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IL PROBLEMA DELL’INDIO NELL’OPERA DI

JOSÉ CARLOS MARIÁTEGUI

INTRODUZIONE 3

CAPITOLO PRIMO: IL PROBLEMA DELL’INDIO È IL PROBLEMA DELLA

TERRA 7

1.1 L’IMPORTANZA DELLA REALTÀ NAZIONALE E DI QUELLA

INTERNAZIONALE 7

1.2 IL RUOLO DELL’ECONOMIA 8

CAPITOLO SECONDO: IL PROGETTO DI MARIÁTEGUI 20

2.1 L’AYLLU 20

2.2 MARIÁTEGUI INTELLETTUALE PICCOLO-BORGHESE? 22

2.3 COSA RAPPRESENTA L’AYLLU? 25

2.4 LA CONOSCENZA DEL PASSATO E DEL MONDO INCAICO 29

2.5 TRADIZIONE E TRADIZIONALISMO 33

2.6 AMAUTA 42

2.7 IL PARTIDO SOCIALISTA DEL PERÚ E LA CONFEDERACIÓN GENERAL

DEL TRABAJO 46
BIBLIOGRAFIA 51

2
INTRODUZIONE

Per comprendere l’evoluzione del Perú nei primi decenni del XX secolo, non si

può fare a meno di procedere a ritroso fino a giungere all’analisi, seppur sommaria, di

due eventi di estrema rilevanza: la guerra del Pacifico (1879-1883) e la ribellione

indigena, capeggiata da Rumi Maqui, che ebbe luogo tra il 1914 e il 19171. La disfatta

del Perú nella guerra comportò, dopo il trattato di Ancón (1883), la perdita territoriale

della regione di Tarapaca e delle province di Arica e di Tacna, a favore del Cile. Queste

regioni abbondavano di guano e salnitro, sulla cui estrazione ed esportazione si era fino

ad allora fondata l’economia peruviana che, dunque, fu sottoposta, a partire dalla

sconfitta, ad un processo di riorganizzazione. Questo, accanto ad una molteplicità di

altri fattori che non saranno qui analizzati, condurrà, nel giro di qualche decennio, alla

sostituzione del predominio britannico con quello statunitense, sintetizzata dalle cifre

degli scambi commerciali tra il Perú e questi due grandi campioni del capitalismo: le

esportazioni verso la Gran Bretagna che nel 1898 rappresentavano il 56,7 per cento

delle esportazioni totali, passano nel 1923 a rappresentare soltanto il 33,2 per cento; per

contro, quelle verso gli U.S.A. balzano, nello stesso periodo, dal 9,5 al 39,7 per cento

del totale. Ancor più eloquenti le cifre inerenti le importazioni: nello stesso lasso di

tempo preso in considerazione precedentemente, le importazioni dalla Gran Bretagna

scendono dal 44,7 al 19,6 per cento del totale; quelle dagli Stati Uniti crescono dal 10 al

1
Rumi Maqui non fu altri che Teodoro Gutiérrez, sergente dell’esercito peruviano, inviato dal presidente
Bellinghurst (1912-1914) nella regione di Puno per svolgere un’indagine sui reclami e sulle
rivendicazioni indigene che da lì provenivano. Deposto Bellinghurst dal colpo di stato di José Pardo
(1914), Gutiérrez si convinse dell’impossibilità di ricorrere a vie pacifiche e legali per la risoluzione dei
problemi degli indios; pertanto, decise di intraprendere la strada della ribellione armata. Riunendo attorno
alla sua figura migliaia di indios, riuscì a fronteggiare l’esercito per tre anni, fino a quando, nel 1917, si
perse ogni sua traccia.

3
38,9 per cento2. A questo processo di consolidamento del capitale nordamericano nel

controllo dei settori produttivi dello stato andino, emblema di un riassetto dell’alleanza

imperialistica, se ne accompagnano altri, che da alcuni sono stati considerati fattori

della crisi del regime oligarchico peruviano3. Si possono citare, a titolo esemplificativo,

la crescita delle esportazioni, quella delle classi medie, nonché un intenso processo di

urbanizzazione. Tuttavia, sarebbe assolutamente deficitaria un’analisi delle conseguenze

della sconfitta nella guerra del Pacifico che non prendesse in considerazione i

mutamenti intervenuti nell’orizzonte sovrastrutturale. Ebbe infatti luogo un

ripensamento delle basi su cui si era andata costruendo la nazione peruviana

dall’indipendenza (1821) fino ad allora.

Nel periodo che seguì il conflitto, proliferarono scritti di autori che sottolineavano

come le cause della sconfitta fossero da ricercarsi nell’indio, da qualcuno tratteggiato

addirittura come un lama parlante4. Così l’esercito peruviano era ritenuto più debole di

quello cileno a causa della diversa composizione etnica: si constatava un’eccessiva

presenza di indios in confronto con l’esercito nemico. L’indio agli occhi di molti

divenne la vera “disgrazia” del Perú5. Tuttavia, ci furono anche voci fuori dal coro. La

più importante, nonché quella che inciderà maggiormente sulla formazione di molti

giovani peruviani, fu, senza dubbio alcuno, quella di Manuel González Prada. Il

pensatore radicale, vicino all’anarchismo, diede luogo ad una serrata critica del regime

oligarchico per l’emarginazione cui aveva costretto gli indios:

2
José Carlos Mariátegui, Sette saggi sulla realtà peruviana, Einaudi, Torino, 1972, p. 55.
3
Cesar Germanà, Il socialismo come alternativa politica, in Giovanni Casetta (a cura di) Mariátegui: il
socialismo indoamericano, Franco Angeli, Milano, 1996, p. 182.
4
S. Lorente, Pensamientos sobre el Perú republicano del siglo XIX, cit. in Alberto Flores Galindo, Perú:
identità e utopia, Ponte alle Grazie, Firenze, 1991, p. 200.
5
A. Deústua, La cultura nacional, cit. in Alberto Flores Galindo, op. cit., p. 202.

4
“con gli eserciti di indios disciplinati ma senza libertà, il Perú andrà

sempre verso la rovina. Se dell’indio abbiamo fatto un servo, quale

patria difenderà? […] Non costituiscono il vero Perú gli aggruppamenti

di creoli e stranieri che vivono sulla striscia di terra situata tra il

Pacifico e le Ande; la nazione è costituita dalle moltitudini di indios

disseminate sulla striscia orientale della cordigliera”.6

Per González Prada, gli indios si sarebbero potuti emancipare solo con le loro

stesse mani:

“L’indio potrà redimersi solo attraverso il proprio impegno, non per

l’umanità dei suoi oppressori. Ogni bianco è, più o meno, un Pizarro, un

Valverde o un Areche”7.

Cosa che peraltro, nel corso dei secoli, gli indigeni avevano cercato di fare e

continuavano a fare: a parte il richiamo alle ribellioni di Atahualpa (1742) e a quella di

Tupac Amaru II (1780), si vuole fare riferimento alla sollevazione capeggiata da Rumi

Maqui. Questa viene qui considerata come simbolo dell’attivismo indio che produrrà,

nel periodo 1919-1923, nelle sole Ande meridionali, circa cinquanta sommosse8. Questo

risveglio della critica, intellettuale ma anche delle armi, inciderà sul comportamento

assunto dal presidente Leguía9 nei confronti delle popolazioni autoctone. Il nuovo

governo si mostra apparentemente tollerante e progressista, emanando nel 1920 un

provvedimento che assegna la terra alle comunidades di indios che la coltivano,

sancendone al contempo l’inalienabilità; promuovendo congressi indigeni, cui


6
Manuel González Prada, Discurso en el Politeama (28 luglio 1888), cit. in Robert Paris, Saggio
introduttivo, in José Carlos Mariátegui, op. cit, p. XLIX.
7
Manuel González Prada, Paginas libres. Horas de lucha, cit. in Josè Aricò, Marxismo e indigenismo, in
Giovanni Casetta (a cura di), Mariátegui: il socialismo indoamericano, op. cit., p. 74.
8
Alberto Flores Galindo, op. cit., p. 222.
9
Salito al potere in seguito al colpo di stato del 4 luglio 1919 che aveva deposto Pardo, Augusto B.
Leguía, esponente del partito civilista, instaurerà una dittatura abbattuta da un nuovo colpo di stato solo
nel 1930.

5
convengono le comunità di tutte le regioni e latitudini del Perú; instaurando rapporti

istituzionali con alcune delle associazioni indigeniste, sorte a partire dai primi anni del

XX secolo. In realtà, il progetto leguista è profondamente paternalista e ben presto i

congressi indigeni diverranno luoghi consacrati all’esaltazione della figura del

presidente, che si preoccupa di estromettere, nel frattempo, le frange più radicali e

rivoluzionarie, contro le quali utilizza, durante tutti gli undici anni del suo governo, il

pugno duro, dando luogo a repressioni poliziesche, censure, esili e prigionie. Gli anni

Venti sono però, nonostante ciò, un decennio in cui emergono o si rafforzano i

movimenti politici, sociali e culturali che si oppongono al regime di pax oligarchica da

lungo tempo instaurato. Oltre agli indios danno battaglia anche operai e studenti, le cui

manifestazioni si inseriscono nell’ambito del movimento della Riforma Universitaria e

di quello che rivendicava migliori condizioni lavorative. In questo periodo va

elaborando il suo progetto socialista José Carlos Mariátegui, rientrato nel 1923 in patria,

dopo che dal 1919 aveva viaggiato per l’Europa a causa dell’esilio cui era stato costretto

(sotto la curiosa forma di borsa di studio in qualità di propagandista del Perú). Figlio

degli accadimenti che si svolgono sulle terre peruviane in quegli anni, giungerà ad

accordare, nella propria elaborazione teorica, nonché nella propria opera organizzativa,

un ruolo da protagonista, accanto al proletariato urbano, alle masse indigene.

6
Capitolo primo

IL PROBLEMA DELL’INDIO È IL PROBLEMA DELLA TERRA

1.1 L’IMPORTANZA DELLA REALTÀ NAZIONALE E DI QUELLA INTERNAZIONALE

José Carlos Mariátegui (Moquegua 1894 – Lima 1930), da molti considerato il

primo marxista dell’America Latina10, andò elaborando la propria originale concezione

del socialismo una volta tornato dall’esilio europeo. Gli anni Venti, visti come periodo

di profonde trasformazioni, furono lo scenario che lo videro protagonista

nell’organizzazione, teorica e pratica, delle masse peruviane per il raggiungimento

dell’orizzonte socialista. L’esperienza europea fu fondamentale nella sua formazione,

dal momento che, come egli stesso affermerà nell’Avvertenza ai Sette Saggi11, gli

permise di ottenere quegli strumenti che lo avrebbero aiutato nella sua azione nella e

sulla realtà nazionale. Proprio su quest’ultima Mariátegui concentrò la propria

attenzione. Era difatti convinto della necessità di una profonda conoscenza della realtà

nazionale per poter giungere alla trasformazione della medesima; ciò, tuttavia, non si

accostò mai ad un disinteresse per il panorama internazionale. Fu sempre certo del fatto

che il Perú costituiva solo un tassello del complesso mosaico internazionale, così come

riteneva che un’eventuale rivoluzione, ineludibilmente socialista, avrebbe costituito una

tappa di quell’immenso processo che sarebbe stata la rivoluzione mondiale. Il processo

10
Antonio Melis, Mariátegui, primer marxista de America latina, in Antonio Melis, Leyendo Mariátegui,
Empresa Editora Amauta S.A., Lima, 1999.
11
José Carlos Mariátegui, op. cit., p. 42.

7
di analisi che principiò, in maniera assolutamente conseguente, lo condusse ad

individuare il problema primario del Perú nel problema dell’indio12.

“[…] la soluzione del problema dell’indio costituisce la base di un programma di

rinnovamento o ricostruzione peruviana. Il problema dell’indio cessa di essere, come

all’epoca del dialogo tra liberali e conservatori, un tema posticcio o secondario. Si

trasforma nel tema principale.”13

1.2 IL RUOLO DELL’ECONOMIA

Mariátegui non è il primo a prendere in considerazione il problema indigeno.

Come abbiamo precedentemente cercato di mostrare, almeno a partire dalla guerra del

Pacifico l’indio comincia a divenire oggetto di dibattiti, progetti, provvedimenti

istituzionali ecc. Il problema indigeno entra, in altre parole, nella coscienza nazionale.

Eppure, le tesi di Mariátegui a riguardo sono assolutamente peculiari. La loro originalità

non consiste solo nell’identificazione del problema dell’indio con quello della terra, ma

anche nel suo inserimento al primo posto nell’agenda politica peruviana14. Esse operano

sul piano della struttura economica e non su quello delle sovrastrutture. Mariátegui

respinge, dunque, gli approcci che cercavano di pervenire alla risoluzione del problema

indigeno affrontandolo dal punto di vista amministrativo, giuridico, educativo, morale,

etnico o religioso. Contesta chi trova le radici della questione e dell’oppressione degli

indios nella triade prefetto/curato/cacicco (da alcuni ritenuta addirittura una “trinidad

12
Josè Carlos Mariátegui, Il problema prioritario del Perú, Lettere dall’Italia e altri scritti, (a cura di
Ignazio Delogu), Editori Riuniti, Roma, 1973, p. 225.
13
José Carlos Mariátegui, op. cit., p. 206
14
Diego Meseguer Illán, L’interpretazione marxista dell’America Latina, in Giovanni Casetta (a cura di),
op. cit., p. 57.

8
satánica de primer orden”15), invocando come soluzione una saggia tutela o una

generosa protezione. Segnala come un’associazione come la Pro-Derecho Indigena,

fondata nel 1909, abbia svolto una funzione negativa, nel senso di aver reso chiaro a

tutti che la strada da percorrere per la risoluzione della questione era altra dall’approccio

filantropico che caratterizzò la vita dell’associazione; gli oppressori non avrebbero,

spontaneamente o anche stimolati dall’esterno, permesso che gli indios si sottraessero al

giogo cui erano costretti, a meno di voler credere che avrebbero contribuito con le loro

stesse mani a distruggere il sistema sul quale fondavano le proprie ricchezze e il proprio

potere. Né tanto meno appare praticabile la via dell’emancipazione per il tramite

dell’istruzione: sostenitori di questa tesi erano, tra gli altri, gli anarchici che si riunivano

attorno a due riviste, Los Parias (1904-1909) e La Protesta (1912-1924). Tali riviste

sostenevano punti di vista condivisi anche da González Prada, credendo nel potere

emancipatore della scienza e della ragione e nella forza redentrice dell’alfabeto:

“Quienes verdaderamente se interesen por la redención del indio, deben

formar profesores indígenas, para que estos vayan por pueblos, aldeas y

estancias, enseñandoles a leer y escribir en su propia lengua,

inculcándoles los ideales emancipadores y deportándolo del profondo

marasmo en que dormita. Que todos, cada cual en la esfera de su acción,

contribuyan al establecimiento de escuelas racionalistas y a formar

apóstoles de propaganda y enseñanza en quechua; he ahí la mejor

misión de nuestra clase obrera y no obrera: ¡ instruir es redimir!16

15
L.D. (forse Leván Delfino), La raza desgraciada, “Los Parias”, n. 23, Lima, 1906, cit. in Carlos
Arroyo, La experiencia del Comité central Pro-Derecho Indigena Tahuantisuyo,
www.tau.ac.il/eial/XV_1/arroyo.html.
16
Lévano, M. Caracciolo, Redención indígena e inmigración, “La Protesta”, n. 13, Lima, 1912, cit. in
Carlos Arroyo, op. cit., www.tau.ac.il/eial/XV_1/arroyo.html.

9
Mariátegui, pur non sottovalutando l’istruzione, dedicandole uno dei sette saggi

che compongono la sua opera più importante, ritiene che non sia una semplice questione

di scuola o metodi didattici, dal momento che il lavoro in questo campo è fortemente

condizionato dal contesto economico in cui si inserisce. È bene, inoltre, ricordare che

egli rifuggì dall’impostare il problema dell’indio come “questione nazionale”, vale a

dire che si rifiutò di richiamarsi principalmente alla dimensione etnica. Questa

impostazione costituì terreno di scontro con i dirigenti dell’Internazionale Comunista,

tanto più rilevante in quanto andava a toccare, inevitabilmente, anche altri temi oggetto

di conflitto, in primis quello inerente la natura del partito. L’Internazionale Comunista

riteneva si dovesse seguire il principio di “autodeterminazione” sancito a suo tempo da

Lenin per i popoli oppressi: conseguenza di ciò era una strategia volta a perseguire,

accanto alla creazione di una repubblica operaia, quella di una indigena, fino a giungere

alla costituzione di un vincolo federativo che avrebbe legato repubbliche operaie e

contadine. La posizione di Mariátegui e del PSdP (Partido Socialista del Perú), fondato

nel 1928 da Mariátegui stesso, che ne fu eletto segretario, era assai differente:

“la parola d’ordine che farà dell’indio un alleato del proletariato non

indio nella lotta per le sue rivendicazioni non dev’essere

l’autodeterminazione, ma un simbolo che compendi per gli indios le loro

rivendicazioni in quanto classe oppressa e sfruttata.”17

Queste parole di un dirigente del PSdP mostrano pienamente, al di là delle

divergenze di non poco conto rispetto alle posizioni assunte dal segretario (prima fra

tutte la concezione secondo cui le masse indigene sono viste come alleato subordinato al

tradizionale soggetto rivoluzionario, il proletariato urbano industriale, e non come forza

17
Hugo Pesce, El movimiento revolucionario latinoamericano, p. 70, cit. in Robert Paris, op. cit., p.
LXXX.

10
maggioritaria nel paese da rendere autonoma), la distanza che separa i peruviani dai

dirigenti della Terza Internazionale: i primi, infatti, impostano il problema dell’indio in

termini classisti:

“Il socialismo ordina e definisce le rivendicazioni delle masse, della

classe lavoratrice. E in Perú le masse, – la classe lavoratrice – sono per

quattro quinti indigene. Il nostro socialismo non sarebbe, allora,

peruviano, – né sarebbe neppure socialismo – se non solidarizzasse,

innanzitutto con le rivendicazioni indigene.”18

L’analisi della realtà peruviana coincide in questo caso con quella dell’APRA19; si

riconosce il carattere minoritario del proletariato urbano industriale e, per contro, quello

maggioritario delle masse indigene (che costituiscono, come visto, addirittura i quattro

quinti dei lavoratori), composte in maniera pressoché esclusiva da contadini. Si vengono

così a sovrapporre e ad identificare questione indigena e questione della terra; di qui

Mariátegui si muove verso la comprensione del fatto che in Perú la “questione

contadina” si esprime nei termini di “questione indigena”:

“Per quanto riguarda il problema indigeno, la sua subordinazione al

problema della terra risulta ancora più assoluta per ragioni specifiche.

La razza indigena è una razza di agricoltori. Il popolo incaico era un

popolo di contadini, dediti normalmente all’agricoltura e alla pastorizia.

18
José Carlos Mariátegui, Intermezzo polemico, cit. in Pier Paolo Petrini, José Carlos Mariátegui e il
socialismo moderno, Edizioni ETS, Pisa, pp. 312-313.
19
L’APRA (Alianza Popular Revolucionaria Americana) nacque nel 1924 ad opera di Víctor Raúl Haya
de la Torre. Presentatasi come una sorta di Kuomintang latinoamericano, si prefiggeva i seguenti
obiettivi: 1) Lotta contro l’imperialismo statunitense; 2) Unità politica dell’America Latina; 3)
Nazionalizzazione della terra e dell’industria; 4) Internazionalizzazione del canale di Panama; 5)
Solidarietà con gli oppressi di tutto il mondo. Nel 1928, dall’esilio in Messico, cui Leguía l’aveva
costretto, Haya deciderà la trasformazione del fronte in partito, deciso a presentarsi alle successive
elezioni presidenziali.

11
[…] La loro civiltà, nei suoi tratti predominanti, si caratterizzava come

una civiltà agraria.”20

Nella sua opera politica questa conquista assume una assoluta centralità,

portandolo a ritenere basilare per le sorti del socialismo nel suo paese il

raggiungimento, da parte di queste masse, della loro autonomia. In ciò può notarsi una

certa affinità con l’azione condotta nel Vecchio Continente da Antonio Gramsci. Il

politico nativo di Ales sviluppò, anch’egli a partire dagli anni Venti, una concezione

all’interno della quale un ruolo chiave era svolto dalle masse contadine del Sud Italia

che, alleate al proletariato industriale e contadino del Nord del paese, avrebbero potuto

sconfiggere il blocco costituito dagli industriali e dagli agrari, intraprendendo poi la via

del socialismo. L’affinità non si limita alla centralità conferita ai contadini, ma anche

alla comune considerazione dei rapporti esistenti nei propri rispettivi paesi come tipici

processi di colonizzazione interna, condotta non solo per il tramite della forza, bensì

anche per quello del consenso.

Il fatto che Mariátegui intenda il problema dell’indio come questione di classe non

significa però che egli ignori o prescinda del tutto dalle altre dimensioni: ad esempio,

prendendo in considerazione quella etnica, possiamo constatare come, nel proprio

progetto, l’intellettuale peruviano riconosca l’utilità delle iniziative svolte tra gli indios

dagli indios medesimi, a causa di una indubbia vicinanza per quanto concerne mentalità,

lingua ecc. Né tanto meno esclude la dimensione sovrastrutturale legata alla questione

della terra. “Nel Perú degli incas il principio secondo il quale 'la vita viene dalla terra'

era più vero che in qualsiasi altro paese”21.“L’indio ha sposato la terra. Sente che la

'vita viene dalla terra' e torna alla terra. Pertanto, può essere indifferente a tutto, ma

20
José Carlos Mariátegui, op. cit., pp. 79-80.
21
Ivi, p. 80.

12
non al possesso della terra che il suo respiro e le sue mani lavorano e fecondano

religiosamente.”22. Le conclusioni cui giunge Mariátegui sono confermate dai

documenti prodotti nei congressi indigeni che si sono svolti, in tutta l’America Latina,

nel corso degli anni Settanta e Ottanta del XX secolo. “El indio es la tierra misma”23.

Per gli indios la terra costituisce “el soporte del […] universo cultural”24; “no es sólo el

objeto de nuestro trabajo, la fuente de los alimentos que consumimos, sino el centro de

toda nuestra vida, la base de nuestra vida, la base de nuestra organización social, el

origen de nuestras tradiciones y costumbres25.

Il porlo come questione di classe significa, tuttavia, che conferisce un ruolo

precipuo a quel fenomeno che è stato definito “gamonalismo”. Questo termine “non

indica unicamente una categoria sociale ed economica: quella dei latifondisti o dei

grandi proprietari terrieri. Designa un vero e proprio fenomeno. Il gamonalismo non è

rappresentato unicamente dai gamonales propriamente detti. Comprende un’ampia

gerarchia di funzionari, intermediari, agenti, parassiti, ecc. L’indio che sa scrivere si

trasforma in uno sfruttatore della propria razza perché si mette al servizio del

gamonalismo. L’aspetto centrale del fenomeno è l’egemonia della grande proprietà

semifeudale sulla politica e sul meccanismo dello stato. Bisogna pertanto agire su

questo aspetto se si vuole attaccare alla radice un male del quale alcuni si sforzano di

vedere solo le espressioni episodiche o marginali.”26 Il gamonal è frutto della

frammentazione politica e della ruralizzazione dell’economia peruviana. Il suo potere si

22
Ivi, p. 65.
23
Conclusioni del Parlamento Indio Americano del Cono Sud, 1974, cit. in Marie Chantal Barre,
Ideologias indigenistas y movimientos indios, Siglo Veintiuno Editores, Madrid, 1985.
24
Carta abierta a los Hermanos Indios de America en ocasión del I Congreso de Pueblos Indios de
America del Sur, Cuzco, Perú, 1980, por Julio Carduño Cervantes, secretario del Consejo Supremo
Mazahua, México, cit. in Marie Chantal Barre, op. cit..
25
III Congreso Nacional de la ANUC, Asociación Nacional de Usuarios Campesinos, Colombia, 1974,
cit. in Marie Chantal Barre, op. cit..
26
José Carlos Mariátegui, op. cit., p. 69.

13
esplicita attraverso il duplice aspetto di razzismo e paternalismo. È il gamonal per

Mariátegui a costituire il principale ostacolo all’emancipazione delle masse del paese,

soprattutto per quelle indigene, costrette a subire nella maggior parte dei casi rapporti

lavorativi di stampo pre-capitalistico. Ciononostante, le indagini più recenti mostrano

come la classe dei gamonales fosse tutt’altro che un gruppo omogeneo. Frequenti

risultano essere state le dispute tra i suoi membri; inoltre, diversamente da quanto si è a

lungo ritenuto, soprattutto nella zona costiera, e ancor più in particolare a Lima, il

gamonalismo non aveva affatto stabilito un controllo, un ordine stabile nelle zone rurali

del paese. In queste, al contrario, regnava l’insicurezza.27

Il sistema di sfruttamento è un sistema ereditato dalla colonia. La tanto

propagandata rottura con il periodo del Vicereame non ha dunque mai avuto luogo. La

repubblica sorta con l’indipendenza del 1821 non aveva fatto registrare cambiamenti di

natura sostanziale. Innanzitutto, non si era avuto un ricambio al vertice del potere. Nel

caso della guerra d’indipendenza la futura classe dirigente era stata in grado di

mobilitare le masse indigene, costruendo ponti tra la costa e la sierra, tra il versante

occidentale e quello andino del paese. Tuttavia, la parola d’ordine che permise tale

mobilitazione fu quella per l’appunto dell’indipendenza dalla madrepatria. Lo scopo era

la cacciata degli spagnoli, di quelli che spregiativamente venivano chiamati chapetones,

senza spazio alcuno per una rivoluzione sociale. Anzi, questa parola d’ordine fu

accuratamente e sapientemente estromessa dall’orizzonte dei ribelli. Mariátegui rende

evidente che in questo processo la vecchia aristocrazia al potere all’epoca del

Vicereame si era di fatto fusa con la nascente borghesia, anziché essere messa da parte,

mantenendo in tal modo praticamente tutte le prerogative che le erano state proprie nel

27
Alberto Flores Galindo, op. cit., pp. 211-213.

14
passato. Stando così le cose, si era propagato lo sfruttamento sugli indios, soprattutto

nelle campagne, solo addolcito da provvedimenti che miravano, invece, formalmente,

ad un cambiamento delle regole. Così l’abolizione della tanto odiata mita28 non eliminò,

se non dal punto di vista legislativo, la servitù gratuita.

Dunque, Mariátegui perviene ad una posizione che gli permette di affermare che

nella Repubblica non si sono avute quelle misure liberali che erano state invece varate

in altri paesi. Caratteristica del Perú era stata una classe politica che si riempiva la bocca

di slogan liberali, mentre, al contempo, applicava politiche assai prudenti, accorte a

salvaguardare il potere dei gamonales e di quanti, insieme a questi, costituivano l’elite

del paese. Così facendo la borghesia peruviana non si era mostrata all’altezza del

compito storico assolto dalle borghesie di altri stati. Rimanendo legati all’ambito qui

oggetto di trattazione, possiamo evidenziare che la denuncia lanciata da Mariátegui

aveva come primo bersaglio quello del regime di proprietà della terra. Si sarebbero

potute seguire politiche di riforma agraria capaci di condurre all’instaurazione di

rapporti capitalistici nelle campagne peruviane, ma si era preferito attuarne altre che di

fatto non intaccavano il latifondo. Per cui, giunti ormai nei primi decenni del XX

secolo, la soluzione liberale che proponeva il frazionamento della proprietà terriera,

appariva con estremo ritardo, addirittura anacronistica, quando ormai si imponeva la

soluzione socialista.

“ritengo che il momento di sperimentare in Perú il metodo liberale, la

formula individualista, sia già passato. Lasciando da parte le ragioni

dottrinali, prendo in considerazione fondamentalmente un fattore

28
Il termine “mita”, derivante dalla lingua quechua, la lingua di molte popolazioni andine, indicava i
lavori obbligatori e gratuiti che, al tempo dell’Impero del Sole, venivano prestati per l’Inca. Essa fu
utilizzata nel periodo coloniale in modo da costruire un sistema che costringeva l’indio a lavorare nelle
miniere e nelle piantagioni.

15
incontestabile e concreto, che conferisce un carattere peculiare al nostro

problema agrario: la sopravvivenza della comunidad e di elementi di

socialismo pratico nell’agricoltura e nella vita indigena.”29

Si evidenzia così la propensione dell’intellettuale peruviano a superare posizioni

volte esclusivamente alla denuncia dei mali della società. Il suo approccio, pur

assumendo come punto di partenza l’opera di González Prada, segna il passaggio dalla

protesta, tanto nobile quanto sterile, riguardante l’oppressione cui erano soggetti gli

indios, all’elaborazione di un progetto di riscatto. Mariátegui, infatti, si mantiene

lontano dal puro astrattismo, dai richiami dottrinari. Guarda alla società concreta per

stabilire le basi su cui innestare la propria proposta. Il programma che va redigendo e

che costituirà il programma del PSdP è una dimostrazione lampante di quanto appena

affermato. Dà luogo ad un’analisi tesa a comprendere la complessità della struttura

agraria del paese. I latifondi non occupano tutta la sua superficie; inoltre, c’è da

distinguere i latifondi della costa da quelli della sierra. I primi si inseriscono totalmente

all’interno del panorama capitalistico, configurandosi come fortemente moderni. I

secondi sono invece contraddistinti da una bassa produttività. La gestione dei

gamonales si dimostra peggiore di quella degli indios delle comunidades: questo

giudizio non si fonda, però, su argomentazioni di tipo etico o moralistico. Si attiene ad

uno studio sulla produttività dei terreni soggetti a diversi regimi di proprietà: emerge,

malgrado i dati lacunosi a sua disposizione, un elemento che evidenzia come latifondo e

comunidad producano praticamente le stesse quantità di beni, nonostante il primo

occupi i terreni più fertili.

29
José Carlos Mariátegui, op. cit., p. 78.

16
“Il feudalesimo agrario che ancora permane nella sierra non ha alcuna

capacità di creare ricchezza e progresso. […] il latifondo offre, nelle

vallate e nelle pianure della sierra, una produzione miserabile.”30

Pertanto, viene a mancare l’unica giustificazione all’instaurazione del capitalismo:

la funzione di creare ricchezze. Accade invece che il gamonal “è il primo responsabile

dello scarso valore delle sue terre”31. Per i proprietari terrieri della costa la soluzione

proposta da Mariátegui è quella della nazionalizzazione dei loro terreni. Quest’obiettivo

appare difficilmente raggiungibile nell’immediato per cui, pur permanendo come meta

cui pervenire, si arriva a stabilire la necessità di una lotta immediata che rivendichi:

per i peones de enganche, la libertà di organizzarsi, l’aumento dei salari, la giornata

lavorativa di otto ore, una legislazione di tutela del lavoro e la soppressione

dell’enganche32;

per i yanaconas33, la proprietà della terra bagnata dal sudore della loro fronte.

“Cumplimiento de las leyes de accidentes de trabajo, de protección de

trabajo de las mujeres y menores, de las jornadas de ocho horas en las

faenas de la agricultura.

[...] Abolición efectiva de todo trabajo forzado o gratuito, y abolición o

punición del regimen semi-esclavista en la montaña.

[…] Derecho de los yanaconas, arrendatarios, etc., que trabajen un

terreno más de tres años consecutivos, a obtener la adjudicación

30
Ivi, p. 122.
31
Ivi., p. 125.
32
Il termine “enganche” indica una forma di reclutamento della manodopera esterna all’hacienda, spesso
attraverso il sistema dell’indebitamento. Il fenomeno coinvolse inizialmente i coolies cinesi e,
posteriormente, i contadini provenienti dagli altopiani andini.
33
Il termine “yanaconaje” indica un’altra forma di reclutamento della manodopera, anch’essa tipica delle
haciendas costiere. Il yanacuna, o yana, o yanacona, era, all’epoca dell’impero inca, un semischiavo che
prestava servizi personali all’Inca o ai curacas.

17
definitiva del uso de sus parcelas, mediante anualidades no superiores al

60% del canon actual de arrendamiento.34

Queste rivendicazioni immediate mostrano, senza alcun dubbio, che l’opera del

peruviano non era quella di un intellettuale rinchiuso nella propria torre d’avorio, ma

quella di un politico intenzionato ad incidere, a trasformare la realtà che gli si parava

dinanzi e che dunque era propenso a costruire i propri programmi sulla base di quanto

osservato, piuttosto che a rinchiudere questo dentro schemi ideologici precostituiti.

L’obiettivo della collettivizzazione è comune anche all’APRA, che la intende inserita,

però, in un contesto capitalistico, mentre in Mariátegui la misura assume un altro valore,

legato alla prospettiva di riorganizzazione dell’intera società nazionale.

Se il problema dell’indio viene ad identificarsi e sovrapporsi con quello della terra,

quest’ultimo “si presenta, in primo luogo, come il problema della liquidazione del

feudalesimo in Perú”35. Logico corollario di tale affermazione è il pensiero secondo cui

“non si può liquidare la servitù che pesa sulla razza indigena senza liquidare il

latifondo”36, che è l’istituzione più forte su cui si fonda il feudalesimo peruviano.

Fare ciò non significa però, come già detto, propendere per una soluzione liberale del

problema, per un frazionamento e per un’assegnazione individuale della proprietà; si

deve partire dalla difesa dell’elemento peculiare del Perú, la comunidad, per dar luogo

al riscatto delle masse oppresse. Per cui, dando uno sguardo al programma del PSdP

notiamo che l’organizzazione si propone di giungere alla:

34
José Carlos Mariátegui, Programa del Partido Socialista Peruano,
http://www.marxists.org/espanol/mariateg/prog-psp.htm.
35
José Carlos Mariátegui, op. cit., p. 77.
36
Ibidem.

18
“Dotación a las comunidades de tierras de latifundios para la

distribución entre su miembros en proporción suficiente a sus

necesidades.

Expropriación, sin indemnización, a favor de las comunidades, de todos

los fundos de los conventos y congregaciones religiosas.37

La comunidad assume pertanto un valore fondamentale nel processo che

Mariátegui si sforza di portare avanti nel corso della sua breve vita.

37
José Carlos Mariátegui, Programa del Partido Socialista Peruano,
http://www.marxists.org/espanol/mariateg/prog-psp.htm.

19
Capitolo secondo

IL PROGETTO DI MARIÁTEGUI

“trovare in ciò che esiste di più antico le cose più nuove”

Carl Marx

2.1 L’AYLLU

Mariátegui fonda il proprio progetto su ciò che di peculiare, ciò che di peruviano,

ritrova nell’osservazione della realtà : l’ayllu. Questo, nonostante il duplice attacco dei

latifondisti e dei liberali, era riuscito a sopravvivere. Certamente indebolito, non si

presentava per nulla distrutto in seguito ai secoli della Colonia prima e della Repubblica

poi. Aveva mostrato un’enorme vitalità non soccombendo ai colpi inferti dai

gamonales, che miravano all’esproprio delle terre delle comunidades per accrescere i

propri possedimenti (e, conseguentemente, la base del proprio potere), e dai liberali, che

puntavano all’appropriazione individuale di piccoli appezzamenti.

L’ayllu aveva costituito la cellula su cui si era fondato l’impero inca.

Ciononostante, era nato prima dell’avvento di quest’ultimo. Era sopravvissuto, con la

sua organizzazione sociale ed il suo capo, il curaca, prima che agli spagnoli, agli incas;

prima che alla religione cattolica, al culto del Sole. Mariátegui, per spiegare il

funzionamento di tale organizzazione sociale, si appoggia alla descrizione fornita da

César Antonio Ugarte nel suo Bosquejo de la Historia Económica del Perú:

20
“Proprietà collettiva della terra coltivabile, anche se divisa in lotti

individuali non trasferibili, attribuita all’ayllu, o insieme di famiglie

imparentate tra loro; proprietà collettiva delle acque, delle terre da

pascolo e dei boschi attribuita alla marca o tribù, vale a dire la

federazione di ayllu insediate intorno a uno stesso villaggio;

cooperazione nel lavoro; appropriazione individuale dei raccolti e dei

frutti”38

La struttura dell’ayllu non era propria solo della regione della costa; essa si era

sviluppata anche lungo le alture della sierra. Qui assumeva tratti in parte diversi, dovuti

alla particolare configurazione del territorio, ma le caratteristiche di fondo permettono

di ricondurlo a quello della costa. Oltre alla prevalente attività economica, costituita non

dall’agricoltura, ma dall’allevamento (soprattutto di lama), un’altra differenza è

rappresentata dal fatto che sui monti si ergevano spesso costruzioni isolate che, tuttavia,

erano riunite con altre, ugualmente isolate, in comunità amministrative di proporzioni

piú o meno grandi. L’ayllu aveva un fondatore, cui spesso si attribuivano poteri magici,

che talvolta era venerato attraverso il culto della waka (che poteva essere anche un

antenato), responsabile della protezione del villaggio. Era una struttura praticamente

autosufficiente che poteva prescindere dall’apporto del singolo individuo, quando questi

era momentaneamente impegnato nello svolgimento della mita. I quechua erano soliti

affermare che “si un hombre ama demasiado, es mejor que diga que no vive”39, dal

momento che chi ama troppo, desidera cose per sé e non arriva mai ad uno stato di

soddisfazione, e nel mondo andino nulla appartiene alla propria persona, ma all’ayllu.

38
César Antonio Ugarte, Bosquejo de la Historia Económica del Perú, cit. in José Carlos Mariátegui, op.
cit., p. 80.
39
da http://www.infoarica.cl/1ta/arica_territorio_00000c.htm.

21
L’individuo che si autoemargina da questa unità è paragonabile pertanto ad un morto e

passa all’abietto stato di yanacona.

2.2 MARIÁTEGUI INTELLETTUALE PICCOLO-BORGHESE?

È dunque da questa struttura che Mariátegui parte per sviluppare un progetto

capace di costruire in Perú un socialismo che sia creazione originale. Egli, utilizzando i

lavori di Schkaff40 sulla questione agraria in Russia, propone un parallelo tra l’ayllu

peruviano e il mir (o obschina) russo. In entrambi i casi queste forme di proprietà

collettiva della terra convivono con forme di proprietà e di lavoro feudali: non si è di

fatto sviluppato il libero salario; i proprietari non si preoccupano della produttività dei

loro terreni, interessandosi unicamente della rendita; i fattori di produzione sono

costituiti esclusivamente dalla terra e dai contadini che la lavorano (che nel caso

peruviano coincidono con gli indios). In entrambi i paesi, comunque, la proprietà

collettiva della terra, pur soggetta ad un processo di indebolimento, mantiene una forza

notevole, capace di far presagire a molti la possibilità di un cambiamento proprio sulla

base di tale struttura. Era una questione già sollevata a suo tempo dai populisti russi,

che, sul finire del XIX secolo, si interrogavano sulla possibilità per il proprio paese di

evitare di percorrere la strada intrapresa dagli stati dell’Europa Occidentale e sviluppare

un percorso proprio, in modo da evitare le forche caudine del capitalismo. Essi erano

convinti di poter fondare il programma di rivoluzionamento della società russa sul mir,

forma di proprietà che occupava all’incirca la metà del territorio nazionale. All’epoca

della rivoluzione bolscevica, però, il percorso avviato fu un altro: la Russia si mosse

sulla strada dello sviluppo delle forze produttive secondo quello che era stato lo schema

40
José Carlos Mariátegui, op. cit., pp. 115-116.

22
tracciato da Marx in relazione ai paesi dell’Europa occidentale. La prospettiva populista

rimase senza attuazione alcuna. Proprio sulla base del parallelo tracciato da Mariátegui

tra ayllu e mir, le sue posizioni furono duramente attaccate da parte di esponenti

dell’Internazionale Comunista, non solo quando il peruviano era in vita, ma anche dopo

la sua morte. Così nel numero di maggio-giugno del 1942 della rivista cubana

“Dialéctica”, apparve un articolo di V.M. Miroshevski, intitolato “El “populismo” de

Mariátegui en el Perú, papel de Mariátegui en la historia del pensamiento social

latinoamericano”, in cui l’autore accusava il pensatore andino di “populismo”,

fondandosi sulle stesse argomentazioni che a suo tempo erano state utilizzate da Lenin

nella battaglia contro i populisti russi. La pubblicazione di quest’articolo ebbe il valore

di una scomunica per Mariátegui da parte del mondo del comunismo ufficiale. Egli era

considerato un intellettuale piccolo-borghese così come il suo socialismo era ritenuto

una forma di socialismo romantico, anch’esso piccolo-borghese. La cristallizzazione e

la dogmatizzazione del pensiero e della pratica bolscevica si andava imponendo a tutti i

paesi del globo. Né a far cambiare giudizio contribuì la pubblicazione e la divulgazione

di alcuni scritti di Marx, noti a partire dal 1926, più o meno volontariamente

dimenticati. In questi documenti, l’autore assume una posizione ben diversa da quella

propria di Engels prima e di Lenin poi. Nel carteggio con Vera Sazulich egli risponde

alle domande dei populisti russi sull’effettiva possibilità di un’evoluzione diversa da

quella caratteristica del mondo occidentale. La risposta del filosofo di Treviri in

proposito è chiara:

“esta comuna es el punto de apoyo de la regeneración social en Rusia;

pero a fin de que ella pueda funcionar como tal habrá que eliminar

primeramente las influencias deletéreas que la sacuden de todos lados y

23
luego asegurarle las condiciones normales de un desarrollo

espontáneo”41

È evidente come, nonostante l’individuazione di notevoli difficoltà, Marx non

escluda la strada che conduce all’edificazione di un regime socialista che si costruisca a

partire dal mir, e cioè a partire da una forma di proprietà collettiva della terra. Ancora

più chiaro appare un altro passo:

“la comunità rurale russa, questa forma in gran parte già dissolta, è

vero, della originaria proprietà comune della terra, potrà passare

direttamente a una più alta forma comunistica di proprietà della terra, o

dovrà attraversare prima lo stesso processo di dissoluzione che

costituisce lo sviluppo storico dell’Occidente? La sola risposta oggi

possibile è questa: se la rivoluzione russa servirà di segnale a una

rivoluzione operaia in Occidente, in modo che entrambe si completino,

allora l’odierna proprietà comune rurale russa potrà servire da punto di

partenza per una evoluzione comunista.”42

Dunque, le posizioni di Mariátegui appaiono chiaramente inserite all’interno della

traiettoria marxiana. È bene sottolineare, giunti a questo punto, che la convergenza su

questo punto tra Marx e Mariátegui è frutto di un percorso autonomo del secondo, che

non si basa sulla conoscenza degli scritti del primo sull’obshina russa, che in quel

periodo non erano ancora giunti nella regione andina. Si deve ad una concezione del

materialismo storico distante da quella allora propagandata dai dirigenti del Comintern,

41
Carl Marx, Carta de Marx a Vera Sazulich, 08 de Marzo de 1881, cit. in Gustavo Pérez Hinojosa,
Mariátegui: el rescate de la vía marxista olvidada, http://www.rebelion.org/noticia.php?id=35841.
42
Carl Marx e Friedrich Engels, Prefazione all’edizione russa del Manifesto del partito comunista, 1882,
cit. in Aníbal Quijano, Il socialismo “indoamericano” tra l’APRA e il COMINTERN, in Giovanni Casetta
(a cura di), op. cit., pp. 151-152.

24
concezione secondo cui esso non costituisce un complesso di norme rigide, valide

ugualmente per tutti i climi storici e le latitudini sociali, né una nuova metafisica o una

nuova filosofia della storia, bensì un metodo dialettico che si appoggia sulla realtà.

2.3 COSA RAPPRESENTA L’AYLLU?

In questa visione, Mariátegui sottolinea alcuni aspetti strettamente connessi con

l’organizzazione sociale propria dell’ayllu. Egli non constata solo la resa economica

praticamente uguale dei terreni sottoposti ai diversi regimi di proprietà del latifondo e

della comunidad (nonostante, occorre ribadirlo, i grandi proprietari mantenessero per sé

le terre migliori), ma pone in rilievo anche il sistema che si viene a creare a partire dal

possesso comunitario della risorsa terra.

La civiltà incaica, che ha nell’ayllu la cellula fondamentale dello stato, si

contraddistingue per il suo comunitarismo, che per Mariátegui è comunismo. Egli fa

distinzione, per la verità, tra comunismo moderno e comunismo incaico: le differenze

che intercorrono tra i due sono dovute alle diverse condizioni storiche in cui registrano

il proprio sviluppo. La civiltà incaica è prevalentemente contadina; “quella di Marx e di

Sorel è una civiltà industriale”43. La coscienza di questa differenza gli permette di

prendere parte al dibattito in corso tra vari studiosi inerente la configurazione

dell’impero del Sole, in maniera assolutamente chiara e peculiare. Riconoscere le

differenze esistenti tra comunismo moderno ed incaico lo conduce a contrastare le tesi

di coloro i quali, partendo dalla constatazione dell’assenza di libertà sotto l’Inca,

affermavano che non si poteva parlare di comunismo per l’organizzazione sorta in quei

secoli; in realtà l’approccio relativista fatto proprio da Mariátegui, gli permette di

43
José Carlos Mariátegui, op. cit., p. 102.

25
cogliere che il concetto di libertà cui questi studiosi facevano riferimento non era affatto

assoluto, bensì caratteristico di una determinata epoca, quella dell’ascesa e del dominio

della borghesia urbana. In altri tempi il comunismo aveva potuto convivere con

l’autocrazia, senza che ciò significasse la soppressione o repressione della volontà e

degli impulsi delle masse. Era accaduto esattamente questo ai tempi della civiltà

incaica, quando i regnanti avevano creato l’unità imperiale senza distruggere la cellula

preesistente: l’ayllu. Gli incas non erano stati feudali, né tantomeno si può utilizzare il

termine socialismo, che apparirebbe un incredibile anacronismo. Un’organizzazione

fondata sulla combinazione dell’appropriazione collettiva dei beni e dei prodotti con

l’esistenza di uno stato, accanto ad un’agricoltura altamente sviluppata e progredita,

necessitava di un termine adeguato. Non si trattava di comunismo primitivo, bensì di

comunismo agrario. Mariátegui ravvisa nella civiltà incaica un elemento realmente

autoctono, una tappa assolutamente peculiare, dal momento che, mentre in Europa si

procedeva dal sistema schiavistico a quello feudale, sulle Ande persisteva il

collettivismo. L’arrivo degli spagnoli aveva prodotto l’interruzione di questa traiettoria,

ma il crollo dello stato non aveva trascinato con sé gli ayllus, che erano riusciti a

protrarre la propria esistenza, attraverso una lunga lotta, più o meno silenziosa e

sotterranea, mediante le comunidades.

La vitalità di queste cellule aveva reso possibile la permanenza di elementi di

collettivismo anche nell’epoca contemporanea. Appoggiandosi per le sue

argomentazioni ai lavori di Hildebrando Castro Pozo, Mariátegui pone in rilievo

l’esistenza di elementi di solidarietà, di cooperazione, di un vero e proprio spirito

comunitario. Questo permane anche laddove l’espropriazione e la redistribuzione hanno

liquidato le comunidades. Si è manifestato in altre forme e in altri modi: il lavoro

26
comune viene sostituito dalla cooperazione nel lavoro individuale.44 Laddove persiste la

comunidad, invece, si può osservare il permanere di “due grandi principî economico-

sociali che né la scienza sociologica né l’empirismo dei grandi industriali hanno potuto

risolvere in modo soddisfacente: il contratto multiplo di lavoro e la sua realizzazione

con il minor logorio fisico possibile, in un ambiente piacevole di emulazione e

cameratismo”45. Già in queste parole si può scorgere come oggetto dell’attenzione di

Mariátegui non siano soltanto gli effetti materiali dell’organizzazione incaica. Il sistema

del latifondo e quello dell’ayllu si distinguono anche perché sono latori di due casi

psicofisici tra i quali esiste un abisso. L’analisi della realtà peruviana mostra come alla

freddezza, alla negligenza, alla mollezza, all’apparente stanchezza con cui gli

yanaconas prestano i propri servizi, si contrappone l’energia, la perseveranza, l’allegria,

la leggerezza propri dei comproprietari dell’ayllu nello svolgimento di identiche

mansioni. Insomma, Mariátegui arriva a scorgere gli elementi spirituali caratteristici del

lavoro sotto diversi rapporti e modi di produzione. Era questo uno dei temi

maggiormente dibattuti all’interno del panorama marxista, soprattutto per gli apporti di

coloro i quali si professavano assertori delle tesi freudiane. Essi sostenevano che la

produzione marxiana aveva risentito troppo di un’impostazione che privilegiava la sfera

economica, relegando in un piano assolutamente marginale tutte le altre. Costoro

costituivano una schiera di intellettuali impegnati in un progetto di revisione del

marxismo. In quest’opera, particolare rilevanza aveva assunto, negli anni Venti, uno

studioso belga, Henri De Man. Nel suo testo più noto, Au-delà du marxisme, si impegna

in un’opera che, come fine, si propone quello di scalzare l’analisi economica dal

piedistallo su cui era stata posta. Mariátegui si inserisce nella diatriba in corso
44
Ivi, p. 106.
45
Hildebrando Castro Pozo, Nuestra Comunidad Indígena, p. 47, cit. in José Carlos Mariátegui, op. cit.,
p. 109.

27
sostenendo che le tesi di De Man risentono della tendenza ad applicare all’analisi della

politica e dell’economia i principî della scienza più in voga, che in quegli anni era,

senza ombra di dubbio, la psicanalisi. Il socialdemocratico belga accusa il marxismo di

sottovalutare gli aspetti spirituali del lavoro, per concentrarsi esclusivamente sulla sua

dimensione economica o, addirittura, monetaria. Mariátegui dimostra invece come

l’accusa di De Man si rivolga contro la corrente dominante all’interno del marxismo

belga: quella riformista. “Il quadro sintomatico che ci offre nel suo libro dello stato del

lavoro industriale, corrisponde alla sua esperienza individuale nei sindacati belgi.

Henri De Man conosce il campo della riforma; ignora quello della Rivoluzione”46. Egli

non riesce a scardinare le premesse del marxismo, che non è affatto in contraddizione

con un’analisi che ponga in evidenza gli elementi psichici del lavoro. La stessa opera di

Mariátegui è una dimostrazione lampante di ciò. Risulta essere in grado di dar luogo a

quella che è ritenuta la migliore analisi marxista di un frammento della realtà

latinoamericana senza prescindere da tali elementi. Lo studio dell’ayllu gli permette di

arrivare a conoscenza proprio del fatto che il lavoro, sottoposto a diversi regimi, cambi

completamente fisionomia, oltre ad essere veicolo di quella felicità che secondo De

Man si incontra non solo grazie ad esso, ma anche in esso. La separazione intervenuta

tra produttore e prodotto, tra l’operaio e il suo lavoro ha sicuramente effetti anche sulla

soddisfazione, sulla psiche dell’individuo. Tuttavia, ciò non contraddice in alcun modo

il marxismo, soprattutto laddove si abbia dinanzi agli occhi il lavoro portato avanti su

quella che è stata definita “alienazione”. Pertanto, Mariátegui può condurre un’opera in

cui grande rilievo assumono gli elementi spirituali senza uscire dal tracciato della

tradizione marxista, dimostrando grande sensibilità verso le nuove scienze, arrivando a

46
José Carlos Mariátegui, Difesa del marxismo,Galileo, Padova/Roma, 1971, p. 26.

28
pubblicare sulla sua rivista più famosa, Amauta, un articolo di Sigmund Freud. Prendere

in considerazione tali elementi è propedeutico all’elaborazione del proprio progetto

politico di riscatto e liberazione delle masse oppresse peruviane.

2.4 LA CONOSCENZA DEL PASSATO E DEL MONDO INCAICO47

Affinché questo sia efficace, Mariátegui, quindi, avverte la necessità di saldarlo al

passato ed alle tradizioni della regione andina. Tuttavia, in merito a ciò si è venuta ad

innestare una polemica riguardante la presunta ignoranza del passato indigeno da parte

del politico di Moquegua. Alcuni autori lo hanno accusato di non essere giunto ad una

piena comprensione dell’organizzazione dell’impero del Sole, arrivando in tal modo a

mettere in discussione l’intero progetto mariateguiano. Cercando di incrinare le

fondamenta, hanno cercato di abbattere l’intero edificio. I punti oggetto della polemica

sono numerosi. In primo luogo, si è messo in evidenza il fatto che la conoscenza della

realtà peruviana non è il frutto di un’osservazione diretta, ma passa attraverso le

interpretazioni di altri. In effetti, Mariátegui non si mosse praticamente mai da Lima, se

si eccettua l’esilio in Europa. Questo inequivocabile dato di fatto si spiega non con una

mancanza di volontà, bensì con la grave malattia da cui era affetto sin dall’infanzia e

che lo costrinse, nel 1924, a sottoporsi ad un’operazione per l’amputazione della gamba,

per evitare di andare incontro a conseguenze ben peggiori. Da quel momento fu

costretto su una sedia a rotelle che gli rendeva difficile, se non impossibile, qualsiasi

spostamento. Per questo motivo egli si affidò agli studi e ai lavori di quanti lo

47
Per l’elaborazione di questo paragrafo, per quanto riguarda le critiche mosse a Mariátegui, si è preso
spunto dai due lavori di Luis Veres Cortés, El problema de la identidad nacional en la obra de José
Carlos Mariátegui, http://www.univ-brest.fr/amnis/documents/Veres2002.pdf. e La revista Amauta y el
concepto de nación en el Perú, http://www.ull.es/publicaciones/latina/a1999adi/09veres.html.

29
circondavano, appoggiandosi in particolar modo, per ciò che concerne la questione

dell’indio, alle produzioni di Castro Pozo e di Valcárcel.

A questa accusa, che potremmo definire di carattere metodologico, ne fanno

seguito altre, maggiormente attente al merito dell’analisi mariateguiana. Gli è imputato

il fatto di aver taciuto l’esistenza di sacrifici umani, della schiavitù e della divisione in

caste. Tralasciando il fatto che sulla presenza di sacrifici umani ancor oggi si dibatte ed

alcuni parlano di “presunti sacrifici”48, si deve notare che l’opera di Mariátegui non è

uno studio antropologico, bensì un lavoro propedeutico al rivoluzionamento della realtà

sulla base di elementi già esistenti; di conseguenza, sono sottolineati solo quegli aspetti

utili all’adempimento di tale scopo. Inoltre, come già ribadito sopra, schiavitù e

divisione in caste non inficiano in alcun modo il carattere comunitario della società

incaica, dal momento che chi muove questa accusa lo fa sostenendo una concezione

liberale figlia dei sommovimenti ottocenteschi, ma che non ha ragion d’essere in

riferimento al Perú antecedente la Conquista. Ancora, si afferma che la prospettiva della

rivoluzione socialista è viziata dall’errata convinzione del carattere feudale del sistema

spagnolo e poi di quello repubblicano: essi sono già capitalisti. A questa critica si può

rispondere riprendendo le stesse pagine dei lavori mariateguiani, dove è ben evidenziato

come l’economia peruviana sia contraddistinta dalla compresenza di elementi di

capitalismo, feudalesimo e collettivismo. Se i settori che si stavano sviluppando sulla

costa avevano iniziato il passaggio al capitalismo (seppur in modo balbettante), anche

attraverso la meccanizzazione e l’industrializzazione del lavoro, non altrettanto si

poteva dire per i gamonales che nelle proprie tenute facevano ancora ricorso a modi di

produzione e rapporti di tipo feudale. Bisogna constatare come questa prospettiva non

48
Alberto Flores Galindo, op. cit., p. 37.

30
sia solamente di Mariátegui, ma è fatta propria da molti studiosi, della più diversa

filiazione politico-ideologica. Infine, si pone in rilievo come l’”Incario” non sia un tutto

omogeneo, ma l’insieme di gruppi molto diversi tra loro, come è facile notare già se si

confrontano gli indios della sierra con quelli della selva. Questa realtà si deve alla storia

che precede l’arrivo degli incas:

“questi uomini non produssero un mondo omogeneo e coeso. Lungo tutta

la loro storia autonoma hanno predominato i regni e i potentati

regionali. Gli imperi sono stati fenomeni recenti. Perché una

organizzazione statale racchiuda tutta l’area culturale bisogna attendere

gli incas […]. All’arrivo degli spagnoli, con il crollo dello stato incaico,

riappaiono diversi gruppi etnici – come gli huancas, chocorvos, lupacas,

chancas – diversi quanto a lingue e costumi, molte volte rivali tra loro,

come frutto di un’antica storia di scontri.”49

Né si può dire che in seguito ai secoli della Colonia e della Repubblica la

situazione sia granché cambiata, se è vero che ancora all’epoca in cui il marxista

peruviano scriveva (e, se è per questo, a tutt’oggi) i contadini della sierra peruviana non

si definivano andini o indios, ma preferivano ricorrere al nome del luogo di nascita,

della montagna tale o del villaggio tal’altro. Su questo terreno Mariátegui pare essere

consapevole delle divisioni regionali esistenti. Così quando parla dei congressi indigeni

individua il loro merito fondamentale nell’organizzazione stessa di tali incontri. Difatti,

attraverso di essi la popolazione indigena giunge a formulare le proprie rivendicazioni,

un proprio programma, e grazie a questi perviene all’acquisizione della coscienza della

propria unità.

49
Ivi, p. 22.

31
“Manca agli indios un legame nazionale. Le loro proteste sono sempre

state regionali. Ciò ha contribuito in gran parte al loro abbattimento. Un

popolo di quattro milioni di uomini, cosciente del suo numero, non

dispera mai del suo avvenire. Gli stessi quattro milioni di uomini, sino a

quando non sono che una massa inorganica, una moltitudine dispersa,

sono incapaci di decidere il loro cammino storico.”50

Nei congressi entrano invece in contatto gli indios delle diverse regioni che

compongono il Perú; si incontrano gli indigeni del Sud, con quelli del Centro e con

quelli del Nord e da questi appuntamenti possono partire per riuscire nell’opera del

proprio riscatto. Ciò che al massimo si può imputare a Mariátegui, almeno per ciò che

emerge dai suoi testi, è la mancata percezione non delle divisioni esistenti tra le diverse

comunità indigene, quanto delle rivalità ancora viventi. Se si analizzano alcuni eventi

del passato, queste emergono abbastanza puntualmente. All’interno della ribellione

capeggiata da Tupac Amaru II (1780), per esempio, vennero a delinearsi due forze

contrastanti: da una parte l’aristocrazia indigena che mirava in maniera esclusiva alla

cacciata degli spagnoli; dall’altra i contadini che si sentivano chiamati ad un vero e

proprio pachacuti51. I contadini non si riconobbero nella bandiera nazionale fino ai

primi decenni del XX secolo. Inoltre, molti indios rimasero fedeli alla bandiera del re,

creando in tal modo una situazione che vedeva non solo scontri tra indios e meticci, ma

anche tra indios stessi. Questa circostanza non è però solo frutto del caso o delle antiche

50
José Carlos Mariátegui, Il problema prioritario del Perú, in Lettere dall’Italia, (a cura di Ignazio
Delogu), cit., p. 228.
51
Molti cronisti e studiosi hanno creduto che con il termine “pachacuti” gli indios indicassero un
governante, equivalente a Cesare o Pericle. Tuttavia, altri, maggiori conoscitori della realtà incaica, hanno
inteso questa nozione in modo diverso: con “pachacuti” gli indios indicavano una sorta di forza tellurica,
una specie di cataclisma, era nuova e castigo allo stesso tempo.

32
rivalità; essa è dovuta ad una precisa strategia delle classi dominanti volta a distruggere

qualsiasi possibile germe dell’unione delle classi oppresse.

Una siffatta strategia è stata messa in atto anche dalle cariche dello stato peruviano

durante il conflitto che opponeva le stesse a Sendero Luminoso52. In quest’occasione la

scelta attuata dalle autorità statali fu quella di minimizzare le perdite militari, facendo sì

che i costi della guerra ricadessero sulla popolazione civile. Anziché spedire nei villaggi

ufficiali ignoranti della lingua quechua, si decise di arruolare contadini,

contrapponendoli ai senderisti. A prescindere dalla tattica di non tollerare la neutralità,

l’esercito studiò le situazioni locali, riuscendo a scovare i molteplici conflitti esistenti

all’interno delle comunità, che opponevano i pastori ai contadini, gli uomini dei monti a

quelli delle valli, oltre a scovare litigi per le terre e rivalità interetniche. È questo, senza

dubbio, un tratto che manca nell’analisi di Mariátegui e che avrebbe potuto mettere a

repentaglio l’opera di riscatto degli indios. Tuttavia, forse anche per superare divisioni e

rivalità inter-comunitarie, egli si richiama non alla comune appartenenza etnica, bensì a

quella di classe. Vista da questa prospettiva, la lotta da portare avanti non è contro chi

conduce la stessa vita, sottoposto ad un’uguale condizione lavorativa, ma contro gli

artefici di quel sistema di sfruttamento che tante sofferenze e privazioni arrecava.

2.5 TRADIZIONE E TRADIZIONALISMO

L’indio, dunque, non è identificato solo come soggetto del futuro processo

rivoluzionario. La sua figura assume una valenza fondamentale sia nel presente che nel

52
Sendero Luminoso (dal sottotitolo utilizzato per le pubblicazioni: Por el Sendero Luminoso de José
Carlos Mariátegui), nato all’interno dell’Università Nazionale San Cristóbal di Huamanga, si rese autore
di una lunga guerriglia, ispirata ai principi maoisti, a partire dagli anni Ottanta, avente come obiettivo
l’instaurazione di un regime comunista. Il lungo scontro con lo stato fu contraddistinto da efferatezze
inaudite, in primo luogo la tortura e l’uccisione di civili innocenti. La striscia di sangue lasciata in Perù
permette di considerare Sendero Luminoso come uno dei movimenti più feroci apparsi sulla scena
mondiale nell’arco del XX secolo.

33
passato, sia per il presente che per il passato. Mariátegui indaga quest’ultimo partendo

dal contrasto insanabile che lo contrappone alle classi dirigenti. Egli punta alla

riappropriazione di qualcosa che troppo a lungo è stato monopolio dei conservatori: la

tradizione. Elaborare un progetto di rivoluzionamento della realtà non significa

prescindere dal passato. “La capacità di intendere il passato va unita alla capacità di

avvertire il presente e di preoccuparsi per il futuro.”53

Analizzando le tesi dei rappresentanti della classe dirigente, appare chiaro il

quadro all’interno del quale si definisce la cosiddetta “peruvianità”. Per comprendere al

meglio il pensiero di Mariátegui in relazione a ciò, non si può fare a meno di includere

nella trattazione concetti come nazionalità, tradizione, tradizionalismo, passato,

passatismo, modernità. Tutti entrano nei testi mariateguiani e sono parte essenziale del

complesso universo elaborato a riguardo. La classe dirigente peruviana si era

appropriata della tradizione nazionale, forgiandola in base ai propri interessi. Per cui si

era sentita erede dell’impero spagnolo più che di quello inca: si considerava discendente

dei conquistadores, dei viceré; figlia della Spagna e della cultura della penisola iberica.

L’indipendenza era stata un’iniziativa dei creoli e non degli indios. Da ciò era discesa la

successiva configurazione della nazionalità peruviana. Ma l’opera di costruzione era

lungi dal potersi considerare ultimata. Il paese andino presentava la compresenza di due

formazioni vissute per secoli l’una accanto all’altra senza mai giungere ad una reale

fusione.

“L’unità peruviana è ancora da fare, e non si presenta come un

problema di articolazione e convivenza di tanti piccoli stati o città libere

nei limiti di un unico stato. Il problema dell’unità in Perú è molto più

53
José Carlos Mariátegui, Passatismo e futurismo, Lettere dall’Italia e altri scritti, (a cura di Ignazio
Delogu), cit., p. 219.

34
profondo perché non c’è da risolvere una pluralità di tradizioni ma un

dualismo di razze, di lingua e di sentimenti, nato dall’invasione e

conquista del Perú autoctono da parte di una razza straniera che non è

riuscita a fondersi con quella indigena, né a eliminarla, né a

assorbirla.”54

Spagnoli e creoli si erano insediati sulla costa, trasferendovi il centro delle attività

economiche e politiche, senza essere mai in grado di conquistare la sierra, sulle cui

alture e nelle cui valli viveva la stragrande maggioranza delle popolazioni indigene. Tra

indios e meticci non si erano mai venuti a creare dei canali di comunicazione

permanenti e strutturati. La costruzione della nazionalità era avvenuta, pertanto,

escludendo l’indio. Dedicandosi al passato, le classi dirigenti del paese avevano dato

prova di interessarsi maggiormente all’epoca del vicereame che non al periodo incaico.

L’indigeno si configurava come l’elemento prenazionale mentre, al contempo, ci si

sforzava di acquisire come proprio il passato della Spagna, nonché l’intero universo

della latinità. Le categorie di autoctono e straniero subiscono in tal modo un

ribaltamento.55

Per Mariátegui la situazione è ben diversa: egli ravvisa l’elemento autoctono

nell’indio, quello straniero nel conquistatore spagnolo e in quanti ancora sono a questo

legati da un cordone ombelicale che non accenna ad essere reciso. Sulle orme di

González Prada, afferma che l’unità genuinamente nazionale è l’indio. Taccia di

“tradizionalismo”, definendolo come quella “actitud política o sentimental que se

resuelve invariablemente en mero conservatorismo”56, l’atteggiamento dei ceti

54
José Carlos Mariátegui, Sette saggi…, cit., p. 212.
55
Antonio Melis, op. cit., p. 194.
56
José Carlos Mariátegui, Heterodoxia de la tradición, cit. in Fernanda Beigel, Mariátegui y las
antinomias del indigenismo, http://redalyc.uaemex.mx/redalyc/pdf/279/27901303.pdf.

35
conservatori che si richiamano nostalgicamente al passato coloniale. Questo

comportamento non è evidente solo in politica, ma anche in letteratura. Nel suo saggio

“Il processo della letteratura”, Mariátegui giudica la produzione nazionale tenendo in

conto tutti questi fattori. La letteratura peruviana gli appare un prodotto d’importazione

e d’imitazione. Essa non affonda le proprie radici nella tradizione, nella storia andina,

ma in quelle iberiche. Se per l’autore dei “Sette saggi” Garcilaso57 e Melgar58 possono

considerarsi artefici dei primi momenti realmente “peruviani” della letteratura

nazionale, per la generazione dei “futuristi” non può dirsi altrettanto. Il massimo

esponente di questo movimento fu Riva Agüero che si diede molto da fare per

idealizzare un passato che, nella sua visione, così come in quella degli altri futuristi,

aveva dei confini ben delimitati, ovvero quelli del vicereame. Anche per questo motivo

gli intellettuali peruviani non erano mai riusciti a saldarsi al popolo, non erano mai stati

in grado di sentirsi ad esso vincolati. Tra l’impero incaico e la colonia avevano operato

una scelta chiara a favore della seconda.

C’è bisogno, invece, di ripensare l’agente autoctono: “in Perú l’autoctono è

indigeno, cioè incaico”59. Per cui, rimanendo per un attimo nell’ambito letterario, il

lamento indigeno, la zamba e gli yaravies, appaiono come le note più autentiche del

vero Perú. Mariátegui, lanciandosi all’attacco di quello che definisce “passatismo”, non

rimane confinato solo alla pars destruens, ma è pronto a contribuire alla delineazione di

una “nazionalità in formazione”, così come egli stesso la chiama. I secoli della Colonia

e della Repubblica, per quanto mediocri possano essere stati, sono un fatto
57
Garcilaso de la Vega (1539-1616) compilò i Comentarios Reales (1606), in cui tracciava la storia
dell’“Incario” fino all’arrivo degli spagnoli. Nel 1616, come opera postuma, vide la luce la Historia
General del Perú, in cui, invece, riprendeva i fili del discorso precedente, a partire dal punto in cui si era
arrestato. Queste opere ebbero poi una grande influenza su tutto il mondo intellettuale peruviano.
58
Mariano Melgar (1791-1815) è conosciuto soprattutto per i suoi componimenti, in massima parte
yaravies (canzoni o poesie in quechua), in particolare per quelli dedicati alla donna amata, María Santos
Corrales, meglio nota come “Silvia”.
59
José Carlos Mariátegui, Sette saggi…, cit., p. 268.

36
assolutamente inconfutabile. Tuttavia, la base della nuova nazionalità, della vera

peruvianità, non può fare riferimento esclusivo a queste epoche; c’è la necessità di

risalire più indietro nel tempo. Così facendo si scoprirà come il Perú autoctono si fonda

sull’indio.

“Quando si parla della peruvianità, bisognerebbe indagare se questa

peruvianità comprende l’indio. Senza l’indio non c’è peruvianità

possibile. Questa verità dovrebbe essere valida soprattutto per le

persone di ideologia meramente borghese, demoliberale e nazionalista.

Il motto di ogni nazionalismo, a cominciare dal nazionalismo di Charles

Maurras e dell’Action Française, dice: "Tutto ciò che è nazionale è

nostro".”60

Questa impostazione permette, inoltre, di sottrarre ai settori più retrivi e

conservatori del paese il patrimonio della tradizione. Questa è ora rivendicata dalle

nuove generazioni, le stesse che operano per la rivoluzione. Il monopolio dei

tradizionalisti viene così fortemente incrinato: l’indio entra a far parte della vita

nazionale. Anche settori liberali riconoscono che non è più ammissibile una linea di

condotta che tolleri semplicemente l’esistenza delle masse indigene accanto a quelle

bianche, senza alcuna preoccupazione per la loro condizione, ma con l’unica ansia di

escogitare il metodo di sfruttamento più redditizio. Malgrado queste aperture di settori

liberali, l’iniziativa di riappropriazione delle proprie tradizioni è nelle mani dei

rivoluzionari, i quali si sono resi artefici della rivendicazione del passato incaico,

ponendo in tal modo un importante tassello per la sconfitta del gamonalismo che,

60
José Carlos Mariátegui, Il problema prioritario del Perú, Lettere dall’Italia…, (a cura di Ignazio
Delogu), cit., p. 227.

37
seppur ancora in vita in quanto stato sociale, è stato inesorabilmente battuto in campo

etico e spirituale.

“il programma elaborato dalla coscienza di questa generazione è mille

volte più nazionale di quello che in passato si nutrì solo di sentimenti e

superstizioni aristocratiche o di concetti e formule giacobine. Una

concezione che sostenga la supremazia del problema dell’indio è, allo

stesso tempo, molto umana e molto nazionale, molto idealista e molto

realista.”61

L’accusa di passatismo non è però formulata solo con riferimento a coloro i quali

potevano essere stimati quali sostenitori dei regimi coloniale e repubblicano. Essa è

valida anche se prendiamo in considerazione il pensiero dei fautori della restaurazione

dell’impero incaico. Costoro si producevano in vere e proprie apologie dei fasti

dell’impero andino, considerando la sua restaurazione alla stregua di una panacea per

tutti i mali del presente. Nelle loro file può ritenersi arruolato anche uno stretto

collaboratore di Mariátegui: Luis Valcárcel. Utilizzava una prosa che potremmo definire

quasi mistica per denunciare gli orrori della società peruviana, schiava del potere dei

gamonales, lanciandosi in una perorata difesa del passato incaico, la cui riproposizione

è vista come possibile soluzione.62 La strada del ripristino delle glorie del

Tahuantisuyo63 è stata battuta da numerosi studiosi e politici. Nel Perú degli anni di

Mariátegui il gruppo probabilmente più consistente si riuniva attorno ad una rivista

intitolata “La Sierra”. Uscita tra il 1927 e il 1930, si fece interprete di un progetto

secondo cui la redenzione dell’indio poteva essere solo il prodotto del lavoro e della

61
José Carlos Mariátegui, Sette saggi…., cit., p. 206.
62
Alberto Flores Galindo, op. cit. p. 242.
63
Il termine “Tahuantisuyo” è il nome quechua dell’impero incaico. Letteralmente significa “quattro
parti”.

38
lotta di quanti provenivano dall’interno. Questa concezione, passata alla storia con il

nome di “Serranismo”, era una concezione virulenta e radicale che considerava il

limeño come principale nemico, assumendo tutto ciò che era della provincia

(dell’interno) come patrimonio da difendere.

“La Sierra” fu dunque l’organo del serranismo. Essa rivendicava un “umanesimo”

antimperialista, critico dell’esperienza rivoluzionaria sovietica e del comunismo locale.

Criticava ferocemente quanti parlavano del problema dell’indio senza avvicinarsi

fisicamente all’ayllu. Bersaglio polemico fu anche la rivista Amauta, fondata dallo

stesso Mariátegui, a causa della composizione dei suoi redattori, prevalentemente

limeñi, ritenuti incapaci ed impreparati.64 L’accusa mossa a questa rivista di essere

limeñista cozza, però, contro il dato di fatto che la maggior parte dei testi che essa

editava erano diretti alla provincia, come precisa scelta politica (lo stesso discorso si

può fare per la casa edititrice Minerva, fondata sempre da Mariátegui nel 1925), oltre

alla considerazione secondo cui ad Amauta collaborarono penne provenienti da tutto il

continente e non solo. All’interno della corrente serranista rientra anche il Partito Indio,

fondato in Bolivia da Fausto Reinaga, che, richiamandosi alla comune appartenenza

etnica, puntava alla mobilitazione ed organizzazione di tutti gli indigeni del paese i

quali, una volta uniti sotto le stesse bandiere, avrebbero potuto, dal momento che

costituivano la maggioranza della popolazione boliviana, porre fine al dominio secolare

dei bianchi. Come si può notare, in questi ultimi due casi il discorso è aperto anche a

soluzioni che oppongono al razzismo, non solo ideologico, delle classi dominanti, un

razzismo che si muove in direzione diametralmente opposta.65

64
Fernanda Beigel, op. cit., http://redalyc.uaemex.mx/redalyc/pdf/279/27901303.pdf.
65
Marie Chantal Barre, op. cit..

39
Per meglio cogliere le differenze che separano Mariátegui da coloro che si

ostinano ad elaborare utopici progetti di restaurazione del Tahuantisuyo, da coloro che

propugnano, ancora una volta, una soluzione etnica del problema, mirando al recupero

di tutte le tradizioni dell’antico mondo andino, è bene analizzare un elemento inerente

l’ayllu precedentemente tralasciato. L’ayllu è qui preso in considerazione non tanto per

la sua realtà contemporanea (di cui ci siamo già occupati), quanto per le possibilità che

sulla base di esso si dipanano. “La comunidad può essere trasformata in cooperativa

con uno sforzo minimo”66. È dunque questo il fine cui tendere. L’ayllu non va preso in

sé, ma per gli sviluppi che da esso si possono avere. Lo spirito comunitario, il

collettivismo, la solidarietà e il cooperativismo, devono essere gli elementi da cui

partire per giungere all’edificazione di una società socialista. L’ayllu da cellula dello

stato incaico dovrà trasformarsi nella cellula di uno stato socialista. Per raggiungere

questo scopo è necessario profondere energie nella difesa della comunidad dagli

attacchi cui è quotidianamente sottoposta, incoraggiarla e sostenerla anche mediante

l’utilizzo di tecnici e strumenti atti a migliorare la resa dei terreni. Mariátegui non vuole

conservare il passato, né tanto meno riproporlo: nella sua visione “gli indigenisti

rivoluzionari, invece di un platonico amore per il passato incaico, manifestano

un’attiva e concreta solidarietà con l’indio di oggi. Quest’indigenismo non sogna

utopistiche restaurazioni. Sente il passato come una radice, ma non come un

programma.”67.

Malgrado queste divergenze, la principale concezione antagonista a quella di

Mariátegui rimane quella di Haya de la Torre e dell’APRA. Quando nel 1924,

dall’esilio messicano, Haya aveva dato vita a questa organizzazione, Mariátegui aveva
66
José Carlos Mariátegui, Sette saggi…, cit., p. 353.
67
José Carlos Mariátegui, Nazionalismo e avanguardismo, Lettere dall’Italia (a cura di Ignazio Delogu),
cit., p. 246.

40
aderito al progetto. Egli era un forte sostenitore del fronte unico68, non tanto sul modello

europeo di opposizione al fascismo, bensì sulla base di quello tracciato da González

Prada, che voleva uniti “Lavoratori Manuali ed Intellettuali”.69 L’APRA riproduceva un

fronte di tutte le classi oppresse dall’oligarchia nazionale e dall’imperialismo, (inteso,

diversamente che nel Lenin dell’“imperialismo fase suprema del capitalismo”, come

propedeutico allo sviluppo capitalistico nel subcontinente americano), portando avanti

la politica delle tre classi: operai, contadini e ceti medi. Tuttavia, sebbene non fosse

affermato esplicitamente, l’egemonia sarebbe stata appannaggio proprio di questi

ultimi.70 Le differenze tra Haya e Mariátegui andarono però approfondendosi col

passare degli anni; essi avevano una diversa concezione dell’imperialismo, nonché una

diversa valutazione della possibilità di trasformare quello che era un fronte continentale

in un partito nazionale. In realtà, quando Haya si faceva sostenitore di quest’ultima tesi,

andava incontro ad una congiuntura favorevole, a causa della crescita numerica dei ceti

medi e della mancanza di rappresentanza da parte del proletariato. Successivamente

l’APRA avrebbe abbandonato il programma iniziale, in particolare l’antimperialismo,

spostandosi, nello spettro politico, da sinistra verso il centro.71

Per quanto concerne la politica indigenista, Flores Galindo ha affermato che con

Mariátegui e Haya si contrappongono utopia e messianismo. Questi due modi di

affrontare la realtà nazionale e realizzare la sua trasformazione fanno assegnamento su

due percorsi diversissimi. Quello di Mariátegui confida nella capacità creativa delle

masse, nella necessità dell’intervento costante dei lavoratori affinché fosse scongiurato

il rischio fascismo e nell’esigenza di declinare il marxismo in quechua. Il percorso si

68
José Carlos Mariátegui, Sette saggi…, cit. p. 367.
69
Pier Paolo Petrini, op. cit., p. 220.
70
Manuel Plana e Angelo Trento, L’America Latina nel XX secolo, Ponte alle Grazie, Firenze, 1991, p.
207.
71
Ivi, p. 210.

41
costruisce conseguentemente dal basso, dalle comunidades e dai villaggi72. Per contro,

in quello di Haya si delinea un percorso dall’alto che non prevede alcuna impellenza di

dibattito o di confronto, dal momento che ha bisogno solo di adepti: la sua intelaiatura

è autoritaria73. Spesso in questa dura contrapposizione gli apristi hanno voluto ritenersi

gli unici possessori dell’attributo di realismo. Il loro progetto incarnava gli umori più

profondi del paese, ben si confaceva al suo stile politico. Dall’altra parte ci si rifaceva

ad una tradizione più antica, quella del collettivismo andino. Il dibattito si spostava a

questo punto sulle caratteristiche stesse della comunidad. La domanda che ci si poneva

e cui si rispondeva in maniera tanto diversa era questa: cos’è la comunidad? Gli apristi

la ritenevano un organismo corporativo e gerarchico, al cui interno i contadini si

configuravano come seguaci del leader carismatico; gli altri la valutavano come un

organismo di democrazia popolare e consideravano i contadini protagonisti della loro

storia.74

2.6 AMAUTA

La polemica con l’APRA si sviluppa anche, se non soprattutto, a partire dalle

colonne di Amauta. È da queste pagine che, nel 1928, con l’articolo “Aniversario y

balance”, si rende palese la rottura tra Mariátegui e l’aprismo, a causa della volontà dei

suoi dirigenti, in primo luogo di Haya de la Torre, di trasformare quello che fino ad

allora era stato un fronte capace di tenere insieme anche individui provenienti da

esperienze molto diverse, in un vero e proprio partito politico. L’Alianza, nata come

movimento continentale, diveniva ora partito nazionale; sorta recando con sé la

72
Alberto Flores Galindo, op. cit., p. 244.
73
Ivi, p. 245.
74
Ibidem.

42
possibilità di rappresentare il luogo privilegiato per lo sviluppo di una coscienza di

classe, si apprestava a mutarsi in strumento nelle mani della piccola borghesia.

Amauta fu fondata nel 1926, ma l’idea della sua creazione risale ad anni prima, quando

Mariátegui tornò dall’esilio europeo. In quegli anni il suo disegno era quello di una

rivista capace di riunire tutte quelle posizioni che si facessero promotrici di un

progresso economico e sociale, nonché di innovazione sul terreno intellettuale,

soprattutto su quello letterario. Originariamente, come attestano alcune lettere ed alcuni

documenti, il nome da conferire a tale progetto era Vanguardia. Nel corso del tempo

esso fu sostituito da quello di Amauta che dunque fu il nome di quella che da molti è

ritenuta la migliore rivista apparsa sulla scena latinoamericana e non solo in quegli

anni.75

Il nome fu suggerito da José Sabogal, intellettuale peruviano impegnato soprattutto

nelle arti figurative, che si impegnò anche nella redazione dell’immagine che

accompagnò il titolo. Essa tratteggiava un saggio inca e, in effetti, il termine “amauta”,

in quechua, sta ad indicare proprio la figura del savio, del sapiente. Il cambiamento del

titolo rispetto alle posizioni iniziali non rappresentò una frustrazione degli intenti

iniziali. La rivista si configurò fin dal primo numero come uno spazio in cui confluivano

forze provenienti da ambiti diversi, ma tutte caratterizzate da una forte spinta nella

direzione del progresso materiale e spirituale del paese.

Malgrado ciò la propensione per il nome Amauta non è casuale, né tanto meno

ispirata a semplici motivi estetici; è piuttosto il sintomo di un mutamento, o meglio di

una maturazione, del pensiero di Mariátegui. Tornato dall’Europa dopo aver fatto

esperienza di alcuni importanti movimenti e organizzazioni classisti e marxisti (basti

75
Antonio Melis, op. cit., p. 121.

43
ricordare, per ciò che concerne la sua permanenza in Italia, il movimento di

occupazione delle fabbriche, fortemente appoggiato dai dirigenti dell’Ordine Nuovo di

Torino, che proprio in quegli anni andava esaurendo le proprie possibilità; e la scissione

avvenuta al Congresso di Livorno del Partito Socialista italiano, nel 1921, che produsse

la nascita del Partito Comunista d’Italia, diretto dall’ingegnere napoletano Amedeo

Bordiga), egli si rese conto di come la costruzione del socialismo peruviano non potesse

seguire pedissequamente la via tracciata nel Vecchio Continente. Partendo da ciò, scoprì

dunque l’elemento autoctono che, come già visto, è l’indio. Il termine Amauta,

utilizzato per la nuova rivista, sta a simboleggiare in maniera inequivocabile il

riferimento continuo ai valori autoctoni. Il tutto non si risolve però in una semplice

questione di simboli. Amauta ospiterà alcune rubriche che si preoccuperanno di seguire

in maniera praticamente esclusiva il problema dell’indio. Tra queste troviamo il

Proceso al gamonalismo, curata personalmente da Mariátegui, e, a partire dal 1927, il

Boletín de Defensa Indígena. In esse si andavano chiarificando e delineando una

posizione che avversava sempre più duramente il regime gamonalista e difendeva e

promuoveva le rivendicazioni indigene.

“Il Perú deve scegliere tra il gamonal e l’indio. Questo è il suo dilemma.

Non esiste una terza via. Impostato questo problema, tutte le questioni di

strutturazione di regime passano in secondo piano. Ciò che

principalmente interessa agli uomini nuovi è che il Perú si pronunci

contro il gamonal, in favore dell’indio.76

E ancora:

76
José Carlos Mariátegui, Sette saggi…, cit., p. 219.

44
“Nessuna riforma che rafforzi il gamonal contro l’indio può essere

considerata buona e giusta […]. Al di sopra di qualsiasi vittoria formale

del decentramento e dell’autonomia, si propongono le rivendicazioni

sostanziali della causa dell’indio, poste in primo piano nel programma

rivoluzionario dell’avanguardia.”77

La rivista diviene veicolo di una tale piattaforma. Essa non ospita, in ogni caso,

solo le posizioni di Mariátegui e dei suoi più stretti collaboratori, o comunque di quanti

condividevano in pieno il suo pensiero a riguardo. Accoglie i punti di vista di esponenti

di diversa filiazione ideologico-politica, senza che ciò significhi un cedimento o

addirittura una condivisione del criterio della tolleranza. Come afferma lo stesso

Mariátegui:

“Non ho fondato Amauta per imporre un programma né un criterio ma

per elaborarli, con l’apporto di tutti gli uomini degni di partecipare in

questa impresa. Questa è una rivista di dibattito dottrinario e di

definizione ideologica […]. Porto i miei punti di vista […] ma voglio

confrontarli con i punti di vista affini o prossimi.”78

Ciò significa che sulle sue pagine trovano spazio articoli di diversi orientamenti,

da Dora Mayer a Valcárcel , rappresentanti rispettivamente dell’Asociación Pro-

Indígena e del gruppo Resurgimiento, sorto a Cuzco nel 1927, che pubblicò, sul numero

sei della rivista, un manifesto di denuncia contro i crimini del gamonalismo e che anche

per questo fu duramente represso dalle autorità, tramite l’arresto dei suoi dirigenti e lo

scioglimento dell’organizzazione stessa. Attraverso la sua stessa configurazione,

Amauta si presentava come uno strumento volto all’ottenimento di quella che, con

77
Ivi, p. 221.
78
José Carlos Mariátegui, Nota Polémica, cit. in Pier Paolo Petrini, op. cit., p. 312.

45
terminologia gramsciana, potremmo definire “egemonia”. Ospitò articoli che si

proponevano di indagare l’eredità incaica, ma anche espressioni culturali ispirate

all’indio contemporaneo; lavori che investigando l’architettura del Perú coloniale ne

sottolineavano il valore meticcio e pubblicazioni di vere e proprie opere letterarie;

immagini commentate, accordando quindi grande importanza anche alle arti figurative,

ma non tralasciò la fondamentale questione linguistica.79

Amauta, prescindendo dall’orizzonte nazionale, allargò i propri confini alla realtà

latinoamericana, non disdegnando la pubblicazione di autori e temi di altri continenti,

come testimonia la presenza di scritti di esponenti del calibro di Lenin, Trotskij, Gobetti

ecc. In ciò possiamo ravvisare l’impostazione di Mariátegui secondo cui non è possibile

svincolare la realtà peruviana da quella europea. Il Perú non è indipendente dalla civiltà

occidentale, ma si muove nella sua orbita. Il dovere di studiare la realtà nazionale non

esclude quello di non ignorare quella internazionale, di cui la prima non è altro se non

un segmento.

2.7 IL PARTIDO SOCIALISTA DEL PERÚ E LA CONFEDERACIÓN GENERAL DEL

TRABAJO

Nel 1928 Amauta porta a compimento il lavoro di chiarificazione ideologica che

l’aveva ispirata fin dal primo numero. In concomitanza con la rottura con l’APRA, essa

afferma di potersi definire marxista. È solo il primo passo nel periodo di più fervente

lavoro organizzativo della vita di Mariátegui. Costretto dalla necessità di sottrarre

all’aprismo il proletariato urbano industriale e i contadini indigeni, Mariátegui fonda il

79
Antonio Melis, op. cit., pp. 72-73.

46
sette ottobre del 1928, il PSdP (Partido Socialista del Perú)80, che al centro del proprio

programma inserisce il sostegno delle rivendicazioni indigene e la lotta per

l’abbattimento del sistema di sfruttamento messo in piedi dai gamonales. Ma il lavoro

organizzativo non si arresta alla creazione di un partito politico; esso prosegue con

l’impegno per la costituzione di un sindacato capace di sostenere le rivendicazioni di

tutti i lavoratori, operando al contempo per suscitare in essi una coscienza di classe. Per

sostenere il sindacato e per sviluppare un dibattito sulle questioni ad esso inerenti, fu

inoltre fondato Labor, supplemento quindicinale di Amauta. In quest’opera il ruolo

degli indios è tutt’altro che passivo. Non si mettono in piedi strutture paternalistiche,

bensì si profondono sforzi affinché le masse indigene possano giungere finalmente ad

una vera autonomia. Esse dovranno essere le realizzatrici della soluzione al problema

dell’indio. Partendo dalla constatazione delle ribellioni indigene di quegli anni, da

quella di Rumi Maqui a quella di Lamar a Huancané nel 1925, passando per altre di

minor portata, accomunate però dallo stesso esito – una dura e sanguinosa repressione –,

Mariátegui si convince dell’orientamento rivoluzionario di queste masse. Esse peccano,

però, di organizzazione. L’unico tentativo messo in campo fino a quel momento (se si

eccettuano i congressi indigeni) è stato quello della costituzione della Federazione

operaia regionale indigena, che seguiva i principi e i metodi anarco-sindacalisti allora in

voga; pur risultando fallimentare può essere considerato un esperimento, un precedente

per procedere nell’opera organizzativa. Per la buona riuscita di quest’ultima si presenta

la necessità di un processo di educazione ideologica delle masse indigene, per il quale si

80
La fondazione di un partito classista proletario fu decisa da diversi raggruppamenti peruviani, che
incaricarono la cellula di Lima di redigere l’atto della sua costituzione. Il sette ottobre del 1928, riuniti
nella casa di Avelino Navarro, i nove membri della cellula della capitale fondarono il PSdP e approvarono
l’Acta de Constitución. Nella stessa riunione si costituì il Comitato Centrale, al cui interno Mariátegui
figurava come Segretario Generale, incaricato della stesura del Programma del Partito; Ricardo Martínez
de La Torre come Segretario della Propaganda; Bernardo Regman come Tesoriere; Avelino Navarro e
Manuel Hinojosa furono incaricati di coordinare il lavoro sindacale.

47
dispone degli indios che, impiegati nelle miniere o nei centri urbani, entrano in contatto

con il movimento sindacale, assimilandone principi e pratiche per divenire,

successivamente, agenti dell’emancipazione della propria stessa razza. Essi non

incontreranno i problemi linguistici e culturali dei bianchi nel lavoro di propaganda

classista. Tuttavia, un ruolo fondamentale è assolto dall’autoeducazione:

“I metodi di autoeducazione, la lettura costante degli organi di stampa

del movimento sindacale latinoamericano, degli opuscoli, ecc., la

corrispondenza con i compagni militanti, saranno i mezzi di cui si

serviranno questi elementi per adempiere con successo la loro missione

educatrice.

Il coordinamento delle comunidades indigene per regioni, il soccorso ai

perseguitati dalla giustizia o dalla polizia (i gamonales processano per

delitti comuni gli indigeni che oppongono resistenza o quanti vogliono

depredare), la difesa della proprietà comunitaria, l’organizzazione di

piccole biblioteche e centri di studio, sono attività nelle quali gli

indigeni aderenti al movimento sindacale debbono avere sempre un

ruolo primario e direttivo, col duplice scopo di dare all’educazione e

all’orientamento classista degli indigeni direttive serie e di evitare gli

influssi di elementi perturbatori (anarchici, ecc.).”81

La trasmissione di conoscenze, di principi e di pratiche tra gli indios è un problema

di fondamentale importanza nel lavoro di Mariátegui; per cui egli suggerisce la

pubblicazione di un giornale per i contadini indigeni (per il quale propone il nome “El

Ayllu”) e di uno per i minatori. Questo malgrado sia perfettamente cosciente del dato

81
José Carlos Mariátegui, Sette saggi…, cit., pp. 354 - 355.

48
secondo cui la stragrande maggioranza della popolazione indigena sia analfabeta.

Infatti, ha ben presente il ruolo di diffusori, di propagandisti, che può essere svolto da

quanti, all’interno dell’universo indigeno, hanno conseguito un certo livello di

alfabetizzazione.

In entrambi i casi, sia per ciò che concerne il PSdP che per la CGT (Confederación

General del Trabajo), Mariátegui fu ostacolato, a ogni buon conto, dall’Internazionale

Comunista, che cominciò ad esercitare fortissime pressioni affinché si cambiasse

radicalmente la linea politica che era stata fatta propria dai peruviani in quegli anni.

Sempre più debilitato fisicamente, Mariátegui morì nel 1930, dopo aver lasciato la

carica di segretario di partito nelle mani di Eudocio Ravines, probabilmente perché

ritenuto elemento di mediazione all’interno della neonata formazione. Tuttavia, a partire

dal marzo del 1930, cioè a partire da pochi giorni dalla morte di Mariátegui, le

pressioni del Comintern ebbero successo:

“noi crediamo che sia necessario trattare il problema indigeno come il

problema di una minoranza nazionale […]. La sola soluzione possibile è

quella che l’Unione Sovietica ha dato in maniera ammirevole ai

problemi della nazionalità […]. Per essa sarà necessario,

indispensabile, il cambio del sistema sociale attuale. Sotto il capitalismo,

sotto il giogo dell’imperialismo, il problema indigeno, da tutti i suoi

punti di vista, […] resterà senza soluzione. Soltanto il regime del

Proletariato rivoluzionario, sotto un’esistenza comunista, è capace di

trovare la soluzione ad una questione come il problema indigeno.”82

82
Eudocio Ravines, El problema indígena en America latina, cit. in Pier Paolo Petrini, Josè Carlos
Mariátegui e il socialismo moderno, Edizioni ETS, Pisa, pp. 518-519.

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Il nuovo segretario del PSdP, presto trasformato in PCP (Partido Comunista

Peruano), secondo i dettami del Comintern, mostra, con queste parole, come si sia scelta

una strada diversa rispetto a quella tracciata da Mariátegui. L’appiattimento sulle

posizioni della Terza Internazionale fa sì che si consideri la questione indigena come un

problema di minoranza nazionale. Di qui la necessità da parte del “Proletariato

rivoluzionario” (si badi bene con la “p” maiuscola), una volta vittorioso, una volta

conquistato il potere statale (che implicitamente è riconosciuto come obiettivo non solo

principe, ma anche immediato da parte del partito), di provvedere alla risoluzione del

problema, come un buon padre risolve i problemi di un figlio impotente ed incapace.

Appare in maniera assolutamente evidente come la svolta rispetto all’”epoca”

mariateguiana sia a trecentosessanta gradi. Mariátegui aveva impostato una strategia che

puntava alla presa del potere non come atto compiuto da una ristretta avanguardia, bensì

come processo di lunga durata, per il quale risultava necessaria l’acquisizione di

autonomia da parte delle masse lavoratrici peruviane, in primis di quelle indigene.

Questa posizione è ben distante da quella di Ravines, che tratta il problema in termini

paternalistici: l’obiettivo che si pone Mariátegui è quello di fornire agli indios gli

strumenti che avrebbero loro permesso di principiare un’opera, teorico-pratica (nel

solco della migliore tradizione marxista), di autoemancipazione. Si proponeva, in altri

termini, un lavoro che avrebbe condotto all’acquisizione di una coscienza di classe,

propedeutica ad un progetto capace di raggiungere gli obiettivi delle proprie

rivendicazioni. Il suo progetto fu quindi immediatamente abbandonato ed il PCP

imboccò una strada che, da allora in poi, fu costellata da cocenti sconfitte e continui

processi di frammentazione interna.

GIULIANO GRANATO
giulianogranato@hotmail.it

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