipazione degli individui alle grandi
scelte collettive. Fino ad arrivare, nella fase tardo-
capitalista, post-industriale, della società dello spettacolo e dell'informazione, al punto in
cui il posto della discussione e della critica è occupato da una diffusa e pervasiva
manipolazione dei valori e delle coscienze, a danno della libera espressione individuale e
dell’agire comunicativo, a vantaggio della auto-legittimità del potere istituzionale. «Il
carattere discorsivo della formazione dell'opinione e della volontà ha anche il senso
pratico di creare rapporti d'intesa che svincolino la forza produttiva della libertà
comunicativa». Minando il fluire della libertà discorsiva, il potere persuasivo e omologante
della rappresentazione mediatica “circense” mina la natura sociale del processo
comunicativo, che finisce per diventare sterile, soggiogato dal sensazionalismo della realtà
spettacolo. «L’opinione pubblica, secondo le sue proprie finalità, non vuol essere un limite
di potere o un potere, e neppure l’origine di tutti poteri. Nel suo centro dovrebbe piuttosto
mutarsi il carattere del potere esecutivo, del dominio stesso. Il dominio della sfera pubblica
è un ordinamento in cui si dissolve la sovranità in generale: veritas non auctoritas facit
legem». Con lo svuotamento della sfera intima, individuale, privata, si entra, secondo
Habermas, nel dominio del “conformismo”: “mentre la sfera privata diventa pubblica, la
sfera pubblica, a sua volta, assume forme di intimità. Questo tendenziale eguagliamento di
privato e pubblico produce una sfera pubblica abnorme (oggi prevalentemente televisiva)
in cui l’opinione privata, la soggettività più intima, tende a diventare pubblica e quindi ad
annullarsi. «Ancora una volta» - scrive Habermas - «i momenti della ‘privatezza’ e della
‘pubblicità’ perdono la loro distinzione netta…La forma discorsiva della socievolezza cede
davanti al feticcio del culto della comunanza in sé […] La soddisfazione individuale dei
bisogni può essere condizionata da una dimensione pubblica, cioè di massa, da cui non
deriva la dimensione pubblica stessa».
http://en.wikipedia.org/wiki/The_Structural_Transformation_of_the_Public_Sphere
[...] Il caso più vistoso di riduzione del superman
all’everyman lo abbiamo in Italia nella figura di Mike
Bongiorno e nella storia della sua fortuna […]
quest’uomo deve il suo successo al fatto che in ogni
atto e in ogni parola del personaggio cui dà vita
davanti alle telecamere traspare una mediocrità
assoluta. […] Mike Bongiorno non si vergogna di
essere ignorante e non prova il bisogno di istruirsi.
[…] In compenso Mike Bongiorno dimostra sincera e
primitiva ammirazione per colui che sa […] professa
una stima e una fiducia illimitata verso l’esperto. […]
Mike Bongiorno parla un basic italian. Il suo discorso
realizza il massimo di semplicità. Abolisce i
congiuntivi, le proposizioni subordinate, riesce quasi
a rendere invisibile la dimensione sintassi. Evita i
pronomi, ripetendo sempre per esteso il soggetto,
impiega un numero stragrande di punti fermi. […]
Non è necessario fare alcuno sforzo per capirlo.
Qualsiasi spettatore avverte che, all’occasione, egli
potrebbe essere più fecondo di lui. […] Mike
Bongiorno è privo del senso dell’umorismo. Ride
perché è contento della realtà, non perché sia
capace di deformare la realtà. Gli sfugge la natura
del paradosso […] Egli rappresenta un ideale che
nessuno deve sforzarsi di raggiungere perché chiunque si trova già al suo livello. Nessuna
religione è mai stata così indulgente coi suoi fedeli. In lui si annulla la tensione tra essere
e dover essere. Egli dice ai suoi adoratori: voi siete Dio, restate immoti [...].
(Umberto Eco, “Fenomenologia di Mike Buongiorno”)
Il dibattito sul Quarto Potere e sul ruolo politico, sociale, antropologico dei mass-media ha
coinvolto, e coinvolge ancora oggi, intellettuali e non di ogni tipo. Lo scontro tra
“apocalittici” e “integrati”, così come definito da Umberto Eco nell’omonimo libro, è
appassionante ed è destinato a protrarsi ancora per molto tempo, dato il ruolo di egemonia
tecno-culturale che rivestono i media e la comunicazione di massa nella moderna società
dell’informazione. Per gli “apocalittici”, i mass-media si presentano come lo strumento
(dis)educativo tipico di una società a sfondo paternalistico, in superficie individualistica e
democratica, ma sostanzialmente tendente a produrre modelli umani eterodiretti. Una
tipica “sovrastruttura di un regime capitalistico” usata a fini di controllo e di pianificazione
coatta delle coscienze che mette apparentemente a disposizione di tutti i portati di una
cultura superiore assumendo i modi esteriori di una cultura popolare (populismo), che
anziché crescere spontaneamente dal basso viene imposta dall'alto, perdendo la sua
genuinità. Nella visione apocalittica, i mass-media svolgono una funzione di controllo
simile a quella delle ideologie religiose (“l’oppio dei popoli”) mascherata da un apparente
pluralismo che garantirebbe a tutti le stesse occasioni di cultura, a prescindere dalla
classe sociale.
«Non la violenza di un regime totalitario, ma i media tolgono all'Altro la sua libertà perfino
nella sfera del privato. Come può la nostra società definirsi libera? Per sopportare la
presenza della bomba atomica la gente ha bisogno d'intrattenimento. Qui sta la base
materiale del dominio» (H. Marcuse, “L'Uomo a una Dimensione”).
Gli apocalittici affermano che la massificazione operata dai mezzi di comunicazione - quali
televisione, radio, stampa - contribuisce alla formazione dell' “uomo unidimensionale” di
cui ha parlato Marcuse, dell’ “uomo-massa” di Ortega Y Gasset - «un'insieme di persone
che non si conoscono, spazialmente separate le une dalle altre, con scarse o nulle
possibilità di interagire. Privo di tradizioni, regole di comportamento, leadership e struttura
organizzativa» - riducendo la cultura ad un'arma di manipolazione ideologica e di
alienazione. Una potente arma psico-tecnologica.
“Film, radio e settimanali costituiscono un sistema. Ogni settore è armonizzato in sé e tutti
fra loro» (Horkheimer, Adorno 1947).
Le regole che governano questo sistema sono quelle del profitto e del mercato e a queste
esigenze vengono adeguati anche i contenuti dei messaggi prodotti. L'individualità viene
assoggettata all'esigenza del consumo e modellata su un prototipo creato dai media che
rispondono allo stesso ceto produttore. Le caratteristiche del prodotto mediatico, l'ubiquità,
la ripetitività e la standardizzazione, modellano una cultura di massa che a sua volta si
trasforma in uno strumento di controllo sociale su soggetti svuotati della propria identità e
provvisti di una pseudo-individualità, socialmente determinata, di consumatore alienato.
L'espressione “comunicazione di massa” viene spesso adoperata come sinonimo di
“cultura di massa”. In queste denominazioni si riflette l’eco di un pregiudizio ideologico. La
definizione “comunicazione di massa” è usata solo apparentemente in senso descrittivo.
Infatti, nel termine “massa” è implicito un giudizio di valore negativo che connota il
pubblico dei media come un’entità informe e indifferenziata.
Edgar Morin, nella sua "teoria culturologica", contenuta nel suo libro "L'Esprit du Temps”
(in it. “L’Industria Culturale”) del 1962, considera il
sistema della cultura di massa come un sistema di valori,
simboli, miti ed archetipi che compongono la "struttura
dell'immaginario collettivo" e che fanno da banca del
sapere comune cui gli individui attingono per interpretare
se stessi ed il presente. Con l’aumento vertiginoso della
circolazione di miti, archetipi e simboli, il sistema
produttivo della cultura di massa tende a ridurre
attraverso i mass media "gli archetipi in stereotipi",
riproducendo all'infinito forme e modelli elaborati in alcuni
luoghi privilegiati di creatività. Questo conflitto tra
creazione delle idee e standardizzazione dei contenuti
viene mediato proprio dalla cultura di massa, che tende a
formare un pubblico "medio" in termini di gusto e
conoscenze. Da una parte, la “moltiplicazione pura e
semplice” sia dei flussi informativi che dei destinatari dei
messaggi. Dall’altra, la volgarizzazione dei loro contenuti,
ossia la loro preventiva “trasformazione in vista della
moltiplicazione”. Dunque, secondo Morin, la cultura di
massa è ricolma di stereotipi, di cliché. Lo stereotipo è un luogo che offre radicamento e
abitabilità, un oggetto rassicurante che funziona come ambiente connettivo dell’interazione
sociale. Le forme espressive attraverso la pratica della stereotipizzazione esibiscono la
ricorrenza di luoghi frequentati e frequentabili dell’immaginario collettivo, percorsi che
aiutano a entrare in relazione comunicativa con le cose e con gli altri.
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I PERSUASORI OCCULTI
LA MOSTRA DELLE ATROCITA’ 2
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