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1. Libro II, v. 645 (parla Cizico, che accoglie gli eroi e presenta loro la regione
della Propontide su cui governa): «Nam licet hinc saevas tellus alat horrida
gentes». Traduzione: «È vero: c‟è, al nostro confine, una regina terribile / che
alimenta popoli atroci» (pp. 279 e 281), dove “regina” è un clamoroso refuso per
“regione”.
2. Al verso 433 del libro V Vulcano è nominato tramite l‟epiteto “Mulciber”.
Caviglia traduce con “Vulcano” ma precisa nella nota ad locum: «Designato nel
testo con l‟epiteto, già noto alla poesia arcaica latina, di „Mulciber‟» (p. 496). E
che c‟è di male? - direte voi. Niente, solo che l‟epiteto “Mulciber” era già
apparso nel verso 315 del libro II, e anche lì Caviglia aveva tradotto con
“Vulcano”… E allora mi domando e dico: questo tipo di note relative alle scelte
di traduzione, non si mettono alla prima ricorrenza del termine in questione?
3. Tra i versi 228 e 229 del libro VI, Castore è indicato solo con l‟espressione
“novus eques”, per dire che, mentre prima era a piedi in battaglia (siamo già nella
Colchide), adesso monta il cavallo di un nemico da lui appena ucciso, di nome
Gela (vv. 203-209). Il problema, però, è che questo Gela aveva un fratello,
Medore, il quale cerca di scagliarsi su Castore per vendicarsi, ma viene subito
trafitto da Falero («Actaei sed eum prior hasta Phaleri /deicit», vv. 217-218).
Ecco però come Caviglia spiega l‟espressione “novus eques”: «Castore, finora
penalizzato dal non poter esercitare la propria attività preferita, ma che ora è
riuscito a procurarsi un cavallo da uno dei due fratelli da lui abbattuti» (p. 553).
4. Al verso 442 del libro VII Minerva è detta “Tritonia virgo”, e Caviglia, che rende
con “Pallade”, chiarisce: «Nel testo (…) „Tritonia virgo‟. Epiteto consueto di
Minerva nel linguaggio poetico; deriva dal nome di un lago della Tripolitania,
oggi chiamato Lodiah, una delle sedi tradizionalmente indicate come patria della
dea» (p. 641). Ben detto, peccato però che Caviglia qui si sia semplicemente
dimenticato di una sua precedente nota esplicativa relativa al medesimo termine
(questa volta reso con “Minerva”), dove peraltro era stato giustamente più
dubbioso sulla spiegazione del misterioso epiteto. Cfr. infatti la nota relativa a II,
49, p. 221: «Nel testo (…) „Tritonia‟, convenzionale epiteto di Minerva collegato
alla sua nascita, ma dal referente non chiarito: un lago dell‟Africa, una catena
montuosa della Beozia, una sorgente in Arcadia?». Curioso, non trovate?
b. Ovidio, Metamorfosi, traduzione di Giovanna Faranda Villa, note di Rossella Corti,
Rizzoli 1994.
1. Inizio del libro X. Orfeo è nell‟Ade e prega Plutone di restituirgli Euridice. Fra le
altre cose dice di non essere venuto, come Ercole, per rompere le palle
sequestrando Cerbero. Per indicare Cerbero, però, Ovidio si serve di una perifrasi
e lo chiama “Medusaeum monstrum” (v. 22). La traduttrice se ne esce con
“parente di Medusa” (p. 577) (in “Fasti” 5, 8, lo stesso Ovidio chiama Pegaso
“Medusaeus equus”, ma qui è facile capire perché, dato che il cavallo è nato dal
sangue di Medusa). La nota ad locum però recita: «Cerbero, il cane infernale, è
figlio di Echidna (…) Non ci è noto il rapporto genealogico tra Medusa e
Cerbero» (p. 576). Un po‟ troppo arrendevole, non trovate? Se la Corti fosse
andata a dare un‟occhiata alla Teogonia di Esiodo (vv. 270 ss.) avrebbe trovato
non dico la risposta, ma qualcosa che si avvicina molto: qui infatti si scopre che
Echidna era figlia di Ceto e Forco, come le Gorgoni. Quindi Medusa è zia di
Cerbero, e come rapporto genealogico non è poco, anche se non è il massimo.
2. Libro XIII. Siamo nel pieno del bellissimo discorso in cui Aiace spiega perché le
armi di Achille dovrebbero toccare a lui, e non a quel fetentone di Ulisse. A un
certo punto l‟eroe ricorda alcune imprese di Ulisse, sottolineando che sono state
tutte compiute con l‟aiuto determinante di Diomede, e fra queste include
naturalmente l‟incursione nell‟accampamento di Reso (v. 98), episodio cui è
dedicato, come tutti sanno, l‟intero libro X dell‟Iliade. Nota ad locum: «Durante
una sortita notturna nel campo troiano, Ulisse e l‟amico Diomede uccisero Reso e
gli rubarono i famosi cavalli; poi intercettarono Dolone, una spia dei Troiani
ecc.». ALT!! Nel racconto pseudo-omerico (cui pure la Corti rimanda) la cattura
e l‟uccisione di Dolone precedeono l‟incursione nel campo troiano e la strage di
Reso e di 12 dei suoi uomini.
1. Libro VII, Giove sta spiegando a Bacco perché la guerra fra Tebani e Argivi è
inevitabile, e dice: «Labdacios vero Pelopisque a stirpe nepotes / tardum abolere
mihi» (vv. 207-208). Traduzione della Faranda Villa: «Ma i nipoti di Labdaco,
discendenti di Pelope, da tempo avrei dovuto distruggerli» (p. 475). Mi chiedo:
errore di stampa (“e i” dopo Labdaco, invece della virgola) o grave svista della
traduttrice? Infatti “discendenti di Pelope” non può essere un‟ulteriore
connotazione dei Tebani, perché si riferisce ovviamente agli Argivi (detti “gentes
Pelopis”, cioè peloponnesiaci, appena 40 versi più avanti).
2. Libro X, descrizione della “Virtus” (vv. 632 ss). La traduttrice segnala in nota (p.
704) che il passo è naturalmente intessuto di richiami virgiliani. Per esempio, «il
v. 638 [«iamque premit terras, nec vultus ab aethere longe»] ricorda da vicino
quello di Virgilio (Aen. X, 767) in cui si parla della Fama: “ingrediturque solo et
caput inter nubila condit”». Ma davvero? In Aen. X, 767 si parla del “magnus”
Orione (ivi, v. 763, che in VII, 256 per Stazio diventa “altus”), cui è paragonato
Mezenzio mentre entra in campo armato di una “ingens asta” (ivi, v. 762). È però
vero che un identico verso è riferito da Virgilio alla Fama, ma, ahimè, siamo in
IV, 177!
II. ALTRE INQUISIZIONI
b. Roberto Cotroneo, Eco: due o tre cose che so di lui, Bompiani 2001
c. Imre Lakatos – Paul K. Feyerabend, Sull’orlo della scienza. Pro e contro il metodo,
a cura di Matteo Motterlini, prefazione di Giulio Giorello, Raffaello Cortina Editore
1995 (si tratta della raccolta di alcuni inediti dei due famosi epistemologi post-
popperiani, e in particolare della prima pubblicazione di gran parte della loro
corrispondenza).
1. Nella prima delle sue otto “Lezioni sul metodo” (tenute nel gennaio-marzo
1973 alla London School of Economics), Lakatos si avventura nella citazione
della citazione di due passi di Hegel da parte di Popper, e dice: «Tanto per
dare un‟idea di quello che Popper e i suoi colleghi del Circolo di Vienna
combattevano, ecco due citazioni da Hegel, che magari sono importanti, in
quanto potrebbero riferirsi, per esempio, alla teoria dei colori di Newton. La
„filosofia della natura‟ di Hegel era considerata vera e propria scienza.
Popper nella sua Società aperta, vol. II, p. 290 [tr. it. p. 400, nota 4] cita la
definizione di Hegel del colore: “il colore è il ricostituirsi della materia ecc.
ecc.» (p. 30). Ora, qui ci sono cose che fanno “accapponare i capelli”, come
direbbero quelli di Striscia la notizia. Intanto si noti che la parentesi quadra
“[tr. it. p. 400, nota 4]” è di Motterlini, che è anche il traduttore. Si presume,
quindi, che egli sia andato a controllare, se non proprio il passo di Hegel (sul
quale non fornisce estremi bibliografici), almeno il passo di Popper (visto che
cita bene la tr. it. de La società aperta e i suoi nemici), e allora bisogna
concludere che sia Lakatos nel 1973 che lui nel 1995 erano affetti da
allucinazioni. Infatti, il passo di Hegel (che si trova nel § 303
dell‟Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio) parla del “calore”
(Die Wärme), e non del “colore”, e la cosa incredibile è che nel luogo di
Popper esso è citato del tutto correttamente!
2. Ma diamo uno sguardo anche alla “Prefazione” al volume, scritta da Giulio
Giorello (grande conoscitore di Popper, Lakatos e Feyerabend). A p. XI egli
scrive: «Non era forse Popper che nel lontano 1956 soleva iniziare le proprie
lezioni sul metodo scientifico “dicendo agli studenti che il metodo scientifico
non esiste”?». E la nota recita: «Popper (1956/1983), p. 35; cfr. anche
Feyerabend (1994), p. 102». Ora, il fatto è che la data “1956” è sbagliata,
perché Popper diceva quella cosa nel 1952. Tale data, fra l‟altro, ricorre nel
corso dello stesso volume in una lettera di Feyerabend (p. 294), e Giorello
avrebbe dovuto dirlo. Essa, inoltre, è facilmente deducibile da Feyerabend
(1994), p. 102, cui lo stesso Giorello rimanda in nota. Io sono propenso a
credere che, a meno che non si tratti di semplice errore di stampa, Giorello
sia vittima di un lapsus calami dovuto forse al fatto che in Popper
(1956/1983), cioè il primo volume del Poscritto alla Logica della scoperta
scientifica, il passo da lui citato ricorre nel primo capoverso della “Prefazione
1956”.
Dulcis in fundo, visto che in queste sono “altre inquisizioni” e che ho parlato anche
di Rabelais, vediamo come in Altre inquisizioni Borges cita Rabelais. Nel secondo saggio,
“La sfera di Pascal”, Borges traccia la storia della metafora (di origine ermetica) secondo cui
Dio è una sfera intelligibile, il cui centro sta dappertutto e la circonferenza in nessun luogo,
per mostrare i diversi usi che di essa sono stati fatti fino a Bruno e Pascal. Tra gli autori che
ne hanno fatto menzione egli cita appunto Rabelais e dice: «nel XVI [secolo], l‟ultimo
capitolo dell‟ultimo libro di Pantagruel alluse a “quella sfera intellettuale, il cui centro sta
dappertutto e la circonferenza in nessun luogo, che chiamiamo Dio”» (p. 16). Il mio adorato
Borges è il maestro delle citazioni bibliografiche inventate, ma devo riconoscere che con
quelle vere a volte non ci sa fare. Infatti, molto prima che nel capitolo quarantasettesimo,
l‟ultimo, del quinto e ultimo libro del Gargantua e Pantagruele, Rabelais aveva citato la
metafora nel capitolo tredicesimo del terzo libro in un passo quasi identico, che però
contiene un esplicito riferimento parentetico al fatto che essa è dovuta ad Ermete
Trismegisto (ed. cit., p. 661). Questo vuol dire che se Borges avesse avuto presente il primo
passo avrebbe dovuto citarlo per 2 buoni motivi: 1) perché viene prima e 2) perché solo in
esso compare il riferimento ad Ermete Trismegisto, il cui nome è centrale nella sua
“inquisizione”.