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medio oriente 3 giugno 2010

Dall’etica ebraica alla licenza di uccidere

La pratica del sionismo israeliano contraddice in


modo sempre più evidente i fondamenti etici e morali
dell’ebraismo storico, scrive Rami G. Khouri
Le conseguenze dell’attacco israeliano del 31 maggio contro il convoglio navale di aiuti umanitari
diretta a Gaza possono essere giudicate su tre diversi livelli, ed è molto importante il modo in cui si
sceglie di affrontare l’argomento.
Il primo livello è strettamente tecnico. Bisogna stabilire chi è ricorso alla forza per primo, capire se
il problema è stato l’attacco israeliano o sono invece stati i passeggeri della nave, difendendosi
dall’arrivo dei soldati, a innescare la battaglia che ha provocato morti e feriti.
Il secondo livello, più ampio, riguarda il contesto politico. Sotto questo aspetto ci sono in ballo
importanti questioni legali e morali: da un lato l’ormai prolungato blocco israeliano che ha ridotto
allo stremo la popolazione di Gaza; dall’altro lo sforzo crescente dei palestinesi e delle
organizzazioni internazionali di forzare la barriera israeliana e consegnare ai residenti della Striscia
gli aiuti umanitari fondamentali.
Il terzo livello riguarda la posizione di Israele rispetto al resto del mondo. Israele, lo stato che
accoglie tutti gli ebrei che desiderano stabilirvisi, è il felice risultato degli sforzi del movimento
sionista moderno. Un movimento cha ha finito però col ritrovarsi sempre più isolato attribuendosi
prerogative che sembrano porlo al di sopra delle leggi che regolano il comportamento di tutti gli
altri stati. Per questo motivo in molti, nel corso degli anni, hanno continuato a chiedersi se il
sionismo è un movimento razzista.
Questi tre livelli vengono ampiamente discussi dai mezzi d’informazione internazionali e dalla
comunità politica. Personalmente ritengo che il livello più importante sia il terzo, cioè la spinosa
questione su cosa sia diventato il sionismo e in che modo gli ebrei si relazionano con il resto del
mondo, anche al di là del loro conflitto con i palestinesi e gli altri popoli arabi.
Il nucleo dell’ebraismo
Bisogna chiedersi se Israele e il sionismo siano davvero quello che sostengono di essere, cioè la
nobile manifestazione del diritto del popolo ebraico a vivere in pace e sicurezza senza essere vittima
di persecuzioni e genocidi. O se invece il movimento sia diventato ciecamente ossessionato dai
propri bisogni, tanto da perdere di vista quei fondamenti morali – giustizia, pietà, diritto etico e
uguaglianza – che sono da sempre il nucleo dell’ebraismo e delle altre religioni abramitiche.
Il sionismo e implicitamente l’ebraismo e Israele si sono davvero trasformati da missione per la
difesa della vita in una giustificazione a base mediatica per l’assedio, l’aggressione, la pirateria e
l’omicidio?
Domande del genere sono affrontate in questi giorni in tutto il mondo, e sono le stesse domande –
profonde, complesse e a volte angoscianti – che Israele e il popolo ebraico dovrebbero porsi e
soprattutto risolvere. Israele sembra invece volere evitare questi interrogativi, preferendo mantenere
il dibattito a un livello strettamente tecnico. Ha messo in moto la sua macchina di propaganda ben
oliata per indirizzare l’attenzione dei mezzi d’informazione internazionali sul fatto che uno sparuto
manipolo di passeggeri di una nave ha usato mazze e coltelli per difendersi dall’aggressione di un
commando israeliano.
Il ritornello israelo-sionista in questi giorni è sempre lo stesso: è successo che una folla armata di
coltelli e bastoni ha attaccato alcuni ebrei, e gli ebrei non devono più permettere a nessuna folla di
attaccarli.
Sulla scia di secoli di persecuzioni inumane, razzismo e genocidi commessi contro il popolo ebraico
principalmente da cristiani bianchi ed europei, il messaggio dell’autodifesa di Israele ha un peso e
una risonanza del tutto particolari, com’è giusto che sia.
Un comportamento contraddittorio
Eppure il moderno diritto ebraico all’autodifesa confligge sempre più spesso con l’altrettanto
moderno atteggiamento di Israele e dei sionisti, fatto di aggressione, pulizia etnica, assedio,
punizioni collettive, privazione del cibo, colonizzazione e occasionali atti di barbarie contro i
palestinesi e il resto della popolazione araba.
La pratica del sionismo israeliano contraddice in modo sempre più evidente i fondamenti etici e
morali dell’ebraismo storico. Il diritto internazionale è valido per tutti gli stati del mondo, ma lo
stato di Israele si riserva di ignorarne le norme. E si permette di attaccare i convogli umanitari in
acque internazionali sostenendo di voler difendere il popolo ebraico e i suoi valori.
Ora però la tendenza israelo-sionista ad attuare ogni misura ritenuta necessaria per la protezione del
popolo ebraico ha oltrepassato i confini del conflitto con i palestinesi e gli arabi, e ha portato alla
morte di cittadini turchi nonché a un oltraggio nei confronti del concetto di universalità del diritto
internazionale.
Israele vuole che il mondo resti impantanato nel dibattito a proposito di qualche coltello e qualche
mazza. Il mondo vuole che Israele affronti un problema più rilevante: lo stato ebraico deve decidere
se ha intenzione di rispettare le norme che governano il resto dell’umanità o vuole continuare ad
agire spinto da un senso vittimistico crescente, isterico, violento e spesso omicida.
Israele utilizza il proprio vittimismo storico e permanente per arrogarsi il diritto assoluto di
trasformare qualsiasi luogo del pianeta in una zona di combatimento senza regole, un fronte dove
lanciarsi in preda al furore in nome di un ebraismo che, alla fine, ne risulta oltraggiato e immiserito.
Lo stato ebraico si sta trasformando in un nuovo ghetto, sempre più isolato e criticato dal resto del
mondo. È una realtà doppiamente tragica perché è in larga parte una conseguenza delle azioni di
Israele stesso.
L’etica ebraica ritiene che gli esseri umani siano sottoposti al giudizio di un codice morale più alto.
Vale lo stesso per lo stato di Israele?
Rami G. Khouri è columnist del quotidiano libanese Daily Star. È direttore dell’Issam Fares
Institute of Public policy and international affairs all’American university di Beirut

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