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«Ogni società efficiente (ogni dittatore) che crede a un certo punto di aver trasformato

l'uomo e l'intera sua società in un efficiente formicaio, fallisce perché non ha studiato
(credendosi Dio) e non ha osservato né le formiche né gli uomini». (Wiener, “Introduzione
alla cibernetica”).

L’opportunità di persuadere, attraverso le pratiche discorsive, il complesso delle interazioni


umane, ha fatto sì che, nel corso dei secoli, le classi dominanti e i ceti emergenti abbiano
cercato d’impadronirsi del monopolio dello strumento linguistico. Il periodo in cui si è
risentito in maggior misura delle conseguenze di questo genere di politica è stato quello
delle grandi dittature europee, nella prima metà del XX secolo. Nacque un’impostazione
scientifica della propaganda, cioè si cominciarono ad utilizzare metodi precisi da parte di
gruppi di specialisti per conquistare il consenso della massa, in riferimento ad azioni
politiche, in certe circostanze anche attraverso manipolazioni psicologiche. In altre parole,
si materializza un'espressione del potere che si afferma attraverso la conquista
dell'opinione pubblica. Questo fenomeno, che aveva cominciato ad assumere una valenza
del tutto particolare dalla Rivoluzione Francese in poi, si incrementò durante la Prima
Guerra Mondiale. In questo periodo, i governi dei paesi in guerra comprendono, infatti, la
necessità di "manipolare" sul piano intellettuale e morale sia le truppe che le popolazioni.
In Italia, Mussolini ha controllato largamente l'informazione allo scopo di volgere l'opinione
pubblica verso una posizione a sostegno del regime fascista. Il successo di Mussolini è da
ricercarsi nella figura stessa del "leader" (Mussolini aveva più volte letto e riletto
“Psicologia delle Folle” di Le Bon).

L’OPINIONE PUBBLICA

Walter Lippman, nel suo lavoro pubblicato negli Stati Uniti nel
1922 intitolato "Public Opinion" ("L'Opinione Pubblica", Donzelli
Editore, Roma, 1999) riassume con efficacia il processo
attraverso il quale le opinioni della gente diventano l'opinione
pubblica. Per Lippmann, una opinione pubblica esiste quando il
pubblico riesce a disporre di informazioni tali, per qualità e
quantità, da possedere una corretta rappresentazione del mondo.
Una élite di scienziati sociali organizzati in una burocrazia semi-
pubblica avrebbe quindi dovuto analizzare statisticamente la
realtà per poi comunicare i risultati di questi studi alla cittadinanza.
Fu nel ricoprire il ruolo di sottosegretario aggiunto alla Guerra nel
1917 che Lippman ebbe l'occasione di osservare il crescente intreccio di interessi tra
l'apparato militare e il mondo economico americano. Erano gli anni in cui il grande esercito
centralizzato, voluto da Elihu Root - Ministro della Guerra dal 1899 al 1904 e intimo amico
di Theodore Roosevelt - sostituiva la National Guard e diventava un referente privilegiato
per il grande capitalismo industriale (Oliviero Bergamini, "Un Esercito per la Nazione. Elihu
Root e la nascita del moderno sistema militare negli Stati Uniti", Marcos y Marcos, Milano,
1996). Nel suo volume, Lippman descriveva come l'opinione pubblica abbia costruito i
propri miti, i propri eroi, i propri nemici, strappandoli alla storia per catapultarli dal "deserto
del reale" al "mondo dell'effimero". In un'epoca ancora dominata dai giornali, la sua
preoccupazione per un giornalismo esaustivo, in grado di documentare in modo completo
l'attività dei ceti dirigenti, come fondamento di una società democratica, si scontrava con la
necessità da parte delle élite al potere di fornire un'immagine stereotipata della realtà,
costruita attraverso colloqui confidenziali e telefonate segrete, da trasmettere al grande
pubblico. Secondo il filosofo pragmatista John Dewey, è il pubblico stesso che deve
costruirsi una autonoma rappresentazione della realtà attraverso il dibattito pubblico,
continuo e sistematico, sulle diverse opzioni in campo. Secondo Dewey, nella vita sociale
e politica americana mancava proprio questo lavoro di scavo e discussione permanente
della realtà.

Opinione pubblica e democrazia: il contributo di Walter Lippmann di Giovanni Dessì

CITIZEN KANE

(Orson Welles, Usa, 1941)

Una soggettiva notturna del castello e della tenuta di


Kane si introduce in modo furtivo e, a dispetto del
cartello che avverte di non oltrepassare la cinta, si
addentra nel parco e per le sale del castello. In una di
queste, giace nel proprio letto un uomo anziano e
malato. È il signor Kane, uno degli uomini più potenti
della terra. In mano, stringe una di quelle piccole
sfere di cristallo all’interno delle quali si riproduce in
miniatura un paesaggio innevato. Improvvisamente,
l’uomo apre la mano e la sfera rotola a terra.
Sottovoce, le sue labbra pronunciano una parola che
un’infermiera, accorsa allarmata nella stanza, riesce
appena a cogliere. Chi è che si aggira di notte nella
tenuta di Kane, uno degli uomini più potenti della
terra? Un ladro, un malvivente, o chi altro? Nella
sfera di cristallo, che è una simbolica
rappresentazione del destino e del mondo che fugge
dalle mani di Kane, è racchiuso il mistero della sua vita e dell’ultima parola che le sue
labbra hanno pronunciato: Rosebud ("Rosabella" nella versione italiana). Infatti, chi ha
potuto violare senza ostacoli le recinzioni e le possenti mura del suo castello non è né un
ladro né un assassino, ma soltanto la morte. Subito dopo, un cinegiornale commenta
sommariamente le tappe della vita pubblica di Kane. La voce fuori campo celebra le
magnificenze della sua reggia e accostando la personalità del magnate a quella di Gengis
Khan, suggerisce che il suo vero termine di paragone risiede nella figura di William
Randolph Hearst. Il telecronista ricorda appunto che nel momento della sua massima
espansione, l’impero di Kane era costituito da 37 giornali, due sindacati, una radio: un
impero nell’impero che comprendeva foreste, fattorie, tipografie, imprese di costruzioni e
numerose altre attività imprenditoriali, la cui unica origine era lo sfruttamento di una delle
più ricche miniere d’oro del mondo. Ma chi era Charles Foster Kane? A causa dei
persistenti attacchi che aveva portato alle tradizioni americane sulla proprietà privata
alcuni dicevano che si trattava di un "comunista". Altri avevano invece sostenuto che si
trattava di un "fascista". Il giornalista Jerry Thompson riceve l'incarico di raccogliere
informazioni sulla vita del miliardario magnate della stampa e sul significato della
misteriosa parola pronunciata dall'uomo sul letto di morte. Con una serie di flashback che
rompono la tradizionale struttura narrativa del film, siamo così proiettati indietro nel tempo,
attraverso i ricordi di Bernstein, dirigente di affari di Kane, Leland, il suo migliore amico,
Susan, la sua ex seconda moglie, Raymond, il suo maggiordomo, e attraverso la
testimonianza del diario scritto dal defunto signor Thatcher, che la madre di Kane aveva
nominato quale tutore legale della sua eredità, nel lontano 1870, quando Kane, allora
bambino, fu allontanato dai genitori per entrare in un collegio dove il giovane Kane era
cresciuto con un carattere incline alla ribellione ed al dispotismo. Al termine dell’inchiesta,
Thompson non è ancora in grado di stabilire il significato della parola pronunciata da Kane
prima di morire. Mentre la telecamera si allontana dalla dimora di Kane, così come vi si
era indiscretamente introdotta, il mistero viene svelato nella sequenza finale: nel castello
di Kane, gli operai stanno sbaraccando tutto; tra gli oggetti superflui che gli erano
appartenuti e che ora vengono destinati al fuoco della caldaia, c’è anche uno slittino da
neve che sta bruciando nella fornace. È lo stesso slittino con cui il piccolo Kane giocava
sulle montagne di casa propria, prima che la madre lo destinasse al collegio. Sullo slittino
compare la scritta “Rosebud”: il segreto di una vita. "Citizen Kane” (in it. “Quarto Potere”) è
considerato da molti critici il miglior film mai prodotto nella storia del cinema per la
straordinaria innovazione nella struttura narrativa e nell'utilizzo della telecamera per
scandire il corso degli eventi. Al venticinquenne Welles, star del teatro e della radio, si
presentò l'occasione di realizzare in toto il proprio film, servendosi come spunto della vita
di William Randolph Hearst, tra i titani dell'editoria americana degli anni '30. In un
crescendo di eventi che fanno di circolarità e simbolismo la loro caratteristica, il
regista/protagonista dà vita ad una grandiosa metafora della condizione umana,
esaltandone miserie e contraddizioni. Ne deriva un'aperta e feroce critica alla società
contemporanea, alla cultura del danaro e allo strapotere dei media. Senza possibilità di
replica. Secondo le nozioni introdotte nelle dottrine politiche da Locke e da Montesquieu, i
poteri della Sovranità si distinguono in Legislativo, Esecutivo e Giudiziario. Sempre
secondo Locke e Montesquieu, il corretto funzionamento dello Stato si fonda sulla
divisione fisiologica dei tre poteri, che diversamente, accentrati nelle mani di un solo
uomo, darebbero origine ad un regime tirannico caratterizzato dalla corruzione. Dopo
Montesquieu e Locke, il merito di Orson Welles è stato di indicare l’esistenza di un Quarto
Potere, legato all’informazione mediatica della società di massa nelle moderne
democrazie. Chi ne detiene il monopolio, suggerisce Orson Welles, è in grado
d’influenzare l’opinione pubblica e di agire nei confronti della società come un moderno
tiranno. Proprio come William Randolph Hearst, ricco industriale americano e magnate
della carta stampata, a cui si ispira la vicenda di Kane, che fu veramente in grado, in
alcuni momenti della propria esistenza, di determinare il corso delle vicende politiche del
suo paese. Negli anni Trenta, la figura di Hearst era stata al centro di numerose
polemiche, dirette ad attaccare il sistema di valori rappresentati da quest’ultimo. Gli
attacchi nei confronti di William Hearst non avevano risparmiato neppure la sua vita
privata e la relazione con l’attrice Marion Davies, a cui lo scrittore Aldous Huxley si era
addirittura ispirato per comporre il suo racconto dal titolo "Dopo Molte Estati", del 1939.
William Randolph Hearst diventa proprietario nel 1887 dell’ "Examiner", un giornale di San
Francisco che suo padre aveva ricevuto come pagamento per dei debiti di gioco.
L’Examiner sarà per William Hearst il trampolino di lancio di una formidabile attività
editoriale, che agli inizi del Novecento comprende una dozzina di giornali quotidiani,
almeno venticinque riviste e una radio. La pratica in prima persona dell’attività giornalistica
lo porta inoltre ad essere il capostipite di quel tipo di informazione che passerà alla storia
col nome di "yellow journalism", un giornalismo di carattere sensazionalistico i cui effetti
furono decisivi nell’orientare l’opinione pubblica americana ai tempi della guerra del 1898,
contro la Spagna. Impegnato anche in politica, Hearst fu eletto per ben due volte alla
Camera dei Rappresentanti, mentre nel 1906 falliva un suo tentativo di essere eletto
governatore dello Stato di New York. Sposato e padre di cinque figli, nel 1920 Hearst
avrebbe costruito a San Simeon, sulle spiagge della California, una vera e propria reggia
(la Xandalù di Kane), dove trascorrere il suo tempo libero in compagnia dell’amante,
l’attrice Marion Davies. Ricorda Chaplin a proposito della residenza di San Simeon: «
quattrocentomila acri del ranch di Hearst, a San Simeon, si estendevano per quasi
cinquanta chilometri lungo la costa del Pacifico. Le abitazioni si trovavano su un altopiano,
raggruppate come una cittadella, a centocinquanta metri sul livello del mare e a sei
chilometri e mezzo dall’oceano. L’edificio principale era stato costruito con il materiale di
diversi castelli europei, imballato e spedito via mare. La facciata sembrava un incrocio tra
la Cattedrale di Reims e un gigantesco chalet svizzero. Intorno, come avamposti, c’erano
cinque ville italiane, costruite sull’orlo della spianata, ciascuna delle quali era in grado di
ospitare sei invitati. Erano arredate all’italiana con soffitti barocchi dai quali ti sorridevano
serafini e cherubini scolpiti. Nel castello principale c’erano stanze per altri trenta invitati. La
sala dei ricevimenti misurava ventisette metri per quindici ed era adorna di arazzi
Gobelins, alcuni autentici, altri falsi. In questa atmosfera baronale le due estremità del
locale erano occupate da tavoli da sbaraglino e biliardini. La sala da pranzo era una copia,
in piccolo, della navata dell’Abbazia di Westminster e ospitava comodamente ottanta
invitati». (C. Chaplin, "La Mia Autobiografia", Milano 1977). La medesima grandiosità e
magnificenza descritte in questo passo dell’autobiografia di Chaplin si ritrovano nella
reggia di Kane, le cui manie antiquarie costituiscono una parodia di quelle di Hearst. A
Chaplin dobbiamo anche il ricordo di questo aneddoto: «Si racconta che Russel Sage, il
finanziere, incontrò un giorno la madre di Hearst, Phoebe Hearst, nella Quinta Strada, e le
disse: "Se suo figlio insiste nell’attaccare Wall Street il suo giornale perderà un milione di
dollari all’anno". "Di questo passo, signor Sage, può continuare la sua attività per altri
ottant’anni", disse sua madre». Lo stesso aneddoto è ripreso nel film di Welles. Al signor
Thatcher, suo tutore legale, che gli ricorda come l’Inquirer rappresenti una perdita secca di
un milione di dollari l’anno, Kane risponde che di questo passo il giornale durerà per altri
sessant’ anni. Sul magnate della carta stampata, Charles Chaplin ebbe a scrivere nella
sua autobiografia: «Sulla figura di Hearst le opinioni sono divergenti. Alcuni affermano che
era un sincero patriota americano, altri che era un opportunista interessato
esclusivamente alla diffusione dei suoi giornali e all’accrescimento della sua fortuna. Ma
da giovane fu un uomo avventuroso e progressista». Un perfetto epitaffio per la tomba di
Kane.

Quarto Potere claudiocaprara.ilcanocchiale.it

William Randolph Hearst - Wikipedia

Yellow journalism - Wikipedia

VERITA' E MENZOGNA
Ad una stazione ferroviaria, Orson Welles esegue alcuni truchi
magici e, promettendo di raccontare una storia vera, introduce i
protagonisti di un'intricata vicenda: il falsario ungherese Elmyr
de Hory, specializzato in dipinti post-impressionisti, in grado di
riprodurre un Matisse nel giro di pochissimi frame, e il suo
biografo Clifford Irving, un giornalista che vantava di essere
entrato in possesso dell'autobiografia del magnate Howard
Hughes, ovviamente falsa. Il film, interpretato dallo stesso Orson
Welles, è una lunga riflessione - tramite aneddoti, ricordi
autobiografici e alcune interviste a noti falsari - sul rapporto che
esiste tra la verità e l'arte. Cos'è la verità? Chi stabilisce se un
quadro è arte o no? Come si fa a riconoscere il bello? Numerosi
a questo proposito sono i commenti ironici sui critici d'arte, che
spesso incensano e fanno aumentare il valore economico di
quadri falsi scambiandoli per veri. Pensato a partire da un
documentario incompiuto di François Reichenbach sui falsari, il film è un brillantissimo, ma
disilluso, testamento sull'inutilità dell'arte, a cui non sembra disposto a concedere alcuna
funzione sociale, storica o culturale. Orson Welles era del resto molto sensibile su questo
tema della verità e menzogna ("Véritée et Mensonges" è il titolo originale). Il suo primo
successo, la trasposizione radiofonica della "Guerra dei Mondi", che parlava di una
invasione aliena e che aveva scatenato fenomeni di isteria collettiva negli USA, era un
evidente falso scambiato per vero. Anche la sua celeberrima pellicola "Quarto Potere", da
molti critici ritenuto il miglior film di ogni tempo, era la storia falsa e romanzata di un
personaggio vero, l'arcimiliardario William Randolph Hearst, che aveva sconfitto tutti i
concorrenti nel suo mercato, si era enormemente arricchito poi si era progressivamente
isolato dal mondo. Da questa riflessione «verbosa, narcisistica, incontinente, ma
affascinante» sui rapporti tra arte e vita, Welles esce come un abilissimo falsario che
paragona il cinema a «un gioco di furbi castelli e specchi e rimandi»: come dice lui stesso,
«la mia carriera è cominciata con un falso, l'invasione dei marziani. Sarei dovuto andare in
prigione. Non posso lamentarmi. Sono finito a Hollywood!».
F come falso - Wikipedia
Al contrario di Elmyr de Hory, che prima di uscire allo scoperto era riuscito a piazzare sue
copie al MoMa di New York senza che nessuno scoprisse nulla, Daniel Dondè è il primo
"falsario legale" nella storia dell'arte. Tra i suoi falsi più noti, ''Il Dottor Gachet" di Van
Gogh, acquistato per 180 miliardi di lire dal collezionista giapponese Saito. Sempre di
VanGogh, 'Il Campo di Iris'', acquistato da un magnate australiano per 120 miliardi di lire,
e il famosissimo ''Vaso di Girasoli''. Tra i famosi acquirenti, Sophia Loren, Roger Moore,
Frank Sinatra, Arnold Schwarzenegger, ma anche importanti teste coronate quali il
principe Alberto di Monaco ed Emanuele Filiberto di Savoia. Alcuni vip hanno acquistato i
falsi durante le mostre, come Frank Sinatra, che trovandosi in un lussuoso hotel di
Montecarlo, lo stesso in cui Dondè esponeva una serie di falsi di Modigliani, finì per
portarsene nella sua casa di Los Angeles ben 22. Le opere di Dondè sono state ammirate
persino da alcuni tra gli autori originali, come Fernando Botero, che andò a guardare
estasiato i ''suoi falsi'' nell'atelier spagnolo di Dondè. È stato perfino insignito da una
prestigiosa università di New York di una laurea honoris causa in Pittura e Storia dell'Arte.
È proprio il caso di dire: "Falso è bello".
"I miei capolavori? Sono veramente falsi" laprovinciadicomo 03 agosto 2010
Scrivendo "Sull'utilità e il danno della storia per la vita" (seconda delle "Considerazioni
IInattuali"), Nietzsche sostiene che i fatti di per sé sono poco significativi senza
l'interpretazione: sono le teorie relative ai fatti ad essere determinanti. Contro la "tirannia
della storia", l' "idolatria del fatto", contro il formarsi di una pura erudizione da enciclopedie
ambulanti, che annulla la personalità. Solo la storia critica è davvero positiva, in quanto
non si limita a favorire l'imitazione del passato, anche eroico, ma lo vuole superare: essa
trascina il passato davanti al tribunale, lo giudica e lo condanna. In realtà, non esistono
dati e fatti oggettivi (antipositivisticamente), ma solo interpretazioni. Questa incondizionata
"volontà di verità", che cos'è dunque? Pur non essendo negativa (come afferma Nietzsche
in "Umano, troppo Umano", "Aurora", "La Gaia Scienza"), in quanto libera dalla vecchia
concezione del mondo, essa facilmente conduce all'adorazione della verità oggettiva,
rende l'uomo schiavo dell'oggettività esterna, contrapposta alla vita, l'eterno movimento
del divenire. Nietzsche denuncia lo schematismo degli scientisti, che non si accorgono
della polimorfia del reale, pretendendo di ricondurlo a pochi principi meccanici. Pur
avendolo duramente criticato nella sua opera d'esordio, "La Nascita della Tragedia",
Nietzsche si ricongiunge con il motto principe del socratismo: "Sò di non sapere".
Lasciando ai posteri l'ardua sentenza: «L’uomo contemporaneo è afflitto da una ferita di
cui a mala pena si rende conto. È la crisi di verità».
QUINTO POTERE
Ai giorni nostri, circo mediatico, infotainment, reality
show, gossip, pornografia, rappresentano la
degenerazione del Quarto Potere in Quinto Potere,
ovvero lo strapotere del sistema integrato e
concertato dei mass-media, la cui funzione principale
è quella di intorpidire e neutralizzare la reattività della
sfera pubblica. Ma è già nella società novecentesca
che il pubblico comincia a diventare sempre più
“audience”, a perdere progressivamente ogni
possibilità di esercitare una funzione critica e
partecipativa, a trasformarsi in un mero “auditore”, un
“target”, un consumatore passivo di cultura, le cui
opinioni sono usate e strumentalizzate dal potere ai
fini della “fabbrica del consenso” (Chomsky). Secondo
Jurgen Habermas, autore di “Strukturwandel der
Öffentlichkeit” (1962) - “Storia e Critica dell’Opinione
Pubblica”, Roma-Bari, 1977 - si assiste al tramonto
della sfera discorsiva pubblica, intesa come critica
degli argomenti volti alla ricerca del consenso, alla
persuasione sociopolitica. La fine della sfera pubblica
intesa come partecipazione degli individui alle grandi
scelte collettive. Fino ad arrivare, nella fase tardo-
capitalista, post-industriale, della società dello spettacolo e dell'informazione, al punto in
cui il posto della discussione e della critica è occupato da una diffusa e pervasiva
manipolazione dei valori e delle coscienze, a danno della libera espressione individuale e
dell’agire comunicativo, a vantaggio della auto-legittimità del potere istituzionale. «Il
carattere discorsivo della formazione dell'opinione e della volontà ha anche il senso
pratico di creare rapporti d'intesa che svincolino la forza produttiva della libertà
comunicativa». Minando il fluire della libertà discorsiva, il potere persuasivo e omologante
della rappresentazione mediatica “circense” mina la natura sociale del processo
comunicativo, che finisce per diventare sterile, soggiogato dal sensazionalismo della realtà
spettacolo. «L’opinione pubblica, secondo le sue proprie finalità, non vuol essere un limite
di potere o un potere, e neppure l’origine di tutti poteri. Nel suo centro dovrebbe piuttosto
mutarsi il carattere del potere esecutivo, del dominio stesso. Il dominio della sfera pubblica
è un ordinamento in cui si dissolve la sovranità in generale: veritas non auctoritas facit
legem». Con lo svuotamento della sfera intima, individuale, privata, si entra, secondo
Habermas, nel dominio del “conformismo”: “mentre la sfera privata diventa pubblica, la
sfera pubblica, a sua volta, assume forme di intimità. Questo tendenziale eguagliamento di
privato e pubblico produce una sfera pubblica abnorme (oggi prevalentemente televisiva)
in cui l’opinione privata, la soggettività più intima, tende a diventare pubblica e quindi ad
annullarsi. «Ancora una volta» - scrive Habermas - «i momenti della ‘privatezza’ e della
‘pubblicità’ perdono la loro distinzione netta…La forma discorsiva della socievolezza cede
davanti al feticcio del culto della comunanza in sé […] La soddisfazione individuale dei
bisogni può essere condizionata da una dimensione pubblica, cioè di massa, da cui non
deriva la dimensione pubblica stessa».
http://en.wikipedia.org/wiki/The_Structural_Transformation_of_the_Public_Sphere
[...] Il caso più vistoso di riduzione del superman
all’everyman lo abbiamo in Italia nella figura di Mike
Bongiorno e nella storia della sua fortuna […]
quest’uomo deve il suo successo al fatto che in ogni
atto e in ogni parola del personaggio cui dà vita
davanti alle telecamere traspare una mediocrità
assoluta. […] Mike Bongiorno non si vergogna di
essere ignorante e non prova il bisogno di istruirsi.
[…] In compenso Mike Bongiorno dimostra sincera e
primitiva ammirazione per colui che sa […] professa
una stima e una fiducia illimitata verso l’esperto. […]
Mike Bongiorno parla un basic italian. Il suo discorso
realizza il massimo di semplicità. Abolisce i
congiuntivi, le proposizioni subordinate, riesce quasi
a rendere invisibile la dimensione sintassi. Evita i
pronomi, ripetendo sempre per esteso il soggetto,
impiega un numero stragrande di punti fermi. […]
Non è necessario fare alcuno sforzo per capirlo.
Qualsiasi spettatore avverte che, all’occasione, egli
potrebbe essere più fecondo di lui. […] Mike
Bongiorno è privo del senso dell’umorismo. Ride
perché è contento della realtà, non perché sia
capace di deformare la realtà. Gli sfugge la natura
del paradosso […] Egli rappresenta un ideale che
nessuno deve sforzarsi di raggiungere perché chiunque si trova già al suo livello. Nessuna
religione è mai stata così indulgente coi suoi fedeli. In lui si annulla la tensione tra essere
e dover essere. Egli dice ai suoi adoratori: voi siete Dio, restate immoti [...].
(Umberto Eco, “Fenomenologia di Mike Buongiorno”)
Il dibattito sul Quarto Potere e sul ruolo politico, sociale, antropologico dei mass-media ha
coinvolto, e coinvolge ancora oggi, intellettuali e non di ogni tipo. Lo scontro tra
“apocalittici” e “integrati”, così come definito da Umberto Eco nell’omonimo libro, è
appassionante ed è destinato a protrarsi ancora per molto tempo, dato il ruolo di egemonia
tecno-culturale che rivestono i media e la comunicazione di massa nella moderna società
dell’informazione. Per gli “apocalittici”, i mass-media si presentano come lo strumento
(dis)educativo tipico di una società a sfondo paternalistico, in superficie individualistica e
democratica, ma sostanzialmente tendente a produrre modelli umani eterodiretti. Una
tipica “sovrastruttura di un regime capitalistico” usata a fini di controllo e di pianificazione
coatta delle coscienze che mette apparentemente a disposizione di tutti i portati di una
cultura superiore assumendo i modi esteriori di una cultura popolare (populismo), che
anziché crescere spontaneamente dal basso viene imposta dall'alto, perdendo la sua
genuinità. Nella visione apocalittica, i mass-media svolgono una funzione di controllo
simile a quella delle ideologie religiose (“l’oppio dei popoli”) mascherata da un apparente
pluralismo che garantirebbe a tutti le stesse occasioni di cultura, a prescindere dalla
classe sociale.
«Non la violenza di un regime totalitario, ma i media tolgono all'Altro la sua libertà perfino
nella sfera del privato. Come può la nostra società definirsi libera? Per sopportare la
presenza della bomba atomica la gente ha bisogno d'intrattenimento. Qui sta la base
materiale del dominio» (H. Marcuse, “L'Uomo a una Dimensione”).
Gli apocalittici affermano che la massificazione operata dai mezzi di comunicazione - quali
televisione, radio, stampa - contribuisce alla formazione dell' “uomo unidimensionale” di
cui ha parlato Marcuse, dell’ “uomo-massa” di Ortega Y Gasset - «un'insieme di persone
che non si conoscono, spazialmente separate le une dalle altre, con scarse o nulle
possibilità di interagire. Privo di tradizioni, regole di comportamento, leadership e struttura
organizzativa» - riducendo la cultura ad un'arma di manipolazione ideologica e di
alienazione. Una potente arma psico-tecnologica.
“Film, radio e settimanali costituiscono un sistema. Ogni settore è armonizzato in sé e tutti
fra loro» (Horkheimer, Adorno 1947).
Le regole che governano questo sistema sono quelle del profitto e del mercato e a queste
esigenze vengono adeguati anche i contenuti dei messaggi prodotti. L'individualità viene
assoggettata all'esigenza del consumo e modellata su un prototipo creato dai media che
rispondono allo stesso ceto produttore. Le caratteristiche del prodotto mediatico, l'ubiquità,
la ripetitività e la standardizzazione, modellano una cultura di massa che a sua volta si
trasforma in uno strumento di controllo sociale su soggetti svuotati della propria identità e
provvisti di una pseudo-individualità, socialmente determinata, di consumatore alienato.
L'espressione “comunicazione di massa” viene spesso adoperata come sinonimo di
“cultura di massa”. In queste denominazioni si riflette l’eco di un pregiudizio ideologico. La
definizione “comunicazione di massa” è usata solo apparentemente in senso descrittivo.
Infatti, nel termine “massa” è implicito un giudizio di valore negativo che connota il
pubblico dei media come un’entità informe e indifferenziata.
Edgar Morin, nella sua "teoria culturologica", contenuta nel suo libro "L'Esprit du Temps”
(in it. “L’Industria Culturale”) del 1962, considera il
sistema della cultura di massa come un sistema di valori,
simboli, miti ed archetipi che compongono la "struttura
dell'immaginario collettivo" e che fanno da banca del
sapere comune cui gli individui attingono per interpretare
se stessi ed il presente. Con l’aumento vertiginoso della
circolazione di miti, archetipi e simboli, il sistema
produttivo della cultura di massa tende a ridurre
attraverso i mass media "gli archetipi in stereotipi",
riproducendo all'infinito forme e modelli elaborati in alcuni
luoghi privilegiati di creatività. Questo conflitto tra
creazione delle idee e standardizzazione dei contenuti
viene mediato proprio dalla cultura di massa, che tende a
formare un pubblico "medio" in termini di gusto e
conoscenze. Da una parte, la “moltiplicazione pura e
semplice” sia dei flussi informativi che dei destinatari dei
messaggi. Dall’altra, la volgarizzazione dei loro contenuti,
ossia la loro preventiva “trasformazione in vista della
moltiplicazione”. Dunque, secondo Morin, la cultura di
massa è ricolma di stereotipi, di cliché. Lo stereotipo è un luogo che offre radicamento e
abitabilità, un oggetto rassicurante che funziona come ambiente connettivo dell’interazione
sociale. Le forme espressive attraverso la pratica della stereotipizzazione esibiscono la
ricorrenza di luoghi frequentati e frequentabili dell’immaginario collettivo, percorsi che
aiutano a entrare in relazione comunicativa con le cose e con gli altri.

Teoria critica e teoria culturologica


Si è poi cominciato ad usare il termine “industria culturale” (creato da Adorno ed
Horkeimer) per definire l’insieme degli apparati di produzione, distribuzione e consumo di
beni culturali che, per quanto diversi nella qualità dei mezzi impiegati e dei pubblici a cui si
rivolgono, funzionano in modi e forme integrate sino a comporre una sola macchina, un
solo sistema complesso. Adorno prima utilizza il termine “Cultura di Massa”, ma in seguito,
per rendere meglio la posizione dell’utente - oggetto e non soggetto di tale cultura - opta
per “industria culturale”, una “preordinata integrazione, dall’alto, dei suoi consumatori”.
Adorno inserisce nella propria critica anche i mass-media, in quanto mezzi fondamentali
per lo sviluppo dell’industria culturale. Infatti, i mass-media non sono degli strumenti
neutrali, riempiti di contenuti ideologici, ma strumenti ideologici per definizione. “L’industria
culturale contemporanea”, scrive Adorno nel 1947, “risulta qualificata dalle tecniche
espressive usate”. Imperativo categorico dell’industria culturale è: “Devi adattarti , senza
specificare a che cosa; adattarti a ciò che immediatamente è, ed a ciò che, senza
riflessione tua, come riflesso della potenza e onnipotenza dell’esistente, costituisce la
mentalità comune”. Adorno se la prende anche con il cinema in quanto provoca un blocco
delle facoltà critico-riflessive dello spettatore, il quale è portato ad identificarsi totalmente
con il film. In quest’ottica apocalittica, il divertimento è “una sorta di prolungamento del
lavoro nell’epoca del tardo capitalismo”, poiché il blocco delle facoltà critico-riflessive porta
ad un’estraneazione simile a quella provocata dal lavoro: l’atrofia mentale assale il
lavoratore-spettatore provocando uno stordimento psichico funzionale alle esigenze del
sistema capitalistico. In questo sistema, “divertirsi significa essere d’accordo”. Il
divertimento industrializzato diventa una forma mentis che induce al consumo.
Secondo Jerry Mander, attivista americano, autore di “Quattro Argomenti per Eliminare la
Televisione” (1977), gli individui atomizzati della società di massa perdono la loro anima di
fronte allo spettacolo dei film, delle soap opera e dei varietà: cadono in uno stato di
stupore, di ipnosi apatica, in quella che Lazarsfeld ha chiamato “disfunzione narcotizzante”
(“narcotizing dysfunction”). L’esposizione ai mass-media trasforma gli individui in ”vittime
irrazionali di falsi voleri” che le corporations tendono a inculcargli mediante la pubblicità,
con la sua continua esortazione ad una cultura di consumo individualistico. Climax, male
tra i mali, dell’industria culturale è dunque la pubblicità, che circonda gli oggetti
pubblicizzati di una serie di qualità e simboli per lo più illusori, che non hanno nulla a che
fare con l’oggetto stesso, ma che il consumatore, inevitabilmente, confonde con esso.
Secondo Adorno, l’intero sistema capitalistico continua a sopravvivere solo grazie alla
massificazione istupidente, in quanto l’industria culturale non fa altro che trasmettere le
ideologie vitali per il sistema stesso. Il termine industria culturale e il termine mass-media
si equivalgono: la pubblicità si è sviluppata attraverso i mezzi espressivi (stampa,
manifesti, fotografia, cinema, radio, televisione) di massa e le loro risorse, esibendo
sempre più le relazioni profonde tra mercato e apparati culturali, sono diventate la base
per l’intero sistema, parte integrante dei suoi processi di socializzazione.
Narcotizing dysfunction - Wikipedia
Anche Pier Paolo Pasolini si mostrò fortemente critico verso i cambiamenti sociali e
culturali che stava producendo la massificazione televisiva, dal momento in cui, agli inizi
degli anni '70, iniziò ad accorgersi che tutti i giovani di borgata avevano iniziato a vestire,
comportarsi, pensare in modo analogo, che la società italiana si stava già omologando a
macchia d'olio. Pasolini chiamò questi fenomeni “mutazione antropologica”, prendendo a
prestito il termine dalla biologia. In biologia la mutazione genetica è determinata prima
dalla variazione e poi dalla fissazione. Nel caso della mutazione antropologica, la
variazione delle mode e dei desideri della collettività è decisa prima nei consigli
d'amministrazione delle reti televisive nazionali e poi viene fissata nelle menti dei
telespettatori tramite pubblicità e messaggi subliminali.
L’Industria Culturale Briciole di Filosofia 23 settembre 2007
[...] Prima parlavo dello scopo dei media e delle élite
opportunamente indottrinate. Ma che dire della maggioranza
ignorante e intrigante? Essa deve in qualche modo essere
distratta. Le si possono propinare semplificazioni e illusioni
emotivamente potenti, cosicché sia capace di scimmiottare la
linea di partito. La linea principale è comunque quella di tenerla
fuori. Le si lasci fare cose prive di importanza, la si lasci urlare
per una squadra di calcio o divertirsi con una soap opera. Ciò
che si deve fare è creare un sistema adatto nel quale ciascun
individuo rimanga incollato al tubo catodico. E' un noto principio
delle culture totalitarie quello di voler isolare gli individui: se ne
discute dal secolo XVIII. Per la cultura totalitaria è estremamente
importante separare tra loro le persone. Quando la maggioranza
"ignorante e deficiente" sta insieme può capitare che si faccia
venire strane idee. Se invece si tengono gli individui isolati, non
è interessante se pensano e quello che pensano. Dunque bisogna tenere la gente isolata,
e nella nostra societa ciò significa incollarla alla televisione. Una strategia perfetta. Sei
completamente passivo e presti attenzione a cose completamente insignificanti, che non
hanno alcuna incidenza. Sei obbediente. Sei un consumatore. Compri spazzatura della
quale non hai alcun bisogno. Compri un paio di scarpe da tennis da 200 dollari, perché le
usa Magic Johnson. E non rompi le scatole a nessuno. Se vuoi uccidere quel bambino
che sta vicino a casa tua, fallo pure, questo non ci preoccupa. Ma non cercare di
depredare i ricchi. Uccidetevi fra voi, nel vostro ghetto. Questo è il trucco. Questo è ciò
che i media hanno il compito di fare. Se si esaminano i programmi trasmessi dalla
televisione si vedrà che non ha molto senso interrogarsi sulla loro veridicità. E infatti
nessuno si interroga su questo. L'industria delle pubbliche relazioni non spende miliardi di
dollari all'anno per gioco. L'industria delle pubbliche relazioni è un invenzione americana
che è stata creata all'inizio di questo secolo con lo scopo, dicono gli esperti, "di controllare
la mente della gente, che altrimenti rappresenterebbe il pericolo piu forte nel quale
potrebbero incorrere le grandi multinazionali". Questi sono i metodi per attuare questo
genere di controllo [...].
("Il Potere dei Media", di Noam Chomsky, Vallecchi, 1994)
IL POTERE DEI MEDIA
Gli “integrati” mettono invece in rilievo la portata sociale dei mezzi di comunicazione di
massa, il grado di emancipazione realizzato grazie al raggio di espansione della loro
fruizione verso strati di popolazione che in precedenza ne erano tradizionalmente esclusi.
Sostengono che le nuove possibilità tecnologiche offrono l’occasione per un allargamento
dell'area culturale in quanto permettono a più persone di partecipare ad una vita culturale
con esiti positivi sia quantitativamente sia qualitativamente. A metà degli anni '70, avviene
una moderata revisione della teoria degli "effetti limitati", ad opera di Blumler che,
riferendosi in particolare agli studi sulle dinamiche elettorali, pone l'accento sulla forza dei
media, diventati i protagonisti della vita pubblica e politica anche grazie all'indebolimento
delle appartenenze politiche e della fedeltà dell'elettorato. La nuova forza dei media si
esplicherebbe soprattutto in un effetto di "agenda setting", cioè di indicazione della
gerarchia di priorità dei temi del dibattito pubblico e della loro visibilità in funzione di criteri
che sono quelli stabiliti dalle regole di funzionamento dei media e non delle effettive
esigenze della società. Per quanto riguarda il pubblico, esso non è completamente
sprovveduto di fronte alla nuova invadenza ed apparente imparzialità dei messaggi dei
media. L'individuo è infatti portatore di una serie di esigenze che ne orientano la scelta di
esposizione ai media, così il ricevente è colui che può decidere di iniziare o meno
l'interazione comunicativa sulla base di un sistema di "uses and gratifications", di risultati
informativi o edonici che può ottenere dall'esposizione sulla base di un suo sistema di
scopi. Il "New look" rappresenta una ricalibratura delle teorie post-comportamentiste
statunitensi che tenta di conciliare l’obiettiva pervasività del sistema dei media con una
funzione attiva dell'audience in termini di capacità di scelta e selezione delle informazioni.
Negli anni ’60, con l’irrompere della semiotica, un nuovo campo di studi nato dall’esigenza
di indagare e decifrare la nuova complessità dell’universo comunicativo, il dibattito tra
apocalittici e integrati si infiamma. Si cominciò dal mettere in discussione la "bullett
theory", il modello di comunicazione lineare che dava per scontata l'interazione
comunicativa tra emittente e ricevente, che ben presto si mostrò del tutto insufficiente a
spiegare i problemi che intervenivano nel processo comunicativo. «Perché il destinatario
possa comprendere il segnale nel modo esatto occorre che, sia al momento
dell'emissione sia al momento della destinazione, si faccia riferimento ad uno stesso
codice». Comincia a entrare in gioco, nell'analisi dei messaggi e dei suoi effetti, anche la
specificità del codice (come è scritto il messaggio) e del ricevente (il suo bagaglio
culturale). Non è più solo una questione di efficienza della trasmissione del messaggio, ma
anche di elaborazione e di interazione. I due soggetti, emittente e ricevente, secondo Eco
cooperano alla costruzione del significato nel luogo virtuale chiamato "testo". Questo
approccio dialogico e costruzionista considera l'interazione comunicativa (il logos) il luogo
privilegiato di negoziazione e di elaborazione delle visioni del mondo. In questa direzione
vanno diverse ricerche che hanno in comune la spiegazione dell'interazione sociale
attraverso variabili come il patrimonio di rappresentazioni, l'appartenenza sociale e
l'asimmetria nel gioco dei ruoli comunicativi. Lo studio della comunicazione interpersonale
nella prospettiva dell'influenza sociale, da cui il concetto di “feedback comunicativo”, si
scontra però con l’asimmetria del rapporto tra media e pubblico, sbilanciato dalla parte dei
media. «Un paradosso di questo momento di sviluppo delle comunicazioni di massa è che
si assiste alla ricerca di una comunicazione con l'utente in un certo senso meno mediata,
a svariati tentativi di coinvolgerlo direttamente con vari espedienti, sollecitandone la
partecipazione attiva al punto da arrivare a programmi di nuova concezione, fatti in un
certo senso a misura degli utenti, che sembrano diventarne gli elementi portanti, i soggetti
principali: enorme differenza rispetto al ruolo classico del fruitore dei media,
prototipicamente rappresentato dal telespettatore, selettore di programmi tramite l'unico
potere che gli sembra concesso, quello cioè dell'uso compulsivo del telecomando». Per gli
integrati, la "neo-televisione" ha mostrato come anche un medium considerato per
antonomasia come unidirezionale e dispotico, possa andare verso una maggiore
interattività e aumentare il grado di partecipazione, fino a superare anche la barriera dello
schermo come con le "piazze elettroniche", in cui il pubblico è autore e attore, o con la
formula "pay per view". Fenomeni televisivi come l'esplosione del "talk-show" hanno
introdotto una forte componente dialogica nella dinamica televisiva. Gli apocalittici invece
sottolineano il carattere fittizio del dialogo messo in scena in televisione.
Dal canto suo, Eco cercava un metodo, un approccio critico,
per scalzare l'opposizione tra apocalittici e integrati. Eco
affermava che anche gli artisti, anche gli “operatori culturali”,
non potevano sottrarsi all'alienazione, perché il “fare poetico o
artistico'' era guidato dalle forme in cui l'artista operava e
articolava la sua visione del mondo. Tuttavia, queste forme
risultano essere schemi conoscitivi (metafore epistemologiche)
atti a formare la realtà. L'apparente stato di crisi dell'artista,
visto non più come collocantesi sopra la realtà, ma, come ogni
persona, all'interno di essa, e le sue capacità di influire su di
essa, spingevano Eco ad elaborare una teoria del simbolico
capace di rendere conto del vero contenuto dell'opera ovvero il “discorso dell'arte”. Sono
gli anni della redazione di “Opera Aperta”. Nel capitolo intitolato “Apertura, Informazione,
Comunicazione'', Eco proponeva una teoria (proveniente dalle discipline fisico-
matematiche e dalla cibernetica) capace di rendere conto della quantità di informazione di
opere d'arte ad alta “entropia''. Con “La Struttura Assente”, Eco avviò poi una polemica
con lo strutturalismo cercando di pervenire ad una teoria semiotica generale applicabile ai
più diversi fenomeni segnici. Pur ammettendo la rilevanza teorica e metodologica dello
strutturalismo, Eco ne critica i presupposti filosofici, sostenendo che non tutti i fenomeni
comunicativi sono spiegabili con le categorie della linguistica. Il dibattito sullo
strutturalismo suscitò subito un vespaio di reazioni. Eco, portando alle ultime conseguenze
alcuni degli aspetti del metodo seguito da Levi-Strauss e dal pensiero di Lacan, aveva
portato alla luce il rischio per il metodo strutturalista di degenerare in strutturalismo
ontologico. Quello di “struttura” poteva essere uno strumento di indagine molto fecondo:
intesa come “sistema di differenze” rette da coesione interna, la sua caratteristica
principale era quella di configurarsi come modello trasponibile da fenomeno a fenomeno, e
quindi di consentire un’analisi interdisciplinare capace di rinvenire sotterranei rapporti di
condivisione e somiglianza, altrimenti invisibili, tra campi del sapere molto lontani. La
struttura diventava quindi un modello, un codice le cui “correlazioni differenziali” potevano
essere utilizzate, se sovrapposte a fenomeni culturali diversi, come matrici di messaggi
nuovi e diversi. Eco si guarda bene dal liquidare il metodo strutturalista, perché sa che “il
funzionamento costante della mente umana é presupposto fecondissimo per ogni ricerca
semiologica”, ma chiede di mantenere in semiologia la “finzione operativa” per la quale la
struttura verrà vista non più come terminus ad quem ma come provvisorio terminus a quo,
come “strumento ipotetico con cui saggiare i fenomeni per condurli a correlazioni più
vaste”, lavorando su “sistemi di convenzioni culturali quali i codici”: una semiologia
operativista in cui il messaggio che arriva al destinatario é sottoposto allo scontro con
“l’iceberg massiccio delle convenzioni sociali (i codici) e delle circostanze che orientano la
scelta dei codici e rappresentano il parametro del referente, che non interviene a
determinare il messaggio ma lo tallona dappresso” (Umberto Eco, “La Struttura Assente
La Ricerca Semiotica e il Metodo Strutturale”, Bompiani, Milano 1968). Nella prospettiva
della struttura assente, il cerchio della semiosi non si chiude mai. Il sistema dei sistemi
semiotici, che potrebbe sembrare un universo culturale idealisticamente separato dalla
realtà, di fatto porta ad agire sul mondo e a modificarlo; ma ciascuna azione modificatrice
si converte a propria volta in segno e dà origine ad un nuovo processo semiosico.
Eco Umberto, La struttura assente. La ricerca semiotica e il metodo strutturale,
Bompiani, Milano, 1968, recensione di Irina Annamaria Di Vora
«Ad avere un ruolo primario non sarà allora questo o quel mattone, ma il grande sistema
chiamato semiosfera» (Lotman, Jurij M., 1985, “La Semiosfera”, Venezia, Marsilio).
Jurij Lotman ha definito la "semiosfera" quello spazio semiotico al di fuori del quale non è
possibile l’esistenza della semiosi. La semiosfera corrisponde all’universo semiotico in cui
viviamo e di cui siamo parte, una sorta di sistema sociale che permette la circolazione dei
testi e dei discorsi. Il concetto introdotto da Lotman è entrato poi a far parte della
biosemiotica che studia i processi comunicativi che avvengono a livello biologico. Mentre
nel campo delle scienze umane, la cosiddetta sociosemiotica negli ultimi anni ha spostato
l'attenzione dei semiologi verso le ricadute sociali delle significazioni, interessandosi alla
dimensione sociale della discorsività, partendo dai testi e dalle loro strutture interne.
Precursore in questa direzione è stato il francese Roland Barthes che per primo ha messo
in rilievo i discorsi sociali veicolati dai media di massa. L'idea che la società si rifletta nei
testi e nei discorsi, quasi osservandosi allo specchio, è uno dei concetti fondamentali di
tale prospettiva (Eric Landowski). Così come il fatto che gli stessi testi o discorsi mediali
siano spesso una sorta di terreno di incontro e di scontro al cui interno diversi soggetti
sociali costruiscono i propri simulacri (o avatar testuali). Dallo strutturalismo si approda
dunque al post-strutturalismo. Roland Barthes definisce la letteratura come «un
messaggio sul senso delle cose e non il loro significato (per "senso" intendo il processo
che produce il significato e non il significato in sé)». Secondo Barthes, il peggior errore che
può commettere uno scrittore è pensare che il linguaggio sia un mezzo naturale e
trasparente attraverso il quale il lettore può cogliere una "verità" o "realtà" solida e
unificata. Al contrario, il miglior scrittore è quello che conosce l'artificialità dello scrivere e
gioca con essa. Il momento di maggior post-strutturalismo in Barthes si ha quando
abbandona le sue pretese scientifiche. Se prima credeva che lo strutturalismo fosse
capace di spiegare ogni tipo di sistema umano, ad un certo punto si rende conto che ogni
cosa, dunque anche ogni linguaggio, può essere spiegato solo grazie ad un linguaggio
che, nel caso sia spiegazione del linguaggio, diventa un metalinguaggio. A sua volta,
questo metalinguaggio è spiegabile da un'altro linguaggio, che diventa dunque pure lui
metalinguaggio, e così via fino a trovare che nessun linguaggio è stato spiegato. In termini
pratici, ciò significa che quando si legge come critici non si può mai uscire fuori dal
discorso e adottare una posizione oggettiva e invulnerabile. Ogni tipo di discorso,
compresi quelli di investigazione critica, è finto, non-veritiero. Ne "La Morte dell'Autore"
(1968), Barthes sancisce la libertà del lettore di fronte al testo: l'autore è morto, non esiste,
è ridotto a mero luogo di incontro di linguaggio, citazioni, ripetizioni, echi e referenze, per
cui il lettore è libero di aprire e chiudere processi di significato del testo, senza nessun
riguardo per i significanti.
Con la conferenza del 1966 "Structure, Sign and Play in the
Discourse of the Human Science", Jacques Derrida fa
definitivamente piazza pulita del “logocentrismo”, l’idea che
esistano dei centri attorno a cui si costruisca il significato.
Derrida si diverte a giocare con la naturale ambiguità e
polisemia del linguaggio, facendo notare ad esempio come la
parola “différance” (da “différer” che significa sia differire che
rinviare) quando pronunciata può essere tranquillamente
scambiata per “différence” (differenza). La dualità della coppia
scritto/orale è un esempio di ciò che Derrida chiama la
“gerarchia violenta”, gerarchia che può essere facilmente
riabaltata attraverso la “decostruzione”. In generale, il post-
strutturalismo esprime una forte critica dell'empirismo,
secondo cui la mente umana, ricevendo le impressioni dal
mondo esterno, organizzandole ed esprimendole attraverso il linguaggio, è l'origine di ogni
conoscenza. Il post-strutturalismo elabora la teoria delle "formazioni discorsive" che rifiuta
la separazione tra oggetto e soggetto: è sempre "in processo", in divenire, anche lo stesso
soggetto. Sono le premesse de “Il Pensiero Debole”, il manifesto filosofico pubblicato nel
1983 da Gianni Vattimo. Tra i tanti saggi che compongono l’opera (scritti, tra gli altri, da
Pier Aldo Rovatti, da Maurizio Ferraris, da Diego Marconi), ne compare uno firmato da
Eco, intitolato “L’Antiporfirio”. In questo scritto, Eco scorge nell’allievo di Plotino, Porfirio,
l’esempio paradigmatico del “pensiero forte” che, poggiando su categorie metafisiche,
pretende di cogliere la verità in via definitiva; ad esso contrappone l’ideale di un “pensiero
debole” che, consapevole dei propri limiti, si pone in ascolto degli altri e si mette
ermeneuticamente in cerca di una verità che sa di non poter mai conquistare
definitivamente. Di qui il concetto di “deriva destinale” dell'essere, concepito non più come
base solida, fondata e fondante, come il monolite autoevidente di Parmenide; l'essere, per
Vattimo, appare “indebolito e poroso”, sempre reinterpretabile e sempre diversamente
reinterpretato. L'Übermensch non è più il soggetto forte del Cristianesimo, estraniatosi dal
concetto di uomo dotato di libero arbitrio, sempre capace di scegliere, sempre
potenzialmente colpevole e sempre punibile da Dio come peccatore. L'Oltreuomo assume,
accetta e fa proprio, col suo amor fati, il destino e la destinazione (Geschick) di tutto ciò
che accade nella natura e nella storia, e in generale nella sua esistenza. «Caduta l'idea di
una razionalità centrale della storia, il mondo della comunicazione generalizzata esplode
come una molteplicità di razionalità "locali" - minoranze etniche, sessuali, religiose,
culturali o estetiche - che prendono la parola, finalmente non più tacitate e represse
dall'idea che ci sia una sola forma di umanità vera da realizzare, a scapito di tutte le
peculiarità, di tutte le individualità limitate, effimere, contingenti».
http://it.wikipedia.org/wiki/Pensiero_debole
http://it.wikipedia.org/wiki/Semiotica
http://www.culturalstudies.it/dizionario/lemmi/semiosfera_b.html
http://it.wikipedia.org/wiki/Semiosfera
Apocalittici e Integrati
http://www.italialibri.net/opere/operaaperta.html
Sul regime di Populismo Mediatico
STRUTTURALISMO E RIVOLUZIONE (di Massimo Introvigne)
Death of the Author - Wikipedia
Deconstruction - Wikipedia
Différance - Wikipedia
La Lotteria a Babilonia Il rapporto media-utenti-realtà nell'evoluzione delle teorie
della comunicazione noemalab

THE MEDIUM IS THE MESSAGE


«Nelle ere della meccanica, avevamo operato un'estensione del nostro corpo in senso
spaziale. Oggi, dopo oltre un secolo di impiego tecnologico dell'elettricità, abbiamo esteso
il nostro stesso sistema nervoso centrale in un abbraccio globale che, almeno per quanto
concerne il nostro pianeta, abolisce tanto il tempo quanto lo spazio».
Sul finire degli anni ’60, Marshall McLuhan, il
grande teorico dei media, profetizza l’avvento del
“villaggio globale”: grazie all'evoluzione dei mezzi
di comunicazione, come il satellite e la
telematica, che rende possibile comunicazioni in
tempo reale da qualsiasi distanza, il mondo si sta
trasformando in un villaggio di dimensioni globali.
I nuovi media elettronici non cambiano solo le
modalità di comunicazione, abbattendo i confini
spaziali e temporali, ma anche la realtà, perché
cambiano il modo in cui la realtà è percepita ed
elaborata, e quindi anche il contenuto dei
messaggi. Diventando “una estensione dei nostri
sensi e alterando il nostro mondo sociale”, ogni
nuovo media distrugge la tradizione e riforma la
socialità. “Il medium è il messaggio”, dice
McLuhan nella sua opera più conosciuta uscita nel 1964, “Understanding Media: The
Extensions of Man” (“Gli Strumenti del Comunicare”), uno studio pionieristico di ecologia
mediatica che ha rivoluzionato tutte le precedenti teorie. In “The Gutenberg Galaxy”
(“Galassia Gutenberg”), del 1962, Mcluhan spiega che quando nuove tecnologie
mediatiche sono introdotte nella società, l’equilibrio dei nostri sensi viene sconvolto,
perché alcuni sensi sono coinvolti maggiormente a spese di altri. Ad esempio, la stampa
ha intensificato la visualità a danno dell’oralità (si è cominciato a leggere e a scrivere più
che a parlare e ad ascoltare). Mcluhan fa l’esempio di una lampadina: non ha un
contenuto come può averlo un articolo di giornale o un programma televisivo, ma è pur
sempre un medium che ha degli effetti sociali in quanto consente alle persone di creare
spazi notturni che altrimenti sarebbero avvolti dall’oscurità. Si tratta di un “medium senza
alcun contenuto che crea un ambiente con la sua sola presenza” (“Understanding Media”).
I media, dunque, non sono mai neutri. Essi stessi costituiscono un messaggio che è
rappresentato dalla loro capacità di modificare profondamente il nostro rapporto con la
realtà circostante e la vita sociale. Se nella cultura orale la parola è una forza viva,
risonante, attiva e naturale, nella cultura alfabetica la parola diventa un significato mentale,
legato al passato. Con l'invenzione di Gutenberg queste caratteristiche della cultura
alfabetica si accentuano e si amplificano: tutta l'esperienza si concentra su un solo senso,
cioè la vista. La stampa può essere allora vista come una tecnologia dell'individualismo,
del nazionalismo, della quantificazione, della meccanizzazione, dell'omogeneizzazione, la
tecnologia che ha reso possibile l'era moderna. “La stampa ha creato un nuovo ambiente
sensoriale da cui sono nate le società capitalistiche occidentali basate sulla burocrazia,
organizzate intorno alla produzione di massa, centrate sull’ideologia dell’individualismo e
dipendenti dallo stato-nazione come unità sociale fondamentale» (Croteau & Hoynes,
2003). McLuhan ha adattato dalla psicologia Gestalt la metafora della figura e lo sfondo
per spiegare come la forma della tecnologia comunicativa, il medium o la figura, debba
necessariamente operare in un determinato contesto, lo sfondo. Per poter pienamente
comprendere l’effetto di una nuova tecnologia, bisogna esaminare insieme la figura (il
medium) e lo sfondo (il contesto). Bisogna cioè studiare i media in relazione al loro
contesto storico e alle tecnologie precedenti. L’ambiente del presente, prodotto dagli effetti
delle tecnologie del passato, dà origine a nuove tecnologie che influenzano gli individui e
le società. Tutte le tecnologie sono il prodotto delle loro stesse assunzioni riguardo il
tempo e lo spazio. Il messaggio che il medium
convoglia può essere compreso solo se si
analizzano insieme la figura e lo sfondo, il medium
e l’ambiente in cui opera, e che contribuisce a
modificare. Solo l’esame della relazione tra figura
e sfondo può offrire un commento critico della
cultura e della società.
THE MEDIUM IS THE MASSAGE
In “The Medium is the Massage: An Inventory of
Effects” (1967), McLuhan gioca con la sua stessa
definizione per mettere in risalto che ogni media
ha un diverso effetto sul sistema sensoriale
umano. In effetti, ogni media “massaggia” alcuni
sensi in particolare. Mentre alcuni sensi sono
sovra-sollecitati, altri quasi atrofizzati. La vista, per
esempio, favorisce, più degli altri sensi,
l'esperienza intellettuale e l'analisi, mentre l’udito e
il tatto sono piuttosto legati alla percezione
emotiva e all'intuizione. Per questo, l’orientamento
sensoriale determinato dai media ha un’influenza determinante sull'orientamento generale
di una cultura, sui suoi presupposti, sui paradigmi, sui pregiudizi, sulle sue apprensioni e le
sue aspirazioni. Il contenuto ha molta meno importanza di quanto generalmente si
supponga. L'influenza reale dei media non si manifesta a livello di concetti e di opinioni,
ma molto più profondamente nelle strutture generative dei processi che permettono la
formazione e la ricezione dei concetti e delle opinioni. Per questo, secondo McLuhan, il
medium è sia il messaggio che il massaggio. «Ogni invenzione o tecnologia - scrive
McLuhan - è un’estensione o un’autoamputazione del nostro corpo, che impone nuovi
rapporti o nuovi equilibri tra gli altri organi e le altre estensioni del corpo»: La ruota, ad
esempio, sostituisce il piede, ma nello stesso tempo gli toglie le sue più importanti
funzioni: è dunque una specie di amputazione. L’estensione tecnologica di una facoltà
comporta anche la sua amputazione, imprime uno shock traumatizzante sullo psichismo
secondo un processo di desensibilizzazione o intorpidimento. McLuhan afferma che le
nuove tecnologie effettuano una specie di “chirurgia collettiva”. A ciò si deve il senso di
alienazione e di atomizzazione che si riflette nel crollo di venerabili valori sociali, travolti
dal vortice della nuova tecnologia. «Ogni medium caldo richiede una minore
partecipazione rispetto ad uno freddo, come una lettura richiede meno partecipazione di
un seminario o un libro di un dialogo” (“Understanding Media”). Se la caratteristica più
importante di un medium è la modalità del suo impatto sensoriale, si può stabilire una
distinzione tra i media in base al loro “effetto termico”. Mcluhan distingue in scala, non in
maniera dicotomica, i media “caldi”, ad “alta definizione”, come il cinema, che esaltano un
senso in particolare (la visione), dai media “freddi”, a “bassa definizione”, come la tv, che
richiede un maggiore sforzo da parte dello spettatore per comprendere il significato dei
messaggi, e i fumetti, che per via della presentazione minima del dettaglio visivo
richiedono uno sforzo maggiore per mettere a fuoco le immagini. In generale, i medium
freddi richiedono una maggiore partecipazione della coscienza del fruitore per poter
estrarre valore dal contenuto dei messaggi. Alcuni media secondo McLuhan assolvono
soprattutto la funzione di rassicurare e uno di questi è la televisione, che per lui era un
mezzo di conferma: non era un medium che desse luogo a novità nell’ambito sociale o
nell’ambito dei comportamenti personali. La televisione non crea delle novità, non suscita
delle novità, è un mezzo che conforta, consola, conferma e "inchioda" gli spettatori in una
stasi fisica (stare per del tempo seduti a guardarla) e mentale (poiché favorisce lo sviluppo
di una forma mentis non interattiva, al contrario di Internet e di altri ambienti comunicativi a
due o più sensi).
«Viviamo sotto una pioggia ininterrotta d'immagini; i più potenti media non fanno che
trasformare il mondo in immagini e moltiplicarlo attraverso una fantasmagoria di giochi di
specchi: immagini che in gran parte sono prive della necessità interna che dovrebbe
caratterizzare ogni immagine, come forma e come significato, come forza d'imporsi
all'attenzione, come ricchezza di significati possibili. Gran parte di questa nuvola
d'immagini si dissolve immediatamente come i sogni che non lasciano traccia nella
memoria; ma non si dissolve una sensazione d'estraneità e di disagio. Ma forse
l'inconsistenza non è nelle immagini o nel linguaggio soltanto: è nel mondo» (Italo
Calvino).
Sulle orme di McLuhan, il suo ex allievo Derrick De Kerchove ha sviluppato il concetto di
“brainframe”, l’idea secondo cui le tecnologie di elaborazione dell’informazione
"incorniciano" il nostro cervello in una struttura sfidandolo a fornire un modello diverso, ma
egualmente efficace, di interpretazione (“Brainframes. Mente, Tecnologia, Mercato”,
Baskerville, Bologna, 1993). La scrittura, la televisione, il computer, costituiscono una
cornice che inquadra non solo i contenuti relativi alla nostra personale esperienza, ma
anche il modo con cui rapportarci ad essi. Quindi, imparare a leggere e scrivere un testo
alfabetico condiziona le operazioni di base della coordinazione occhio-cervello.
Un concetto simile ma più
esteso è quello di “mediascape”
(paesaggio mediatico),
secondo cui l’immaginario
visuale dei media, che si nutre
di libri, riviste, televisione,
cinema e, in particolare, della
pubblicità, modifica l’ambiente
e il paesaggio, sia direttamente
(in forma di posters e cartelloni)
che più sottilmente,
modificando, attraverso
tecniche persuasive e una
presenza pervasiva sempre
maggiore, il modo in cui le
persone percepiscono la realtà.
La parola è usata anche per riferirsi ad una determinata cultura delle immagini, ad es. il
mediascape americano o inglese. Il termine è stato coniato da Arjun Appadurai, tra i
rappresentanti del postmoderno, nel 1990, che l’ha usato per descrivere e situare il ruolo
della stampa e dei media elettronici nei “flussi culturali globali” che valicano i confini locali
in modo fluido e irregolare. Per Appadurai, il mediascape nasce dalle capacità elettroniche
di produzione e disseminazione dei segni, così come “le immagini del mondo create dai
media”. L’ecologia mediatica (“media ecology”) può essere definita come lo studio del
mediascape inteso come l’ambiente risultante dall’interazione dei vari media, sempre
secondo l’idea che le tecniche e le tecnologie, i modi di informazione e i codici di
comunicazione, giochino un ruolo cruciale nelle società umane. La parola ecologia implica
lo studio di ambienti: la struttura, il contenuto e l’impatto sulle persone ("What is Media
Ecology?", Media Ecology Association). Nel 1977, McLuhan dice che ecologia dei media
significa «arrangiare i vari media in modo che si aiutino l’un l’altro, che si sostengano l’un
l’altro, invece di eliminarsi l’un l’altro. Ad esempio, la radio può fornire un grande aiuto alla
letteratura molto più che la televisione mentre la televisione può essere di grande aiuto
all’insegnamento» (“Understanding Me: Lectures and Interviews”, MIT Press, 2004). Cioè,
alcuni media possono svolgere meglio determinate funzioni di altri. Perciò, considerare
tutti i media come facenti parte di un unico campo di azione, può aiutare a prevenire usi
errati del mezzo. «Telefono, radio, televisione, computer e gli altri media si combinano nel
creare ambienti che insieme istituiscono un universo intermedio di elaborazione delle
immagini». Ne "La Pelle della Cultura", de Kerckhove sostiene che i media elettronici
estendono non solo il nostro sistema nervoso e i nostri corpi, ma anche e soprattutto la
nostra psiche. Definisce psicotecnologia «qualunque tecnologia emuli, estenda o
amplifichi il potere della nostra mente». La televisione è una psicotecnologia per
eccellenza: essa viene intesa come un organo collettivo di teledemocrazia, che utilizza
indagini di mercato e sondaggi per "scrutare il corpo sociale come ai raggi X". Ciò avviene
perché la televisione è la proiezione del nostro "inconscio emotivo" ed allo stesso tempo
una esteriorizzazione collettiva della psicologia del pubblico. La TV è letteralmente, come
l'ha definita Bill Moyers, una “mente pubblica". L’ambiente psicotecnologico del
mediascape, sovrapponendosi all’esplorazione attiva dell’ambiente reale, modificando le
relazioni sociali, rischia di far collassare le differenze tra il mondo reale e la sua
rappresentazione mentale, immergendoci in un ambiente artificiale opaco ed omogeneo in
cui si perde progressivamente ogni contatto con la complessità e la vitalità del mondo
vero. «La realtà virtuale si sarebbe anche potuta definire immaginazione artificiale o
coscienza artificiale [...] È perché oggi possiamo includere stimoli sensoriali come visione,
udito e tatto artificiali nel nostro apparato sensorio che siamo in grado effettivamente di
considerare la possibilità della coscienza artificiale [...] Solo con l'aggiunta dell'interazione
sensoriale possiamo ricostruire al di fuori del nostro corpo il tipo di interiorità caratteristica
della coscienza umana» (Howard Rheingold).
Neanche la più avanzata realtà virtuale, con la sua molteplicità di configurazioni di stimoli
e percorsi esplorativi complessi, potrà mai prevedere le infinite possibilità che la fantasia
della mente umana riesce a generare. Neanche il più potente e complesso dei computer
programmato per generare ambienti virtuali, sarà mai in grado di restituire la
straordinarietà di un mondo in continua trasformazione. La questione posta dalla virtualità
non riguarda solo le tecnologie della realtà virtuale, ma più in generale la complessità
dell’azione dei media e le modificazioni psicotecnologiche prodotte dal “remapping”
sensoriale. Nella visione apocalittica, iI “sublime neo-tecnologico”, questa sorta di estasi
della comunicazione di massa provocata dalle psicotecnologie, equivale al trionfo del
pensiero debole, perché produce un soggetto debole, sopraffatto dalla tecnologia, e
configura una vera e propria mutazione antropologica.
«Aspettavamo tutti il 1984. Venne, ma la profezia
non si avverò; gli americani più riflessivi tirarono
un sospiro di sollievo, congratulandosi per lo
scampato pericolo. La democrazia aveva resistito.
Altrove nel mondo forse c'è stato il terrore; a noi
furono risparmiati gli incubi di Orwell. Avevamo
dimenticato che, oltre alla visione infernale di
Orwell, qualche anno prima c'è n'era stata un'altra,
forse meno nota anche se altrettanto raggelante:
quella del Mondo Nuovo di Aldous Huxley.
Contrariamente a un'opinione diffusa anche tra le
persone colte, Huxley e Orwell non avevano
profetizzato le stesse cose. Orwell immagina che
saremo sopraffatti da un dittatore. Nella visione di
Huxley non sarà il Grande Fratello a toglierci
l'autonomia, la cultura e la storia. La gente sarà
felice di essere oppressa e adorerà la tecnologia
che libera dalla fatica di pensare. Orwell temeva
che i libri sarebbero stati banditi; Huxley, non che i
libri fossero vietati, ma che non ci fosse più
nessuno desideroso di leggerli. Orwell temeva
coloro che ci avrebbero privato delle informazioni;
Huxley, quelli che ce ne avrebbero date troppe,
fino a ridurci alla passività e all'egoismo. Orwell
temeva che la nostra sarebbe stata una civiltà di
schiavi; Huxley, che sarebbe stata una cultura cafonesca, ricca solo di sensazioni e
bambinate. Nel Ritorno al mondo nuovo, i libertari e i razionalisti - sempre pronti ad
opporsi al tiranno - “non tennero conto che gli uomini hanno un appetito pressoché
insaziabile di distrazioni”. In 1984, aggiunge Huxley, la gente è tenuta sotto controllo con
le punizioni; nel Mondo nuovo, con i piaceri. In breve, Orwell temeva che saremmo stati
distrutti da ciò che odiamo, Huxley, da ciò che amiamo. Il mio libro si basa sulla probabilità
che abbia ragione Huxley, e non Orwell».
In “Divertirsi da Morire” (“Amusing Ourselves to Death Public Discourse in the Age of
Show Business”, 1985), Neil Postman, partendo dall’esempio degli Stati Uniti anni ’80,
dimostra come la televisione abbia provocato un declino inarrestabile della cultura basata
sul confronto razionale e sulla “mentalità tipografica” a beneficio di un’informazione ormai
totalmente asservita a dei diktat “spettacolari”. Tesi fondamentale del libro è il confronto tra
due tipologie di società: la prima, più conosciuta e temuta, è quella profetizzata da George
Orwell in “1984”, con un Grande Fratello che vigila e controlla i nostri comportamenti
sociali intervenendo sulle “devianze”; la seconda è invece quella, quasi sconosciuta,
descritta da Aldous Huxley ne “Il Mondo nuovo”, una dittatura travestita da democrazia
che controlla i propri cittadini non attraverso le punizioni, ma attraverso i piaceri. Postman
parte dall’ipotesi di Huxley per dimostrarci come la nostra cultura, sempre più triviale e
cafonesca, ci abbia condotto ad una realtà molto più terribile di quella delle dittature
totalitarie, dove alla strategia della tensione si è sostituita quella della finzione. «Ci sono
due modi», scrive Postman, «per spegnere lo spirito di una civiltà: nel primo - quello
orwelliano - la cultura diventa una prigione. Nel secondo - quello huxleiano - diventa una
farsa. Nella profezia di Huxley non c’è un Grande Fratello che, per sua scelta, guarda
verso di noi. Siamo noi, per nostra scelta, a guardare verso di lui. Non c’è bisogno di
carcerieri, cancelli, telecamere. Quando una popolazione è distratta da cose superficiali,
quando la vita culturale è diventata un eterno circo di divertimenti, quando ogni serio
discorso pubblico si trasforma in un balbettio infantile, quando un intero popolo si
trasforma in spettatore e ogni pubblico affare in vaudeville, allora la nazione è in pericolo:
la morte della cultura è chiaramente una possibilità». La differenza sostanziale è che un
mondo alla Orwell è molto più facile da riconoscere e quindi da combattere rispetto alla
dittatura invisibile del “Mondo nuovo”: «Siamo tutti pronti ad abbattere una prigione,
quando i cancelli stanno per rinchiudersi su di noi. Ma che succede se non si odono grida
d’angoscia? Chi è disposto a prendere le armi contro un mare di divertimenti? ». Postman
è critico anche verso il circo mediatico e l’informazione-spettacolo. Le notizie, qualunque
sia la loro natura, vengono date in pochissimi secondi, si susseguono a ritmo frenetico,
senza logica, impossibili da ricordare: «non è possibile dare un senso di serietà ad un
avvenimento, se tutto quello che lo riguarda si esaurisce in meno di un minuto ». I
giornalisti vengono scelti tra coloro che riescono a dare un senso di tranquillità al pubblico:
«alcuni conservano un entusiasmo uguale e invitante, anche quando annunciano un
terremoto, un’uccisione in massa o altri disastri». Non esiste più l’informazione perché
tutto è diventato intrattenimento, tutto provoca emozione (sensazionalismo) anziché
opinione. «Non ho obiezioni contro la paccottiglia televisiva. Anzi, sono proprio queste le
cose migliori della televisione e nulla e nessuno è seriamente minacciato da esse», spiega
l’autore. La televisione diventa invece «pericolosa quando ha maggiori pretese». Quando il
dibattito elettorale è costruito come la pubblicità di un qualsiasi detersivo, quando l’aspetto
fisico conta più delle idee, quando crea incoerenza e banalità, incapacità di ragionare, di
elaborare idee, di socializzare e «presenta l’informazione in una forma che la rende
semplicistica, astorica e acontestuale». È un mondo in cui «conta di più avere in mente
immagini che parole».
Secondo de Kerckhove, «l'accelerazione delle tecnologie e delle comunicazioni
riconsentirà di rallentare i nostri ritmi e di scoprire la vera quiete. Quiete che può fornire lo
scenario per una necessaria trasformazione psicologica, dato che, in ultima analisi, il
potere cybertecnologico comporterà anche un impegno volto ad una maggiore
conoscenza di sé».
Grazie alle nuove possibilità di accesso alle comunicazioni satellitari e alle infinite
connessioni via Internet, siamo diventati tutti individui globali. Dal punto di vista
dell'utenza, lo scenario è apparentemente ideale: abbiamo una vasta scelta di fonti, di
programmi, di informazioni; abbiamo la possibilità di confrontare opinioni, idee e posizioni.
La massa delle informazioni generate dal sistema mediatico pare offrire un panorama che
è espressione della più ampia libertà e soprattutto della più ampia potenzialità di strumenti
per le decisioni. L'utente dei media vive dunque nella interiore consapevolezza che la
proposta dei contenuti da parte dei media gli consente di "essere informato per
apprendere e per crescere, come cittadino e lavoratore". In realtà, la stessa proposta di
una larga massa di informazione genera situazioni di stress informativo (“information
overload”) che superano la capacità di metabolismo dell'utenza. Troppa informazione =
nessuna informazione. Ciò è registrabile sia nella proposta di informazioni da parte dei
vecchi media, ma ancora più nella gestione dei messaggi proposti dai nuovi media, per i
quali si sono cominciati a generare sistemi automatici di selezione delle informazioni in
arrivo sulla propria stazione (cfr. K. Hafner, ”Have Your Agent Call My Agent”, Newsweek,
27 febbraio 1995).
«I media fanno parte di un sistema di propaganda ben congegnato. Il modo più abile per
mantenere la gente passiva e obbediente è limitare rigorosamente lo spettro delle opinioni
accettabili, ma permettere dibattiti molto vivaci all’interno di questo spettro incoraggiando
perfino le posizioni più critiche e dissenzienti» (Noam Chomsky).
La massa di dati e notizie disconnessa da un sistema di filtraggio, ovvero dalla capacità di
navigare attraverso di essi, si riduce ad un "diluvio” informativo che sommerge la
coscienza, vanificando il senso stesso della proposta informativa.
«Vediamo passare l'enorme magma dell'informazione e di fronte ad esso restiamo come
sospesi in uno stato di totale indifferenza» (J. Baudrillard, "La comunicazione uccide la
realtà», intervista di P. Marcesini, Reset, aprile 1995).
Lo stress informativo può generare anche reazioni di rigetto e quindi creare un effetto
boomerang rispetto all'ipotesi di arricchire, attraverso l'informazione, la conoscenza e il
senso di responsabilità dei singoli utenti. Un esempio di questo smarrimento indotto nel
fruitore è la schizofrenia tipica dei messaggi pubblicitari che segue una logica del consumo
del tutto irrazionale e incoerente: [...] Per ogni messaggio televisivo che dice "Dite no alla
droga" [...] ve ne sono 6 che dicono: "Se non ti senti bene, prendi una droga o un farmaco
per modificare il tuo stato". Non riesci a dormire? Prendi qualcosa. Non riesci a stare
sveglio? Prendi qualcosa. Vuoi dimagrire? Prendi qualcosa. Ti senti un po' giù? prendi
qualcosa, oppure beviti una birra o un bicchiere di vino. [...] (J. Condry, “Ladra di tempo,
serva infedele”, in “Cattiva maestra televisione”, I libri di Reset, 1994).
Rimane un problema di fondo: l’informazione è a senso unico. Pochi la producono, molti la
ricevono. Chi ha le leve, chi dirige, chi controlla l’informazione, controlla la conoscenza (e
la coscienza). Il resto dell’umanità la subisce. In "The Third Wave" (New York, Bantam,
1980, trad. it. "La Terza Ondata", Sperling & Kupfer Editori, Torino, 1987), Alvin Toffler
aveva parlato della nascita di un nuovo tipo di utente, il "prosumer", contemporaneamente
produttore e consumatore della "merce" informativa. Grazie ai media alternativi come
Internet e alla possibilità di fare “contro-informazione”, cioè fornire una descrizione del
mondo più critica, più coerente, più veritiera, opposta rispetto all’informazione spettacolare
iper-reale, del tutto slegata dalla realtà, si può cercare di favorire il dialogo e il confronto
tra persone anche distanti fisicamente e instaurare un processo realmente democratico di
relazioni sociali. Già nel 1973, Ivan Illich aveva proposto il concetto di “strumenti conviviali”
(cioè di “media partecipativi” o “citizen media”), riferendosi alle tecnologie che incentivano
le interazioni creative tra gli individui. Undici anni dopo, David Andrews ha diffuso l’idea di
“information routing groups” (IRG), ovvero “gruppi di spedizione delle informazioni”,
costituiti da decine o centinaia di persone, ognuna delle quali può proporre e diffondere
notizie e\o commenti su argomenti che maggiormente gli aggradano. Andrews ha
anticipato ciò che poi si sarebbe realizzato su Internet con i blog e i social networks,
ovvero la possibilità di creare una rete di individui capaci di diffondere notizie e\o pareri
personali in alternativa ai media ufficiali. La diffusione della rete Internet, a partire da metà
degli anni ‘90, ha favorito la nascita e lo sviluppo di siti, forum, chat, blog. social networks
aperti al pubblico senza restrizioni rilevanti, dove ognuno è più o meno libero di “postare” e
diffondere commenti e notizie. Il più importante di questi progetti autogestiti è stato
sicuramente quello di “Indymedia”, una rete di collettivi che si autogestiscono e fanno
controinformazione dal basso, senza alcuna speculazione economica e in maniera
indipendente dai media istituzionali e commerciali, ma ne sono nati tantissimi più o meno
simili.
«World War III will be a guerrilla information war, with no division between military and
civilian partecipation» (Marshall McLuhan).
La questione dell’informazione connessa alla democrazia e alla costruzione di un ordine
sociale si trasforma allora in “guerra dell’informazione”. Lo stesso McLuhan diceva che la
guerra d’informazione sarebbe stata la guerra del XXI secolo e che avrebbe coinvolto tutti i
cittadini, non solo i militari professionisti. In questi ultimi anni si sono affermate diverse
pratiche contro-culturali che hanno preso il nome di “media-attivismo”, “hacktivismo”,
“artivismo”: si è cominciato a parlare di “media tattici”, di “communication guerrilla”, con
riferimento ad un uso consapevole, artistico e guerrigliero dei media underground in
contrapposizione a quello dei media mainstream.
«Niente è vero, tutto è falsificabile».
L'agguerrito pamphlet “Disinformation Technology” (edito da
Apogeo), di Stefano Porro e Walter Molino, descrive efficacemente
i mutamenti dello scenario dell'informazione globalizzata e in real-
time.
[…] Se da un lato la rete permette la libera circolazione delle idee e
la possibilità di giungere direttamente alle fonti dell'informazione,
dall'altro può essere usata come un mezzo potentissimo per
stravolgere la realtà e diffondere menzogne e falsità. Grazie al suo
peculiare status di mezzo interattivo e accessibile a chiunque,
Internet costituisce lo strumento ideale per la realizzazione di
bufale, che possono conoscere una diffusione immediata e
causare effetti devastanti. Se la contro-informazione (intesa come opposta alle notizie del
regime) trova spazio sulla rete, lo stesso vale anche per la disinformazione e la
menzogna, che possono essere dipanate con una velocità fulminante.
Dietro la notizia c'è sempre l'artificio e mai la rappresentazione oggettiva di un presunto
mondo dei fatti. L'evento e la sua rappresentazione non sono più dissociabili, ma il
medesimo processo. L'informazione diventa allora un mezzo per produrre realtà e per far
crescere le possibilità della nostra conoscenza e della nostra esperienza. L'informazione
diventa così arte, arte della guerra (di informazione).
Tuttavia appare chiaro che, se la menzogna diventa iperbolica, si tarpa le ali da sola,
perché perde la sua peculiare complessità, e non fa nient'altro che riaffermare la potenza
del vero. Benvenuti nel World Wide Fiction […].
[…] La rivoluzione copernicana della communication research ha capovolto il modello
asimmetrico, dove le strategie editoriali, i messaggi e la commercializzazione erano
comunque imposti dall'industria culturale, in quello di una galassia di comunicazione in cui
media ed utenti giocano i loro ruoli ed i loro rapporti di potere. Il terreno su cui avviene
questa interazione è proprio quello della costruzione sociale della realtà, che si identifica
sempre di più con il flusso comunicativo. L'interazione tra media è utenti sarà in futuro
quella infrastruttura della realtà che per tanto tempo la ricerca ha identificato con il solo
sistema produttivo dei mass media. Questa infrastruttura tenderà verso una progressiva
de-materializzazione che la renderà trasparente agli utenti ed agli operatori dei media
diventando sempre più simile alla "Compagnia" che in un racconto di Borges organizza la
lotteria a Babilonia nella quale tutti gli abitanti della città costruiscono i loro destini
puramente simbolici e "virtuali" presi in un gioco con e sulla realtà da loro stessi creato:
"poiché Babilonia, essa stessa, non è altro che un infinito gioco d'azzardo […] (Stefano
Nobile, “Tecnologie, Mass Media, Mente, Società”).
Molino Walter e Porro Stefano: Disinformation technology
The Third Wave (book) - Wikipedia
Information Routing Group - Wikipedia
Citizen media - Wikipedia
Nuovi media - Wikipedia
Media activism, strategie e forme della comunicazione indipendente
TACTICAL MEDIA - Wikipedia
COMMUNICATION GUERRILLA - Wikipedia
DISOBBEDIENZA CIVILE ELETTRONICA - Wikiartpedia
La disobbedienza civile dalle strade al cyberspazio Repubblica 14 novembre 1998
Internet: Dalla Cina alla Serbia infuria l'InfoWar
Infowar, ossia la scienza per la manipolazione dell'informazione
http://ita.anarchopedia.org/media
http://ita.anarchopedia.org/Controinformazione
La sparizione del reale. Lettura critica del linguaggio dei mass media Arianna
Editrice 06-02-2007
Postman: Divertirsi da morire carmillaonline 16 ottobre 2003
RESISTERE AI MASS MEDIA ITTIG 1996
http://en.wikipedia.org/wiki/Marshall_McLuhan
http://en.wikipedia.org/wiki/Mediascape
http://it.wikipedia.org/wiki/Mass_media
Media ecology Wikipedia
Derrik de Kerckhove - "il brainframe"
http://it.wikipedia.org/wiki/Controinformazione
Medium theory Wikipedia
INFOWAR 2.0
GIORNALISMO OPEN SOURCE 2.0
INFORMATION OVERLOAD
TEORIA DELL’INFOCAOS
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