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“Che cosa fa chi si scopre inesistente? A volte scappa, voglio dire fisicamente,
e se ciò non è possibile cerca di reagire, accetta le regole del gioco, cerca di
mimetizzarsi con i carcerieri. Oppure si rifugia nel proprio mondo interiore e,
come Claire nell’Americano, trasforma quell’angolino in un santuario: in
sostanza entra in clandestinità.”
(A. Nafisi, Leggere Lolita a Teheran)
1. Il ruolo delle ONG e degli Enti locali alla luce delle obbligazioni
internazionali e comunitarie di eliminazione di ogni forma di
discriminazione e violenza nei confronti delle donne affinchè
effettivamente godano dei loro diritti fondamentali.
Una donna che subisce violenza tra le mura domestiche spesso, col
tempo, si scopre inesistente, annullata nella propria volontà. Proprio come così
bene descrive Azar Nafisi nell’opera citata è la scoperta del proprio non essere
più corrispondenti alla propria idea di sé che genera nella donna che subisce
violenza la reazione: fuga o mimesi, per la sopravvivenza.
La donna che subisce maltrattamenti, violenza da parte del partner, atti
persecutori, entra in clandestinità perché sa che è proprio l’espressione di sé,
dei propri desideri, a scatenare l’aggressione.
La donna straniera che subisce violenza due volte si scopre inesistente,
clandestina in casa e fuori, in quanto donna e in quanto straniera.
Alla donna, “in quanto donna”, si chiede conformità. Obbedienza.
Disponibilità. Rispetto del ruolo che secoli di patriarcato hanno assegnato al
suo sesso: madre, moglie, oggetto sessuale, oggetto di culto. Nel momento in
cui la donna antepone i propri desideri, le proprie scelte, al comportamento
che ci si aspetterebbe da lei in funzione del ruolo che ricopre, la punizione è la
discriminazione, la violenza.
Il cammino per l’affermazione della soggettività femminile è lungo, e
costellato di ostacoli. Per secoli le donne sono state, anche da parte delle
Istituzioni, “oggetto di diritto”, subordinate alla disciplina imposta
culturalmente e normativamente dalle società patriarcali. Porre in essere
azioni di contrasto alla violenza di genere, oggi, implica trovare
soluzioni per fare uscire le donne dalla clandestinità della violenza,
fornire loro gli strumenti per autodeterminarsi e affermare la propria
identità, i propri sogni, i propri desideri, in quanto donne, dentro e
fuori dal nucleo familiare.
Non più un’azione delle Istituzioni sulla donna, resa “oggetto di diritto”,
ma un’azione delle Istituzione per la donna, affinché divenga “soggetto di
diritto”. Questo significa, in concreto, agire per il riconoscimento dei diritti
umani nei confronti delle donne. Questo è possibile realizzare attraverso una
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azione di rete interistituzionale di contrasto alla violenza di genere, in quanto
ogni forma di discriminazione e violenza nei confronti della donna per la sua
appartenenza di genere, rappresenta una violazione dei diritti fondamentali
della Persona (art. 1 CEDAW).
Le donne sono state, anche da parte delle Istituzioni, “oggetto di
diritto”, subordinate alla disciplina imposta culturalmente e normativamente
dalle società patriarcali.
Grazie alla statuizione che i diritti della donna sono diritti umani, inclusa
prima nella Dichiarazione ONU per l’eliminazione di ogni forma di
discriminazione nei confronti della donna e poi statuita nella CEDAW, il genere
femminile può ambire a diventare “soggetto di diritto”.
Sono proprio gli Stati membri coloro che si devono fare carico della
promozione di questa soggettività politica delle donne, mediante l’
eliminazione di ogni ostacolo alla realizzazione dell’autoderminazione delle
donne nelle comunità di riferimento. Quando si parla di promozione
dell’effettivo godimento dei diritti delle donne come obbligazione
internazionale, comunitaria, costituzionale (art. 2 e 3 Cost.) degli Stati
– in special modo di quelli che hanno ratificato la CEDAW, si dimentica
spesso che, in ragione dell’art. 117 della Costituzione, questa
obbligazione ricade, per le materie di competenza, anche sugli Enti
Locali. Dunque, nelle politiche di pari opportunità locali, così come nell’azione
coordinata di enti locali e ONG, è importante tenere a mente le linee guida e le
raccomandazioni internazionali e comunitarie concernenti il tema sul quale si
va ad agire. From local to global, e viceversa.
In questa sede, per quanto concerne le donne migranti, mi limito a
ricordare nello specifico i principi contenuti nelle Convenzioni ONU CEDAW (C.
per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne) e
CERD (C. per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale), nonché
le specifiche Raccomandazioni rivolte dal Comitato CEDAW (2005) e dal
Comitato CERD (2008) al Governo Italiano concernenti le donne migranti, e,
tra le altre, la Risoluzione del Parlamento Europeo sulla immigrazione
femminile 437/2006.
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ospitanti. Per fare ciò è necessario che l’operatore abbia ricevuto una buona
formazione su quali sono le forme della violenza “sociale” e “domestica”, e
quali le dinamiche sociali, relazionali, economiche, psicologiche, sulla quale si
innesta e che la rendono più feroce nei confronti della donna nei confronti della
quale è operata. Ogni singolo caso presenta peculiarità specifiche, per cui in
questa sede, per motivi temporali, ci limiteremo ad analizzare alcuni casi
concreti a partire dalle domande che eventualmente verranno poste.
Una volta adeguatamente formato ed affiancato nel suo percorso,
l’operatore è pronto per la fase dell’ascolto. Il primo incontro con la donna è il
momento principale, fondamentale, per valutare la situazione di rischio per la
donna, e rappresenta spesso forse l’unico momento per rappresentare alla
donna che chiede supporto le possibilità che le si profilano davanti per uscire
dalla situazione di violenza, e quali sono le probabili conseguenze alle quali va
incontro evitando di seguire determinate strategie, quale è il grado di rischio
per lei derivante dalla condotta discriminatoria o violenta esposta. Una
valutazione superficiale, o una mera presa in carico assistenzialista nei
confronti della donna in questa fase, può significare la perdita di chances per
la stessa di avviare un percorso di consapevolezza ed empowerment, con il
rischio che la stessa si rifugi nella situazione di discriminazione / violenza,
accettandola e, come suggerisce la Nafisi, facendone un santuario di
clandestinità nel quale sarà difficile raggiungerla nuovamente e motivarla
diversamente.
La violenza sulle donne migranti è duplice, doppia è pure la difficoltà di
trovare soluzioni accettabili per la donna che la denuncia all’operatore sociale.
Il processo migratorio femminile, che ad oggi costituisce più del 50% dei
flussi migratori diretti verso l’Italia e l’Unione Europea, non rappresenta un
fenomeno omogeneo: vi sono donne che subiscono l’immigrazione del nucleo
familiare, ed altre che la agiscono in prima persona ricollocando il proprio ruolo
economico e familiare in uno spazio transnazionale.
Ciò pone in una diversa situazione – anche per quanto concerne la
valutazione dei rischi di discriminazione e violenza - donne che comunque,
collocandosi in una società nuova, sono costrette a confrontarsi con altre
regole, altri costumi, ed un diverso ruolo che si chiede loro di ricoprire nel
nuovo contesto di inserimento.
Per quanto riguarda le migranti di prima generazione, da un lato, la
donna è legata nelle sue relazioni alla comunità di appartenenza, che in alcuni
casi la vorrebbe in una posizione subordinata, anche per esplicita previsione di
legge del Paese di appartenenza, dall’altro, in quanto straniera, è
stigmatizzata nella società di accoglienza che, non riconoscendo la specificità
di genere nella migrazione, ne rende incerto lo status giuridico e, di
conseguenza, la possibilità di essere soggetto autodeterminato. Ciò comporta
una enfatizzazione del ruolo della donna migrante come soggetto debole
all’interno della famiglia, interdipendente dal destino collettivo del nucleo, e
dunque ricattabile nella relazione coniugale, e/o, in ogni caso, maggiormente
soggetta a discriminazioni nell’accesso al mercato del lavoro, nella
determinazione del salario, nonché perennemente esposta al rischio di povertà
ed esclusione sociale, specialmodo in caso di distacco dal nucleo familiare.
Diverso il discorso per le adolescenti di seconda generazione, che spesso
sono investite, anche a livello simbolico, della responsabilità di incarnare e
riprodurre l’identità collettiva e le tradizioni del contesto di origine del nucleo
familiare, pertanto sono sottoposte a forti aspettative e pressioni da parte
della famiglia in diversi ambiti di vita (Mara Tognetti Bordogna, 2008), e ciò
ovviamente le espone ad un rischio maggiore di vittimizzazione.
Diverso ancora il discorso per le richiedenti asilo e le vittime di tratta,
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per le quali sarebbe necessario un discorso a parte, per il quale sarebbe
insufficiente il tempo a disposizione.
In ogni caso, questi sono fattori fondamentali da tenere largamente in
considerazione nella valutazione delle strategie di empowerment da sviluppare
con azioni mirate allo specifico contesto migratorio sul quale si vuole agire.
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è stato evidenziato infatti da numerosi studi e osservazioni sul campo come
“mediare non paga”: ovvero espone la donna al rischio di rivittimizzazione -
isolamento, rimpatrio, incremento di violenza- ); 2) coinvolgere gli specialisti
di riferimento ed evitare in ogni caso di consigliare alla donna la denuncia se
prima non abbia già provveduto alla sua messa in sicurezza, all’acquisizione
delle fonti di prova necessarie a sostenere l’accusa in giudizio, e non abbia
accuratamente valutato le conseguenze che ciò comporterebbe anche in
termini di regolare permanenza della donna sul territorio.
Questi solo alcuni spunti per il dibattito, prima di lasciare spazio alle
domande vorrei concludere, forse in maniera abbastanza scontata, ma con un
concetto che ritengo essenziale.
Conclusioni
BARBARA SPINELLI
Barbara Spinelli nasce in Italia nel 1982. Ha conseguito con lode la laurea
magistrale in Giurisprudenza presso dell’Università di Bologna. Attualmente
esercita come praticante avvocata abilitata al patrocinio nel foro di Bologna,
occupandosi principalmente di diritto penale e dell’immigrazione. Iscritta all’
“Albo degli esperti” istituito dal Dipartimento Pari Opportunità (D.M.
29.10.2009), svolge anche corsi di formazione sugli strumenti di contrasto alla
violenza di genere. Coordina il gruppo di studio sul genere e sul diritto di
famiglia dell’Associazione Giuristi Democratici (Italian Association of
Democratic Lawyers), nell’ambito della quale cura in Italia la campagna di
sensibilizzazione sui diritti fondamentali delle donne, diffondendo i contenuti
della CEDAW e delle Raccomandazioni del Comitato, promuovendo iniziative
formative rivolte sia al pubblico sia agli operatori specializzati, al fine di
favorire la conoscenza e l’utilizzo delle procedure internazionali a tutela dei
diritti fondamentali delle donne. Le sue ricerche vertono principalmente sul
riconoscimento della protezione internazionale per motivi di genere, sulle
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politiche e sugli strumenti normativi di contrasto alle discriminazioni ed alla
violenza contro le donne, con riguardo sia al contesto locale, sia a quello
nazionale. A livello internazionale, ha altresì sviluppato analisi socio
criminologiche comparate sul femminicidio. Oltre a numerose pubblicazioni su
riviste specializzate, ha pubblicato per Franco Angeli il libro “FEMMINICIDIO.
Dalla denuncia sociale al riconoscimento giuridico internazionale” (2008). Fa
parte del Coordinamento nazionale “Lavori in corsa” per la celebrazione del
30mo anniversario della CEDAW e del Coordinamento per la redazione dello
Shadow Report CEDAW Italia.
http://femminicidio.blogspot.com