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LA CHIESA AUTOCTONA DI SAN CRISTOBAL DE LAS CASAS

Mauro Castagnaro
La revoca, alla fine dello scorso anno, del blocco a nuove ordinazioni di diaconi permanenti indigeni, deciso
nel 2000 dalla Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, ha riacceso i riflettori
sullesperienza ecclesiale della diocesi di San Cristobal de Las Casas, nello Stato messicano del Chiapas. Qui
negli ultimi decenni si sviluppato il tentativo forse pi organico di costruire una Chiesa autoctona
secondo le indicazioni del Concilio Vaticano II, il quale nel Decreto sullattivit missionaria della Chiesa
Ad Gentes auspicava che dal seme della parola di Dio si sviluppino Chiese particolari autoctone, fondate
dovunque nel mondo in numero sufficiente. Chiese che, ricche di forze proprie e di una propria maturit e
fornite adeguatamente di una gerarchia propria, unita al popolo fedele, nonch di mezzi consoni al loro genio
per viver bene la vita cristiana, portino il loro contributo a vantaggio di tutta quanta la Chiesa (n. 6).
Labrogazione del divieto era stata preceduta dal riferimento fatto da Papa Francesco quando, discutendo con
dom Erwin Krutler, il vescovo austro-brasiliano dello Xingu, di come si potesse risolvere il problema delle
centinaia di comunit cristiane dellAmazzonia impossibilitate a celebrare leucaristia pi di due o tre volte
l'anno per lassenza di clero, aveva ricordato che a San Cristbal de Las Casas centinaia di diaconi sposati
delle varie etnie indigene guidano le loro comunit e manca loro solo lordinazione presbiterale per poter
presiedere anche la celebrazione eucaristica.
Inoltre nellEvangelii Gaudium, sulla base della concezione della Chiesa come popolo di Dio dai molti
volti (n. 115-118 e 129) e della convinzione che il cristianesimo non dispone di un unico modello culturale,
bens, restando pienamente se stesso, nella totale fedelt allannuncio evangelico e alla tradizione
ecclesiale, esso porter anche il volto delle tante culture e dei tanti popoli in cui accolto e radicato,
Francesco ha affermato con chiarezza la necessit di una decentralizzazione della Chiesa, non ritenendo
opportuno che il Papa sostituisca gli Episcopati locali nel discernimento di tutte le problematiche che si
prospettano nei loro territori (n. 16), ma anzi che le Conferenze episcopali vadano valorizzate come
soggetti di attribuzioni concrete, includendo anche qualche autentica autorit dottrinale (n. 32).

Storia di una Chiesa autoctona

Il tentativo di realizzare una Chiesa autoctona rappresenta uno dei maggiori impegni dellepiscopato di
mons. Samuel Ruiz, vescovo di San Cristobal de Las Casas dal 1960 al 2000, e probabilmente quello cui il
suo nome destinato a rimanere legato. Nessun altro presule, infatti, ha quanto lui riflettuto e provato a
tradurre in pratica questo tema, che costituisce il nocciolo di una delle due o tre questioni decisive per la
Chiesa cattolica del futuro: come coniugare la sua pretesa di universalit (Chiesa cattolica, appunto) e il
suo radicamento nelle tradizioni esistenti nel mondo, un mondo ormai globale, ma che respinge la
superiorit di una civilt rispetto alle altre e lomologazione delle culture?
Caratteristica fondamentale della diocesi di San Cristobal de Las Casas la sua multietnicit, in quanto oltre
due terzi della popolazione indigena, appartenente a cinque gruppi maggiori etnico-linguistici (tsotsiles,
tzeltales, choles, tojolabales e zoques) e altre minoranze, mentre il resto meticcia. Storicamente, e al di l
delle coraggiose denunce del suo primo vescovo, fra Bartolom de Las Casas, nei confronti degli
encomenderos spagnoli la Chiesa cattolica in Chiapas ha fatto parte del sistema coloniale di sfruttamento
delle popolazioni autoctone, poich per sopravvivere esigeva dagli indios lavoro gratuito, pagamento dei
servizi religiosi e delle imposte della Corona, per conto della quale riscuoteva le tasse. Daltro canto la sua
presenza istituzionale era per varie ragioni (dispersione della popolazione, difficolt di comunicazione e
spostamento, espulsione del gi ridotto personale apostolico da parte dei governi anticlericali, ecc.) debole, il
che aveva portato alla diffusione di una religiosit popolare in cui le credenze cattoliche si mescolavano con
espressione precolombine, con modalit tradizionali di accedere al sacro (riti, danze, consumo di alcol, ecc.)
e una rete complessa di mediatori organizzata in un sistema di servizi: curanderos, nahuales, rezadores,
martomas, capitanes, mayordomos, alfereces, ecc. Solo alla met del XX secolo il vescovo Lucio
Torreblanca inizia una pastorale rivolta ai nativi (anche per contrastare la crescente presenza protestante)
attraverso la formazione di catechisti indigeni, col compito di insegnare la dottrina e prendersi cura delle
cappelle cattoliche. Questa opzione inizialmente proseguita dal successore, mons. Ruiz, ma ben presto il
crescente protagonismo sociale delle comunit autoctone e il cambiamento di prospettiva maturato dopo il
Concilio Vaticano II spingono la Chiesa locale a non considerare pi le culture indigene segno e causa
dellarretratezza materiale della regione, il cui superamento sarebbe avvenuto anche grazie alla loro
sostituzione col cattolicesimo, ma a cogliere lurgenza di superare il colonialismo religioso e rivalutare i
semi del Verbo presenti nelle tradizioni autoctone, in vista di una inculturazione del Vangelo. Cos alcuni
riti e alcune pratiche prima giudicate stregonerie vengono accolte nelle celebrazioni cattoliche (dalle
preghiere sulle colline ai riti del parto), sono avviate le traduzioni della Bibbia nelle lingue locali e promossi
nuovi ministeri ecclesiali, innestandoli sul sistema di autorit e servizi delle comunit tradizionali. Momento
chiave di questo percorso il Congresso indigeno del 1974, convocato per celebrare il V Centenario della
nascita di fra Bartolom de Las Casas: la diocesi, che aveva approfondito il proprio impegno sociale,
muovendosi dalla promozione di attivit assistenziali allo sviluppo di una catechesi integrale (cio mirante
non solo a comunicare contenuti religiosi, ma a influenzare tutti gli aspetti della vita personale e
comunitaria), si trova a fare i conti con la richieste delle comunit originarie di denunciare la situazione di
oppressione vissuta dagli indios e risponde con la opzione per i poveri, che in Chiapas hanno soprattutto
volto nativo e contadino, e col progetto di costruzione di una Chiesa autoctona, avviando la formazione di
diaconi permanenti indigeni (i primi ordinati nel 1981) e la promozione di ministeri laicali a tempo
determinato (tuhuneles). Lospitalit offerta a decine di migliaia di rifugiati guatemaltechi, in fuga dalla
repressione dei militari del loro paese, e il sostegno delle lotte dei contadini per la terra, pone la diocesi nel
mirino di latifondisti e autorit locali, con lespulsione di alcune religiose e preti stranieri, ma anche con la
nascita del Centro per i diritti umani Fray Bartolom de Las Casas. Dopo linsurrezione dellEsercito
zapatista di liberazione nazionale (Ezln) a questo lavoro si aggiunto quello nella Commissione nazionale
di intermediazione (Conai) tra governo e guerriglia, fino alla firma, due anni dopo, degli Accordi di San
Andrs Larrainzar, mai ratificati del Parlamento messicano.

Che cosa la Chiesa autoctona

Come recitano gli accordi del III Sinodo diocesano di San Cristobal de Las Casas, svoltosi dal 1995 al
1999, per Chiesa autoctona si deve intendere una Chiesa radicata nel luogo stesso in cui si trova, che si
realizza o sviluppa assumendo la cultura locale (quindi non autonoma o indipendente, ma in
comunione con altre Chiese locali sotto la presidenza della Chiesa di Roma), una Chiesa adulta, in grado di
provvedere a se stessa essendo fedele ai semi della Parola originali della propria cultura. Quindi deve avere
identit propria ed esprimersi nella propria lingua materna, con una riflessione di fede e spiritualit proprie
che rispondano alla sua realt, con celebrazioni e simboli della propria cultura, con ministri ordinati e laicali
nati proprio seno, con risorse pastorali ed economiche che la rendano autosufficiente. La Chiesa autoctona
tale, perci, quando ha risorse proprie, clero proprio, teologia propria, spiritualit propria, liturgia propria e
vescovi propri.
Punto di partenza pastorale lassunzione della comunit indigena come soggetto di evangelizzazione, al cui
interno la famiglia il nucleo socioculturale fondamentale. Questo esige un diverso modello di
partecipazione ai compiti ecclesiali, poich tutti i membri della famiglia che assumono un ministero
impegnano indirettamente gli altri componenti, per i quali diventa un impegno familiare sebbene sia in capo
a una persona sola. Ci fa s che la donna partecipi con diritto di parola e di voto alle decisioni comunitarie
ed ecclesiali, sia presente nella liturgia e accompagni pubblicamente diaconi e ministri laici.
Ad articolare la pastorale diocesana, cercando di operare una sintesi tra il tradizionale sistema indigeno di
servizi e la struttura ministeriale della Chiesa cattolica in risposta alle necessit delle comunit, la
complessa rete di ministeri ecclesiali: oltre una ventina nuovi e altri rinnovati, tra cui spiccano animatori,
catechisti (oltre 8.000), presidenti di cappella, principales, cantori, visitatori, promotori dei diritti indigeni,
consiglieri ecclesiali, promotori di salute, orientatori comunitari, promotori della liturgia, formatori di
catechisti, coordinatrici dei gruppi di donne, diaconi permanenti indigeni (oggi circa 330).
Si tratta di ministri scelti dalla comunit dopo aver svolto per un lungo periodo servizi comunitari, nominati
a tempo determinato (tranne i diaconi) e a titolo gratuito col consenso degli interessati e delle loro mogli, e
soggetti al controllo convergente della comunit, degli altri ministri e del vescovo.
La struttura della Chiesa locale converge poi nel vescovo, che presiede il principale organo di
corresponsabilit pastorale, lAssemblea diocesana, con compiti di pianificazione e coordinamento.
Tutta levangelizzazione avviene nelle lingue indigene, le celebrazioni liturgiche e sacramentali sono
adattate, nel rispetto delle norme canoniche, alle tradizioni, al linguaggio e alle simbologie locali, mentre
dallesperienza di Dio nelle comunit emergono una spiritualit e una teologia indigena cristiana.

Che cosa il diaconato permanente indigeno


Colonna portante dellorganizzazione ecclesiale nelle comunit indigene il diacono permanente. Prima di
essere scelti dalla comunit e nominati dal vescovo i candidati devono dimostrare la propria maturit umana
e cristiana attraverso la partecipazione a diversi servizi comunitari, lesercizio di ministeri come quello di
catechista e unapposita formazione di cinque anni. Compiti del diacono sono, tra gli altri, quello di costruire
e animare la comunit cristiana, promuovere la solidariet coi pi poveri, celebrare battesimi e funerali.
Secondo il Direttorio diocesano per il diaconato indigeno permanente, la moglie del candidato al diaconato
avr una vera ed effettiva partecipazione tanto nella formazione quanto nella realizzazione del ministero (n.
134). Questa unione tra uomo e donna frutto del fatto che per le culture indigene la pienezza non si esprime
nellindividuo, ma nella coppia, poich la creazione del mondo non opera di un Dio unico, ma della coppia
cosmogonia Tamagastad e Cipaltonal. Cos il diacono condivide con la sposa laltare quando officia le
cerimonie religiose, partecipa con lei ai propri corsi di formazione, ecc. per cui le stesse comunit tendono
considerare diaconesse le moglie dei diaconi, un fatto assolutamente inaccettabile per i dicasteri romani, che
avevano deciso di impedire nuove ordinazioni anche stigmatizzando il fatto che nella cerimonia con cui
mons. Ruiz e il suo coadiutore, mons. Raul Vera, avevano ordinato gli ultimi 103, nel 1999, le mani fossero
state imposte sul capo dei entrambi i membri della coppia.

Prospettive
La promozione del diaconato permanente avvenuta anche perch la disciplina ecclesiastica della
Chiesa cattolica di rito latino preclude la possibilit di ordinare preti sposati, ma il problema di un
presbiterato indigeno (disgiunto dal celibato, dato che nelle culture indigene chi non ha famiglia
considerato minorenne e non partecipa alle decisioni della comunit) rimane, se si vuole davvero
costruire una Chiesa autoctona. Questi cattolici tzeltales, tsotsiles, ecc. chiedono di affiancare un
modello alternativo di sacerdozio ministeriale, accessibile solo a uomini sposati appartenenti a
queste etnie, a quello attualmente previsto nella Chiesa latina, la quale potrebbe conservare
lobbligo del celibato. Si chiedeva in proposito una decina danni fa il teologo spagnolo p. Juan
Antonio Estrada: Se la Chiesa cattolica di rito bizantino accetta sacerdoti sposati, le comunit
indigene non riunirebbero condizioni antropologhe e culturali che consiglierebbe di esimerle da una
legge fatta per il clero di rito latino?.

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