La questione di Fiume: Le forze e le forme della Città di Vita
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Ma anche di idee visionarie e di politiche anticipatrici del corso della storia.
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La questione di Fiume - Alceste De Ambris
Alceste De Ambris
La questione di Fiume
Le forze e le forme della Città di Vita
a cura di gennaro malgieri
La questione di Fiume
Alceste De Ambris
© Idrovolante Edizioni
Tutti i diritti riservati
Direttore editoriale: Roberto Alfatti Appetiti
Responsabile attività editoriali: Daniele Dell’Orco
1
a
edizione – dicembre 2019
www.idrovolanteedizioni.it
idrovolante.edizioni@gmail.com
introduzione
Cardo bolscevico e rosa italiana:
la sintesi fiumana
Con Alceste De Ambris (1874-1934) l’utopia è davvero andata, sia pure brevemente, al potere. L’impresa fiumana e la Carta del Carnaro, esperienza politica e costituzionale, appartengono a lui quasi quanto a Gabriele d’Annunzio.
E ad esse resterà per sempre legato il nome di De Ambris e la sua passione rivoluzionaria, affinatasi nel tempo dai primi giovanili ardori antistatalisti alla maturazione di una coscienza corporativista. De Ambris, Prometeo apuano
, com’è stato definito, sarebbe riduttivo considerarlo soltanto semplicemente un sindacalista. I suoi scritti e la sua azione politica rimandano ad una certa poesia della vita comune peraltro a buona parte della generazione apuana
ruotante attorno alla sua figura, così ben descritta dall’amico Luigi Campolonghi che in un efficacissimo ritratto
sottolineò i caratteri di una stagione scapigliata
della quale il futuro sindacalista rivoluzionario fu certamente protagonista.
"Venivano - ricordava Campolonghi - i giovani di quella bohème più dai prossimi monti appennini (dalla terra di Apua direbbe il nostro Ceccardo ), da quella provincia di Massa Carrara che nei tempi andati fu, con olimpico scetticismo un po’ di tutti fuori che dei suoi abitanti, ed erano figli di negozianti quasi rovinati, di proprietari che passavano la loro vita alienando tutti i giorni un palmo di terra, o un pioppo o due castagni, di medici condotti che sognavano di avere a successore il figlio, di segretari comunali che tiravan la vita coi denti pur di veder laureata la propria discendenza legittima e diretta (...). Inutile dire che eravamo tutti contro gli ordini costituiti. Anzi, per essere dei nostri bisognava fare una specie di dichiarazione di principi rivoluzionari chiara ed esplicita. Ma nei primi anni, dal ‘93 a ‘95 la nostra azione politica si limitò a quelle dichiarazioni e discussioni spesso accese, ma sempre in famiglia. Scrivevamo, invece, quasi tutti per i giornali letterari, chi in versi e chi in prosa, lodandoci e pagandoci da bere vicendevolmente o vicendevolmente biasimandoci o prendendoci a cazzotti. La letteratura fu per un pezzo il nostro amore più grande"¹.
Per De Ambris letteratura significava essenzialmente Giosuè Carducci dal quale traeva il primato della poesia
come forma più alta non soltanto di elevazione spirituale personale, ma anche di mobilitazione di masse ed energie.
Da qui alla considerazione della politica come suprema opera d’arte
il passo è più breve di quanto non si creda. Probabilmente si spiega così l’incontro che De Ambris avrà più tardi con d’Annunzio il quale, non senza ragione, considerava la sua impresa a guisa di un’opera poetica.
Giustamente è stato sottolineato che per molti aspetti il Comandante fu per De Ambris il termine di approdo che inizia con Enotrio e si svolge alimentandosi di altre conoscenze: l’opera del nazionalpopolare Sàndor Petofi, il bardo del risorgimento ungherese, gli scritti dell’apuano Labindo, al secolo Giovanni Fantoni da Fivizzano, precursore della rinascita italica, e la produzione di
maudits", antichi e recenti.
Da Villone al fratello
Ceccardo delle tenere malinconie e delle aspre invettive"².
Spiritualità gioiosa
Se questi erano i maestri
, De Ambris non poteva che trasferire nell’azione sindacale la spiritualità gioiosa
che da essi aveva appreso. Il culto degli eroi, l’attesa del mondo santo
e dell’avvenire bello
, la visione pagana della vita del mondo trasfuse nel sindacalismo parmense che anche per questi aspetti si caratterizzò come originalissimo laboratorio politico nel quale l’esperienza sindacale era del tutto diversa da quelle che si facevano in ambienti analoghi del Settentrione d’Italia. Noi non siamo cristiani - scriveva De Ambris nel 1912 - e non comprendiamo le rinunzie ascetiche; vogliamo invece affermare la nostra individualità nella conquista di ogni bene e miriamo a realizzare il nostro sogno combattendo con gioia. Perché sappiam bene che la spada può aver salda la tempra ed affilata la lama se pure, come quella di Armodio, è coperta di mirti
.
E L’Internazionale
, impregnato dello spirito che De Ambris vi aveva innestato, nel 1913, a commento delle Feste Verdine
scriveva: Ora noi, questa folla chiassosa di proletari vestiti a festa, che concorre con la borghesia alla sua parte di gioia perché neanche una briciola vada perduta del suo diritto a vivere, l’amiamo, come l’amiamo quando impugna le armi della sua difesa e del suo diritto, disertando le officine ed i campi, per invadere, tumultuando, le vie e le piazze in gesto minaccioso. Poiché noi siamo profondamente convinti che l’amore alla lotta e lo spirito di sacrificio nascono e si sviluppano solo nei popoli che sanno amare la vita e goderla. Il bisogno di vivere, non un’agonia, ma la vita vera è lo stimolo che fa sentire prepotente alle collettività umane le supreme necessità della battaglia, la bellezza sublime del sacrificio
.
Il sindacalismo come ansia di vita
Il sindacalismo di De Ambris fu dunque una gioiosa ansia di vita che trovò a Parma adepti fedeli ed operosi tanto che qualcuno parlò, riferendosi alla sua esperienza politica, di carduccianizzazione
delle masse.
Non a caso De Ambris, quando nel 1907 assunse