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Daniel Jonah Goldhagen I VOLONTEROSI CARNEFICI DI HITLER

I tedeschi comuni e l'Olocausto


"Hitler's Willing Executioners"

INDICE

PRIMO VOLUME Nota dell'editore Premessa all'edizione tedesca Introduzione: Ripensare gli aspetti principali dell'Olocausto Note all'Introduzione Parte prima CAPIRE L'ANTISEMITISMO TEDESCO: LA MENTALITA' ELIMINAZIONISTA 1. Rivedere la concezione dell'antisemitismo: uno schema d'analisi 2. L'evoluzione dell'antisemitismo eliminazionista nella Germania moderna 3. L'antisemitismo eliminazionista: il senso comune della societ tedesca nel periodo nazista Parte seconda IL PROGRAMMA ELIMINAZIONISTA E LE STRUTTURE 4. L'aggressione nazista agli ebrei: carattere ed evoluzione 5. Gli agenti e i meccanismi della distruzione Parte terza I BATTAGLIONI DI POLIZIA: TEDESCHI COMUNI, VOLONTEROSI ASSASSINI 6. I battaglioni di polizia: agenti del genocidio 7. Il Battaglione di Polizia 101: gli uomini e le loro azioni 8. Il Battaglione di Polizia 101: gli uomini e le loro motivazioni 9. I battaglioni di polizia: la vita, gli eccidi, le motivazioni SECONDO VOLUME Parte quarta IL LAVORO DEGLI EBREI COME ANNIENTAMENTO 10. Fonti e logiche del lavoro degli ebrei nel periodo nazista 11. La vita nei campi di lavoro 12. Lavoro e morte Parte quinta LE MARCE DELLA MORTE: FINO AGLI ULTIMI GIORNI 13. Sulla via della morte 14. Marciare verso che fine? Parte sesta L'ANTISEMITISMO ELIMINAZIONISTA: TEDESCHI COMUNI, VOLONTEROSI CARNEFICI 15. La condotta dei realizzatori: interpretazioni a confronto 16. L'antisemitismo eliminazionista come motivazione al genocidio

Epilogo Appendice 1 NOTA METODOLOGICA Appendice 2 SCHEMA DELLE TEORIE DOMINANTI IN GERMANIA SUGLI EBREI, I MALATI DI MENTE E GLI SLAVI Ringraziamenti

NOTA DELL'EDITORE

"I volonterosi carnefici" di Hitler uno dei casi pi clamorosi nella storiografia degli ultimi decenni. Uscito negli Stati Uniti nel marzo 1996, questo libro di un giovane e sconosciuto professore di Harvard ha suscitato un intenso dibattito ed entrato - fatto senza precedenti per un saggio di storia europea - nella classifica dei best seller americani. In Germania dove stato pubblicato nell'agosto seguente, ha determinato un vero choc nazionale paragonabile soltanto a quello provocato dallo sceneggiato televisivo "Holocaust". Ma perch si attirato, allo stesso tempo, critiche feroci e consensi entusiastici? Perch Daniel J. Goldhagen, nel suo tentativo di rispondere a un interrogativo inquietante che eravamo abituati a considerare chiuso come ha potuto il popolo tedesco, una delle grandi nazioni civili della civile Europa, compiere il pi mostruoso genocidio mai avvenuto? -, pare ad alcuni riproporre la tesi della colpa collettiva. A suo avviso nessuna delle spiegazioni finora date la follia criminale di Hitler, la segretezza in cui furono condotte le operazioni di sterminio, l'educazione alla disciplina che avrebbe spinto militari e burocrati a eseguire gli ordini - pu essere giudicata soddisfacente. Egli esamina da vicino le figure degli esecutori e reinterpreta la societ tedesca fra il 1933 e il '45 e il suo radicato antisemitismo. Attingendo a materiale non ancora vagliato o trascurato da altri studiosi, nonch a testimonianze dirette degli esecutori, Goldhagen dimostra che, contrariamente a quanto spesso si pensa, i responsabili dell'Olocausto non furono solo S.S. o membri del Partito nazista, ma tedeschi comuni di ogni estrazione, uomini (e donne) che brutalizzarono e assassinarono gli ebrei per convinzione ideologica e per libera scelta, sovente con zelo e con gratuito sadismo. E che, per di pi, si comportarono cos, non perch costretti, n perch ridotti alla stregua di schiavi, n perch tremende pressioni sociali e psicologiche li inducessero a adeguare la loro condotta a quella dei compagni. Lo fecero perch l'antisemitismo germanico era talmente diffuso, maligno, nutrito nei secoli di miti razzisti e false teorie scientifiche da disumanizzare gli ebrei, da trasformarli nell'immaginario collettivo in una

sorta di malattia, addirittura di forza demoniaca che si doveva eliminare a ogni costo dalla Germania. Attraverso le parole degli stessi carnefici Goldhagen ci presenta un quadro sconvolgente e immediato: la loro organizzazione della vita quotidiana, il modo di torturare e uccidere e le reazioni alle scene di morte. Vero e proprio atto di accusa, "I volonterosi carnefici di Hitler" un'opera scientifica nel metodo e provocatoria nelle conclusioni, che d'ora in avanti si riveler fondamentale per comprendere il pi profondo dramma dell'et moderna. Daniel Jonah Goldhagen professore di Government and Social Studies all'universit di Harvard ed membro del Minda de Gunzburg Center for European Studies. La sua tesi di dottorato, su cui si basa questo libro, ha ricevuto nel 1994 il prestigioso Gabriel A. Almond Award dell'American Political Science Association come miglior studio nel campo della politica comparata.

PREMESSA ALL'EDIZIONE TEDESCA [Questo saggio stato pubblicato in edizione tedesca nell'agosto 1996.] Dato il particolare interesse con cui i lettori tedeschi potranno affrontare la lettura di queste pagine e i suoi temi, mi sembra utile far precedere l'edizione tedesca da alcune parole di introduzione sullo scopo del libro, sulla natura e sui punti focali della trattazione, sulla questione della colpa e sulla Germania odierna. Nei "Volonterosi carnefici di Hitler" sposto il fulcro della ricerca sull'Olocausto dalle organizzazioni impersonali e dalle strutture astratte agli agenti stessi, agli esseri umani che hanno commesso i crimini e alla comunit dalla quale questi uomini e queste donne provenivano. Evito, tuttavia, le astoriche e generali spiegazioni sociopsicologiche - per esempio quelle secondo le quali gli uomini obbediscono a ogni forma di autorit o sono disposti a tutto sotto la pressione del gruppo dei loro pari - a cui si fa automaticamente riferimento non appena si consideri l'operato dei realizzatori. Al contrario, riconosco l'individualit e l'umanit degli agenti, uomini che, riguardo alla politica del regime, avevano opinioni che informarono le loro scelte come collettivit e come singoli. Anzi, tutta questa analisi si fonda sull'idea che ognuno ha sempre scelto come trattare gli ebrei. A questo proposito, ho seriamente considerato anche il contesto storico nel quale i realizzatori hanno sviluppato quelle convinzioni e quella concezione del mondo, che sono state determinanti nella loro interpretazione di ci che fosse giusto e necessario nel modo di trattare gli ebrei. Per tale motivo importante sapere quanto pi possibile sull'immagine che i realizzatori tedeschi avevano delle vittime e sulle loro motivazioni; al tempo stesso deve essere esaminata a fondo l'idea degli ebrei che dominava, in generale, nella societ. In questo libro, quindi, pongo dei quesiti fondamentali per la comprensione dell'Olocausto, ai quali, tuttavia, non stata finora rivolta la dovuta attenzione. In sostanza portano in due direzioni. Da un lato, verso i realizzatori: come vedevano gli ebrei? li consideravano pericolosi, nemici malvagi, o li giudicavano piuttosto esseri umani degni di

compassione che subivano un'ingiustizia? credevano veramente che ci che riservavano loro fosse giusto e necessario? Dall'altro lato, riguardano i tedeschi al tempo del nazismo: quanti erano antisemiti? che carattere aveva il loro antisemitismo? che opinione avevano delle misure antiebraiche degli anni Trenta? quanto sapevano dello sterminio degli ebrei, e che cosa ne pensavano? Colpisce il fatto che negli studi sull'Olocausto, salvo in alcune eccezioni, non siano stati esplicitamente sollevati questi importanti interrogativi sulla mentalit degli agenti, n siano stati elaborati in modo sistematico e approfondito. Laddove il tentativo stato fatto, le risposte, soprattutto quelle relative ai realizzatori, sono state date in modo superficiale, senza l'esposizione e la valutazione accurata dei documenti che, invece, per altri temi sono date per scontate. Tuttavia, nessuno studio che eluda questi interrogativi potr mai spiegare come e perch l'Olocausto abbia potuto realmente essere perpetrato. Tentando invece di rispondere a queste e ad altre domande, io presento qui nuove prove e argomentazioni che mettono in dubbio molte opinioni convenzionali su quel periodo e sugli agenti. "I volonterosi carnefici di Hitler" tratta della visione del mondo, delle azioni, delle decisioni individuali, della responsabilit che ogni singolo ha quale autore delle proprie azioni e della cultura politica dalla quale coloro che compirono l'Olocausto mutuarono le loro convinzioni. Esso mostra che una serie di idee sugli ebrei si era gi ampiamente diffusa fra i tedeschi e si era integrata nella vita culturale e politica della Germania ben prima che i nazisti arrivassero al potere, e che proprio tali idee determinarono quello che i tedeschi comuni, come singoli e come collettivit, furono disposti a tollerare e a fare durante il periodo hitleriano. Il carattere e lo sviluppo di una cultura politica sono sempre condizionati dalla storia; un tale contesto si evolve e si trasforma, come accaduto anche nella Germania federale. In questo senso nulla immutabile. Perci, nel libro non si sostiene affatto che esiste un eterno carattere nazionale dei tedeschi; non si tratta di una sorta di fondamentale e determinata disposizione psicologica dei tedeschi. Io rifiuto espressamente simili idee e le argomentazioni su cui si fondano; nel mio libro non ce n' traccia. Come l'esame della cultura politica di una societ non implica n si fonda su nozioni di caratteristiche immutabili, allo stesso modo qualsiasi affermazione generale su un popolo non presuppone n si basa su alcun concetto di etnia o razza.

Le generalizzazioni sono fondamentali per il nostro modo di pensare. Senza di esse non potremmo riconoscere strutture sensate n nel mondo n nelle nostre esperienze. Quando vogliamo parlare di gruppi o societ, generalizziamo sempre. La maggioranza dei tedeschi, oggi, davvero democratica. Prima della guerra civile americana, la maggior parte dei bianchi del Sud era convinta che i neri, per la loro costituzione, fossero inferiori sia intellettualmente sia moralmente, e che proprio per questo si prestassero a diventare bestie da soma e schiavi. La maggior parte dei bianchi del Sud era razzista, e il razzismo ha improntato le loro opinioni riguardo alla condizione sociale adeguata ai neri e al giusto tipo di rapporti da instaurare con loro. Tutte queste generalizzazioni sono vere. Il punto, perci, non quello della correttezza del procedimento di generalizzazione "in s", ma della veridicit e della dimostrabilit della base su cui si opera la generalizzazione. Non c' niente di razzista n tanto meno di improprio nell'affermare che oggi la maggior parte dei tedeschi sarebbe democratica; e altrettanto lecita l'affermazione secondo la quale la stragrande maggioranza dei bianchi americani del Sud, prima della guerra civile, fosse razzista o che la maggior parte dei tedeschi, negli anni Trenta, fosse antisemita. La sola cosa che conta in tali generalizzazioni la loro correttezza, se cio sono fondate empiricamente e se l'analisi da cui risultano rigorosa. In questo libro si presentano prove e le si interpretano per chiarire perch e come l'Olocausto ha avuto luogo, e perch, soprattutto, stato possibile che si realizzasse. E' un'opera di interpretazione storica, non un giudizio morale. Il mio punto di partenza assodato: l'Olocausto ha avuto origine in Germania, quindi principalmente un fenomeno tedesco. Questo un fatto storico. Chi vuole spiegare l'Olocausto deve concepirlo come una fase evolutiva della storia tedesca. Tuttavia, esso non ne stato un risultato inevitabile. Se Hitler e i nazisti non avessero raggiunto il potere, non ci sarebbe stato alcun Olocausto. E probabilmente non sarebbero arrivati al potere, se in Germania non ci fosse stata una crisi economica. Numerose circostanze, nessuna delle quali era inevitabile, hanno dovuto verificarsi perch l'Olocausto potesse essere perpetrato.

Nessuna spiegazione legata a un'unica causa potr mai essere adeguata per l'Olocausto. Molti fattori hanno contribuito a creare le condizioni necessarie a renderlo possibile e a realizzarlo. La maggior parte di tali fattori - come i nazionalsocialisti arrivarono al potere, come sconfissero l'opposizione interna, come assoggettarono l'Europa, come crearono le strutture preposte al genocidio e organizzarono lo sterminio - ben nota e perci non presa in esame in questo libro, dove ci si concentra invece sul problema della motivazione all'Olocausto. La mia tesi che la volont di uccidere gli ebrei, sia in Hitler sia in coloro che hanno realizzato i suoi piani omicidi, derivasse principalmente da un'unica sorgente comune: da un virulento antisemitismo. Il suo manifestarsi dipeso da diversi altri fattori - materiali, situazionali, strategici e ideologici - che discuter approfonditamente, in particolare illustrando lo sviluppo della politica antiebraica e il carattere del lavoro ebraico nel periodo nazista. Il regime e i realizzatori concepirono provvedimenti e comportamenti ostili agli ebrei complessi e a volte apparentemente contraddittori, proprio perch agivano in accordo con i loro sentimenti di odio antisemita, e perch dovevano muoversi in un ambito politico, sociale ed economico in cui, spesso, la loro libert operativa era limitata. Inoltre, mentre impostavano e realizzavano la politica antisemita, dovevano pensare agli altri loro obiettivi pratici e ideologici. Per questo motivo, se si vuole spiegare l'Olocausto in tutti i suoi aspetti, non ci si pu limitare all'antisemitismo, ma si devono considerare numerosi altri fattori. Tuttavia, qualunque effetto questi possano aver avuto sullo sviluppo e sulla realizzazione del programma antisemita dei nazisti, la "volont" del governo e di molti tedeschi comuni di perseguitare effettivamente gli ebrei e di ucciderli, mettendo in atto i piani politici, non riconducibile a nessuno di essi. Determinante fu l'antisemitismo comune a tutti gli agenti. I tedeschi trovarono la motivazione per perseguitare e, quando fu loro richiesto, per uccidere gli ebrei in una forma virulenta di antisemitismo che rappresentava la visione dominante degli stessi ebrei in Germania durante e prima del periodo nazista. Tuttavia, senza l'avvento dei nazisti al potere, tale antisemitismo sarebbe rimasto latente. L'Olocausto si potuto, perci, verificare in Germania solo perch tre fattori hanno interagito.

Primo: in Germania presero il potere gli antisemiti pi criminali e malvagi della storia dell'umanit e decisero di porre al centro della politica dello stato le loro follie omicide private. Secondo: essi lo fecero in una societ in cui la loro immagine degli ebrei era ampiamente condivisa. L'Olocausto, per lo meno nella forma nella quale stato realizzato, ha potuto avere luogo solo perch questi due fattori si sono verificati. L'odio pi selvaggio, sia esso antisemitismo o altra forma di razzismo o pregiudizio, porta allo sterminio sistematico solo quando un governo politico mobilita coloro che lo condividono e organizza un programma di morte. Ancora una volta: senza i nazisti e senza Hitler, l'Olocausto non sarebbe, quindi, stato possibile. Tuttavia, altrettanto fondamentale si dimostrata la grande disponibilit della maggior parte dei tedeschi comuni a tollerare prima e sostenere poi, spesso persino collaborando attivamente, la furiosa persecuzione degli ebrei negli anni Trenta, e a partecipare, infine, anche al loro sterminio (ci vale, almeno, per coloro che ne avevano ricevuto l'ordine). Senza tale disponibilit, il regime non avrebbe potuto uccidere sei milioni di ebrei. Entrambi questi fattori - la presa del potere da parte dei nazisti e la disponibilit dei tedeschi a sostenere la politica antisemita dello stato erano necessari. Uno solo non sarebbe stato sufficiente. E unicamente in Germania arrivarono a coincidere. Per tale motivo, la diffusione e la profondit dell'antisemitismo in altri paesi non hanno alcuna rilevanza, se si vuole spiegare quello che accadde in Germania e le azioni dei tedeschi. Naturalmente, c'era antisemitismo anche in Francia, Polonia e Ucraina; in nessuno di questi paesi, tuttavia, arriv al potere un regime che mirasse allo sterminio degli ebrei. L'antisemitismo di un popolo, da solo, non porta al genocidio, a meno che non venga utilizzato per una politica statale di violenta persecuzione e di morte. Non servono, quindi, studi comparati per spiegare perch proprio in Germania, e in nessun altro luogo, esso abbia avuto conseguenze cos catastrofiche. Inoltre, siccome per la realizzazione dell'Olocausto furono necessari entrambi i fattori - una popolazione antisemita e un regime risoluto allo sterminio di massa degli ebrei - (ossia uno solo non sarebbe bastato),

l'evidente assenza in altri paesi di una delle due condizioni fondamentali (il regime) rende inutile, dati gli scopi di questo libro, valutare il grado di presenza dell'altra (il virulento antisemitismo eliminazionista). Voglio per sottolineare che la diffusione ovunque in Europa dell'antisemitismo permette di chiarire perch i tedeschi abbiano trovato, in altri paesi, cos tanti uomini disposti e smaniosi di aiutarli nello sterminio degli ebrei. Un terzo fattore dimostra che l'Olocausto, soprattutto come programma di sterminio che abbracciava l'intera Europa, avrebbe potuto avere origine solo in Germania. Solo il Reich tedesco aveva la forza militare per conquistare il continente europeo, e quindi solo il governo tedesco poteva, impunemente e senza alcun timore della reazione degli altri paesi, iniziare lo sterminio degli ebrei. Era perci improbabile che un altro stato, anche dominato da un regime simile a quello nazista, avviasse una tale politica di sterminio. Persino Hitler, un uomo che si era votato all'annientamento degli ebrei, era cauto nel muovere i propri passi contro di loro negli anni Trenta, ossia finch la Germania era ancora vulnerabile dal punto di vista militare e diplomatico. Allora una soluzione della questione ebraica non era praticabile. Ci non significa che il genocidio degli ebrei non sarebbe stato pensabile anche in un altro paese; significa solo che sarebbe stato improbabile a causa delle limitazioni che abbiamo ricordato. Fatto sta che altrove non arrivato al potere alcun regime analogo a quello nazista che fosse risoluto a sterminare gli ebrei del proprio paese. L'antisemitismo virulento, in altri popoli, si trasformato in azione solo quando i tedeschi hanno iniziato a perseguitare e a uccidere gli ebrei nei territori conquistati. "I volonterosi carnefici di Hitler" non vuole essere una storia completa dell'Olocausto, della Germania nazista, n, tanto meno, degli sviluppi o della cultura politica tedesca in epoca recente. Molti risvolti di tali temi hanno dovuto essere tralasciati. Questo libro si concentra infatti sugli aspetti fondamentali e predominanti della questione, e a volte perci riporta solo brevemente, o addirittura tralascia, i singoli casi o le eccezioni. Tuttavia non vuole sostenere che tali singolarit o eccezioni non abbiano avuto luogo; molte peraltro, ad esempio le varie forme di resistenza contro Hitler, sono gi note. Il compito che mi sono prefisso quello di chiarire perch e come si sviluppato l'Olocausto e di illustrarne gli aspetti generali, fondamentali e

predominanti, che finora, a mio avviso, non sono stati sufficientemente spiegati. Poich mio scopo la spiegazione storica e non il giudizio morale, non sollevo mai direttamente le questioni della colpa e della responsabilit. Io illustro come la gente pens e ag, e perch lo fece, ma non dico come dobbiamo giudicarla. Infatti il giudizio morale non rientra in un'opera interpretativa di questo genere. Inoltre ho la sensazione che avrebbe confuso lo scopo e le conclusioni della ricerca. D'altra parte non ho neanche la competenza necessaria per potermi esprimere in materia e voglio quindi lasciare la valutazione etica, da un lato, a coloro che hanno maggiore esperienza, quali i filosofi morali, e, dall'altro, al lettore stesso perch si faccia un'opinione, secondo le sue convinzioni. Tuttavia, per il pubblico tedesco, devo illustrare brevemente la mia visione di questioni cos importanti in Germania, quali quella della colpa e della responsabilit. Rifiuto categoricamente la nozione di colpa collettiva. In questo modo, a prescindere dal comportamento, l'accusa colpisce una persona esclusivamente perch egli o ella appartiene a una collettivit, in questo caso perch un tedesco o una tedesca. Ora, non possiamo considerare colpevoli dei gruppi, ma solo gli individui, appunto colpevoli per quello che hanno fatto personalmente. Il concetto di colpa dovrebbe essere utilizzato quando qualcuno ha davvero commesso un crimine, poich il termine in tale accezione ha connotazione giuridica, ossia rimanda alla colpa per aver commesso un reato. In Germania, come negli Stati Uniti, gli uomini non sono dichiarati colpevoli, e quindi perseguibili per legge, per il fatto che hanno determinate idee, che odiano altri gruppi (nella Repubblica federale non possono per esprimerlo) o che approvano i crimini che altri commettono. Neppure la semplice disponibilit a commettere un crimine, qualora ne capitasse l'occasione, sufficiente per una condanna. Ci dovrebbe valere anche per i tedeschi che hanno vissuto nel periodo nazista; e conformemente a tale principio ha proceduto la giustizia federale tedesca con i criminali nazisti. In questo libro dimostro che la complicit individuale era pi diffusa di quanto molti hanno supposto finora.

Se si considerano, inoltre, tutti i crimini commessi contro i non ebrei durante il periodo nazista, allora il numero dei tedeschi che hanno agito in modo criminale enormemente alto. Tuttavia, si dovrebbero considerare colpevoli solo coloro che realmente si sono comportati in modo criminale. Con "I volonterosi carnefici di Hitler" voglio oppormi all'opinione cos spesso sostenuta nella letteratura scientifica, secondo la quale i tedeschi avrebbero agito come automi, come rotelle prive di volont, di un ingranaggio. Io li considero agenti responsabili, che erano nella condizione di decidere e per questo furono i veri artefici delle proprie azioni. Sottolineo che ogni uomo o donna decise singolarmente come comportarsi nei confronti degli ebrei. E perci nella mia analisi non solo respingo il concetto di colpa collettiva ma fornisco anche importanti argomentazioni per confutarlo. Il giudizio morale sui tedeschi - e anche sui polacchi, sui francesi e sugli ucraini -, che erano antisemiti o che approvarono diverse fasi della persecuzione degli ebrei e che, se fossero stati membri di una struttura genocida, avrebbero intenzionalmente ferito o ucciso ebrei, ma non lo fecero, viene lasciato al singolo che vi sia interessato. Non diversamente ci si comporta oggi nei confronti dei contemporanei che hanno convinzioni e tendenze riprovevoli. Va da s che i tedeschi, nati dopo la guerra o che durante la guerra erano bambini, non possono essere colpevoli, n in alcun modo responsabili per i crimini commessi allora. Forse la Germania e i tedeschi dovrebbero risarcire gli ebrei e i non ebrei, o i loro parenti sopravvissuti, per i crimini che da altri tedeschi furono commessi. Ma questo molto diverso dal ritenerli diretti responsabili di un crimine. Nei cinquant'anni trascorsi dalla fine della seconda guerra mondiale la cultura politica dei tedeschi cambiata. Il mutamento riguarda soprattutto due aspetti, strettamente collegati tra loro: la cultura politica della Repubblica federale tedesca e la maggior parte dei tedeschi sono, nel frattempo, diventate profondamente democratiche. Anche l'antisemitismo molto diminuito e ha cambiato essenzialmente il proprio carattere. In particolare, al giorno d'oggi sono scomparsi quegli elementi deliranti che attribuivano agli ebrei poteri e propositi demoniaci - tipici del fenomeno nel periodo nazista e nel precedente.

L'indebolimento generale e costante e il mutamento dell'antisemitismo nella Repubblica federale tedesca, come risulta chiaramente dalle inchieste condotte, possono essere compresi, dal punto di vista storico, utilizzando lo stesso schema adottato in questo studio per spiegare la sua grande persistenza in Germania durante e prima del nazismo. Grazie alla sconfitta bellica e alla costruzione di un sistema democratico nella Germania del dopoguerra, sono potute subentrare nuove convinzioni e valori democratici, nell'ambito pubblico, al posto delle vecchie concezioni antidemocratiche e antisemite. Al contrario di quanto fecero le istituzioni politiche e sociali che prima del 1945 propagarono e rafforzarono idee antidemocratiche e antisemite, quelle della Repubblica federale tedesca hanno promosso idee di politica e di umanit opposte all'antisemitismo del periodo nazista e del precedente e lo hanno delegittimato. La societ tedesca ha subito un cambiamento graduale. Alla giovent stata trasmessa la convinzione generale che tutti gli uomini sono uguali; non le stato pi insegnato che l'umanit composta da una gerarchia di razze, le quali sono diverse per capacit, devono essere trattate secondo criteri morali differenti e si trovano l'una contro l'altra in un inesorabile conflitto. Dal momento che gli uomini traggono, in larga misura, le proprie convinzioni fondamentali dalla societ in cui vivono e dalla sua cultura, la creazione di nuova cultura politica in Germania, unitamente al cambio generazionale, ha portato al risultato atteso: un indebolimento e anche un mutamento di fondo dell'antisemitismo. Da quando questo libro stato pubblicato in lingua inglese, mi stato spesso chiesto a che cosa miravo veramente nello scriverlo. La risposta, che si articola in due parti, semplice: vorrei ampliare le nostre conoscenze sul passato, e perci ho descritto e interpretato l'Olocausto e le figure dei realizzatori quanto pi precisamente sono riuscito. E vorrei permettere a tutti coloro che vogliono farlo di imparare dal passato, dando loro l'opportunit di affrontare queste conoscenze in modo diretto e obiettivo. Daniel Jonah Goldhagen Cambridge, Massachusetts, Luglio 1996. I VOLONTEROSI CARNEFICI DI HITLER A Erich Goldhagen, mio padre e maestro

"Non conviene combattere lo spirito della propria epoca e del proprio paese; e, per quanto forte un uomo possa essere, difficilmente indurr i suoi contemporanei a condividere sentimenti e idee che vanno contro il corso generale delle speranze e dei desideri." Alexis de Tocqueville, "La democrazia in America".

AVVERTENZA Nella traduzione si deciso di rispettare la distinzione dell'autore tra i termini "executioner", "perpetrator", "executor" e "actor" o "agent", che sono stati resi rispettivamente con carnefice, realizzatore, esecutore e agente o agente materiale. In particolare si scelto di tradurre "perpetrator" con realizzatore, e non con esecutore, per sottolineare la volontariet della condotta dei tedeschi, che non si limitarono a eseguire degli ordini, ma agirono, e si industriarono allo scopo, in base a profonde convinzioni personali.

Introduzione RIPENSARE GLI ASPETTI PRINCIPALI DELL'OLOCAUSTO

Il capitano Wolfgang Hoffmann fu uno zelante carnefice di ebrei: comandante di una delle tre compagnie del Battaglione di Polizia 101, insieme ai suoi ufficiali guid i soldati - che non erano S.S., ma tedeschi comuni - nelle operazioni di deportazione e di truce massacro, in Polonia, di decine di migliaia di uomini, donne e bambini. Eppure una volta lo stesso Hoffmann, nel bel mezzo delle sue attivit genocide, disobbed platealmente a un ordine superiore che considerava moralmente reprensibile. L'ordine imponeva ai membri della compagnia di firmare una dichiarazione che era stata mandata loro. Hoffmann si oppose per iscritto: leggendone il testo, afferm, aveva pensato a un errore, perch per me un atto di insolenza pretendere che un buon soldato tedesco firmi una dichiarazione in cui si impegna a non rubare, a non saccheggiare, a non prendere nulla senza pagare.... Era una richiesta inutile: i suoi uomini, proseguiva il capitano, mossi tutti dalle giuste convinzioni ideologiche, sapevano benissimo che quelli erano reati punibili. Hoffmann espose quindi ai superiori il suo giudizio sul carattere e sull'operato dei propri uomini, che comprendeva, dobbiamo supporre, il modo in cui si comportavano nel massacro degli ebrei. L'adesione dei suoi soldati alle norme di moralit tedesca, annotava, deriva da una libera scelta, non dalla ricerca di vantaggi o dal timore di punizioni. E concludeva, con un certo tono di sfida: Come ufficiale me ne dolgo, ma la mia personale opinione contrasta con quella del comandante del Battaglione e non mi permette di eseguire l'ordine, in quanto lesivo del mio senso dell'onore. Devo quindi rifiutarmi di firmare una dichiarazione generale (1). La lettera di Hoffmann sconcertante e istruttiva per pi ordini di ragioni. Quest'ufficiale aveva guidato i suoi uomini nelle operazioni genocide di decine di migliaia di ebrei, eppure considerava offensivo che qualcuno osasse supporre che lui e i sottoposti potessero rubare cibo ai polacchi! Qui si feriva il suo onore di assassino genocida, e lo si feriva doppiamente, in quanto soldato e in quanto tedesco: nella sua mente i doveri di un buon

cittadino germanico nei confronti dei subumani polacchi erano dunque incommensurabilmente maggiori di quelli nei confronti degli ebrei. Hoffmann, va aggiunto, era persuaso che l'istituzione da cui dipendeva fosse abbastanza tollerante da permettergli di contestare un ordine, e persino di registrare per iscritto quella sfacciata insubordinazione, in quanto a suo giudizio un giudizio certo basato sulla condotta complessiva dei soldati, genocidio incluso - i suoi uomini non agivano per timore della punizione, ma per consapevole consenso: ci che facevano corrispondeva al loro convincimento, alla loro fede interiore. Il rifiuto scritto di Hoffmann pone in netta evidenza alcuni aspetti importanti, e non abbastanza considerati, dell'Olocausto - la flessibilit di molte strutture dello sterminio, la possibilit di opporsi agli ordini (anche a quello di uccidere) e, non ultima, l'autonomia morale dei realizzatori - e getta luce sulla mentalit di coloro che lo compirono, nonch sulle motivazioni che li indussero a uccidere. Quel documento ci dovrebbe costringere ad affrontare interrogativi, da troppo tempo rimossi, sulla visione del mondo e sul contesto istituzionale che potevano produrre una dichiarazione di questo genere: dichiarazione che, pur riguardando, nella sua apparente eccentricit, un argomento marginale, rivela tutta una serie di aspetti caratteristici del modo in cui i tedeschi perpetrarono l'Olocausto. Capire gli atti e il sistema di valori delle decine di migliaia di tedeschi che, come il capitano Hoffmann, si trasformarono in assassini genocidi, appunto quanto questo libro si propone. Nel corso dell'Olocausto i tedeschi tolsero la vita a sei milioni di ebrei e, se la Germania non fosse stata sconfitta, ne avrebbero annientati altri milioni. L'Olocausto fu il tratto caratterizzante della vita e della cultura politica tedesche nel periodo nazista, l'evento pi sconvolgente del ventesimo secolo e il fenomeno meno comprensibile dell'intera storia della Germania. La persecuzione degli ebrei culminata nell'Olocausto dunque l'aspetto saliente della realt tedesca nel periodo nazista, non tanto perch ci lascia retrospettivamente esterrefatti di fronte all'evento pi traumatico del secolo, ma per il significato che ebbe per i tedeschi del tempo e per i motivi che indussero tanti di loro a prendervi parte. Fu, quell'evento, il segnale della loro uscita dal consorzio dei popoli civili (2): un'uscita che non pu rimanere senza spiegazione. Spiegare l'Olocausto il problema intellettuale fondamentale per la comprensione della Germania durante il nazismo.

Al confronto relativamente semplice capire tutti i passi compiuti dal nazionalsocialismo: in che modo conquist il potere, come elimin la sinistra, come rilanci l'economia, come struttur e gest lo stato, come condusse la guerra. L'Olocausto, invece, e il mutamento di sensibilit che ne deriv sfidano ogni interpretazione. Non esiste nella storia del ventesimo secolo, e anzi in tutta la storia dell'Europa moderna, un fatto paragonabile. Al suo confronto la genesi di ogni altro grande evento nella storia e nell'evoluzione politica della Germania, indipendentemente dal dibattito che suscita, di una trasparenza cristallina. Spiegare come avvenne un'impresa ciclopica, sul piano empirico ma ancor pi su quello teorico, tanto che alcuni hanno sostenuto, a mio avviso erroneamente, che l'Olocausto inspiegabile. La difficolt teorica data dalla sua natura assolutamente nuova, dall'incapacit della teoria sociale di allora (o di quanto passava per senso comune) di cogliere il bench minimo preavviso non soltanto di ci che sarebbe avvenuto, ma neanche della sua possibilit. La teorizzazione retrospettiva non ha fatto molto meglio, gettando modeste luci su quelle tenebre. Questo libro si propone di spiegare perch l'Olocausto avvenne e perch fu possibile che avvenisse. Il successo dell'impresa dipende da un certo numero di elaborazioni accessorie, che sostanzialmente consistono nella reimpostazione di tre temi di ricerca: i realizzatori dell'Olocausto, l'antisemitismo tedesco e la natura della societ tedesca nel periodo nazista. In primo luogo, i realizzatori dell'Olocausto. Sono sicuramente pochi i lettori di questo libro che non si siano interrogati sui motivi che li spinsero a uccidere; e pochi avranno evitato di darsi una risposta, che in genere avranno desunto - per forza di cose - non da una conoscenza profonda dei realizzatori stessi e dei loro atti, bens soprattutto dalla propria personale concezione della natura umana e della vita sociale. E' comunque probabile che pochi dissentiranno sulla necessit di studiarli. Fino a oggi, per, i realizzatori, la categoria pi importante tra i responsabili dello sterminio degli ebrei d'Europa dopo il gruppo dirigente stesso del regime nazista, sono stati oggetto di ben poca attenzione sistematica negli studi che ricostruiscono quegli eventi, proponendosi di spiegarli.

Nella vasta letteratura sull'Olocausto sorprendente l'esiguit delle informazioni sulle persone che lo perpetrarono: sappiamo poco su chi fossero, sui dettagli e le circostanze di molte loro azioni, per non parlare delle motivazioni. Nessuno mai arrivato a una stima attendibile del numero di persone che contribuirono al genocidio, dei realizzatori veri e propri; alcune strutture dello sterminio e le persone che le facevano funzionare sono state a malapena prese in considerazione. E a causa di questa generale mancanza di conoscenze che sui realizzatori abbondano malintesi e leggende di ogni genere, tanto pi gravi in quanto influiscono sulla pi generale percezione, e comprensione, di ci che furono l'Olocausto e la Germania in epoca nazista. Dobbiamo quindi riportare l'attenzione, e tutte le energie intellettuali finora dedicate ad altri aspetti, sui realizzatori, sugli uomini e le donne che contribuirono, essendone intimamente consapevoli, alla strage degli ebrei (3). Dobbiamo studiare e spiegare nei dettagli il loro operato: non basta considerare le strutture dello sterminio, tutte insieme o una per una, come meri strumenti della volont dei dirigenti nazisti, macchine ben lubrificate, semplici internamente, che il regime attivava, come schiacciando un interruttore, per far eseguire i propri ordini, di qualsiasi cosa si trattasse. Gli uomini e le donne che insieme davano vita a quelle inerti forme istituzionali, che occupavano le strutture del genocidio, devono diventare il tema centrale negli studi sull'Olocausto e assumere, in quell'indagine, lo stesso ruolo fondamentale che ebbero nella realizzazione del genocidio. Queste persone erano in larghissima e schiacciante maggioranza tedeschi. Se vero che nello sterminio degli ebrei furono affiancati da esponenti di diverse comunit nazionali, questi per non furono indispensabili per il compimento del genocidio, n venne da loro l'iniziativa e la spinta a portarlo avanti. Certo, se i tedeschi non avessero trovato negli altri paesi d'Europa (soprattutto orientale) persone disposte ad aiutarli, l'Olocausto si sarebbe svolto in modo differente, ed probabile che essi non sarebbero riusciti a uccidere tanti ebrei. Ma furono comunque tedesche le decisioni, la pianificazione e le risorse organizzative; tedeschi, in grande maggioranza, i realizzatori. Per comprendere e spiegare come avvenne l'Olocausto occorre dunque capire che cosa spingesse "i tedeschi" ad ammazzare gli ebrei.

Qui l'attenzione si concentra sui realizzatori tedeschi perch quel che vale per loro non vale per nessun'altra singola nazione, n per tutte le altre nazioni considerate insieme: cio, senza tedeschi non si d Olocausto. Per fare dei realizzatori la chiave interpretativa dell'Olocausto, il primo passo consiste nel restituire loro un'identit trasformando la forma grammaticale passiva in attiva al fine di evitare che proprio loro, gli agenti materiali, siano estraniati dalle azioni che compirono (come quando si dice, per esempio, che cinquecento ebrei furono uccisi nella citt di X alla data Y) (4), e rifiutando certe etichette comode ma spesso inesatte e fuorvianti come nazisti o S.S., per chiamarli in causa invece per ci che realmente erano: tedeschi. La definizione "generale" pi corretta, anzi l'unica corretta, dei tedeschi che perpetrarono l'Olocausto tedeschi (5). Erano tedeschi che agivano nel nome della Germania e del suo popolarissimo leader, Adolf Hitler. Alcuni erano nazisti, perch iscritti al Partito nazionalsocialista o per convinzione ideologica; altri non lo erano. Alcuni appartenevano alle S.S., altri no. I realizzatori uccisero o comunque contribuirono al genocidio sotto l'egida di molte strutture diverse dalle S.S. Il minimo comun denominatore tra loro era di essere tedeschi impegnati a realizzare gli obiettivi politici nazionali della Germania, che, in questo caso, coincidevano con il genocidio degli ebrei (6). Certo, talvolta corretto fare riferimento a qualifiche e ruoli istituzionali o professionali, cos come ai pi generici termini di realizzatori o assassini, ma sempre e soltanto partendo dal presupposto che tali persone erano prima di tutto tedeschi, e solo in secondo luogo S.S., poliziotti o guardie dei campi. Il secondo passo consiste, di conseguenza, nel rivelare qualcosa circa l'ambiente da cui provenivano, ricostruendo la natura e le caratteristiche della loro vita di assassini genocidi, riportando alla luce il loro mondo. Cosa facevano "esattamente", quando uccidevano? Cosa facevano, all'interno delle strutture preposte allo sterminio, quando non erano materialmente impegnati a uccidere? Fino a quando non saremo bene informati sui dettagli di quelle esistenze e di quelle azioni, non potremo capire n le persone n il modo in cui perpetrarono i loro delitti. Svelare come vivevano, presentare una descrizione di un certo spessore, in luogo della solita immagine appiattita, del loro operato sono passi importanti e necessari di per s, ma specialmente come basi di partenza

verso l'obiettivo principale di questo libro: trovare una spiegazione di quegli atti (7). La mia tesi che questo sia impossibile se innanzi tutto non si arriva a capire la societ tedesca prima e durante il periodo nazista, e in particolare la cultura politica che produsse i realizzatori e le loro azioni. Un obiettivo vistosamente assente da altri lavori che si sono proposti di motivare quegli atti e che sono perci condannati a trovare solo spiegazioni contingenti e si concentrano quasi esclusivamente sulle influenze sociali e psicologiche pi immediate, istituzionali, spesso considerate pressioni irresistibili. Invece, le persone che divennero i realizzatori dell'Olocausto si erano formate e operavano all'interno di un contesto storico e sociale particolare e, con quel contesto, avevano in comune una complessa visione del mondo ereditata dal passato, che va indagata se si vogliono capire i loro atti. Il momento fondamentale di questa indagine deve dunque essere un riesame del carattere e dell'evoluzione dell'antisemitismo in Germania nel periodo nazista e in quello precedente, che a sua volta impone una nuova valutazione teorica della pi generale natura dell'antisemitismo. Ora, gli studi sull'Olocausto peccano di una scarsa comprensione e di un'insufficiente teorizzazione dell'antisemitismo. Antisemitismo un termine generico, usato sempre in modo impreciso, che comprende una vasta gamma di fenomeni diversi: questo fatto pone un problema di non poco conto, perch una fase fondamentale in ogni tentativo di spiegare l'Olocausto stabilire se e in quale misura l'antisemitismo ne abbia prodotto e influenzato i molteplici aspetti. Ritengo che la nostra interpretazione dell'antisemitismo, e del suo rapporto con il (mal)trattamento degli ebrei, sia carente. Dobbiamo riprendere questi argomenti, elaborando un apparato concettuale descrittivo e analitico capace di affrontare le cause ideative dell'azione sociale. Il capitolo 1 di questo libro dedicato appunto ad avviare tale riesame teorico. Lo studio dei realizzatori impone inoltre un analogo riesame, e anzi un radicale ripensamento, del carattere della societ tedesca prima e durante l'epoca nazista. L'Olocausto fu il tratto distintivo del nazismo, ma non suo soltanto: in quel periodo caratterizz l'intera societ tedesca, nella quale non rimase indenne dalla prassi antiebraica nessun ambito di rilievo, dall'economia e dalla politica alla cultura, dagli allevatori ai commercianti, dagli

amministratori delle piccole citt agli avvocati, ai medici, ai fisici, agli insegnanti. E' impossibile analizzare la societ tedesca, comprenderla o definirla, se non si pongono al centro dell'attenzione la persecuzione e lo sterminio degli ebrei. Le fasi iniziali del programma, con la sistematica esclusione degli ebrei dalla vita economica e sociale della Germania, si svolsero alla luce del sole, viste con approvazione dall'opinione pubblica e in pratica con la complicit di tutti i settori della societ tedesca, dagli ambiti professionali - giustizia, sanit, insegnamento - alle chiese, la cattolica come la protestante, all'intera gamma dei gruppi e delle associazioni economiche, sociali e culturali (8). Furono centinaia di migliaia i tedeschi che contribuirono al genocidio e all'ancor pi vasto sistema di sottomissione costituito dai campi di concentramento; e, nonostante i poco convinti tentativi del regime di nascondere le stragi alla vista della maggioranza, erano milioni a sapere delle esecuzioni in massa (9). Hitler dichiar pi volte, con grande enfasi, che la guerra si sarebbe conclusa con lo sterminio degli ebrei (10): gli eccidi venivano accettati, se non approvati, da tutti. Nessun'altra impresa (di portata simile o maggiore) fu condotta con uno zelo tanto tenace, con cos poche difficolt, tranne forse la guerra stessa. L'Olocausto non definisce soltanto la storia degli ebrei negli anni centrali del ventesimo secolo, ma anche quella dei tedeschi; se esso modific irrevocabilmente l'ebraismo e gli ebrei, la sua realizzazione fu possibile sostengo - perch i tedeschi erano "gi" cambiati. La sorte degli ebrei fu forse la conseguenza diretta, il che non significa comunque inesorabile, di una visione del mondo condivisa dalla grande maggioranza del popolo tedesco. Ognuna di queste revisioni concettuali - dei realizzatori, dell'antisemitismo tedesco e della societ in Germania nel periodo nazista in s complessa, richiede una difficile elaborazione teorica e una base considerevole di materiale empirico, e meriterebbe in definitiva un libro a s stante. Inoltre sebbene tutte e tre siano singolarmente giustificabili sul piano teorico e su quello empirico, sono per convinto che ciascuna di esse, poich trattano temi interconnessi, risulti rafforzata dalle altre due. Insieme, ci invitano a un deciso ripensamento di alcuni momenti importanti della storia tedesca, della natura della societ in Germania nel periodo nazista e della realizzazione dell'Olocausto.

Per far questo, bisogna ribaltare le idee convenzionali su svariati argomenti, considerando in una luce nuova e alquanto diversa certi aspetti essenziali dell'epoca che siamo abituati a dare per risolti. Per spiegare perch avvenne l'Olocausto occorre una radicale revisione di tutto quanto stato scritto finora: questo libro, appunto. Tale revisione ci impone di individuare ci che per tanto tempo stato negato o sfumato dai ricercatori, accademici o meno che fossero: il fatto, cio, che le convinzioni antisemite dei tedeschi furono la causa principale dell'Olocausto, e non soltanto della decisione hitleriana di annientare l'ebraismo europeo (che molti condivisero), ma anche della disponibilit dei realizzatori a uccidere e brutalizzare gli ebrei. Questo libro giunge alla conclusione che fu l'antisemitismo a indurre molte migliaia di tedeschi comuni - e altri milioni ne avrebbe indotti, se si fossero trovati al posto giusto - a massacrare gli ebrei. Non la crisi economica, non i poteri coercitivi di uno stato totalitario, non la pressione sociale o psicologica, non immutabili tratti del carattere, bens le idee sugli ebrei che da decenni pervadevano la Germania indussero della gente qualunque ad ammazzare sistematicamente, senza misericordia, migliaia di uomini, donne e bambini ebrei inermi e indifesi. Di quali sviluppi dovrebbe tener conto una spiegazione esauriente dell'Olocausto? Per arrivare allo sterminio degli ebrei, dovevano darsi quattro condizioni generali: i nazisti - cio il gruppo dirigente, e in particolare Hitler - dovevano 1) decidere di intraprendere lo sterminio (11); 2) assumere il controllo degli ebrei, cio del territorio in cui essi risiedevano (12); 3) organizzare lo sterminio, dedicandovi risorse sufficienti (13); 4) indurre un gran numero di persone a compiere gli eccidi. La vasta letteratura sul nazismo e sull'Olocausto tratta approfonditamente i primi tre fattori, insieme con altri come le origini e la natura delle convinzioni genocide di Hitler, e l'ascesa al potere dei nazisti (14). Il quarto invece, il tema di questo libro, stato considerato, come ho gi detto, in modo approssimativo e preconcetto. E' quindi importante prendere in esame alcune questioni analitiche e interpretative fondamentali nello studio dei realizzatori dell'Olocausto. Non sorprende, data la scarsa attenzione dedicata all'argomento, che le poche interpretazioni esistenti in merito siano in genere nate in una specie di vuoto empirico: fino a poco tempo fa non esistevano ricerche sui realizzatori, con l'eccezione che per i capi del regime nazista. Negli ultimi anni sono apparse pubblicazioni che trattano di qualche singola categoria, ma lo stato generale delle conoscenze rimane ancora carente (15).

Sappiamo poco su molte strutture preposte allo sterminio, poco su molti aspetti della realizzazione del genocidio, e ancor meno su coloro che lo perpetrarono. Su questi ultimi abbondano quindi i miti e i malintesi, popolari o accademici che siano. Eccone uno: comune l'idea che gli ebrei siano stati quasi tutti uccisi nelle camere a gas (16), e che senza camere a gas, mezzi di trasporto moderni e una burocrazia efficiente i tedeschi non sarebbero riusciti a eliminarne a milioni. Permane la convinzione che sia stata la tecnologia a rendere in qualche modo possibile l'orrore su questa scala (17): catena di montaggio della morte una delle frasi ricorrenti nella letteratura scientifica. Si convinti che, grazie alla loro efficienza (che a sua volta viene, e molto, esagerata), le camere a gas fossero uno strumento necessario per il genocidio, e che i tedeschi le avessero costruite proprio perch avevano bisogno di mezzi pi funzionali per uccidere gli ebrei (18). Si creduto a lungo (e ancora recentemente), tra gli studiosi come tra i profani, che i realizzatori fossero innanzi tutto e soprattutto S.S., i nazisti pi fanatici e brutali (19). Si diffusamente pensato (di nuovo, fino a tempi recenti) che se un tedesco si fosse rifiutato di uccidere gli ebrei, lui stesso sarebbe stato ucciso, o mandato in campo di concentramento, o severamente punito (20). Tutte queste idee, elementi fondamentali nell'interpretazione dell'Olocausto, sono state condivise acriticamente, come se si trattasse di verit lapalissiane. Autentici articoli di fede (desunti da fonti estranee alla ricerca storica), esse si sono sostituite alla vera conoscenza, distorcendo l'interpretazione di quel periodo. La mancanza di attenzione per la figura dei realizzatori sorprende per tutta una serie di ragioni, una delle quali l'ormai pi che decennale dibattito sull'"avvio" dell'Olocausto, noto col termine improprio di dibattito intenzionalista-funzionalista (21). Nel bene e nel male, intorno a tale dibattito che si venuta organizzando buona parte della letteratura scientifica; ma sebbene esso sia servito a chiarire l'esatta cronologia della persecuzione e dell'eccidio degli ebrei, proprio per i termini in cui viene esposto ha reso pi confusa l'analisi delle cause (su questo ritorneremo nel capitolo 4), non aggiungendo nulla a quanto sappiamo dei realizzatori. Uno soltanto tra gli studiosi che per primi hanno definito i temi fondamentali del dibattito ha ritenuto opportuno chiedersi perch, una volta

dato l'avvio (comunque fosse) alla strage, chi ebbe l'ordine di uccidere obbed (22). Per un motivo o per l'altro, tutti coloro che sono intervenuti nel dibattito danno per scontato che il fatto di eseguire quell'ordine non ponesse problemi n agli agenti materiali, n poi agli storici e agli studiosi di scienze sociali. La nostra scarsa conoscenza del periodo, e dunque la nostra limitata capacit di comprendere, si evidenzia nel semplice fatto che, indipendentemente dalla definizione del termine realizzatore, il numero delle persone che lo furono ci ignoto. Non esiste una stima attendibile - non esiste anzi alcuna stima di quante persone parteciparono consapevolmente al genocidio. Su questo, inspiegabilmente, gli studiosi non azzardano cifre, n rilevano che, data l'importanza dell'argomento, si tratta di una grave lacuna nelle nostre conoscenze (23). Eppure, se tra i tedeschi i realizzatori furono diecimila, allora la realizzazione dell'Olocausto, e l'Olocausto stesso, furono un fenomeno di un certo tipo, forse l'opera di un gruppo selezionato e poco rappresentativo. Ma se furono cinquecentomila, o un milione, allora si tratt di un fenomeno di altro tipo, che probabilmente faremmo meglio a concepire come un progetto nazionale tedesco. In base al numero e all'identit dei tedeschi che parteciparono al genocidio, la sua spiegazione ispirer o imporr generi diversi di interrogativi, indagini e sistemi teorici. Comunque, la scarsit delle conoscenze, non soltanto sui realizzatori ma anche sul funzionamento delle strutture cui facevano capo, non ha impedito ad alcuni studiosi di prendere posizione in proposito (colpisce peraltro che siano tanto pochi anche i rapidi accenni, per non dire le trattazioni approfondite). La letteratura scientifica distilla inoltre interpretazioni congetturali, bench non sempre definite chiaramente, o elaborate in modo sistematico (capita spesso, anzi, una commistione di elementi di ipotesi diverse, a discapito della coerenza). Alcune sono state proposte per spiegare il comportamento del popolo tedesco in generale, applicandole anche al problema dei realizzatori. Non riporteremo la posizione di ciascuno degli studiosi; presentiamo invece una sintesi analitica delle argomentazioni pi rilevanti, facendo riferimento ai portavoce di ciascuna. Possiamo riassumerle in cinque categorie principali.

La prima teoria si basa sulla costrizione esterna: i realizzatori furono coartati. La minaccia della punizione non lasciava loro scelta: dopo tutto, facevano parte di organizzazioni militari e poliziesche, con una rigida struttura di comando che imponeva ai sottoposti di eseguire gli ordini e che avrebbe punito severamente ogni insubordinazione, anche con la morte. E' opinione comune che chiunque abbia una pistola puntata alla testa sia disposto a uccidere gli altri per salvare se stesso (24). La seconda teoria vuole che i realizzatori non fossero altro che ciechi esecutori degli ordini. Sulla o sulle origini di questa presunta disposizione all'obbedienza sono state avanzate numerose ipotesi: il carisma di Hitler (l'incantesimo, per cos dire, che avrebbe fatto su di loro) (25), la generale tendenza dell'uomo a obbedire all'autorit (26), una reverente propensione all'obbedienza peculiare ai tedeschi (27), o la capacit di una societ totalitaria di ottundere il senso morale dell'individuo, condizionandolo a svolgere qualsiasi compito sia considerato necessario (28). Esiste dunque una proposizione comune, cio che gli uomini obbediscono all'autorit, con una variet di ipotesi sul motivo per cui lo fanno; ed ovvio che l'idea che l'autorit, in particolare quella dello stato, abbia la capacit di imporre obbedienza, merita la massima considerazione. Secondo una terza teoria, i realizzatori furono sottoposti a tremende pressioni sociali e psicologiche, esercitate su ognuno di loro dai camerati e/o dalle aspettative che accompagnavano il ruolo istituzionale da loro occupato. E' estremamente difficile per un individuo resistere alle pressioni che lo inducono a conformarsi, pressioni che possono costringerlo a prendere parte ad azioni che per proprio conto non compirebbe, anzi aborrirebbe. Inoltre esiste una vasta gamma di meccanismi psicologici che consentono di razionalizzare gli atti compiuti in tali condizioni (29). Una quarta teoria vede nei realizzatori dei meschini burocrati, o dei tecnocrati senz'anima, che guardavano al proprio interesse, o ai propri obiettivi tecnocratici, con fredda indifferenza per le vittime. E questo vale per i funzionari di Berlino come per il personale dei campi di concentramento: tutti dovevano far carriera e, data la propensione psicologica di chi si sente un ingranaggio in una macchina ad attribuire ad altri la responsabilit dell'indirizzo generale, potevano dedicarsi tranquillamente al proprio avanzamento o ai loro particolari interessi materiali e istituzionali (30).

Non occorre certo insistere sull'effetto ottundente delle istituzioni sul senso di responsabilit individuale da un lato n, dall'altro, sulla tendenza dell'individuo ad anteporre i propri interessi a quelli degli altri. La quinta teoria vuole che, data la frammentazione dei compiti, i realizzatori non potessero comprendere la vera natura del loro operato; non potessero accorgersi che i loro incarichi limitati rientravano di fatto in un programma di sterminio globale, e che, quand'anche se ne fossero resi conto, la frammentazione fosse tale da consentire loro di negare a se stessi l'incidenza del proprio apporto, scaricando la responsabilit su altri (31). E' noto che dovendo intraprendere un compito sgradevole o moralmente dubbio gli uomini tendono ad attribuirne la colpa agli altri. E' possibile reinterpretare queste teorie sulla base del valore che ciascuna di esse assegna alla volont degli agenti materiali. La prima (la coercizione) comporta che gli assassini non potessero dire no; la seconda (l'obbedienza) e la terza (la pressione ambientale) implicano che i tedeschi fossero psicologicamente incapaci di dire no; la quarta (l'interesse personale) vuole che i tedeschi avessero sufficienti incentivi personali a uccidere per non voler dire no; la quinta (la miopia burocratica) sostiene che i realizzatori non percepissero nemmeno di essere impegnati in un'azione che poteva porli di fronte alla responsabilit di dire no. Ognuna di queste teorie convenzionali pu apparire plausibile, e in alcune c' ovviamente una parte di verit. Dove sta dunque l'errore? A parte i difetti particolari (sui quali ci soffermeremo in dettaglio nel capitolo 15), vale la pena di accennare qui ad alcuni presupposti ed elementi di incerta validit che sono "comuni" a tutte. Le teorie convenzionali "danno per scontato" un atteggiamento neutro o negativo dei realizzatori rispetto al loro operato, fondandosi sul presupposto che occorra dimostrare in quale modo una persona possa essere indotta a commettere atti su cui non interiormente consenziente, che non considera necessari o giusti. Nella formazione della disponibilit a uccidere, esse ignorano, confutano o minimizzano l'importanza dell'ideologia dei nazisti e forse anche dei realizzatori, dei loro valori morali, del loro stesso modo di concepire le vittime. E inoltre alcune di queste teorie convenzionali forniscono un'immagine caricaturale dei realizzatori, e dei tedeschi in generale, trattandoli come uomini privi di senso morale e incapaci di prendere decisioni e difenderle. Non li concepiscono come persone dotate di volont, bens come esseri guidati esclusivamente da forze esterne o da tendenze psicologiche

metastoriche e invariabili come la ricerca del pi servile e meschino interesse personale. A questo si aggiungono altri due gravi errori concettuali. Da un lato non viene sufficientemente riconosciuto il carattere del tutto straordinario di un atto come la strage: "si d per scontato" e implicito il fatto che, in fondo, indurre la gente a uccidere non sia diverso dall'indurla a fare una qualsiasi altra cosa sgradita o disdicevole. Dall'altro lato, non pare che l'"identit" delle vittime abbia alcuna importanza: "si presuppone" che i realizzatori avrebbero riservato un identico trattamento a ogni altro gruppo di vittime designate; che fossero gli ebrei - cos vorrebbe la logica di queste teorie - irrilevante. Io sostengo invece che qualunque teoria che non tenga conto della capacit degli agenti materiali di intendere e di giudicare, cio di comprendere e valutare il significato e la moralit delle loro azioni, che non consideri fondamentali le loro convinzioni e i loro valori, che non indichi con la massima evidenza l'autonoma forza motivante dell'ideologia nazista, e in particolare della sua componente portante, l'antisemitismo, non pu in alcun modo farci capire perch i realizzatori abbiano agito come in realt agirono. Una teoria che ignori la natura specifica di quelle azioni - il massacro e la brutalizzazione sistematici e su vasta scala - o l'identit delle vittime si rivela inadeguata per una serie di ragioni. Tutte le interpretazioni che come le teorie convenzionali tralasciano questi aspetti sono quindi carenti nell'individuazione dei due fattori umani presenti nell'Olocausto: l'umanit dei realizzatori, cio la loro capacit di giudicare e scegliere di agire in modo disumano, e quella delle vittime, persone con identit specifiche, non animali o cose, che subirono le conseguenze del loro operato. La mia interpretazione - una novit tra gli studi sull'argomento (32) - che i realizzatori, i tedeschi comuni, furono mossi dall'antisemitismo, da una particolare "forma" di antisemitismo che li induceva a concludere che gli ebrei dovevano morire (33). Le loro convinzioni, quella particolare forma di antisemitismo, furono dunque una causa decisiva e indispensabile, seppure ovviamente non l'unica, di quanto fecero, e vanno poste al centro di qualsiasi tentativo di spiegazione. In poche parole i realizzatori, indotti dalle proprie convinzioni morali a considerare giusto lo sterminio degli ebrei, non vollero dire no.

Studiare la realizzazione dell'Olocausto impresa difficile sul piano interpretativo come su quello metodologico, e impone subito di affrontare una serie di questioni nel modo pi aperto e diretto. Espongo quindi gli elementi fondamentali del mio approccio all'argomento, specificando con chiarezza la gamma degli atti che richiedono un'interpretazione. Il discorso verr ripreso nell'Appendice 1, dove discuter alcuni aspetti accessori che possono essere privi di interesse per il lettore non specialista: nel libro ho scelto, invece, di presentare i temi, i casi e alcuni altri problemi di interpretazione e di metodo che potessero risultare interessanti per tutti. Gli studiosi commettono un grave errore quando non accettano di credere che la gente potesse massacrare intere popolazioni - specie quando queste, a un qualsiasi esame obiettivo, non rappresentavano alcuna minaccia - per sola convinzione ideologica. Perch continuare a credere nell'impossibilit che persone comuni abbiano potuto sanzionare il massacro su vasta scala di esseri umani o, peggio ancora, prendervi parte? La storia, dall'antichit al presente, ricca di testimonianze della disinvoltura con cui gli uomini possono uccidere altri uomini, e persino trarre piacere dalla loro morte (34). Non c' motivo di ritenere che l'uomo moderno, occidentale, persino cristiano sia incapace di condividere ideologie che svalutano la vita, auspicandone l'annientamento, ideologie peraltro simili a quelle propugnate dagli esponenti di tanti movimenti religiosi, culturali e politici in tutto il corso della storia, compresi - per fare soltanto due esempi calzanti tra gli antenati dell'Europa cristiana del ventesimo secolo - i crociati e gli inquisitori (35). Chi mette in discussione che gli assassini degli oppositori dei recenti regimi autoritari in Argentina e in Cile fossero convinti che le vittime meritassero di morire? Chi dubita che i tutsi che massacravano gli hutu in Burundi, o gli hutu che ammazzavano i tutsi in Ruanda, o la milizia libanese che eliminava i sostenitori civili della milizia avversaria, o i serbi che uccidevano croati e musulmani bosniaci, lo facessero nella convinzione della giustezza dei loro atti? Eppure, perch non vogliamo riconoscerlo anche per i realizzatori tedeschi dell'Olocausto? I molteplici problemi di un saggio sull'Olocausto iniziano con la scelta dei principi ai quali informare la ricerca sulla societ tedesca; su questo ritorneremo pi a lungo nel capitolo 1. La decisione forse pi importante se si debba o meno presupporre, come fa la maggioranza degli studiosi, che fosse una societ pi o meno normale, funzionante in base a norme di senso comune simili alle nostre.

In questa prospettiva, perch delle persone siano disposte a ucciderne altre, devono essere mosse dalla pi cinica brama di potere e ricchezza o essere dominate da una fortissima ideologia cos tautologicamente falsa da poter essere condivisa solo da pochi squilibrati (oltre che da coloro che la sfruttano a fini opportunistici). E quei pochi potranno anche riuscire a prendere in giro la maggioranza, semplice e perbene, di un popolo moderno, ma non certo a conquistarla. In alternativa, questo periodo pu essere affrontato evitando di porre tale presupposto, ma esaminandolo con l'occhio critico dell'antropologo che sbarca in una terra sconosciuta, aperto all'incontro con una civilt radicalmente diversa dalla propria e consapevole dell'eventualit di dover elaborare interpretazioni che non si adattano al suo senso comune, o che persino lo contraddicono, per poter capire la struttura di quella civilt, i comportamenti intolleranti, i progetti e i prodotti comuni all'intera collettivit. In tale ottica risulta possibile affermare che un gran numero di persone, nel caso specifico i tedeschi, possa aver ucciso, o fosse disposto a uccidere, altre persone, nel caso specifico gli ebrei, in tutta coscienza. Un simile approccio che, diversamente da quello adottato in quasi tutti gli studi finora svolti, non si pone l'obiettivo predeterminato di individuare ci che costrinse delle persone ad agire contro la propria volont (o, indipendentemente da qualsiasi volont, come automi) si potrebbe, invece, rivelare necessario per spiegare in quale modo i tedeschi siano divenuti volontariamente potenziali assassini di massa e come il regime nazista abbia saputo sfruttare questa catastrofica potenzialit. A tale approccio, appunto, che rifiuta l'idea fondamentale nell'antropologia come nelle scienze sociali - dell'universalit del nostro senso comune (36), improntata questa ricerca (37). Scarteremo perci i presupposti metodologici e sostanziali che, considerati basilari e di regola indiscussi, hanno ispirato quasi tutti gli studi sull'Olocausto e su coloro che lo perpetrarono, in quanto insostenibili sia sul piano teorico che su quello empirico. Questo libro d, invece, importanza alla consapevolezza e ai valori degli agenti materiali del genocidio, investigando l'operato dei realizzatori alla luce del criterio della scelta: un'impostazione che, se riferita all'Olocausto, pone una serie di domande di teoria sociologica che, sia pur brevemente, vanno affrontate. I realizzatori operavano all'interno di strutture che assegnavano a ciascuno un ruolo e dei compiti, lasciando per margini di scelta, individuali e collettivi.

Occorre dunque individuare, analizzare e integrare in qualsiasi spiegazione o interpretazione generale questo margine di scelta, e soprattutto i modelli che determinarono le decisioni. Idealmente si dovrebbe rispondere alle seguenti domande: che cosa fecero davvero i realizzatori del genocidio? che cosa fecero in pi di quanto era necessario? che cosa si rifiutarono di fare? che cosa si sarebbero potuti rifiutare di fare? che cosa avrebbero preferito non fare? (38) in quale modo svolsero i loro compiti? quanto agevolmente procedettero nel complesso le operazioni? Nello studio dei modelli di comportamento dei realizzatori alla luce dei ruoli istituzionali e della struttura incentivante, occorre seguire due fili conduttori che vanno oltre il semplice atto di uccidere. In primo luogo, al di l del colpo letale i tedeschi fecero subire agli ebrei (e ad altre vittime) una lunga serie di azioni: per comprendere il genocidio, importante definire la "gamma" di tali azioni. Su questo tema ritorneremo subito nel dettaglio. In secondo luogo, anche il comportamento dei realizzatori nei momenti in cui "non" erano impegnati nel genocidio fornisce informazioni preziose: le indicazioni sul loro carattere in generale e sulla loro disposizione ad agire, oltre che sul contesto sociopsicologico in cui vivevano, ricavate da un'analisi delle attivit non omicide, potrebbero rivelarsi indispensabili per comprendere i modelli dell'azione genocida. Si pone quindi un interrogativo di fondo: nella gamma di tutti gli atti compiuti dai realizzatori, quali costituiscono quell'universo di azioni che richiedono un'indagine? Di regola gli studiosi si sono concentrati su un solo aspetto delle azioni dei tedeschi: quello di uccidere. Questa prospettiva limitata va allargata. Si immagini che i tedeschi avessero deciso di non sterminare gli ebrei, ma di limitarsi a infliggere loro tutti i maltrattamenti cui di fatto li sottoposero nei campi di concentramento, nei ghetti, ai lavori forzati. Si immagini che oggi, nella nostra societ, qualcuno eserciti sugli ebrei o sui cristiani, sui bianchi o sui neri, un trattamento che abbia anche soltanto un centesimo della brutalit e della crudelt che i tedeschi, a prescindere dall'assassinio, fecero subire agli ebrei: chiunque riconoscerebbe la necessit di chiederne ragione. Se i tedeschi non avessero perpetrato un genocidio, l'attenzione si sarebbe concentrata sulle privazioni e sulle crudelt inflitte agli ebrei, che sarebbero state considerate come un oltraggio, un'aberrazione, una perversione della storia tali da non poter rimanere senza spiegazione.

E, invece, quelle stesse azioni sono scomparse all'ombra del genocidio e sono state ignorate dai precedenti tentativi di capire gli aspetti pi significativi di questo evento (39). La scelta di concentrarsi sullo sterminio e di escludere tutte le altre azioni dei realizzatori a esso correlate ha portato a definire gli obiettivi stessi del lavoro interpretativo in maniera radicalmente distorta. Per ovvi motivi, lo sterminio deve rimanere al centro di tutti gli studi; tuttavia non l'unico aspetto del trattamento riservato dai tedeschi agli ebrei che richieda un'indagine interpretativa sistematica. Non si devono spiegare soltanto i massacri, ma anche il modo in cui vennero effettuati: il come fornisce spesso preziose indicazioni sul perch. L'assassino pu rendere la morte altrui pi o meno dolorosa, fisicamente ed emotivamente, a seconda se la consideri giusta o ingiusta. Il modo in cui i tedeschi, a livello collettivo e individuale, cercarono nella pratica, o anche solo nelle intenzioni, di alleviare o acuire le sofferenze delle loro vittime deve occupare un posto di rilievo in qualsiasi tentativo di interpretazione. Qualunque teoria, che pure colga i motivi che portarono i tedeschi ad ammazzare gli ebrei ma non tenga conto del modo in cui lo fecero, inevitabilmente inadeguata. Se vogliamo fare un'analisi chiara, dobbiamo individuare con la massima precisione le azioni da prendere in esame. Possiamo perci ricorrere a uno schema classificatorio che, per raggrupparle in quattro tipologie principali, si presenta a due dimensioni: la prima indica se l'azione compiuta da un tedesco fu la conseguenza di un ordine preciso o di un'iniziativa personale; la seconda se con essa il realizzatore tedesco commise un atto di crudelt (40). Nel contesto della Germania dell'epoca, gli atti compiuti per ordini superiori, come il rastrellamento, la deportazione e l'uccisione degli ebrei, in assenza di eccessi e di crudelt gratuite, erano motivati da un intento utilitaristico: sono gli atti che avrebbe compiuto il proverbiale (e mitico) buon tedesco, che si limitava a eseguire servilmente gli ordini ricevuti. Gli atti di iniziativa personale e gli eccessi, invece, sono entrambi di fatto azioni volontarie, in cui non ci si limitava a eseguire gli ordini: il loro comune aspetto saliente consiste nel derivare appunto dalla volont dei singoli realizzatori. Ci che li differenzia soltanto il grado di crudelt: gli atti di iniziativa personale sono le azioni di un freddo carnefice, gli eccessi quelle del tedesco che, presumibilmente, traeva un piacere particolare dalle sofferenze che infliggeva.

L'ultima categoria comprende le azioni intraprese per ordine dei superiori, il cui unico scopo era far soffrire gli ebrei. Si tratta di azioni interessanti, su alcune delle quali ritorneremo in specifici capitoli, perch mettono in dubbio la tesi della razionalizzazione retrospettiva avanzata da molti realizzatori dopo la fine della guerra. Una mente nazificata alla ricerca di una qualche motivazione utilitaristica del genocidio poteva forse anche credere alle diverse false giustificazioni dell'eliminazione degli ebrei che venivano in genere proposte allora ai realizzatori (e dagli stessi realizzatori, dopo la guerra): gli ebrei come minaccia per la Germania, partigiani e banditi, diffusori di malattie e via dicendo. Ma l'ordine di torturare le vittime avrebbe dovuto suscitare qualche dubbio sulla legalit e la ragionevolezza della presunta logica del trattamento generale riservato agli ebrei. Tale trattamento, che giungeva fino a comprendere la loro uccisione, era costituito da diversi tipi di azioni, ognuno dei quali richiede un'interpretazione, e di ognuno dei quali deve tenere conto qualsiasi teoria complessiva sul contributo tedesco al genocidio. Nelle numerose categorie di azioni che vanno analizzate rientrano quelle che abbiamo classificato secondo le due dimensioni, per ordini superiori e crudelt: 1) tutte le azioni compiute per ordini superiori senza crudelt inutili, e in particolare quelle che contribuirono direttamente al genocidio; 2) crudelt commesse per direttive dell'autorit: gli atti di crudelt istituzionali, strutturati, sono pi importanti di quelli compiuti in situazioni contingenti da individui o piccoli gruppi; 3) azioni che richiedevano da parte del realizzatore un'iniziativa che andava oltre la lettera di quanto ordinato o richiesto dall'autorit, ma non contrassegnate da eccessiva crudelt; 4) crudelt commesse per iniziativa personale del realizzatore. Per quanto utile, questa schematizzazione oggettiva comunque insufficiente sia sul piano descrittivo e classificatorio, sia come base per un'interpretazione. In assenza di ulteriori specificazioni, infatti, tale modello analitico, cos come le teorie precedenti, presuppone che eseguire gli ordini sia una categoria non problematica; e, invece, bisogna riconoscere che esistono diversi tipi di comportamenti - ad esempio il fatto che un individuo, pur eseguendo gli ordini omicidi, non obbedisca ad altri - che possono gettar luce sul significato dell'espressione eseguire gli ordini in questo particolare contesto. In altre parole, se i tedeschi operavano delle distinzioni tra gli ordini che sceglievano, o no, di eseguire, e tra le modalit della loro esecuzione,

bisogna esaminare e interpretare tanto la loro obbedienza quanto i loro modi di esprimerla. Inoltre, tale classificazione non tiene conto delle occasioni che potevano presentarsi ai realizzatori di evitare situazioni o di uscire da strutture nelle quali pi alta era la probabilit di ricevere incarichi sgraditi (41). Le ingenue categorie dell'obbedienza o dell'esecuzione degli ordini finiscono, insomma, per astrarre i comportamenti dei realizzatori dal pi ampio contesto sociale, politico e istituzionale, che invece indispensabile cogliere per comprendere la loro disponibilit a obbedire agli ordini. Per questo, dobbiamo valutare quanto segue: la prima categoria di azioni e le sue varianti, quella dell'obbedienza, non di per s non problematica. I tedeschi potevano tentare di evitare le corve omicide, o di ridurre le sofferenze delle vittime; perch, e fino a che punto, non approfittarono di tale possibilit? Quanto al secondo tipo di azioni, le crudelt imposte da autorit superiori, dovremmo chiederci per quali motivi, in Europa, in pieno Novecento, delle organizzazioni di massa si vennero strutturando in modo tale da infliggere intenzionalmente - nella misura in cui ciascuna di esse lo fece - spaventose sofferenze ad alcune popolazioni. Tutte queste organizzazioni, per la loro natura e il loro modo di funzionare, dipendevano infatti necessariamente dal loro personale. Bisogna ovviamente spiegare anche il terzo tipo di azioni, gli atti di iniziativa personale, volontari, in quanto possiamo supporre che chi era contrario alla strage si limitasse a fare il minimo indispensabile di quanto imposto dall'alto. Va da s, infine, che occorre interpretare il quarto tipo di azioni, le crudelt per iniziativa personale (42). Occorre poi tener conto di altri due aspetti della questione. In primo luogo, vanno valutati la riluttanza o lo zelo con cui i realizzatori tedeschi svolsero i compiti loro assegnati, anche quando si trattava di azioni eseguite per ordine superiore: chi obbedisce pu farlo con gradi ben diversi di dedizione, di precisione, di perfezionismo. Rastrellando gli ebrei nascosti, i tedeschi potevano impegnarsi il pi possibile per scoprirli, o invece cercarli in modo distratto, poco convinto. Lo zelo con cui lo fecero rivela molto sulla loro motivazione, e necessita a sua volta di essere spiegato. Il secondo aspetto legato all'orrore dei loro atti. Perch l'orrore, la brutalit delle stragi, spesso raccapriccianti, non servirono a fermare la mano dei realizzatori o quanto meno a farli esitare? Quelle operazioni non ci appaiono tanto terrificanti, ovviamente, per un particolare tipo di azioni compiute dai realizzatori, ma per il fatto che il loro

orrore non influ in misura significativa sulle scelte di chi le port a termine (43). Fatte queste precisazioni, bisogna comunque allargare la prospettiva oltre la categorizzazione oggettiva, integrandola con un'indagine delle motivazioni che indussero i tedeschi - in particolare coloro che si possono considerare esecutori di ordini - a compiere azioni di un determinato tipo. Indipendentemente dalla categoria in cui viene correttamente inserita un'azione, l'atteggiamento di chi la compie e la motivazione che lo muove rimangono comunque importanti, poich modificano la natura stessa dell'azione (44). Alla categorizzazione oggettiva va, dunque, aggiunta quella soggettiva della motivazione, della grande variet di ragioni compatibili con l'azione compiuta per ordine superiore, con le manifestazioni di iniziativa personale, con l'eccesso o con il fatto che un dato compito venga svolto bene o male. E in questo fondamentale appurare se i realizzatori ritenessero o meno che quanto facevano agli ebrei fosse giusto, e, se cos fu, perch (45). La sfera delle motivazioni indispensabile per comprendere la disponibilit dei realizzatori ad agire, ed in buona misura un prodotto della costruzione sociale della conoscenza (46). Quale tipo di azione un individuo sia disposto a eseguire - per ordine diretto, per iniziativa personale, per desiderio di eccesso o per zelo dipende dalla sua motivazione; ma le azioni vere e proprie non corrispondono "necessariamente" alle motivazioni, poich sono influenzate dalle circostanze e dalle occasioni. E' evidente che, mancando l'occasione, la motivazione personale a uccidere o torturare non potr realizzarsi; ma anche vero che non basta l'occasione per far l'uomo assassino o torturatore. Sostenere che ogni azione (socialmente rilevante) debba essere motivata non significa che tutti gli atti siano il semplice risultato delle convinzioni acquisite da chi agisce circa l'opportunit e la giustizia dell'azione stessa. Significa solo che una persona deve decidere di compiere un'azione, che un determinato calcolo mentale (forse nemmeno percepito come tale) la induce a non astenersi dal compierla. Il calcolo potr tener conto del desiderio di far carriera, o di non sfigurare di fronte ai compagni, o di non farsi fucilare per insubordinazione. Si pu uccidere qualcuno senza essere convinti che sia giusto farlo, quando si sufficientemente motivati, per quanto consapevoli dell'ingiustizia, da altre considerazioni come quella della propria sicurezza: volersi salvare la vita, ad esempio, un'ottima ragione.

In quanto tali, invece, le strutture, gli incentivi o le sanzioni, formali e informali, non possono mai essere motivazioni: si limitano a fornire stimoli ad agire o a non agire, di cui l'agente potr tener conto al momento di decidere (47). E' vero, certo, che in determinate situazioni la stragrande maggioranza delle persone si comporta nello stesso modo, apparentemente indifferente alle convinzioni e alle finalit precedenti. Di fronte a casi come questi, molti sono stati tentati di concludere, erroneamente, che siano le strutture a determinare l'azione (48): ma le strutture sono sempre interpretate da coloro che agiscono, ed prevedibile che, quando questi condividono convinzioni e valori ( un valore desiderare di salvarsi la vita o di vivere in una societ razzialmente pura, o di fare carriera, o di diventare ricchi, o di essere a tutti i costi uguali agli altri), vi si attengano in genere allo stesso modo. Ci nonostante, non tutti anteporranno la sicurezza personale ai principi; n tutti violeranno una profonda convinzione morale perch i compagni non la condividono. Se invece succeder, si dovr vedere nei valori che li inducono a farlo che non sono valori, n tanto meno disposizioni sociopsicologiche universali - un elemento interpretativo fondamentale. C' chi, per gli altri, disposto a rischiare la vita, a rinunciare a una promozione, a dissentire con parole e fatti dai camerati. Gli oggetti inanimati non producono autonomamente conoscenze e valori; tutte le nuove conoscenze e i nuovi valori derivano da una struttura preesistente di conoscenze e di valori che attribuisce significato alle circostanze materiali della vita. E sono le conoscenze e i valori, e soltanto questi, che in ultima istanza inducono un uomo a levare volontariamente la mano contro un altro uomo. Indipendentemente dalla struttura delle conoscenze e dei valori degli individui, un cambiamento in quella degli incentivi, in cui i realizzatori operano, potrebbe indurli - e in molti casi li induce - a modificare le proprie azioni, in quanto essi calcolano il comportamento da assumere alla luce delle loro conoscenze e valori, e delle possibilit di concretizzarli in diverse combinazioni. Va sottolineato che ci non significa che sia la struttura degli incentivi in s a provocare le azioni, ma solo che essa "concorre con la struttura di conoscenze e di valori" nel provocarle. Per comprendere il comportamento dei realizzatori bisogna dunque valutare con attenzione la loro realt fenomenologica.

Dobbiamo tentare la difficile impresa di immaginarci al loro posto, ad agire come essi agirono, a vedere ci che essi videro (49). Per far questo, dobbiamo tenere sempre a mente la natura essenziale di quanto fecero: ammazzavano uomini, donne e bambini indifesi, gente che palesemente non rappresentava la minima minaccia militare, spesso debole ed emaciata, in preda a un'inequivocabile agonia fisica ed emotiva, e che a volte implorava di aver salva la propria vita, o quella dei propri figli. Troppi interpreti di questo periodo, specie quando si lanciano in elucubrazioni psicologiche, considerano gli atti dei tedeschi come se fossero reati di poco conto, come se si trattasse di spiegare per quale motivo, di tanto in tanto, un brav'uomo ruba nei negozi (50), e ne perdono di vista il carattere radicalmente diverso, straordinario. In molte societ, comprese quelle occidentali, il tab che impedisce di ammazzare gli indifesi e i bambini forte; i meccanismi psicologici che consentono alla brava gente di commettere piccole trasgressioni morali, o di chiudere un occhio su quelle, anche gravi, commesse da altri, soprattutto se lontani, non possono essere applicati - a meno che non si ritenga che abbiano un'autentica validit esplicativa - a chi compie un genocidio, a chi sta a guardare il massacro di centinaia di persone. Per comprendere il genocidio dobbiamo quindi tenere sempre a mente due considerazioni. Scrivendo o leggendo a proposito di quelle operazioni omicide, fin troppo facile divenire insensibili al vero significato delle cifre: diecimila morti qui, quattrocento l, quindici da un'altra parte. Ciascuno di noi dovrebbe soffermarsi a pensare che se ci furono diecimila morti vuol dire che i tedeschi ammazzarono diecimila persone - uomini disarmati, donne, bambini, vecchi, giovani, ammalati -, che per diecimila volte privarono un essere umano della vita. Ciascuno di noi dovrebbe riflettere sul significato che tutto questo pu aver avuto per i tedeschi che presero parte allo sterminio; se penso al senso di angoscia, di orrore o repulsione, di indignazione morale che io stesso provo di fronte all'assassinio di una sola persona, o a un omicidio di massa contemporaneo, una ventina di persone - a opera di un serial killer o di un sociopatico che scarica un fucile semiautomatico in un fast-food -, riesco a intravedere qualcosa della realt che ebbero di fronte quei tedeschi. Le vittime ebree non erano dati statistici, come ci appaiono sulla carta: per i loro assassini gli ebrei erano persone che un attimo prima respiravano, e ora giacevano senza vita, spesso ai loro piedi. E tutto questo avveniva indipendentemente dalle operazioni militari.

La seconda considerazione da non dimenticare mai data dall'orrore di ci che facevano i tedeschi. Chiunque appartenesse a un reparto addetto alle eliminazioni, sia che sparasse lui stesso, sia che stesse a guardare i suoi compagni che ammazzavano gli ebrei, si trovava immerso in scene di orrore indicibile. Una descrizione meramente oggettiva delle operazioni omicide inquadra in una prospettiva sbagliata la fenomenologia della strage, svuotando le azioni delle loro componenti emotive e impedendone la comprensione. In qualsiasi interpretazione dei fatti tuttavia indispensabile una descrizione adeguata, capace di ricreare la realt fenomenologica degli assassini. Per questo motivo, rifiuto l'approccio meramente oggettivo e tento di comunicare l'orrore, il raccapriccio "per i realizzatori" (il che naturalmente non significa che essi fossero sempre inorriditi): schizzi di sangue, frammenti di ossa e di cervello che spesso ricadevano sugli assassini, insozzandone la faccia e i vestiti; grida e lamenti di gente in attesa del massacro imminente o in preda agli spasimi della morte che riecheggiavano nelle orecchie dei tedeschi. Queste scene - non le descrizioni asettiche proposte dalla semplice cronaca delle operazioni - furono la realt di molti realizzatori; per poter comprendere il loro mondo fenomenologico dovremmo raccontare a noi stessi ognuna delle immagini raccapriccianti che essi videro, ognuna delle grida di angoscia e dolore che udirono (51). L'analisi di ogni operazione, di ogni singola morte dovrebbe ridondare di questo tipo di descrizioni; ma ci non possibile, naturalmente, non solo perch renderebbe troppo vasto qualsiasi studio sull'Olocausto, ma anche perch ben pochi riuscirebbero ad arrivare in fondo alla lettura di resoconti tanto orripilanti; un fatto, quest'ultimo, che di per s un efficace commento alla straordinaria fenomenologia dell'esistenza dei realizzatori, e alla forza delle motivazioni che poterono imporre ai tedeschi di mettere a tacere tali emozioni per uccidere e torturare gli ebrei e i loro bambini. Le convinzioni e i valori comuni nella cultura tedesca, e in particolare quelli che diedero forma all'atteggiamento nei confronti degli ebrei - la cui comprensione il passaggio essenziale nella spiegazione dell'Olocausto -, costituiscono il tema portante della prima parte del libro. I primi tre capitoli propongono uno schema per analizzare l'antisemitismo. Seguono due capitoli dedicati a una discussione dell'antisemitismo tedesco rispettivamente nel diciannovesimo e nel ventesimo secolo, in cui si dimostra che ben prima dell'avvento al potere dei nazisti si era affermata in

Germania una virulenta variante eliminazionista dell'antisemitismo, che chiedeva appunto l'eliminazione dell'influenza ebraica, o degli ebrei stessi, dalla societ tedesca. Quando i nazisti presero il potere, si videro padroni di una societ gi intrisa di convinzioni sugli ebrei adatte alla pi estrema forma di eliminazione che si potesse immaginare. La seconda parte passa in rassegna le decisioni che portarono alla sofferenza e alla morte degli ebrei, e le strutture che le concretizzarono. Il primo capitolo di questa parte propone una nuova interpretazione dell'evolversi dell'aggressione dei tedeschi contro gli ebrei, dimostrando che al di l dell'effettiva o apparente alternanza di indirizzo, quella politica si conform sempre ai precetti dell'antisemitismo eliminazionista tedesco. Il secondo capitolo fornisce una descrizione sintetica delle strutture dello sterminio, definisce la gamma delle categorie dei realizzatori e si sofferma sulla pi emblematica delle strutture tedesche della morte: il campo. Insieme, i due capitoli delineano il contesto pi ampio all'interno del quale vanno studiati e compresi i temi centrali di questo libro, le strutture della morte e i realizzatori. I capitoli compresi tra la terza e la quinta parte presentano casi specifici riguardanti le tre strutture dello sterminio - i battaglioni di polizia, i campi di lavoro e le marce della morte - esaminando nel dettaglio le azioni dei loro componenti, nonch i contesti organizzativi di quelle azioni. Tale indagine consente una conoscenza approfondita degli atti dei realizzatori, nonch dei contesti contingenti e delle strutture incentivanti nella loro vita di assassini genocidi, conoscenza indispensabile per l'analisi e l'interpretazione dell'Olocausto. Il primo capitolo della sesta parte analizza sistematicamente le azioni dei realizzatori, dimostrando quanto siano inadeguate, sul piano teorico e pratico, le spiegazioni convenzionali dei fatti rilevati dagli studi empirici. Ne risulta che l'antisemitismo eliminazionista basta a spiegare la condotta dei realizzatori, e che la medesima spiegazione si presta a consentirne l'interpretazione in tutta una serie di prospettive comparate. Il secondo capitolo approfondisce il carattere dell'antisemitismo eliminazionista, capace di indurre nel gruppo dirigente nazista, nei realizzatori dell'Olocausto e nel popolo tedesco, l'assenso e, ciascuno a suo modo, la partecipazione al programma di eliminazione. Il libro si conclude con un breve epilogo, un riassunto delle lezioni che si possono trarre dallo studio dei realizzatori che propone la necessit di ripensare la natura della societ tedesca nel periodo nazista, suggerendo alcuni tratti portanti di una nuova impostazione.

"I volonterosi carnefici di Hitler" incentrato sui realizzatori dell'Olocausto. Per spiegare le loro azioni, integra la micro, la meso e la macroanalisi, dall'individuo alle strutture, alla societ. Gli studi precedenti, e in pratica tutte le interpretazioni delle azioni dei realizzatori, sono nati in laboratorio, o sono stati desunti da un qualche sistema filosofico o teoretico, o ancora hanno trasferito alla sfera individuale conclusioni (spesso a loro volta erronee) tratte dall'analisi del livello sociale o istituzionale. Per questo affrontano troppo superficialmente le ragioni di quelle azioni, e non riescono a giustificarne, e nemmeno a specificarne (52), la variet e le varianti. E ci vale in particolare per tutte le interpretazioni strutturali, non cognitive: pochi studiosi si sono occupati della microfisica dell'Olocausto, che invece il necessario punto di partenza per un esame delle azioni dei realizzatori (53). Questo libro mette a nudo quelle azioni e ne d ragione analizzandole nei rispettivi contesti organizzativi e sociali e alla luce della loro collocazione sociopsicologica e ideale. Occorre una motivazione per uccidere qualcuno, altrimenti non si uccide. Quali furono le condizioni culturali ed etiche che in quel periodo della storia tedesca resero plausibili le motivazioni del genocidio? Quale fu la struttura di convinzioni e valori che rese intelligibile e ragionevole l'aggressione genocida contro gli ebrei per i tedeschi comuni che divennero i realizzatori? Poich qualsiasi spiegazione deve render conto sia delle azioni di decine di migliaia di tedeschi delle pi disparate provenienze, che operavano in organizzazioni di tipo diverso, sia di una vastissima gamma di azioni (non soltanto degli omicidi), bisogna individuare una struttura comune a tutti che sia in grado di spiegare l'intera variet delle loro azioni. Questa struttura di conoscenze e di valori era presente nella cultura tedesca, e ne era parte integrante: la sua natura e la sua evoluzione sono il tema dei prossimi tre capitoli.

NOTE ALL'INTRODUZIONE N. 1. Confronta lettera del 30 gennaio 1943, S.t.A., Amburgo 147 Js 1957/62, pagine 523-24. N. 2.

Essi divergevano da questo modello - effettivamente alquanto vago - sia nell'accezione comune della parola civilt, sia in quella di teoria sociale di Norbert Elias della civilizzazione come controllo esterno, e soprattutto interiore, sulle manifestazioni emotive, comprendendo in queste le esplosioni di violenza distruttiva. Confronta "The Civilizing Process", 2 volumi, New York, Pantheon, 1978 (trad. it. "Il processo di civilizzazione", Bologna, Il Mulino, 1988). N. 3. Per la definizione e i contenuti della categoria dei realizzatori, confronta capitolo 5. N. 4. L'indifferenza degli studiosi per il problema dei realizzatori assume forme pi sottili della semplice mancanza di attenzione. E' il linguaggio stesso - usato in modo consapevole, semiconsapevole o del tutto inconsapevole - a farli scomparire dalla pagina; l'uso dei verbi al passivo cancella gli agenti dalla scena del macello, delle azioni da essi commesse, tradendo l'interpretazione che gli autori danno degli eventi e condizionando quella dei lettori: un'interpretazione in cui sparisce l'agente umano. Per una discussione di questa tendenza nel lavoro di Martin Broszat, uno dei pi influenti studiosi della Germania nazista e dell'Olocausto, confronta Martin Broszat e Saul Friedlnder, A Controversy about the Historicization of National Socialism, in "Reworking the Past: Hitler, the Holocaust, and the Historians Debate", a cura di P. Baldwin, Boston, Beacon Press, 1990, pagine 102-34. N. 5. Non esitiamo, e a ragione, a definire americani i cittadini degli Stati Uniti che combatterono in Vietnam per gli obiettivi voluti dal loro governo. Il medesimo motivo altrettanto valido nel caso dei tedeschi nell'Olocausto, i cui realizzatori erano tedeschi cos come i soldati in Vietnam erano americani, sebbene non tutti, in entrambi i paesi, sostenessero la causa della loro nazione. E' questo l'uso in casi analoghi, questa la definizione pi accurata e corretta; e dunque la scelta del termine tedeschi non soltanto legittima, ma obbligata. Tanto pi che nella stragrande maggioranza dei casi le vittime ebree concepivano e definivano i loro persecutori non come nazisti, ma come tedeschi. Con questo non si vuole affermare che il termine comprenda tutti i tedeschi (cos come americani non coinvolge ogni singolo americano),

perch vi furono tedeschi che si opposero ai nazisti e alla persecuzione degli ebrei. Ma ci non modifica l'identit dei realizzatori dell'Olocausto, n la parola che meglio li definisce. Si pone invece un reale problema terminologico quando tedeschi viene contrapposto a ebrei, poich l'uso di tedeschi potrebbe far pensare che gli ebrei di Germania non fossero anch'essi tedeschi. Sia pure con qualche perplessit, ho comunque deciso di usare semplicemente tedeschi, evitando espressioni farraginose come tedeschi non ebrei: quando utilizzo ebrei in riferimento agli ebrei tedeschi, do quindi per implicita la loro germanit. N. 6. Molti non tedeschi contribuirono al genocidio degli ebrei, in particolare diverse formazioni di ausiliari dell'Europa orientale che operavano a fianco dei nazisti e sotto la loro supervisione. I pi famigerati erano forse i cosiddetti "Trawniki", gli ausiliari ucraini che parteciparono in misura consistente alla decimazione degli ebrei nel Governatorato generale, contribuendo alle deportazioni e alle fucilazioni in massa e lavorando nei campi di sterminio di Treblinka, Belzec e Sobibr. I tedeschi trovarono zelanti collaboratori in Lituania, in Lettonia, nelle diverse regioni conquistate dell'Unione Sovietica, in altri paesi dell'Europa centrale e orientale, e anche nell'Europa occidentale. In genere questi realizzatori sono stati trascurati dalla letteratura scientifica. Occorre certo uno studio comparato (come spieghiamo brevemente nel capitolo 15), che per non pu fare parte integrante di questo volume, per due ordini di motivi. Il primo, gi detto, che furono i tedeschi, non altri, i promotori e i realizzatori principali dell'Olocausto. Il secondo una considerazione di carattere pratico: il libro gi abbastanza ambizioso, e dunque bisognava delimitarne la prospettiva per mantenerlo entro dimensioni maneggevoli. Lo studio dei realizzatori non tedeschi, che comprendono un gran numero di persone di molte nazionalit diverse, merita un progetto a s stante. Per una discussione sulle tendenze delle minoranze tedesche di altri paesi durante la guerra, confronta Valdis O. Lumans, "Himmler's Auxiliaries: the Volksdeutsche Mittelstelle and the German National Minorities of Europe, 1933-1945", Chapel Hill, University of North Carolina Press, 1993; sul contributo dei "trawniki", gli ausiliari dell'Europa orientale che operavano nei campi di sterminio di Bekec, Treblinka e Sobibr, e che uccisero o

brutalizzarono decine di migliaia di ebrei deportandoli dai ghetti polacchi o partecipando direttamente alle fucilazioni, confronta la Sentenza contro Karl Richard Streibel e altri, S.t.A., Amburgo 147 K.s. 1/72; sull'Unione Sovietica, confronta Richard Breitman, "Himmler's Police Auxiliaries in the Occupied Soviet Territories", in Simon Wiesenthal Center Annual, 7, 1994, pagine 2339. N. 7. Confronta Clifford Geertz, Thick Description: Toward an Interpretative Theory of Culture, in "The Interpretation of Cultures: Selected Essays", New York, Basic Books, 1973, pagine 3-30 (trad. it. "Interpretazione di culture", Bologna, Il Mulino, 1987). N. 8. Confronta capitolo 3. N. 9. Confronta Hans-Heinrich Wilhelm, "The Holocaust in NationalSocialist Rhetoric and Writings: Some Evidence against the Thesis that before 1945 Nothing Was Known about the Final Solution", in Y.V.S., 16,1984, pagine 95-127; e Wilhelm Benz, The Persecution and Extermination of the Jews in the German Consciousness, in "Why Germany? National Socialist AntiSemitism and the European Context", a cura di John Milfull, Providence, Berg Publishers, 1993, pagine 91104, in particolare pagine 97-98. N. 10. Confronta, ad esempio, Max Domarus, "Hitler. Reden und Proklamationen", Mnchen, Suddeutschen Verlag, 1965 (trad. ingl. "Speechs and Proclamations, 1932-45", London, I.B. Tauris, 1990, vol. 1, p. 41), e C.C. Aronsfeld, "The Text of the Holocaust: a Study of the Nazis' Extermination Propaganda, from 1 9Z 9-1945", Marblehead Mass., Micah Publications, 1985, pagine 34-36. N. 11. E' questo l'oggetto del dibattito intenzionalistafunzionalista di cui si discuter pi oltre. Sulle motivazioni della decisione di sterminare gli ebrei d'Europa, confronta Erich Goldhagen, "Obsession and Realpolitik in the Final Solution", in Patterns of Prejudice, 12,1978, n. 1, pagine 1-16; e Eberhard Jckel, "Hitler's World View: a Blueprint for Power", Cambridge Mass., Harvard University Press, 1981. N. 12. Fu una conseguenza dell'espansione militare tedesca. N. 13.

Questo uno degli argomenti fondamentali di Raul Hilberg, "The Destruction of the European Jews", New York, New View-points, 1973 (trad. it. "La distruzione degli ebrei d'Europa", Torino, Einaudi, 1996). N. 14. Naturalmente sono i biografi di Hitler coloro che pi si confrontano con questo problema. Confronta in proposito Alan Bullock, "Hitler. Eine Studie ber Tyrannei", Dsseldorf, 1971 (trad. it. "Hitler. Studio sulla tirannide", Milano, Mondadori, 1975); Robert G.L. Waite, "The Psychopathic God: Adolt Hitler", New York, Signet Books, 1977; Joachim C. Fest, "Hitler. Eine Biografie", Frankfurt/M. Berlin - Wien, 1973 (trad. it. "Hitler", Milano, Rizzoli, 1975). Quanto a Hitler spiegato da lui stesso, confronta "Mein Kampf", Mnchen, 1934 (trad. it. "Mein Kampf. La mia battaglia", a cura di G. Marden, Monfalcone, Sentinella d'Italia, 1990). Per due trattazioni dell'ascesa al potere dei nazisti confronta Karl Dietrich Bracher, "Die Auflsung der Weimarer Republik", Villingen, Schwarzwald Ring Verlag, 1964, e William S. Allen, "The Nazi Seizure of Power: The Experience of a Single German Town: 1922-1945", New York, Franklin Watts, 1984, ed. riveduta (trad. it. "Come si diventa nazisti. Storia di una piccola citt 1930-1935", Torino, Einaudi, 1968). N. 15. Questi argomenti saranno discussi nel capitolo 5. N. 16. Intitolando il suo articolo "The Forgotten Part of the Final Solution: the Liquidation of Ghettos" (Simon Wiesenthal Center Annual, 2,1985, pagine 31-51), Wolfgang Scheffler allude al fatto che ci si interessati quasi esclusivamente alle camere a gas, a scapito di altri aspetti dell'Olocausto, fatta eccezione per gli studi sulle "Einsatzgruppen". N. 17. E' questa un'opinione comune, il cui principale sostenitore Raul Hilberg, "The Destruction of the European Jews" cit. N. 18. Confronta il recente contributo di Uwe Dietrich Adam, The Gas Chambers, in "Unanswered Questions: Nazi Germany and the Genocide of the Jews", a cura di Franois Furet, New York, Schocken Books, 1989, pagine 134-54, il quale inizia il suo saggio con queste parole: Ancora oggi, persino negli studi storici pi autorevoli, continuano a circolare idee false e malintese generalizzazioni sull'esistenza, la dislocazione, il funzionamento e l'"efficienza" delle camere a gas, che ingenerano confusione ed errori.

N. 19. Lo dimostra la generale assenza nella letteratura di una chiara indicazione del fatto che molti dei realizzatori non erano S.S.; se ci fosse stato compreso, sarebbe certo stato considerato uno degli aspetti salienti del genocidio. N. 20. E' stupefacente l'indifferenza per la documentazione facilmente disponibile su questo argomento: nessuno degli studi generali sull'Olocausto, compresi i pi recenti, vi fa il minimo cenno. Il tema viene ripreso e approfondito, a proposito dei battaglioni di polizia, nella parte terza e nel capitolo 15 di questo volume. N. 21. Sulla posizione dei principali protagonisti, confronta Tim Mason, Intention and Explanation: a Current Controversy about the Interpretation of National Socialism, in "Der Fhrerstaat: Mythos und Realitt", a cura di Gerhard Hirschfeld e Lothar Kettenacker, Stuttgart, Klett-Cotta, 1981, pagine 23-40; Ian Kershaw, "The Nazi Dictatorship: Problems and Perspectives of Interpretation", London, Edward Amold, 19933, pagine 80107; Michael R. Marrus, "The Holocaust in History", Hanover, University Press of New England, 1987, pagine 31-51 (trad. it. "L'Olocausto nella storia", Bologna, Il Mulino, 1994). N. 22. Hans Mommsen, The Realization of the Unthinkable: the "Final Solution" of the Jewish Question in the Third Reich, in "The Policies of Genocide: Jews and Soviet Prisoners of War in Nazi Germany", a cura di Gerhard Hirschfeld, London, Allen & Unwin, 1986, pagine 98-99. N. 23. Ad esempio, non mi risulta che l'"Encyclopedia of the Holocaust", diretta da Israel Gutman, 4 volumi, New York, Macmillan, 1990 - un tentativo di riassumere e codificare lo stato delle conoscenze sull'Olocausto, che fornisce statistiche su un ampio spettro di materie -, affronti l'argomento, n fornisca una stima in proposito. N. 24. E' ovviamente assai diffusa nel pubblico la convinzione che i realizzatori dovessero scegliere tra uccidere o essere uccisi, ma sono pochi gli studi pi recenti che lo affermino in modo cos esplicito. Lo fa, ad esempio, Sarah Gordon, "Hitler, Germans and the Jewish Question", Princeton, Princeton University Press, 1984, p. 283, a proposito della partecipazione dell'esercito tedesco al genocidio. N. 25.

Confronta Saul Friedlander, "Histoire et psychanalyse", Paris, Seuil, 1975 (trad. it. "Storia e psicoanalisi", a cura di M. Tejera, Roma, Il Pensiero Scientifico, 1977). N. 26. Confronta Stanley Milgram, "Obedience to Authority: an Experimental View", New York, Harper Colophon, 1969 (trad. it. "Obbedienza all'autorit. Il celebre esperimento di Yale sul conflitto tra disciplina e coscienza", Milano, Bompiani, 1974); e Herbert C. Kelman e V. Lee Hamilton, "Crimes of Obedience: Toward a Social Psychology of Authority and Responsibility", New Haven, Yale University Press, l989. N. 27. Si supposto talvolta che questa propensione si sia formata nel corso della storia. Confronta Erich Fromm, "Escape from Freedom", New York, Avon Books, 1965 (trad. it. "Fuga dalla libert", Milano, Mondadori, 1987); G.P. Gooch et al., "The German Mind and Outlook", London, Chapman & Hall, 1945. N. 28. Confronta Hannah Arendt, "Le origini del totalitarismo", Milano, Edizioni di Comunit, 1983, rist. 1996. Hans Mommsen (The Realization of the Unthinkable cit., pagine 98-99) segue una linea di ragionamento affine, come pure Rainer C. Baum ("The Holocaust and the German Elite: Genocide and National Suicide in Germany, 1871-1945", Totawa, N.J., Rowman & Littlefield, 1981). N. 29. Il pi recente e considerato contributo di questo genere Christopher R. Browning, "Ordinary Men: Reserve Police Battalion 101 and the Final Solution in Poland", New York, Harper Collins, 1992 (trad. it. "Uomirli comuni. Polizia tedesca e soluzione finale in Polonia", Torino, Einaudi, 1995). Di fatto presenta la stessa posizione di Raul Hilberg in "The Destruction of the European Jews" cit. Robert Jay Lifton, che ha studiato i medici tedeschi di Auschwitz in "The Nazi Doctors: Medical Killing and the Psychology of Genocide", New York, Basic Books, 1986 (trad. it. "I medici nazisti", Milano, Rizzoli, 1988), fornisce una spiegazione psicoanalitica dei motivi che trasformarono dei terapeuti di professione in assassini, degli uomini per altri versi perbene in esseri capaci di tanto male.

Anche tale interpretazione tiene conto di fattori contingenti e meccanismi psicologici e perci, nonostante le sue valenze psicoanalitiche, pu essere ricondotta a questa teoria. N. 30. Hans Mommsen, The Realization of the Unthinkable cit.; Gtz Aly e Susanne Heim, "Vordenker der Vernichtung: Auschwitz und die deutsche Plne fr eine neue Europaische Ordnung", Hamburg, Hoffman und Campe, 1991; nonch Sarah Gordon, "Hitler, Germans and the Jewish Question" cit., p. 312. N. 31. Questa teoria tanto insostenibile a fronte delle azioni degli assassini come sparare a bruciapelo contro gente indifesa - che vale la pena di citarla soltanto perch qualcuno ha ritenuto opportuno proporla. Marrus, per esempio, scrive con sicurezza del tutto ingiustificata: Come ben sanno da tempo gli studiosi dell'Olocausto, l'estrema divisione del lavoro nell'ambito del processo omicida contribuiva a stemperare la responsabilit personale dei realizzatori. Confronta Michael R. Marrus, "The Holocaust in History" cit., p. 47. Nella (scarsa) misura in cui ci vero, applicabile soltanto a una minima parte di quanto avvenne e non, come pare sostenere Marrus, a pressoch ogni caso. N. 32. Una parziale eccezione costituita da Herbert Jger ("Verbrechen unter totalitarer Herrschaft: Studien zur nationalsozialistischen Gewaltkriminalitt", Olton, Walter-Verlag, 1967) il quale riconosce che una percentuale dei realizzatori ag per convinzione ideologica (pagine 62-64). Egli tuttavia sostiene che questa non era la motivazione della maggioranza (pagine 76-78). Nell'insieme, come indica peraltro il titolo del suo libro traducibile con Delitti sotto un potere totalitario -, Jger accetta il modello totalitario della Germania nazista in voga negli anni Cinquanta (confronta pagine 186-208), utilizzando concetti come mentalit totalitaria ("totalitre Geisthaltung", p. 186). Tale modello - radicalmente errato, giacch continua a nascondere agli occhi di molti l'ampio margine di libert e pluralismo di fatto esistente nella societ tedesca - fuorvia spesso l'analisi di Jger, per altri versi ricca e acutissima. Per revisioni e critiche all'applicabilit del modello totalitario alla Germania nel periodo nazista, e per il dibattito sui problemi generali della classificazione stessa del nazismo, confronta Ian Kershaw, "The Nazi Dictatorship" cit., pagine 17-39.

Anche Hans Safrian, nell'introduzione al suo recente studio sui subalterni di Adolf Eichmann nella deportazione degli ebrei europei verso la morte, ha messo in discussione l'idea, generalmente accettata, che i realizzatori non fossero motivati dall'antisemitismo, ma non approfondisce n sviluppa questa sua posizione. Confronta "Die Eichmann-Mnner", Wien, Europaverlag, 1993, pagine 1722. N. 33. Naturalmente anche altri hanno riconosciuto e messo in rilievo l'importanza dell'ideologia politica e dell'antisemitismo nella decisione nazista di intraprendere lo sterminio totale degli ebrei. Per un ampio spettro di interpretazioni di questo tema, confronta "Der Mord an den Juden im Zweiten Weltkrieg: Entschlussbildung und Verwirklichung", a cura di Eberhard Jckel e Jrgen Rohwer, Stuttgart, Deutsche Verlag-Anstalt, 1985; Lucy Dawidowicz, "The War against the Jews", 1933-1945, New York, Bantam Books, 1975; Gerald Fleming, "Hitler and the Final Solution", Berkeley, University of California Press, 1984, e l'introduzione di Saul Friedlander al volume; Klaus Hildebrand, "Das Dritte Reich", Mnchen, 1979 (trad. it. "Il Terzo Reich", Bari, Laterza, 1989). Anche chi assume questa posizione, per, o non si curato di prendere in esame i realizzatori, oppure ha negato che in quanto gruppo essi fossero mossi da convinzioni analoghe. Michael R. Marrus ("The Holocaust in History" cit.), citando con approvazione Hans Mommsen, si fa portavoce del generale consenso degli storici: E' evidente che l'indottrinamento antisemita non costituisce una risposta sufficiente, perch sappiamo [sic] che molti funzionari addetti all'amministrazione dell'eccidio arrivarono all'incarico senza dar prova di sentimenti antisemiti particolarmente intensi. Anzi, in alcuni casi pare che nella loro storia personale non si fosse mai manifestato odio contro gli ebrei e che considerassero le loro vittime con freddo distacco ("The Holocaust in History" cit., p. 47). Erich Goldhagen costituisce invece un'eccezione e, pur non avendo mai pubblicato nulla in proposito, nelle sue lezioni e nelle nostre numerose conversazioni ha ribadito esattamente quanto mi propongo di sostenere. Per qualcuno la mia tesi non sar forse una grande novit, ma di fatto essa si pone in netta contrapposizione con la letteratura scientifica esistente. N. 34. Per uno sguardo generale su numerosi casi del passato lontano e recente confronta Frank Chalk e Kurt Jonassohn, "The History and Sociologu of

Genocide: Analyses and Case Studies", New Haven, Yale UniversitY Press, 1990. N. 35. Confronta Cecil Roth, "The Spanish Inquisition", New York, W.W. Norton, 1964. e Malise Ruthven, "Torture: the Grand Conspiracy", London, Weidenfeld & Nicolson, 1978. Fu nel nome di Ges che nel Nuovo Mondo gli spagnoli si resero responsabili del genocidio degli indigeni: Bartolom de Las Casas, "Brevissima relazione sulla distruzione delle Indie", ed. it. Milano, Mondadori, 1989. N. 36. Confronta Clifford Geerk, Common Sense as a Cultural System, in Local Knowledge: Further Essays in Interpretative Antropology", New York, Basic Books, 1983 (trad. it. "Antropologia interpretativa", Bologna, Il Mulino, 1988). N. 37. Nel capitolo 1 viene trattato il tema fondamentale della misura in cui differenti presupposti di partenza influenzano le conclusioni perch necessitano, per essere confutati, di tipi diversi di dimostrazioni. In linea generale, quanto pi scarsi sono i dati concreti di cui si dispone su un determinato argomento, tanto pi pregiudiziali sono i presupposti. E, poich le interpretazioni di una questione dipendono spesso dalla lettura delle conoscenze degli agenti - che sono dati concreti -, occorre prestare la massima cura alla giustificazione dei presupposti: possibile infatti che tutti i presupposti, tra loro incompatibili, circa per esempio l'atteggiamento dei tedeschi risultino inconfutabili; inoltre spesso difficile trovare dati che consentano generalizzazioni sicure su gruppi rilevanti di tedeschi, sicch chi parte da un certo presupposto pu sempre considerarli aneddotici, e dunque insufficienti per confutare, appunto, il suo presupposto. N. 38. Si tratta ovviamente di un interrogativo cui si pu rispondere solo con supposizioni; tuttavia dovrebbe indurci a una riflessione sulla natura specie se la conclusione che di fatto esistessero dei limiti che i realizzatori non avrebbero mai superato - della loro disponibilit ad agire. N. 39. Primo Levi ("I sommersi e i salvati", Torino, Einaudi, 1986) tra coloro che si sforzano, pur senza riuscirci del tutto, di comprendere la crudelt dei tedeschi. N. 40.

E' comunque difficile analizzare e definire la crudelt nell'ambito dei fenomeni che insieme costituiscono l'Olocausto ovvero, in senso pi lato, la persecuzione tedesca degli ebrei europei. Le azioni dei tedeschi furono tanto fuori dal mondo, da sfuggire alle nostre strutture di riferimento. Perci, se in generale pu essere giusto considerare un atto di crudelt uccidere persone innocenti, o costringere gente denutrita e debilitata a eseguire un lavoro manuale molto faticoso, in epoca nazista questi stessi atti erano aspetti ordinari - normali - delle attivit che i tedeschi si erano prefissi, e dunque ragionevole distinguerli (nel contesto specifico) dagli atti di crudelt gratuita come i pestaggi, la derisione, la tortura o l'imposizione di fatiche prive di senso e debilitanti, compiuti al solo scopo di aumentare le sofferenze degli ebrei. N. 41. Herbert Jger ("Verkrt chen unter totalitrer Herrschaft" cit., pagine 76-160) consapevole di questi aspetti, che stato tra i primi a trattare nella letteratura edita. Un altro contributo in proposito Hans Buchheim, Command and Compliance in Helmut Krausnick et al, "Anatomy of the S.S. State", London, Collins, 1968, pagine 303-96. N. 42. La crudelt tedesca verso gli ebrei non si manifest solamente nel corso delle operazioni di eliminazione fisica. Questa un'ulteriore ragione per cui la crudelt (analogamente agli altri tipi di azioni) va concepita come variabile analiticamente distinta dall'omicidio vero e proprio. N. 43. L'orrore un fattore significativo anche per un altro motivo. A partire da Hannah Arendt, si diffusa l'interpretazione - implicita o esplicita - per cui i realizzatori erano affettivamente neutrali, cio non provavano emozioni nei confronti degli ebrei. Tutte le teorie che non danno rilevanza all'identit delle vittime implicano, quanto meno potenzialmente, che l'opinione che di esse avevano i realizzatori non avesse, come causa, alcuna importanza. Tuttavia, se neppure l'eccidio fosse bastato di per s a costringere i realizzatori a riflettere sul loro operato, di fronte a tanto orrore per loro doveva essere virtualmente impossibile non maturare un'opinione qualsiasi sull'opportunit del massacro.

Sono disposto ad asserire che psicologicamente impossibile che i realizzatori avessero un atteggiamento del tutto neutrale nei confronti degli ebrei. E se non erano neutrali, che cosa pensavano delle vittime, quali emozioni riversavano nell'eccidio? E in quale modo questi pensieri, queste emozioni, influenzarono il loro agire? Dicendo ci, si vuole soltanto insistere sulla necessit di indagare pi a fondo sulle convinzioni dei realizzatori, proprio sulle loro convinzioni comuni; se infatti riconosciamo che non potevano essere neutrali riguardo alle loro azioni e vittime, dobbiamo anche considerare i loro pensieri e sentimenti come cause del loro operato. N. 44. Confronta Max Weber, "Economia e societ", Milano, Edizioni di Comunit, 1995, vol. 1, pagine 10 e seguenti. N. 45. Non facile suddividere per categorie gli eccidi e gli assassini. Una domanda da porsi : in quale modo, e per quale motivo, un ordine come fa ci che puoi per uccidere gli ebrei, che non prevedeva sanzioni n ricompense, poteva spingere il singolo tedesco ad agire? questi sarebbe rimasto immobile? o si sarebbe dedicato al compito senza troppo impegno? si sarebbe dimostrato efficiente nell'uccidere? o, infine, si sarebbe votato anima e corpo allo sterminio del maggior numero possibile di ebrei? N. 46. E' ovvio che, per trovare risposta ai quesiti che guidano questa indagine, non basta spiegare le motivazioni di chi stabiliva la linea politica o di chi stava ai vertici delle strutture genocide. Le motivazioni e le azioni dell'lite sono comunque importanti, ed quindi positivo il fatto che gi si sappia parecchio su molti suoi esponenti. Confronta per alcuni esempi: Robert G.L. Waite, "The Psychopathic God" cit.; Richard Breitman, "The Architect of Genocide: Himmler and the Final Solution", New York, Alfred A. Kupf, 1991 (trad. it. "Himmler", Milano, Mondadori, 1991); Matthias Schmidt, Albert Speer: "Das Ende eines Mythos. Speers wahre Rolle im Dritten Reich", Bern, 1982; Ruth Bettina Birn, "Die hheren S.S.-und Polizeifhrer: Himmlers Vertreter im Reich und in den besetzen Gebieten", Dsseldorf, Droste Verlag, 1986. N. 47. Scrive Anthony Giddens in "The Constitution of Society: Outline of the Theory of Structuration", Berkeley, University of California Press, 1984 (trad. it. "La costituzione della societ", Milano, Edizioni di Comunit, 1990, p. 178): Il vincolo strutturale non si esprime in quelle implacabili forme causali che hanno in mente i sociologi strutturalisti quando sottolineano con tanta forza l'associazione della "struttura" col "vincolo".

I vincoli strutturali non operano indipendentemente dai moventi e dalle ragioni che hanno gli attori per fare quello che fanno. Non possono essere paragonati all'effetto, per esempio, di un terremoto, che distrugge una citt e i suoi abitanti senza che essi possano farci assolutamente nulla. Nelle relazioni sociali umane, i soli oggetti in movimento sono gli agenti individuali che impiegano delle risorse per far accadere, intenzionalmente o no, delle cose. Le propriet strutturali dei sistemi sociali non "agiscono su" alcuno come forze della natura, cos da "costringerlo" a comportarsi in un determinato modo. N. 48. Un esempio di questo tipo di ragionamento dato da Theda Skocpol, "States and Social Revolutions: A Comparative analysis of France, Russia, and China", Cambridge, Cambridge University Press, 1979 (trad. it. "Stati e rivoluzioni sociali. Un'analisi comparata di Francia, Russia, Cina", Bologna, Il Mulino, 1981). N. 49. Una proposizione, questa, che si muove nel solco weberiano dell'aspirazione a verstehen. Confronta Max Weber, "Economia e societ" cit., vol. 1, pagine 5-26. N. 50. Confronta Michael R. Marrus, "The Holocaust in History" cit., p. 51. N. 51. Il fatto che tanti non siano riusciti a comprendere gli assassini e le forze motrici dell'Olocausto probabilmente dovuto in parte al rifiuto sistematico, se non consapevole, di affrontare l'orrore fenomenologico del genocidio. Nelle interpretazioni compaiono ben poche scene raccapriccianti, e quando ci sono, in genere sono accompagnate da analisi molto sommarie: l'orrore rimane muto, inesplorato, mentre la discussione si sposta verso altri argomenti, spesso di tipo logistico. Quando si parla di rastrellamenti e deportazioni, di eccidi e camere a gas, spesso ci si limita a dire che avvennero. Non si sottolinea in modo adeguato l'orrore delle specifiche operazioni, per cui risulta difficile percepirne la portata per i realizzatori, la frequenza con cui se ne trovavano circondati e le conseguenze complessive sulla loro personalit.

Dell'orrore tengono invece il dovuto conto i sopravvissuti, e gli studiosi che si sono occupati di loro. Di regola, per, non si preoccupano di spiegare le azioni dei realizzatori, se non in modo impressionistico e incidentale. E' interessante osservare, negli studi sull'Olocausto, il livello minimale di sovrapposizione e intersezione tra chi scrive dei realizzatori e chi studia le vittime. E in questo senso nemmeno il mio lavoro costituisce un'eccezione. N. 52. Herbert Jger, "Verbrechen unter totalitrer Herrschaft" cit., rappresenta una evidente eccezione, cos come - ma in misura minore Christopher R. Browning, "Ordinary Men" cit. Anche Hermann Langbein, "Menschen in Auschwitz", Frankfurt am M., Ullstein, 1980 (trad. it. "Uomini ad Auschwitz. Storia del pi famigerato campo di sterminio nazista", Milano, Mursia, 1985), prende atto delle variet dei comportamenti dei realizzatori. N. 53. Coloro che, come Christopher R. Browning in "Ordinary Men" cit., non sono riusciti a integrare adeguatamente le loro ricerche con i due livelli superiori di analisi.

PRIMO VOLUME

Parte prima CAPIRE L'ANTISEMITISMO ELIMINAZIONISTA

TEDESCO:

LA

MENTALITA'

"Alla comunit di Ges non consentito di udire l'orribile sorte degli ebrei se non nell'umilt, nella pietosa compassione e nel sacro terrore ... Per un cristiano non pu quindi darsi un atteggiamento di indifferenza, in questa materia [l'antisemitismo]." Il pastore protestante tedesco Walter Hchstdter in un vano appello ai soldati tedeschi, distribuito clandestinamente nel giugno-luglio 1944. "Com' possibile che le nostre orecchie, orecchie di cristiani, non rimbombino al cospetto delle ... sofferenze e dei tormenti [inflitti agli ebrei]?" Karl Barth, lezione tenuta nel dicembre 1938 a Wipkingen, in Svizzera.

"Di regola gli ebrei non ci piacciono, e dunque non ci risulta facile estendere anche a loro il nostro amore generale per l'umanit..." Karl Barth, lezione tenuta nel luglio 1944 a Zurigo.

Capitolo 1 RIVEDERE LA CONCEZIONE SCHEMA D'ANALISI

DELL'ANTISEMITISMO:

UNO

Quando si pensa all'antisemitismo tedesco, si tende a partire da alcuni importanti e sottaciuti presupposti riguardo ai tedeschi prima e nel corso del nazismo, che andrebbero analizzati e rivisti. Sono presupposti che nessuno adotterebbe per studiare una comunit analfabeta dell'Asia, o i tedeschi del quattordicesimo secolo, e che invece vengono applicati alla Germania dell'Otto-Novecento.

Possiamo riassumerli cos: i tedeschi erano pi o meno simili a noi, o meglio erano simili a come noi amiamo rappresentarci: figli sobri e razionali dell'Illuminismo, non guidati dal pensiero magico, bens radicati nella realt oggettiva. Come noi, erano uomini economici e a volte, certo, potevano essere mossi da motivazioni irrazionali, dall'odio prodotto dalla frustrazione economica o da certi ineliminabili vizi umani, quali la sete di potere o la superbia. Tutti moventi comprensibili e che, in quanto comuni sorgenti di irrazionalit, ci paiono rientrare nel senso comune. Abbiamo buone ragioni per mettere in dubbio la validit di questi presupposti, come faceva gi nel 1941 un educatore americano che conosceva a fondo le scuole e la giovent naziste. La scuola nazista, sosteneva, ha prodotto una generazione tanto diversa dai normali giovani americani da far risultare impossibile un mero confronto accademico, rendendo estremamente difficile qualsiasi valutazione del sistema educativo nazista (1). Che cosa giustifica dunque i diffusi presupposti sull'affinit tra noi e i tedeschi prima e durante il periodo nazista? Non dovremmo forse ripensarli, verificando se davvero l'idea che abbiamo di noi stessi corrisponda a quello che erano i tedeschi del 1890, del 1925, del 1941? Ammettiamo senza difficolt che popolazioni alfabete credessero gli alberi animati da spiriti buoni e cattivi, capaci di trasformare il mondo circostante, che gli aztechi ritenessero necessari i sacrifici umani per far sorgere il sole, che nel Medioevo gli ebrei fossero considerati come agenti del diavolo (2); perch allora non dobbiamo ammettere che molti tedeschi del ventesimo secolo credessero in cose che ci appaiono patentemente assurde; che anche i tedeschi, quanto meno in una sfera specifica, fossero propensi al pensiero magico? Perch non guardare alla Germania con gli occhi dell'antropologo che studi un popolo di cui si sa poco? Dopo tutto, questa societ ha prodotto un cataclisma, l'Olocausto, che non era stato previsto e che, con rare eccezioni, nessuno considerava possibile. L'Olocausto fu una frattura radicale con tutto quanto si sapeva della storia dell'uomo, con qualsiasi altra forma di pratica politica precedente. Fu un insieme di azioni, e un orientamento ideale, in totale contrasto con il fondamento intellettuale stesso della civilt europea moderna, l'Illuminismo, oltre che con le norme etiche e comportamentali cristiane e laiche che reggevano le societ occidentali. In questa luce appare evidente che lo studio della societ che produsse un evento tanto imprevisto e imprevedibile ci impone di mettere in discussione il presupposto dell'affinit tra quella societ e la nostra.

Ci impone di rimettere in discussione la certezza che essa condividesse l'orientamento economico razionale che impronta a s l'immagine, scientifica e popolare, della nostra societ. Un riesame che rivelerebbe come buona parte della societ tedesca riflettesse s, a grandi linee, le caratteristiche della nostra, ma che dimostrerebbe anche come in alcuni settori essa fosse radicalmente diversa. Il "corpus" della letteratura antisemita tedesca nell'Otto-Novecento con le sue interpretazioni folli e allucinate della natura degli ebrei, del loro potere praticamente illimitato, della loro responsabilit per tutti, o quasi, i mali del mondo - anzi tanto lontano dalla realt che qualsiasi lettore fatica a non giungere alla conclusione che si tratti dell'opera collettiva di internati in un manicomio. Nessun altro aspetto della Germania ha urgente bisogno di questo tipo di rivalutazione antropologica pi dell'antisemitismo del suo popolo. Sappiamo che in molte societ alcune credenze cosmologiche e ontologiche hanno assunto una valenza quasi universale: sono apparse e uscite di scena societ in cui tutti credevano in Dio, nelle streghe, nel sovrannaturale, erano convinti che gli stranieri non fossero esseri umani, che la razza determinasse le qualit morali e intellettuali dell'individuo, che gli uomini fossero moralmente superiori alle donne, che i neri fossero inferiori, che gli ebrei fossero malvagi; e la lista potrebbe proseguire. A questo proposito ci sono due punti, diversi, da chiarire. Il primo che anche se molte di queste credenze sono oggi considerate assurde, a loro tempo la gente le sostenne a spada tratta come articoli di fede e da esse desunse una mappa, considerata infallibile, del mondo sociale che us per interpretare i confini dei paesaggi circostanti, come guida per attraversarli e se necessario come fonte di ispirazione dei progetti destinati a modificarli. Il secondo punto, altrettanto importante, che queste credenze, per assurde che fossero alcune di esse, potevano essere e di fatto erano condivise dalla grande maggioranza, se non dalla totalit, della popolazione di una data societ. E sembravano cos tautologicamente vere da entrare a far parte del mondo naturale della gente, dell'ordine naturale delle cose. Nella societ cristiana del Medioevo, per esempio, un dibattito su qualche aspetto della teologia o della dottrina poteva scatenare violenti conflitti tra vicini, senza per questo mettere in discussione - se non da parte di pochi, intellettualmente e psicologicamente ai margini della societ - quella fede fondamentale in Dio e nella divinit di Ges che li accomunava nel cristianesimo.

Per altre societ la fede nell'esistenza di Dio, nell'inferiorit dei neri, nella superiorit costituzionale dei maschi, nel carattere determinante della razza, o nella malvagit degli ebrei, ha assunto la funzione di assioma. E in quanto assioma, cio norma indiscussa, intrecciata nel tessuto stesso dell'ordine morale della societ, non pi suscettibile di dubbio di quanto lo sia per noi una delle nostre idee fondanti, che cio la libert sia un bene (3). Nel corso della storia, tutte o quasi le societ hanno posto al centro delle proprie teorie cosmologiche e ontologiche della vita delle convinzioni assurde, sostenute come assiomi da tutti i membri; eppure si tende generalmente a escludere, come punto di partenza per lo studio del periodo nazista, la possibilit che questo sia avvenuto anche in Germania. Pi specificamente, due "presupposti" prevalgono: che la maggioranza dei tedeschi non potesse condividere quella definizione degli ebrei come razza diabolicamente astuta, parassita e malevola, causa di grandi sventure per il popolo tedesco, che Hitler formul in "Mein Kampf" e altrove; e che la maggioranza dei tedeschi non potesse nutrire sentimenti antisemiti cos violenti da indurla a prendere in considerazione lo sterminio degli ebrei. Sulla base di questi presupposti, l'onere della prova stato scaricato sulle spalle di chi sostiene il contrario. Perch? Alla luce dell'ovvia possibilit, e anzi probabilit, che l'antisemitismo fosse un assioma per la societ tedesca nel periodo nazista, due motivi ci inducono a confutare l'interpretazione predominante di quell'antisemitismo in quel periodo. La Germania di allora era un paese in cui la politica del governo e le manifestazioni pubbliche di ogni altro genere, compresi gli scambi verbali tra le persone, erano profondamente, quasi ossessivamente antisemite. Anche uno sguardo superficiale basta a far pensare a un osservatore obiettivo, a chiunque creda all'evidenza dei suoi sensi che quella era una societ impregnata di antisemitismo. In poche parole, nella Germania nazista l'antisemitismo veniva gridato ai quattro venti: Gli ebrei sono la nostra disgrazia, dobbiamo sbarazzarcene. Come interpreti di questa societ, varr la pena di accettare come indicazioni sulla natura delle convinzioni dei suoi membri sia l'assordante vociferare degli antisemiti - che emanava non soltanto dal vertice di quella che era politicamente una dittatura, ma anche, e in larga misura, dalla base sia le violente politiche discriminatorie da loro adottate. Dopo tutto molto probabile che una societ che proclami l'antisemitismo a piena voce, mettendoci a quanto sembra tutta l'anima, sia davvero antisemita.

Il secondo motivo che induce a adottare una prospettiva diversa da quella predominante riguardo all'antisemitismo in Germania si fonda sulla conoscenza della storia della societ e della cultura tedesche. Ora, nel Medioevo e agli inizi dell'Evo moderno, di sicuro fino all'Illuminismo, quella societ fu profondamente antisemita (4). E per la cultura tedesca, nonch per quasi tutta la cultura cristiana, era assiomatico che gli ebrei fossero fondamentalmente diversi e maligni (un tema che riprenderemo nel prossimo capitolo). Questo giudizio sugli ebrei era condiviso dalle lite e, ci che pi conta, dalla gente comune; perch non dovremmo presumere che convinzioni culturali tanto radicate, direttrici cos ben tracciate per l'ordine sociale e morale del mondo potessero persistere, a meno che non ci venga dimostrato che cambiarono o scomparvero? Quando mancano dati inconfutabili sulla natura di un sistema di credenze, gli storici e gli scienziati sociali interessati a stabilirne le cause e i modi di imporsi dovrebbero guardarsi dal proiettare i tratti della propria societ indietro nel tempo, come fanno invece spesso gli studiosi dell'antisemitismo tedesco moderno. Dovrebbero invece scegliere un punto di partenza ragionevole, procedendo poi per linee storiche, in modo da scoprire che cosa accadde veramente. Se dovessimo optare per questo approccio, partendo dal Medioevo per verificare se, dove, come e quando i tedeschi rinunciarono all'antisemitismo, allora onnipresente in quella cultura, si modificherebbe del tutto la nostra prospettiva sull'argomento. Gli interrogativi che ci porremmo, i tipi di fenomeni che useremmo come testimonianze, la valutazione delle testimonianze stesse, tutto risulterebbe diverso. Saremmo costretti a rinunciare al "presupposto" secondo cui, tutto considerato, i tedeschi dell'Ottocento e del Novecento non erano antisemiti, dovendo invece "dimostrare" come si fossero affrancati dall'antisemitismo che in precedenza aveva permeato la loro cultura, se pure tale affrancamento era mai avvenuto. Se, invece di lasciarci guidare dal diffuso presupposto che i tedeschi fossero simili a noi, facessimo partire la nostra analisi dalla posizione opposta, e molto pi ragionevole - cio che nel periodo nazista i tedeschi in genere fossero devoti al credo antisemita allora pervasivamente prevalente , diverrebbe impossibile dissuaderci da questa convinzione iniziale. Non esiste in pratica alcun dato che contraddica l'idea che l'intensa e continua proclamazione pubblica dell'antisemitismo si riflettesse nelle convinzioni personali della gente.

Prima di cambiare opinione chiederemmo, invano, di vedere qualche professione di dissenso dal credo antisemita, o la scoperta di lettere e diari che attestino una concezione degli ebrei diversa da quella pubblica. Vorremmo attendibili attestazioni di come i tedeschi considerassero davvero gli ebrei che vivevano nelle loro terre come membri a pieno titolo della loro comunit e del genere umano. Vorremmo che ci venisse dimostrato che i tedeschi si opposero inorriditi alla miriade di provvedimenti, di leggi, di atti persecutori contro gli ebrei, che giudicavano un grave delitto incarcerarli nei campi di concentramento, strapparli alle case e alle comunit per deportarli dall'unica terra che avessero mai conosciuto verso una sorte terrificante. E non basterebbero episodi isolati di dissenso: chiederemmo molti casi, sufficienti a giustificare considerazioni generali su settori o gruppi rilevanti della societ tedesca, prima di convincerci che la nostra posizione sbagliata. Non nemmeno lontanamente possibile pensare che la documentazione esistente risponda a questi requisiti. Quale dei due punti di partenza giusto? Quello in netto contrasto con ci che sappiamo dalle dichiarazioni e dagli atti pubblici e privati? O quello che invece vi corrisponde? Quello che "presuppone" la scomparsa di un antico orientamento culturale? O quello che richiede un supplemento di indagine e che, prima di proclamare la scomparsa dell'antisemitismo, vuole dimostrato e spiegato il processo che l'avrebbe determinata? E allora, perch mai l'onere della prova non ricade su chi sostiene che la societ tedesca sub una trasformazione e si liber dell'atavico antisemitismo? Ci nonostante, poich si "presuppone" che i tedeschi fossero simili alla nostra immagine ideale di noi stessi, poich si presuppone la normalit del popolo tedesco, di fatto l'onere della prova spetta a chi sostiene che nella Germania del periodo nazista esisteva un antisemitismo spaventoso. Dal punto di vista metodologico, questo approccio sbagliato e insostenibile, e dunque va rigettato. A mio giudizio se, conoscendo della Germania soltanto il dibattito pubblico e la politica di governo nel periodo nazista, nonch la storia dell'evoluzione politica e culturale del paese, fossimo costretti a trarre conclusioni sull'entit del suo antisemitismo in quell'epoca, sceglieremmo giudiziosamente di limitarci a ritenere che esso fosse assai diffuso nella societ e che avesse una fisionomia nazista. Per fortuna non dobbiamo accontentarci di questo bagaglio di conoscenze, e dunque non dipendiamo in tutto e per tutto dai ragionevoli presupposti che portiamo con noi nello studio del periodo.

La conclusione che l'antisemitismo nazista fosse parte integrante delle convinzioni dei tedeschi comuni (del tutto ragionevole, anche se fondata soltanto sulla conoscenza storica generale suffragata da un'analisi della vita pubblica nel periodo nazista) trova abbondanti, ulteriori conferme, sia empiriche sia teoriche. Ecco dunque un'altra base sulla quale poggiare la convinzione che in Germania quell'antisemitismo generale, culturale si perpetuasse nel ventesimo secolo; tale base si aggiunge a quella data dall'impossibilit, a tutt'oggi, di provare l'effettiva comparsa di un processo che portasse all'attenuamento e alla scomparsa del fenomeno. Come verr illustrato nei prossimi due capitoli, esistono abbondanti dimostrazioni "positive" di come l'antisemitismo, sia pure con contenuti che si evolvevano col mutare dei tempi, continuasse a costituire un assioma nella cultura tedesca per tutto l'Ottocento e il Novecento, e che la sua versione imperante nel periodo nazista non fu che una forma accentuata, intensificata e rielaborata di un modello di base gi largamente accettato. Una difficolt che si incontra quasi sempre quando si ricercano gli assiomi culturali e gli orientamenti cognitivi perduti di societ ormai scomparse o trasformate deriva dal fatto che spesso essi non vengono articolati con la chiarezza, la frequenza e la forza che parrebbero richieste dalla loro rilevanza per la vita di una data societ e dei suoi singoli membri. Per citare uno studioso della cultura tedesca nel periodo nazista, nella Germania hitleriana l'essere antisemita era un luogo comune che passava praticamente inosservato (5). Proprio perch date per scontate, le idee che hanno un ruolo fondamentale nella visione del mondo e nel funzionamento di una certa societ spesso non vengono espresse in forma commisurata alla prevalenza e alla rilevanza che di fatto esse assumono, e quando pure vengono enunciate nessuno le considera degne di un'osservazione o di un appunto (6). Pensiamo alla nostra societ. Che la democrazia (comunque la si voglia intendere) sia una cosa buona, la forma di governo pi desiderabile, una affermazione praticamente indiscussa: tanto indiscussa, e incontestata anche nel linguaggio e nella pratica politica contemporanea, che se dovessimo applicare a una valutazione del credo democratico nel nostro paese i criteri prevalenti tra gli studiosi dell'antisemitismo tedesco arriveremmo forse alla conclusione che la maggioranza delle persone non la sottoscrive. Per quanto infatti passiamo al setaccio le dichiarazioni, pubbliche e private, le lettere e i diari degli americani, vi troviamo ben poche professioni di fede democratica.

Perch? Proprio perch sono opinioni incontestate, perch fanno parte del senso comune della societ. Com' ovvio, scopriremmo poi che la gente partecipa alla vita democratica del paese, cos come constatiamo che i tedeschi si adeguarono in massa, aderendovi con entusiasmo nei modi pi diversi, alle istituzioni, alle leggi e alle politiche antisemite del loro paese: al suo apogeo il partito nazista, un'organizzazione profondamente antisemita, contava "otto milioni di iscritti" (7). Espressioni di sensibilit democratica si possono trovare nelle dichiarazioni di uomini politici e di governo americani, cos come si trovano - molto pi numerose, con ogni probabilit incessanti dichiarazioni del credo antisemita da parte dei loro corrispettivi tedeschi prima e durante il periodo nazista; ed espressioni di fede democratica compaiono nei libri, nelle riviste e nei rotocalchi americani, anche in questo caso assai meno frequenti delle analoghe manifestazioni di antisemitismo in Germania. Il confronto potrebbe proseguire a lungo. Ma resta comunque il fatto che se osservassimo la qualit e la quantit delle espressioni personali e private del sentimento democratico, avendo gi sposato l'idea che gli americani credono poco nelle istituzioni e nei principi della democrazia, faticheremmo parecchio a convincerci che il nostro preconcetto sbagliato. Ed proprio perch la fede democratica incontestata, cos come in Germania (lo dimostreranno i prossimi due capitoli) la fede antisemita era essenzialmente fuori discussione, che riscontriamo meno prove dell'esistenza e della natura delle convinzioni di ciascuno dei due popoli in merito alle rispettive credenze. Riportare alla luce assiomi culturali perduti problematico, perch per sua natura il fenomeno rimane relativamente nascosto, e dunque occorre guardarsi dal rischio di escluderne l'esistenza. Analogamente non si pu dare per scontato che i "nostri" assiomi vengano condivisi da altri popoli. Commettendo questo errore fin troppo comune si apre la strada a un fondamentale malinteso sulla societ che viene studiata (8). Uno strumento efficacissimo per cogliere la vita cognitiva, culturale e persino, sia pure in modo parziale, politica di una societ dato da quella che chiameremo conversazione (9): tutto quanto sappiamo della realt sociale attinto dall'ininterrotto flusso di scambi verbali che la costituisce. E come potrebbe essere altrimenti, se non ascoltiamo n apprendiamo null'altro? Con l'eccezione di poche persone particolarmente originali, gli

individui hanno una visione del mondo che in accordo con i contenuti della conversazione che si tiene nella loro societ. Molti tratti assiomatici di questi contenuti non sono immediatamente percepibili, persino per un orecchio esperto. Tra questi, la grande maggioranza dei modelli cognitivi condivisi. I modelli cognitivi convinzioni, punti di vista, valori, siano o meno articolati esplicitamente - forniscono nondimeno la struttura della conversazione di ogni societ. Generalmente costituiti da un numero ridotto di oggetti concettuali e dai reciproci nessi (10), i modelli cognitivi informano a s le percezioni che ciascuno ha di tutti gli aspetti della propria vita e del mondo, e le loro espressioni pratiche. Nella comprensione delle emozioni (11), nel compimento di atti quotidiani come l'acquisto di un oggetto in un negozio (12), nello scambio diretto interpersonale (13), nella condotta nei rapporti sociali pi intimi (14), nel tracciare una mappa del paesaggio sociale e politico (15), nell'operare scelte in merito alle istituzioni e alle politiche pubbliche, comprese le questioni di vita o di morte (16), gli individui sono indirizzati, nel pensiero come nell'azione, da modelli cognitivi condivisi, dei quali spesso sono vagamente o per nulla consapevoli, modelli quali il nostro concetto, affatto culturale, dell'autonomia personale, della quale disponiamo in misura inimmaginabile per le culture con concezioni diverse degli esseri umani e dell'esistenza sociale (17). Quando la conversazione monolitica, o quasi, su certi argomenti e tra questi sono da comprendere i modelli cognitivi sottostanti, non espressi -, i membri della societ incorporano automaticamente tali elementi della conversazione nell'organizzazione della propria mente, li fanno entrare tra gli assiomi fondamentali che utilizzano (pi o meno consapevolmente) per percepire, capire, analizzare e affrontare tutti i fenomeni sociali. I dogmi della conversazione sociale, cio gli indirizzi fondamentali in base ai quali una societ concepisce e si rappresenta l'ordine del mondo e gli schemi dell'esistenza sociale, si riflettono nella maturazione di ciascuno, poich solo a questa fonte pu attingere una mente in evoluzione: come avviene per il linguaggio. Durante il periodo nazista, e anche molto tempo prima, la maggioranza dei tedeschi non poteva generare modelli cognitivi estranei alla sua societ un determinato modello mentale di un popolo aborigeno, ad esempio - pi di quanto non potesse parlare fluentemente in romeno senza averlo mai sentito.

L'antisemitismo, che spesso possiede lo status, e dunque le propriet, di modello cognitivo, viene compreso soltanto in modo molto vago. Nonostante i volumi dedicati all'argomento, la nostra percezione di ci che esso , di come vada definito, di ci che lo produce, di come vada analizzato, di come funziona, ancora carente. In larga misura, questo una conseguenza delle difficolt insite nello studio della sfera che lo ospita, quella della mente: nota la difficolt di accedere ai suoi dati e l'esito, anche in condizioni ottimali, incerto e ingannevole (18). Possiamo comunque incrementare la nostra conoscenza di quel fenomeno multiforme: le prossime pagine espongono un approccio che pu contribuire allo scopo. L'antisemitismo - cio le convinzioni e le emozioni negative nei confronti degli ebrei in quanto tali - stato sempre considerato senza mezzi termini: si antisemiti oppure no. Nella misura in cui viene avanzata una prospettiva pi sfumata, in genere il suo valore ai fini analitici limitato, se non fuorviante. Ad esempio, si distingue spesso tra l'antisemitismo astratto e quello cosiddetto reale (19): il primo sarebbe rivolto contro l'idea degli ebrei o dell'ebraismo in quanto entit collettiva, ma non contro gli ebrei come persone, ambito quest'ultimo che sarebbe riservato al secondo. Quale analisi dei diversi tipi di antisemitismo, questa distinzione capziosa (20). L'antisemitismo sempre fondamentalmente astratto nel senso che non deriva dalle qualit effettive degli ebrei, ma nel contempo reale e concreto nelle conseguenze. Che cosa sarebbe, tale antisemitismo astratto, per non avere conseguenze concrete? Un antisemitismo legato alla parola o al concetto di ebreo, e mai a una persona? In quest'ottica, dovrebbe darsi la seguente condizione: ogni volta che un antisemita astratto incontra un ebreo, valuter l'ebreo, le sue qualit personali e il suo carattere morale, con la stessa apertura, la stessa assenza di pregiudizio, con cui giudica un non ebreo. Il che evidentemente falso. L'antisemitismo astratto di fatto "concreto" perch indirizza la percezione, la valutazione e la disponibilit all'azione; si applica agli ebrei in carne e ossa, e in particolare a quelli che il suo portatore non conosce. E finisce per definire, agli occhi dell'antisemita, la natura degli ebrei in carne e ossa.

L'antisemitismo sempre "astratto" quanto a concettualizzazione e origine (che non hanno nulla a che fare con gli ebrei in carne e ossa) e sempre concreto e "reale" nelle sue conseguenze. Poich le conseguenze dell'antisemitismo sono determinanti nel definirne la natura e l'importanza, tutti gli antisemitismi sono reali (21). Non appena si esamini il significato di tale distinzione, risulta chiaro che essa pu bastare soltanto per un abbozzo approssimativo delle sfere sociale e psicologica. Nemmeno categorie complesse, come odio dinamico e appassionato nei confronti degli ebrei (22), che pure descrivono la qualit manifesta di alcuni tipi antisemiti di fatto esistenti, possono costituire una base per l'analisi. Spesso sussiste una contraddizione fra percezione e categorizzazione sovente di natura idealtipica -, da un lato, ed esigenze dell'analisi che hanno carattere dimensionale, dall'altro. L'analisi dimensionale ridurre un fenomeno complesso alle parti che lo compongono - imprescindibile non solo ai fini della chiarezza, ma anche per gettar luce su diversi aspetti dell'antisemitismo, compresi i suoi flussi e riflussi, e sul rapporto tra questi diversi aspetti e l'operato degli antisemiti. Il dibattito sull'antisemitismo, e su quello tedesco in particolare, reso confuso dall'assenza di una specificazione analiticamente distinta delle sue diverse dimensioni, che sono tre (23). La prima dimensione comprende le tipologie dell'antisemitismo, definisce cio quale sia per l'antisemita la "fonte" delle qualit malefiche dell'ebreo, qualunque esse siano. Che cosa, secondo l'antisemita, produce l'inadeguatezza o la perniciosit dell'ebreo? La razza, la religione, la cultura o le presunte deformit provocate in lui dal suo ambiente? La valutazione della fonte dei difetti degli ebrei influisce sul modo in cui l'antisemita analizza la "Judenfrage" (questione ebraica), oltre che sull'eventuale adeguamento della sua percezione degli ebrei agli altri sviluppi di carattere sociale e culturale. Ci vero, fra le altre ragioni, perch ogni fonte si colloca all'interno di una vasta struttura metaforica che estende automaticamente la sfera dei fenomeni, delle situazioni e degli usi linguistici riferibili all'antisemitismo. Il pensiero analogico che accompagna strutture metaforiche differenti informa a s la definizione delle situazioni, la diagnosi dei problemi, la prescrizione delle linee di condotta adeguate. Per esempio, la metafora biologica al centro dell'antisemitismo nazista, (che vuole che il male degli ebrei risieda nel loro sangue, e li descrive, fra le altre cose, come parassiti o bacilli) fortemente suggestiva (24).

La seconda dimensione, quella del "latente-manifesto", si limita a quantificare l'interesse del nostro antisemita per gli ebrei. Se le idee antisemite solo di rado occupano i suoi pensieri e improntano le sue azioni, allora si tratta di un antisemita, o di un antisemitismo, allo stato latente. Se invece gli ebrei hanno un ruolo centrale nei suoi pensieri di ogni giorno e (forse) anche nelle sue azioni, allora antisemitismo manifesto. L'antisemitismo pu esistere in tutte le forme intermedie, da quella di chi non pensa quasi mai agli ebrei a quella di chi ne ha fatto un'ossessione. La dimensione del latentemanifesto rappresenta la misura del tempo dedicato a pensare agli ebrei, nonch i tipi e la variet delle circostanze che evocano i pregiudizi antisemiti: rappresenta cio la posizione pi o meno centrale occupata dagli ebrei nella coscienza di una persona. La terza dimensione, il livello o l'intensit dell'antisemitismo, data dalla scala che rappresenta la presunta "perniciosit" degli ebrei. Per l'antisemita gli ebrei sono semplicemente degli avari che hanno un troppo forte spirito di clan o invece dei cospiratori che mirano al dominio della vita politica ed economica? Come sa anche il pi superficiale degli studiosi dell'antisemitismo, le qualit attribuite agli ebrei che vanno a costituirne la presunta perniciosit complessiva variano molto sul piano dei contenuti. Le accuse lanciate contro gli ebrei nel corso dei secoli sono infinite per numero e variet, dalle pi banali alle pi fantasiose; ma non occorre discuterne qui, quando l'aspetto fondamentale da capire che ciascun antisemita ha una qualche idea circa la misura della perniciosit degli ebrei. Se si potessero misurare e quantificare con precisione le sue convinzioni, potremmo arrivare a calcolare un indice della perniciosit presunta (25). Le singole accuse sulle malefatte degli ebrei potranno certo suscitare reazioni diverse nell'antisemita in contesti particolari, ma ci che conta per capire in quale modo le sue convinzioni ne informino le azioni la sua percezione complessiva della minaccia ebraica. Antisemiti che hanno posizioni analoghe su quest'ultima scala possono averne diverse sulla scala latente-manifesto. Due antisemiti possono scaricare entrambi nel modo pi ossessivo e plateale la colpa dei propri guai sugli ebrei, ma mentre uno crede che essi siano dovuti al fatto che gli ebrei si aiutino a vicenda e diano lavoro solo ad altri ebrei, il secondo convinto che gli ebrei tramino per conquistare e distruggere la sua societ. Nella loro diversit, questi antisemitismi sono manifesti e anzi hanno una funzione fondamentale per i rispettivi portatori.

Allo stesso modo, ciascuna delle due convinzioni circa le intenzioni e le azioni degli ebrei pu essere propria non soltanto degli antisemiti manifesti, ma anche di quelli latenti, i cui sentimenti forse non affiorano perch essi hanno di rado contatti con gli ebrei. Per restare sul primo tipo, una persona pu essere convinta che gli ebrei tendano a discriminare chi non dei loro, senza per pensarci troppo: per esempio nei periodi di prosperit economica, quando tutti, compreso l'antisemita, se la cavano bene. Pu persino credere che gli ebrei vogliano la distruzione della sua societ, ma se occupato a seguire i suoi affari di ogni giorno, e per di pi non si interessa di politica, queste convinzioni rimangono nel profondo della sua coscienza. Per ritornare alla dimensione della fonte, le due diverse considerazioni della perniciosit degli ebrei, in stato relativamente manifesto o latente che siano, possono fondarsi su percezioni diverse della causa delle loro azioni. Un antisemita pu credere che gli ebrei agiscano in un determinato modo perch spinti a farlo dalla razza, cio dalla loro condizione biologica, o perch indotti dai dogmi della loro religione, compreso il rifiuto di Cristo. Lo studio dell'antisemitismo deve sempre specificare come ogni sua manifestazione si collochi rispetto a ciascuna di queste dimensioni. Occorre resistere alla tentazione di considerare le due dimensioni progressive del latente-manifesto e della perniciosit come dicotomiche, come proposizioni alternative. Esistono naturalmente alcune combinazioni ricorrenti delle diverse componenti, ma la loro utilit in quanto tipi ideali deriva da questa analisi dimensionale, che promette maggiore chiarezza e precisione, nonch preziose indicazioni sulla natura e il funzionamento dell'antisemitismo. Allo schema generale di classificazione dell'antisemitismo si sovrappone, condizionandolo, una distinzione fondamentale. Tutte le forme di antisemitismo possono distinguersi sulla base di una discriminante che converr considerare come dicotomia (sebbene, a rigore, non sempre sia cos): alcune sono intessute nell'ordine morale della societ, altre no. Per quanto intense, molte forme di avversione per gli ebrei - si tratti dei blandi stereotipi che caratterizzano tanti conflitti tra gruppi o dell'idea che gli ebrei cospirino, per esempio controllando la stampa in una data nazione non sono parte integrante della percezione individuale dell'ordine morale o del cosmo. Si pu essere convinti che gli ebrei siano una minaccia per il proprio paese, o che lo siano i neri, o i polacchi, o qualsiasi altro gruppo,

considerandolo uno fra tanti, con le sue caratteristiche pi o meno spregevoli o dannose: la classica antipatia reciproca che caratterizza di norma i conflitti tra gruppi. In questi casi la percezione della natura degli ebrei non li bolla come violatori dell'ordine morale della societ. Il classico pregiudizio all'americana, io sono italiano, irlandese, o polacco, lui ebreo, e non mi piace, una proclamazione di differenza e di disgusto, ma non segnala una violazione dell'ordine morale da parte dell'altro. Accade che gli ebrei siano soltanto uno dei tanti gruppi etnici che costituiscono la societ. Nella cristianit medioevale, invece, con la sua visione rigorosamente non pluralistica e intollerante dei fondamenti morali della societ, gli ebrei rappresentavano una violazione dell'ordine del mondo. Poich avevano rifiutato Ges, mettendolo a morte, erano un'insolente contraddizione dei principi universalmente accettati di Dio e dell'Uomo, denigravano e insozzavano con la loro stessa esistenza tutto ci che era sacro, finendo per rappresentare, a livello simbolico e discorsivo, il ricettacolo di tutto il male del mondo. E non soltanto lo rappresentavano, ma ne erano il sinonimo, erano i consapevoli agenti del male (26). L'antisemitismo che inquadra gli ebrei nella dimensione dell'ordine morale del mondo ha conseguenze vastissime. Identificandoli con il male, bollandoli come violatori della sacralit e oppositori del bene assoluto verso il quale tutti dobbiamo tendere, esso li demonizza, insediandoli, sul piano linguistico, metaforico e simbolico, nella vita degli antisemiti. Gli ebrei non vengono soltanto "valutati" secondo i principi e le norme morali di quella cultura, ma divengono "costitutivi" dell'ordine morale stesso e degli elementi cognitivi fondamentali che delineano il campo del sociale e dell'etico, la cui coerenza viene cos a dipendere, in misura parziale ma significativa, dal predominante modo di concepirli. Integrati dai non ebrei nell'ordine morale e dunque nella struttura simbolica e cognitiva di base della societ, questi modi di concepire gli ebrei assumono livelli di significato sempre pi vasti, crescendo di continuo in coerenza e solidit strutturale. Molti aspetti del bene vengono definendosi in contrapposizione agli ebrei, e dunque a loro volta dipendono dalla persistenza di quella concezione. Per i non ebrei diventa difficile modificare la propria percezione degli ebrei senza modificare anche una struttura simbolica ampia e integrata che comprende importanti modelli cognitivi, sui quali poggia la loro idea della

societ e della morale; diventa difficile non vedere in qualsiasi azione degli ebrei, nella loro stessa esistenza, un atto di dissacrante profanazione. In certe forme di antisemitismo gli ebrei sono peggio che semplici violatori delle norme morali (trasgressioni, queste, di cui vengono accusati da tutti gli antisemiti): sono esseri la cui stessa esistenza costituisce una violazione del tessuto morale della societ. La natura di fondo di questo tipo di antisemitismo spicca nella vasta gamma degli antisemitismi privi di quella connotazione (27): coloro che la condividono sono pi accaniti, passionali, provocano e sostengono uno spettro maggiore di accuse pi gravi e devastanti contro gli ebrei, e riempiono queste accuse di un potenziale ben maggiore di violenza e volont omicida. Chi concepisce gli ebrei come distruttori dell'ordine morale e li demonizza si basa su varie e differenti concezioni dell'origine della loro perniciosit, che naturalmente comprendono sia quella religiosa sia quella razziale: la prima fu determinante nella cristianit medioevale, la seconda nella Germania del periodo nazista. Oltre che all'"impianto analitico" sinora delineato, la nostra analisi dell'antisemitismo tedesco si rif a tre fondamentali proposizioni "autosufficienti" sulla sua natura: 1) L'esistenza dell'antisemitismo e il contenuto delle accuse contro gli ebrei vanno considerati come espressioni della cultura non ebraica e non sono il risultato di una valutazione oggettiva delle azioni degli ebrei, neanche quando la litania antisemita incorpora qualche loro caratteristica reale o aspetti di conflitti reali. 2) L'antisemitismo un tratto saliente della civilt cristiana (certamente a partire dalle prime crociate) fino a tutto il ventesimo secolo. 3) L'incidenza assai alterna delle espressioni di antisemitismo in diversi momenti di un periodo storico delimitato (venti o cinquant'anni) in una societ particolare non dovuta alla scomparsa o alla ricomparsa del fenomeno, alla presenza di gruppi pi o meno numerosi di persone che sono o diventano antisemite, bens alla maggiore o minore manifestazione di un sentimento generalmente costante, legata soprattutto al mutare delle condizioni politiche e sociali che la favoriscono o la ostacolano. Ognuna di queste proposizioni meriterebbe una trattazione a parte, che qui possiamo affrontare solo in modo superficiale. Le prime due trovano conferma in tutta la letteratura; la terza una novit di questo studio. L'antisemitismo non ci dice nulla degli ebrei, ma molto degli antisemiti e della cultura che li produce.

Basta uno sguardo alle qualit e ai poteri che nei secoli gli antisemiti hanno attribuito agli ebrei hanno poteri soprannaturali; ordiscono cospirazioni internazionali; sono capaci di devastare intere economie; usano il sangue dei bambini cristiani per i loro riti, li uccidono, persino, per cavar loro il sangue; hanno fatto un patto con il diavolo; muovono le leve, allo stesso tempo, del capitale internazionale e del bolscevismo - per capire che le fonti culturali cui attingono sono fondamentalmente "indipendenti" dalla natura e dalle azioni degli ebrei, i quali finiscono per essere definiti da preconcetti di origine culturale che gli antisemiti proiettano su di loro. Questo meccanismo sotteso all'antisemitismo vale in generale per tutti i pregiudizi, ma i voli di fantasia di cui hanno ripetutamente e continuamente dato prova gli antisemiti trovano pochi eguali nei voluminosissimi annali della storia del pregiudizio. Questo non la conseguenza delle azioni o degli attributi del suo oggetto, non un qualche obiettivo disgusto per la reale natura dell'oggetto. Nella sua forma classica, l'oggetto pu fare tutto, o il contrario di tutto: il bigotto glielo rinfaccer comunque. La fonte del pregiudizio sta nel portatore di quella convinzione, nei suoi modelli cognitivi e nella sua cultura. Il pregiudizio espressione della ricerca (individuale e collettiva) del "significato" (28). Non ha senso, se si vuole comprendere la genesi e la persistenza di certe convinzioni bigotte, prendere in considerazione la natura reale del loro oggetto: nel nostro caso, gli ebrei. Servirebbe soltanto a offuscare la comprensione del pregiudizio: nel nostro caso, l'antisemitismo. Poich esso scaturisce dal profondo della cultura degli antisemiti, e non dal carattere delle azioni degli ebrei, non sorprende che in ogni societ la natura dell'antisemitismo tenda ad armonizzarsi con i modelli culturali che improntano anche la contemporanea concezione del mondo. Perci, in epoche dominate dalla teologia, l'antisemitismo tende a condividere i presupposti religiosi prevalenti; in epoche dominate dalle teorie darwiniane, tende a adeguarsi alle nozioni dell'immutabilit (certi tratti si considerano innati) e del conflitto totale che coinvolge le nazioni (il mondo lotta per la sopravvivenza). Proprio perch gli stessi modelli cognitivi stanno alla base sia della visione generale del mondo di una data societ, sia della natura del suo antisemitismo, quest'ultimo riprende taluni aspetti dei modelli culturali dominanti.

Quanto pi l'antisemitismo occupa un ruolo centrale nella visione del mondo di quella societ - e cos stato piuttosto spesso, specie in ambito cristiano -, tanto pi probabile sar la sua congruenza con quei modelli, perch se vi fosse conflitto esso andrebbe a scapito della coerenza psicologica ed emotiva generale, creando gravi dissonanze cognitive. Gli antisemiti esprimono il loro odio profondo nei termini del linguaggio prevalente, incorporando nella loro litania talune caratteristiche culturali reali degli ebrei o certi elementi costitutivi della loro comunit. E' prevedibile; sarebbe sorprendente se cos non fosse. Gli studiosi non dovrebbero quindi lasciarsi andare alla tentazione di rifarsi alle poche formule della litania antisemita dominante che, sia pur vagamente, sembrano riecheggiare la realt, cercandone una qualche origine nelle azioni degli ebrei; finirebbero per confondere il sintomo con la causa. E' comune, in questo contesto, l'errore di far risalire l'esistenza dell'antisemitismo all'invidia provocata dal successo economico degli ebrei, mentre si dovrebbe riconoscere che quell'invidia invece conseguenza di un'antipatia preesistente. Tra i molti difetti dell'interpretazione dell'antisemitismo in chiave economica, varr la pena di segnalarne due, uno concettuale, l'altro empirico. L'ostilit economica di questo tipo dipende per forza di cose dal fatto che gli ebrei siano gi stati bollati come diversi, identificandoli non in base ai tanti (e pi rilevanti) aspetti della loro identit, bens in quanto ebrei, e utilizzando poi questa etichetta come elemento definitorio, procedimento che impedisce perci di considerarli alla stessa stregua di altri componenti della societ, come semplici concittadini (29). In assenza di tale concezione preesistente, pregiudiziale, la gente non avrebbe giudicato il fatto di essere ebrei una categoria economica degna di nota. Il secondo difetto sta nel fatto che, nella storia, molti gruppi minoritari hanno assunto il ruolo di intermediari nell'economia di vari paesi - i cinesi in Asia e gli indiani in Africa, per esempio - e, se pure sono stati oggetto di pregiudizi che comprendevano l'invidia e l'ostilit economica, questi pregiudizi non hanno immancabilmente prodotto (anzi, non le hanno prodotte quasi mai) le accuse allucinate che hanno investito di norma gli ebrei (30). Non quindi possibile che il conflitto economico sia la causa principale dell'antisemitismo, che storicamente ha quasi sempre fatto perno appunto su quelle accuse allucinate.

L'indicazione forse pi rivelatrice a sostegno della tesi che l'antisemitismo non abbia in fondo nulla a che fare con le azioni degli ebrei, e dunque con la conoscenza che ha l'antisemita della loro reale natura, la sua diffusa presenza, nella storia passata e ancora oggi, in forme persino violente, l dove non esistono ebrei, tra persone che non hanno mai incontrato un ebreo. Anche questo fenomeno ricorrente difficilmente spiegabile in una interpretazione sociologica della conoscenza e del pregiudizio diversa da quella qui proposta, l'idea cio che tali conoscenze e pregiudizi siano costruzioni sociali, aspetti della cultura e dei modelli cognitivi in essa integrati che si trasmettono di generazione in generazione. Persone che non avevano mai conosciuto un ebreo erano convinte che gli ebrei fossero agenti del diavolo, nemici di tutto ci che bene, responsabili di molti degli effettivi mali del mondo, votati al dominio e alla distruzione della societ. L'Inghilterra nei secoli compresi tra il 1290 e il 1656 un esempio eclatante, ma nient'affatto raro, del fenomeno. Per tutto quel periodo fu in pratica "judenrein", ripulita degli ebrei, avendoli espulsi al culmine della campagna antiebraica scatenata alla met del secolo precedente. Eppure, la cultura inglese rimase profondamente permeata dall'antisemitismo. Per quasi quattro secoli il popolo inglese non entr che di rado, o mai, in contatto con gli ebrei in carne e ossa. Eppure considerava gli ebrei una maledetta congrega di usurai, alleati del diavolo, colpevoli di qualsiasi crimine che l'immaginazione popolare riuscisse a escogitare (31). Che l'antisemitismo abbia potuto persistere nella cultura inglese per quasi quattrocento anni un fatto degno di nota e a prima vista forse persino sorprendente; ma se si tiene conto del rapporto che lega l'antisemitismo al cristianesimo e, insieme a questo, della trasmissione sociale dei modelli cognitivi e dei sistemi di valori, si comprende che sarebbe invece sorprendente se esso fosse scomparso. Come componente del sistema morale della societ inglese, l'antisemitismo rimase tra i pilastri del cristianesimo, anche se non c'erano ebrei in Inghilterra, anche se il popolo inglese non aveva mai conosciuto un ebreo in carne e ossa (32). L'antisemitismo senza ebrei fu la norma generale nell'Europa medioevale (33); persino dove si permetteva loro di vivere con i cristiani, ben pochi li conoscevano o avevano l'occasione di osservarli da vicino.

I cristiani segregavano gli ebrei nei ghetti, limitandone le attivit con una pletora di leggi e consuetudini, costringendoli all'isolamento fisico e sociale. L'antisemitismo non si basava su alcuna familiarit con gli ebrei reali: essa non sarebbe stata possibile. E' probabile che anche la maggioranza dei violenti antisemiti nella Germania di Weimar e del periodo nazista avesse avuto scarsi contatti con gli ebrei, o non ne avesse avuti affatto. Gli ebrei erano praticamente assenti da alcune regioni, dove costituivano meno dell'uno per cento della popolazione, e di questa esigua percentuale il settanta per cento viveva nelle grandi aree urbane (34). Le convinzioni e le emozioni di tutti quegli antisemiti non potevano certo fondarsi su una valutazione obiettiva di loro, ma per forza di cose su ci che avevano "sentito dire" (35), assistendo e partecipando alle occasioni sociali di conversazione, dove non ci si preoccupava certo di darne una rappresentazione fedele, ma se ne forniva un'immagine con una genesi, una vita e una forma indipendenti dagli ebrei che si pretendeva di descrivere. La seconda proposizione autosufficiente sull'antisemitismo, fondamentale per questo studio, che esso sempre stato una caratteristica pi o meno "costante" del mondo occidentale. Nei paesi cristiani senza alcun dubbio la forma di odio e pregiudizio che si trova al primo posto nelle classifiche di ogni epoca. Vi sono diverse ragioni per questo, che tratteremo nel prossimo capitolo. Riassumendo: fin dall'inizio dell'Evo moderno e dall'avvento del laicismo (nonch, in misura minore, anche dopo), le convinzioni sugli ebrei erano parte integrante dell'ordine morale della societ cristiana. I cristiani si definivano, in parte, differenziandosi da loro, e spesso ponendosi in diretta contrapposizione; le idee sugli ebrei erano fuse nel sistema morale della cristianit, che in quelle societ stava alla base dell'ordine morale pi generalmente inteso, finendo in pratica per coincidervi (sia pure approssimativamente) per buona parte della storia dell'Occidente. Perci le convinzioni sugli ebrei non necessariamente cambiano con maggiore facilit rispetto ai precetti cristiani che oggi come ieri aiutano la gente a definire e affrontare la vita sociale. Per certi versi, anzi, l'antisemitismo si dimostrato un fenomeno pi duraturo. Per gran parte della storia occidentale era in pratica impossibile essere cristiani senza essere antisemiti di qualche sorta, senza pensar male del popolo che rifiut e rifiuta Ges e dunque l'ordine morale del mondo derivato dai suoi insegnamenti, dal suo verbo rivelato.

Tanto pi che i cristiani consideravano gli ebrei responsabili della sua morte. Il fatto che questa profonda antipatia fosse parte integrante dell'ordine morale della societ spiega non soltanto perch l'antisemitismo abbia persistito cos a lungo, con una carica emotiva tanto forte, ma anche perch abbia avuto una natura cos mutevole. La latente necessit di pensar male degli ebrei, di odiarli, di desumere significati da questa presa di posizione emotiva, intrecciata nel tessuto stesso del cristianesimo, insieme con la conseguente idea che gli ebrei si contrappongano all'ordine morale nella sua definizione cristiana, generano un'apertura, una disponibilit, se non una disposizione, a credere che essi siano capaci di qualsiasi nefandezza: tutte le accuse contro di loro divengono plausibili (36). Di che cosa non sono capaci gli ebrei, gli assassini di Cristo che perseverano nel rifiutarne gli insegnamenti? Quale emozione, paura, ansia, frustrazione, fantasia non si potrebbe proiettare su di loro? E, poich l'antipatia di fondo per gli ebrei storicamente legata alla definizione dell'ordine morale, nei momenti di trasformazione della cultura, della societ, dell'economia e della politica, che hanno vanificato alcune accuse loro rivolte, nuove accuse hanno facilmente rimpiazzato quelle vecchie. Cos avvenne, per esempio, in tutta l'Europa occidentale nel corso del diciannovesimo secolo, quando l'antisemitismo gett alle ortiche buona parte dei suoi paramenti religiosi medioevali, adottando il nuovo abito del laicismo. L'antisemitismo ha dato prova di un'inconsueta adattabilit, di un'inconsueta capacit di modernizzarsi, di tenere il passo coi tempi. Quando l'esistenza del diavolo nella sua forma tangibile, corporea cess di commuovere le grandi masse, l'ebreo nella veste di agente diabolico fu soppiantato senza difficolt da un correligionario altrettanto pericoloso e maligno che portava una pi laica marsina. Senza dubbio, la definizione in termini cristiani dell'ordine morale, di cui l'ebreo sarebbe nemico giurato, stata (fino a tempi recenti) il fattore singolo pi efficace nella genesi dell'antisemitismo endemico. A questo hanno contribuito due concause che qui ci limiteremo a menzionare. In primo luogo le funzioni sociali e psicologiche - che l'odio per gli ebrei, una volta messe radici, viene ad assumere nell'economia mentale delle persone - finiscono per rafforzare l'antisemitismo stesso, perch rinunciarvi comporterebbe un'inquietante riconcettualizzazione dell'ordine sociale.

In secondo luogo, sul piano politico e sociale gli ebrei sono storicamente un facile bersaglio di odio e aggressione fisica e verbale, che implicano per l'antisemita costi assai inferiori rispetto all'ostilit verso altri gruppi o strutture della societ (37). Queste due cause sono andate a supportare quella cristiana, la fondante, producendo un odio profondo e duraturo - del tutto sproporzionato a qualsiasi conflitto materiale o sociale oggettivo - che non trova riscontro in nessun'altra forma di ostilit per un gruppo nella storia occidentale. Una terza proposizione autosufficiente impronta questo studio: distinta dalla seconda, ma potrebbe esserne un corollario. Non vero che nell'arco di un certo periodo l'"antisemitismo" - un insieme di convinzioni e modelli cognitivi che si rif a una fonte metaforica fissa e a una data percezione della presunta perniciosit degli ebrei compare, scompare e ricompare all'interno di una societ. L'antisemitismo sempre presente, ma pu essere pi o meno manifesto: ad aumentare o scemare sono la sua incidenza cognitiva, l'intensit emotiva, l'"espressione" (38), una fluttuazione in larghissima misura determinata dall'andamento delle condizioni politiche e sociali. In genere simili ondate vengono attribuite a una crescita dell'antisemitismo - cio del numero di persone che prima non ne erano toccate e d'un tratto diventano antisemite - dovuto a questa o quella causa; quando poi l'onda si ritira, la minore virulenza viene attribuita a una diminuzione, o alla scomparsa, delle convinzioni e dei sentimenti antisemiti. Tale interpretazione sbagliata: non l'"antisemitismo" che cala o cresce, bens la sua "espressione" che si modifica (39). Perci, la diffusa manifestazione dell'antisemitismo "in qualsiasi momento" di un dato periodo storico va correttamente interpretata come prova della sua esistenza, sia pure solo latente, in quell'intera epoca. E' impossibile arrivare a una spiegazione adeguata delle esplosioni di antisemitismo se si parte dal presupposto che sia l'antisemitismo stesso a comparire e sparire. Che cosa sta a dimostrare che le convinzioni alla base di quelle azioni espressive o di altro genere siano svanite? Cos come una data azione ha la sua genesi, pu anche avvenire che un individuo cessi di agire in un certo modo, oltre che per il dissiparsi delle convinzioni che prefiguravano quella data condotta, anche per molti altri motivi. Un uomo che continua a credere in Dio pu smettere di andare in chiesa per tutta una serie di ragioni che nulla hanno a che fare con la sua fede immutata: pu non piacergli il nuovo prete, pu aver fatto lui stesso qualcosa che gli impedisce di apparire in pubblico nella sua comunit, pu

avere la necessit (per difficolt economiche, ad esempio) di dedicare il suo tempo ad altre attivit, e cos via. Limitarsi a presumere, come fanno tanti, che nel caso dell'antisemitismo azione e convinzione siano sinonimi, che la scomparsa della prima segnali la scomparsa della seconda, del tutto ingiustificato. Se le convinzioni antisemite fossero davvero svanite, da dove potrebbero rinascere? Le espressioni dell'antisemitismo riemergente utilizzano sempre le immagini, le credenze e le accuse che erano state al centro delle precedenti recrudescenze (40). E come potrebbe essere ci, se fossero davvero scomparse? Specie quando si tratta di convinzioni che sono frutto, e capita spesso, di allucinazioni - i poteri magici e maligni, impercettibili all'occhio umano, che vengono attribuiti agli ebrei -, sarebbe forse possibile che si rimaterializzassero tali quali erano, in forma quasi identica, se fossero davvero svanite del tutto? Nei mesi, o anni, di intervallo tra le recrudescenze di un odio appassionato, gli antisemiti considerano forse gli ebrei buoni vicini, cittadini, persone? Nutrono forse sentimenti positivi nei loro confronti? Imparano a vederli come loro connazionali? Fanno forse il bench minimo passo verso un atteggiamento rigorosamente neutrale rispetto al loro essere ebrei, ancora considerato come tratto caratterizzante? E nell'improbabile ipotesi che i vecchi antisemiti cambino davvero, che cosa accade poi? Che d'un tratto si rendono conto (tutti insieme) che la loro opinione positiva sugli ebrei era sbagliata, e che l'antico odio da sempre la giusta via? Nulla sta a testimoniare oscillazioni di questa portata, a livello individuale o collettivo. E' dunque in errore chi sostiene, per scegliere la spiegazione pi diffusa dell'antisemitismo, che esso sia causato dalla crisi economica. Si tratta dell'interpretazione degli ebrei come capri espiatori, che, tra i suoi molti difetti empirici e teorici, trascura il fatto che non sarebbe stato possibile mobilitare il popolino contro nessuna persona o nessun altro gruppo. Non un caso che gli ebrei, indipendentemente dalla loro posizione economica e dalle loro azioni, anche laddove sono in genere poveri, divengano di norma il bersaglio di frustrazioni e aggressioni legate al disagio economico. Per la maggioranza della gente, l'antisemitismo gi parte integrante di una visione del mondo prima ancora dell'avvento della crisi, sia pure allo stato latente: le crisi economiche rendono pi esplicito l'antisemitismo, lo "stimolano" all'espressione aperta.

Le convinzioni preesistenti incanalano disgrazie, frustrazioni e ansie nella direzione di coloro che sono gi oggetto di disprezzo: gli ebrei. La notevole malleabilit dell'antisemitismo, che gi abbiamo rilevato, di per s riprova della sua costante presenza. Che possa andare e venire, trovando forme diverse di espressione, riemergendo quando ormai sembrerebbe non albergare pi in una data societ, induce decisamente a ritenere che esso stia sempre in agguato, pronto a lasciarsi stuzzicare e scoprire. Se si manifesta di pi in un dato momento, e meno in un altro, ci non significa che sia l'antisemitismo stesso a sparire e ripresentarsi, bens che, come accade per tante convinzioni, la sua "importanza" per gli individui e per la loro disponibilit a "esprimerlo" varia col variare delle condizioni sociali e politiche. Per fare un rapido paragone, un'altra ideologia (e le emozioni che stanno alla sua base) che sembra apparire e scomparire di continuo il nazionalismo. Come nel caso dell'antisemitismo, non vero che il nazionalismo, cio l'insieme di forti convinzioni ed emozioni di chi considera la nazione come categoria politica e oggetto di lealt assoluta, si sia materializzato per poi a pi riprese svanire: soltanto si sono di volta in volta modificate la sua centralit ideale e le sue espressioni. Le convinzioni e le emozioni del nazionalismo rimangono come in letargo e, analogamente all'antisemitismo, possono essere attivate rapidamente, senza difficolt e spesso con conseguenze devastanti, quando le condizioni sociali o politiche sono tali da risvegliarle. E' importante tenere a mente i repentini risvegli (41) del sentimento nazionalistico avvenuti ripetutamente, anche di recente, nella storia d'Europa e della Germania (42), specie durante il periodo nazista, e non soltanto perch vanno in parallelo con quanto si detto sinora dell'antisemitismo. Nella storia, soprattutto tedesca, l'espressione del nazionalismo si sempre accompagnata a quella dell'antisemitismo, perch la nazione si definiva, in parte, nella contrapposizione con gli ebrei. In Germania, e altrove, nazionalismo e antisemitismo erano ideologie complementari, che calzavano l'una all'altra come un guanto (43). - Conclusione. Allo studio dei tedeschi e del loro antisemitismo prima e durante il periodo nazista occorre avvicinarsi come farebbe un antropologo a uno sconosciuto popolo analfabeta e alle sue credenze, dimenticando soprattutto

il preconcetto per cui i tedeschi corrisponderebbero esattamente, in ogni dimensione concettuale, all'immagine ideale che abbiamo di noi stessi. Dobbiamo quindi, innanzi tutto, portare alla luce i modelli cognitivi che fondavano e informavano a s le idee dei tedeschi in ambito sociale e politico, e in particolare sugli ebrei. Si tratta essenzialmente di costrutti sociali, derivati e trasmessi a livello linguistico e simbolico dalla conversazione. In ogni societ la conversazione definisce e forma buona parte della percezione individuale del mondo. Quando convinzioni e immagini sono incontestate, o anche soltanto predominanti in una data societ, vengono generalmente accettate come tautologie: cos come oggi si accetta che la Terra giri intorno al Sole, e un tempo si accettava che fosse il Sole a girare intorno alla Terra, molte persone hanno accettato certe immagini diffuse ovunque dell'ebreo. La capacit individuale di divergere dai modelli cognitivi prevalenti ulteriormente ridotta dal fatto che sono questi gli elementi che costituiscono l'edificio della comprensione individuale, incorporati nella struttura della mente come la grammatica della lingua parlata. L'individuo apprende i modelli cognitivi della sua cultura, come la grammatica, con sicurezza e senza sforzo. Ognuno di essi - se non avviene, nel caso dei modelli cognitivi culturali, che l'individuo a un certo punto si applichi a riconfigurarli - indirizza la percezione e la produzione di forme che da essi dipendono, contribuendo alla generazione, per la grammatica, di frasi e significati e, per i modelli cognitivi, di modi di percepire il mondo sociale e di articolare convinzioni in proposito. Nell'ambito di una societ, i portatori pi importanti della conversazione generale sono le istituzioni, compresa quella cruciale della famiglia. E' all'interno di tutte le istituzioni, e in particolare di quelle addette alla socializzazione dei bambini e degli adolescenti, che si impartiscono agli individui i sistemi di valore e i modelli cognitivi, compresi quelli che riguardano gli ebrei. Senza un qualche appoggio da parte delle istituzioni straordinariamente difficile per l'individuo raggiungere convinzioni contrarie rispetto a quelle prevalenti e difenderle a fronte di una diffusa - per non dire quasi unanime disapprovazione sociale, simbolica e linguistica. Poich di regola, per la stritolante inerzia di ogni societ, gli assiomi e i modelli cognitivi di base tendono a riprodursi (44), partiamo dal presupposto che l'assenza di qualsivoglia dimostrazione di un cambiamento avvenuto in quelli dei tedeschi riguardo agli ebrei stia a indicare con forza

che i modelli e il complesso di convinzioni che ne derivava si erano riprodotti e continuavano a esistere; una prospettiva che si distacca dal pi diffuso presupposto per cui, se non si riscontrano prove (del resto tutt'altro che facili da individuare) della presenza costante di modelli cognitivi un tempo imperanti, ci significa che i modelli - nel nostro caso, quello sugli ebrei - sono stati superati. E infine, sosteniamo che i modelli cognitivi sugli ebrei ebbero fondamentale importanza nel generare i tipi di soluzioni che i tedeschi prospettavano alla "Judenfrage" e i tipi di iniziativa che di fatto essi intrapresero. Abbiamo proposto una sociologia della conoscenza, una struttura analitica per lo studio dell'antisemitismo (specificando le tre dimensioni della fonte, della perniciosit, del grado di manifestazione) e qualche nozione autosufficiente di base, perch sono questi gli elementi, articolati o meno che siano, che danno forma a qualsiasi conclusione in merito. L'impostazione dell'approccio che si intende utilizzare importante a maggior ragione perch, per molti versi, i dati da cui vengono tratte le conclusioni sono tutt'altro che perfetti. Per difenderle non baster dunque addurre i dati stessi, e il modo in cui sono stati utilizzati, ma anche l'impostazione generale utilizzata per comprendere convinzioni e cognizioni, e l'antisemitismo. Va detto che questa analisi non potr essere definitiva: non esistono dati adeguati, tanto pi che qui non ci proponiamo semplicemente di ricostruire il carattere dell'antisemitismo nelle lite politiche e culturali, bens di valutarne la natura e la portata nel pi vasto ambito della societ tedesca. Persino i pi approssimativi sondaggi di opinione, con tutti i loro difetti, costituirebbero un'integrazione illuminante, ricca, ai dati esistenti. La nostra analisi delinea solo alcuni aspetti dell'antisemitismo e ne indica la probabile portata sociale. Si appunta sulle tendenze fondamentali dell'antisemitismo tedesco, non soltanto per l'esiguit dei dati ma anche nella convinzione che occorra gettar luce sul "filo cognitivo dominante" dal quale nacque il tessuto intricatissimo, ma dal disegno chiarissimo e messo perfettamente a fuoco, delle azioni antiebraiche. Soffermarsi sulle eccezioni alla regola - che tutto sommato furono solo aspetti secondari, o terziari, del modo in cui i tedeschi consideravano agli ebrei - sarebbe fuorviante, poich distrarrebbe l'attenzione dalle tendenze pi importanti nell'evoluzione dell'antisemitismo. Dedicheremo inoltre meno spazio del consueto anche all'analisi dei suoi contenuti, perch ve ne sono gi molte a disposizione e perch ne lasceremo

di pi alla delimitazione delle dimensioni, della portata e della forza dell'antisemitismo come fonte dell'azione. Nei due capitoli che seguono rielaboriamo la nostra conoscenza dell'antisemitismo nella Germania moderna, applicando i principi teorici e metodologici generali qui enunciati, compresa la struttura dimensionale, a un'analisi pi specifica della storia dell'antisemitismo del periodo nazista prima e poi durante tale periodo. La ricostruzione storica necessaria se si vuole chiarire perch il popolo tedesco fu tanto pronto ad accettare i dogmi antisemiti del nazismo e a sostenerne le politiche antiebraiche. Poich la raccolta dei dati problematica, l'argomentazione fa capo, fra l'altro, a una strategia di indagine su casi cruciali, cio sulle persone o i gruppi che (basandosi su altri criteri di valutazione) meno si prestavano a corrispondere alle interpretazioni e spiegazioni qui proposte. Se si potr dimostrare che anche gli amici degli ebrei concordavano con gli antisemiti in aspetti essenziali della percezione della natura dell'ebreo, in buona misura perch le loro idee derivavano da modelli cognitivi simili, diverr difficile non convincersi che l'antisemitismo era endemico nella societ e nella cultura tedesche. Una volta completato lo studio della sua natura e della sua diffusione, si proceder ad allargare i limiti dell'analisi dimensionale, per evidenziare i collegamenti tra l'antisemitismo e l'azione antiebraica. La discussione si conclude con un esame del rapporto che lega l'antisemitismo nel periodo nazista con le misure adottate dai tedeschi contro gli ebrei. La conclusione di questi capitoli che nella Germania nazista era presente a livello pressoch universale una concettualizzazione degli ebrei che costituiva quella che possiamo definire un'ideologia eliminazionista, la convinzione cio che l'influenza degli ebrei, per la sua natura distruttiva, andasse eliminata irrevocabilmente dalla societ. Nel periodo nazista tutte le iniziative politiche dei tedeschi, e tutte in pratica le loro iniziative pi importanti contro gli ebrei, per quanto diverse potessero apparire quanto a natura e intensit, furono al servizio - e anzi ne furono espressioni simbolicamente equivalenti - del desiderio, della consapevole esigenza di portare a termine l'impresa dell'eliminazione.

NOTE AL CAPITOLO 1 N. 1.

Gregor Athalwin Ziemer, "Education for Death: the Making of the Nazi", London, Oxford University Press, 1941, pagine 193-94. N. 2. Confronta Emile Durkheim, "The Elementary Forms of the religious Life", New York, Free Press, 1965 (trad. it. "Le forme elementari della vita religiosa", Milano, Edizioni di Comunit, 19823); Jacques Soustelle, "Daily Life of the Aztecs", trad. ingl. London, Weidenfeld & Nicolson, 1961, in particolare pagine 96-97; Joshua Trachtenberg, "The Devil and the Jews: the Medieval Conception of the Jew and its Relation to Modern AntiSemitism", Philadelphia, Jewish Publications Society of America, 1983. N. 3. Confronta Orlando Patterson, "Freedom", vol. 1, "Freedom in the Making of Western Culture", New York, Basic Books, 1991. N. 4. Sebbene i diversi stati tedeschi ancora non fossero stati unificati, ha comunque senso parlare di Germania quando si tratta di molti (non di tutti, per) aspetti sociali, culturali e politici, cos come ha senso parlare di Francia, nonostante le sue varianti regionali e locali. N. 5. Ian Kershaw, "Popular Opinion and Political Dissent in the Third Reich: Bavaria, 1933-1945", Oxford, Oxford University Press, 1983, p. 370. N. 6. Su questo punto cos scrivono Dorothy Holland e Naomi Quinn in Culture and Cognition, alle pagine 39-40 del volume "Cultural Models in Language and Thought", curato dalle stesse, Cambridge, Cambridge University Press, 1987, p. 14: La nostra visione culturale del mondo si fonda su molti presupposti sottaciuti. Questa conoscenza culturale di base risulta, per citare Hutchins, "spesso trasparente agli occhi di chi ne fa uso. Una volta acquisita, diventa 'ci per cui si vede', ma ben di rado 'ci che si vede'". Tale "trasparenza referenziale" fa s che la conoscenza culturale rimanga indiscussa per chi ne portatore, ma nel contempo pone un affascinante problema metodologico: come, e in base a quali elementi, ricostruire i modelli culturali che la gente utilizza, ma su cui spesso non riflette e che non articola esplicitamente. Il problema da sempre centrale per l'antropologia della conoscenza, ma sono cambiati i modi di affrontarlo. Questa proposizione vale sia per i presupposti culturali condivisi - che vengono articolati assai meno di quanto vorrebbe la loro rilevanza, proprio

perch non si sente la necessit di enunciare una verit -, sia per i modelli cognitivi di pensiero sottostanti, di cui in genere non si consapevoli N. 7. Michael Kater, "The Nazi Party: a Social Profile of Members and Leaders, 1919-1945", Cambridge Mass., Harvard University Press, 1983, p. 263. N. 8. Un altro esempio pu essere dato dalla convinzione, diffusa tra la popolazione nell'Inghilterra del secolo diciannovesimo, dell'inferiorit di neri e asiatici. La misura in cui questa opinione veniva espressa, soprattutto da parte di singoli individui, ben lontana dall'essere rappresentativa della sua diffusione. E inoltre, quanta parte di quelle dichiarazioni potuta arrivare fino a noi? N. 9. Rom Harr, "Personal Being: a Theory for Individual Psychology", Cambridge Mass., Harvard University Press, 1984, p. 20. Il termine conversazione include tutta la produzione linguistica, tanto orale quanto scritta, nonch la categoria dei simboli (che sono sempre inquadrati e interpretati sul piano linguistico, e dunque dipendono dalla conversazione, pur facendone anche parte integrante). N. 10. Roy D'Andrade, A Folk Model of the Mind in "Cultural Models in Language and Thought" cit., p. 112. N. 11. Confronta George Lakoff e Zoltn Kvecses, The Cognitive Model of Anger Inherent in American English, in "Cultural Models in Language and Thought" cit., pagine 195-221. N. 12. Scrive Roy D'Andrade, A Folk Model of the Mind cit., p. 112: Il modello culturale dell'acquisto costituito dall'acquirente, dal venditore, dalla merce, dal prezzo, dalla vendita e dal denaro. Tra queste parti esistono diverse relazioni: l'interazione tra acquirente e venditore, che richiede la cornunicazione del prezzo all'acquirente, l'eventuale trattativa, l'offerta d'acquisto, il trasferimento della propriet della merce e del denaro, e cos via. Lo stesso modello necessario per comprendere non soltanto l'acquisto, ma anche altre attivit e strutture culturali quali il prestito, l'affitto, il noleggio, la truffa, il venditore, il profitto, il negozio, la puhblicit, e via dicendo. N. 13.

Erving Goffman ha dedicato buona parte del suo lavoro a portare alla luce i modelli cognitivi dei quali siamo ignari, ma che strutturano e agevolano la nostra interazione con chi ci sta di fronte: confronta "The presentation of Self in Everyday Life", Garden City, Anchor Books, 1959 (trad. it. "La vita quotidiana come rappreserltazione", Bologna, li Mulino, 19862) e Relations in Public, New York, Harper Colophon, 1971 (trad. it. "Il comportamento in pubblico", Torino, Einaudi, 1982). N. 14. Confronta Naomi Quinn, Convergent Evidence for a Model of American Marriage, in "Cultural Models in Language and Thought" cit., pagine 17392. N. 15. La disamina di Alexander George sul codice operazionale un parziale ma brillante tentativo di concettualizzare gli elementi che compongono la percezione, la valutazione, le convinzioni e l'azione a fini politici: "The Operational Code: a Neglected Approach to the Study of Political Leaders and Decision Making", in International Studies Quarterly, 13,1969, pagine 190-222. L'esemplare studio sul nazionalismo di Benedict Anderson mostra come si cre un nuovo modello cognitivo, la nazione appunto, che, una volta culturalmente condiviso come senso comune, giunse a conformare il modo in cui la gente percepisce il mondo politico e sociale: "Imagined Communities: Reflections on the Origin and Spread of Nationalism", London, Verso, 1983. N. 16. John Boswell in "The Kindness of Strangers: the Abandonment of Children in Western Europe", New York, Pantheon, 1988, specie alle pagine 26-27 (trad. it. "L'abbandono dei bambini nell'Europa occidentale", Milano, Rizzoli, 1991), lo dimostra per quanto riguarda il modo, storicamente molto diverso, di trattare i bambini, e anzi per la concezione stessa della categoria del bambino. N. 17. E' questo l'argomento addotto da Rom Harr in "Personal Being" cit. Confronta anche Takeo Doi, "The Anatomy of Dependence", Tokio, Kodansha International, 1973 (trad. it. "Anatomia della dipendenza", Milano, Raffaello Cortina, 1991), per il carattere radicalmente differente della psicologia e dell'individualit giapponesi. N. 18.

Molti ne sono stati indotti a distogliere lo sguardo, e a proporre descrizioni dell'esistenza umana che si limitano a negare ogni rilievo a questa sfera. Una posizione del genere potr anche recare conforto e soddisfazione a chi spera di ottenere sinteticit e un'apparente efficacia metodologica rimuovendo del tutto le variabili pi difficili da affrontare, ma di fatto crea una visione del mondo artificiosa e immancabilmente fuorviante. A dispetto delle difficolt e delle frustrazioni interpretative che ne derivano, capire che cosa ha in mente la gente comunque necessario, indipendentemente dai fuochi artificiali delle voghe metodologiche. N. 19. Una distinzione proposta, per esempio, da Ian Kershaw a proposito del popolo tedesco dopo la Notte dei cristalli nel suo "Popular Opinion and Political Dissent in the Third Reich" cit., p. 272: L'opinione pubblica era sempre pi avvelenata contro gli ebrei, quantomeno in senso astratto; si diffondeva la convinzione dell'effettiva esistenza di una "Judenfrage". N. 20. Se anche si intende dire che l'antisemitismo astratto non deriva dalla conoscenza reale degli ebrei, bens da pregiudizi diffusi a livello culturale, non cambia nulla, perch quelle convinzioni servono comunque da criterio guida nel rapporto con gli ebrei. N. 21. Sulla natura e le conseguenze degli stereotipi, confronta Gordon W. Allport, "The Nature of Prejudice", New York, Anchor Books, 1958 (trad. it. "La natura del pregiudizio", Firenze, La Nuova Italia, 1976). Di fatto l'idea di un antisemitismo astratto, distinto da quello reale, non coglie quasi nulla delle varianti di antisemitismo esistenti, limitandosi a riflettere il fatto che si pu essere antisemiti e avere conoscenti e amici ebrei, cos come si possono nutrire profondi pregiudizi contro i neri e sostenere che una particolare persona nera non poi cos male. Gli studiosi che ricorrono alla categoria dell'antisemitismo astratto confondono le dimensioni analitiche, o meglio non si rendono conto che la gente ammette le eccezioni alla regola, ma che si tratta per l'appunto di eccezioni, rare e di significato marginale, perch chi le ammette continua a pensare a milioni di ebrei in carne e ossa nei termini postulati dal suo antisemitismo astratto. N. 22. Ian Kershaw, "Popular Opinion and Political Dissent in the Third Reich" cit., p. 274; in un certo senso Kershaw segue le tracce di Michael Mller-

Claudius, "Der Antisemitismus und das deutsche Verhngnis", Frankfurt am Main, Verlag Josef Knecht, 1948, pagine 7678. Ogni modello analitico deve tenere ben distinta la dimensione cognitiva da quella dell'azione, ma Mller-Claudius non riesce a farlo. N. 23. Una utile disamina nonch un'analisi alternativa delle dimensioni del fenomeno antisemita sono in Helen Fein, Dimensions of Antisemitism: Attitudes, Collective Accusations and Actions, in "The Persisting Question: Sociological Perspectives and Social Contexts of Modern Antisemitism", a cura della stessa, Berlin, Walter de Gruyter, 1987, pagine 68-85. N. 24. Per la storia di una di queste metafore, quella dell'ebreo parassita, confronta Alexander Bein, "Der Jdische Parasit", in V.f.Z, 13,1965, n. 2, pagine 121-49. Una discussione sulla logica delle metafore in George Lakoff e Mark Johnson, "Metaphors We Live By", Chicago, University of Chicago Press, 1980. N. 25. Questo effettivamente stato tentato da studiosi dell'antisemitismo, soprattutto Theodor W. Adorno et al., "La personalit autoritaria", 4 volumi, Milano, Edizioni di Comunit, 1982. N. 26. Confronta Joshua Trachtenberg, "The Devil and the Jews" cit.; Malcolm Hay, Europe and the Jews: the Pressure of Christendom over 1900 Years", Chicago, Academy Chicago Publishers, 1992. N. 27. E' questa la distinzione fondamentale nell'antisemitismo, contrariamente a quanto sostiene Langmuir, che vede tale forma del fenomeno nel momento in cui esso comincia a fondarsi sulle fantasie: Gavan I. Langmuir, Toward a Definition of Antisemitism, in "The Persisting Question" cit., pagine 86127. Sono molti i tipi di antisemitismo radicati nelle fantasie, ma sfociano in azioni e conseguenze ben diverse. N. 28. Confronta il classico studio di Gordon W. Allport, "The Nature of Prejudice" cit. Per le teorie sulla natura e le origini dell'antisemitismo confronta Helen Fein, "The Persisting Question" cit. e "Error Without Trial: Psychological Research on Antisemitism", a cura di Werner Bergmann, Berlin, Walter de Gruyter, 1988.

N. 29. Una spiegazione alternativa vorrebbe che si divenisse antisemiti per invidia del successo economico, procedendo poi a inventare tutte le fantastiche accuse mosse agli ebrei. Confronta, ad esempio, lo studio di Hillel Levine sull'antisemitismo polacco, "Economic Origins of Antisemitism: Poland and its Jews in the Early Modern Period", New Haven, Yale University Press, 1991. Ma perch dovrebbe avvenire cos, e qual il meccanismo per cui l'invidia oggettiva del successo economico dovrebbe trasformarsi in una teoria folle sugli ebrei, che con l'economia non ha nulla a che fare? Perch altre forme di antipatia di gruppo, anche quelle con una forte componente di concorrenza economica, non producono a loro volta la gamma di accuse cos comuni tra gli antisemiti? A quanto mi dato di sapere, nessuna spiegazione che individui la fonte dell'antisemitismo in un conflitto oggettivo capace di dare una risposta a questi quesiti. N. 30. Per un quadro generale, confronta Walter P. Zenner, Middleman Minority Theories: a Critical Review in "The Persisting Question" cit., pagine 25576. N. 31. Bernard Glassman, "Anti-Semitic Stercotypes without Jews: Images of the Jews in England, 1290-1700", Detroit, Wayne State University Press, 1975, p. 14. N. 32. Bernard Glassman, ibid., infatti, mette in rilievo l'importanza cruciale dei sermoni cristiani per la divulgazione e la promozione dell'antisemitismo in Inghilterra. N. 33. Per il lungo elenco dei provvedimenti di espulsione degli ebrei, confronta Paul E. Grosser e Edwin G. Halperin, "Anti-Semitism: the Causes and Effects of a Prejudice", Secaucus, Citadel, 1979, pagine 33-38. N. 34. Un profilo sociale della presenza ebraica in Germania in Avraham Barkai, "Vom Boykott zur Entjudung. Der wirtschaffliche Existenzkampf der Juden im Dritten Reich, 1933-1943", Frankfurt/M, 1988, pagine 11 e seguenti. N. 35. Sull'Inghilterra all'epoca dell'espulsione Bernard Glassman, in "AntiSemitic Stereotypes without Jews" cit., p. 11, scrive quanto segue: Poich in quel periodo gli ebrei in Inghilterra erano cos poco numerosi, l'inglese medio era costretto a formarsene un'opinione sulla scorta di quanto

ascoltava dal pulpito, vedeva sul palcoscenico o assorbiva dal menestrello o dal cantastorie girovago. Questa tradizione orale, integrata da diversi trattati e libelli, fu un'importante fonte di informazione sugli ebrei, e nella societ non esisteva in pratica nulla che potesse controbilanciarne l'influenza, fondata com'era su centinaia d'anni di insegnamento cristiano. Il capitolo successivo sostiene che questo quadro dell'Inghilterra assai pi calzante di quanto non si creda per la Germania del periodo nazista. N. 36. Ne scrive in modo convincente Joshua Trachtenberg in "The Devil and the Jews" cit. N. 37. Sui capri espiatori, confronta Gordon W. Allport, "The Nature of Prejudice" cit., pagine 235-249. N. 38. Per espressione antisemita (o termini equivalenti) si intende una manifestazione verbale o fisica; per antisemitismo la mera esistenza di convinzioni antisemite. Molti covano l'antisemitismo, senza che esso trovi espressione per lunghi periodi di tempo; e spesso gli studiosi confondono i due aspetti, finendo per interpretare un'insorgenza di espressione antisemita come insorgenza di antisemitismo. N. 39. Con ci non si vuole sostenere che l'istituzionalizzazione, soprattutto politica, dell'antisemitismo non infonda nuova intensit alle convinzioni e alle emozioni che muovono gli antisemiti o non possa attribuire loro nuove forme: anzi, cos di fatto avviene spesso. Ma perch possano verificarsi queste variazioni, e persino trasformazioni, il nucleo centrale del credo antisemita deve gi sussistere; altrimenti quegli appelli cadrebbero nel vuoto. N. 40. Nell'Europa orientale comunista, e soprattutto nell'ex Unione Sovietica, dove le tradizionali espressioni di antisemitismo erano state di regola bandite dalle istituzioni e dai dibattiti pubblici, non appena rimossi quei vincoli, dal fondo della societ si sollevata un'ondata violenta di espressioni antiebraiche. Il fenomeno presenta una serie di aspetti rilevanti: 1) tra il numero degli ebrei presenti nel paese e l'intensit o il carattere dell'espressione antisemita non esiste alcun rapporto; 2) le immagini fantastiche degli ebrei e le accuse farneticanti sono marcatamente simili a quelle correnti prima che il

comunismo ne inibisse l'espressione pubblica; 3) l'antisemitismo, l'articolazione dei suoi contenuti e i modelli cognitivi di base risultano quindi essere stati appoggiati, alimentati e trasmessi alle nuove generazioni dalla famiglia e dalle altri microistituzioni sociali; 4) basandosi sulle sue espressioni nel periodo comunista, ben poco stava a indicare la pervasivit e la profondit dell'antisemitismo di fatto esistente in quei paesi. Confronta, per esempio, Newsbreak, bollettino della Conferenza nazionale degli ebrei sovietici. N. 41. Molti autori si sono sforzati di dimostrare come sia l'edificio dei nostri presupposti a interpretare e creare il nostro vissuto della realt. Per quanto ne so, nessuno ha cercato di dimostrare invece che quello stesso edificio pu essere manipolato in modo repentino e imprevisto per produrre una radicale alterazione della sensibilit e le azioni che ne conseguono. Cos avvenuto per molte esplosioni di violenza persecutoria, omicidi in massa e genocidi; cos avvenne ai tedeschi. Edward O. Wilson, in "On Human Nature", Cambridge, Harward University Press, 1978, pagine 99-120 (trad. it. "Sulla natura umana", Bologna, Zanichelli, 1980), propone una spiegazione evoluzionistica delle esplosioni improvvise di aggressivit. Naturalmente, sebbene corretta per quanto riguarda l'aggressivit, questa spiegazione non getta luce sulle trasformazioni repentine dei sistemi di credenze. N. 42. L'esempio pi significativo forse la sua insorgenza allo scoppio della prima guerra mondiale, quando molti marxisti, a dispetto del loro internazionalismo, si scoprirono accesi nazionalisti. N. 43. Una trattazione del rapporto tra nazionalismo e antisemitismo in Shmuel Almog, "Nationalism and Antisemitism in Modern Europe", 1815-1945, London, Pergamon Press, 1990. N. 44. Il gi citato studio di Roy D'Andrade (A Folk Model of the Mind, p. 138) conclude che un modello mentale cognitivo condiviso in grado di riprodursi per secoli.

Capitolo 2 L'EVOLUZIONE DELL'ANTISEMITISMO NELLA GERMANIA MODERNA

ELIMINAZIONISTA

In Europa l'antisemitismo un corollario del cristianesimo: non appena questo si fu affermato nell'Impero romano, i suoi portavoce si diedero a predicare contro gli ebrei, ricorrendo a condanne esplicite, di grande effetto retorico e cariche di emotivit. L'impellente esigenza psicologica e teologica dei cristiani di differenziarsi dagli adepti alla religione dalla quale la loro si era distaccata si rinnovava a ogni generazione, perch gli ebrei persistevano nel rifiutare la rivelazione di Ges, sfidando cos, involontariamente, la certezza cristiana di quella rivelazione. Se gli ebrei, il popolo di Dio, rigettavano il Messia che Dio aveva loro promesso, doveva esserci qualcosa di poco chiaro: o il Messia era falso, oppure quel popolo, forse tentato dal diavolo in persona, aveva proprio perduto la retta via. Per i cristiani la prima ipotesi non era nemmeno da prendere in considerazione, e dunque optarono con tutto il cuore per la seconda. Gli ebrei erano ribelli alla religione in un mondo in cui religione e ordine morale si identificavano, e che considerava qualsiasi deviazione come una trasgressione grave (1). La ragione psicologica di questo antagonismo trova conferma in una seconda serie, parallela e complementare, di considerazioni. Per i cristiani la loro religione era il superamento dell'ebraismo; dunque gli ebrei in quanto tali dovevano sparire dalla faccia della terra: dovevano diventare cristiani. E invece rifiutavano caparbiamente di farlo. Cristiani ed ebrei si trovavano dunque a condividere un patrimonio comune - la cui parte pi importante era la Bibbia ebraica, con le sue parole ispirate da Dio - del quale davano interpretazioni contrastanti. Di qui un inestinguibile antagonismo sul suo significato, sull'interpretazione della Bibbia e della parola di Dio, di tanti degli stessi testi sacri, antagonismo che incitava vieppi i cristiani a denigrare gli ebrei, a impugnare la loro concezione di quel territorio sacro conteso. Se gli ebrei erano nel giusto, i cristiani erano nell'errore: l'interpretazione stessa dell'ordine sacro e dei suoi simboli, e dell'ordine morale che ne derivava, dipendeva dalla certezza che tutti i cristiani fossero convinti dell'errore degli ebrei.

Scrive Bernard Glassman: "I chierici credevano che se il cristianesimo era in effetti la vera fede, e i suoi seguaci la nuova Israele, l'ebraismo andasse screditato agli occhi dei fedeli. Nei sermoni, nelle rappresentazioni teatrali, nella letteratura religiosa del Medioevo gli ebrei venivano spesso descritti come gli avversari della chiesa, coloro che fin dal tempo della Crocefissione costituivano una minaccia per i buoni cristiani" (2). Gli ebrei vennero cos a rappresentare buona parte di tutto ci che era antitetico all'ordine morale del mondo cristiano (3). Un terzo motivo della costante ostilit dei cristiani, e del disprezzo autoindotto che riversavano sugli ebrei, dato dalla convinzione assiomatica che essi fossero gli uccisori di Cristo, e che responsabili della sua morte fossero non soltanto gli ebrei dell'epoca, ma quelli di ogni altro tempo. Gli ebrei contemporanei, infatti, rifiutavano Ges come Messia e come figlio di Dio non meno dei loro antenati i quali, stando agli appassionati e indefessi insegnamenti cristiani, lo avevano ucciso. Assumendo questa posizione negativa, si rendevano tutti complici del delitto originato dal rifiuto degli antenati di riconoscere la divinit di Ges. Gli ebrei erano dunque il simbolo degli uccisori di Cristo, approvavano, si credeva, quel delitto e anzi si riteneva che fossero capaci, avendone l'occasione, di ripeterlo. E dunque il loro continuo, quotidiano rifiuto di Ges era un sacrilego atto di sfida, un guanto gettato apertamente, con sfacciato disprezzo, ai cristiani (4). Questa opinione degli ebrei, fondamentale nella teologia e nell'insegnamento cristiano fino all'Evo moderno, aveva gi forma compiuta nel quarto secolo, quando la chiesa venne ufficializzata nel mondo romano. Giovanni Crisostomo, uno dei Padri della chiesa che esercit influenza pi a lungo, predicava in termini che sarebbero divenuti i ferri del mestiere dell'insegnamento e della retorica antiebraici, condannando gli ebrei a vivere in un'Europa cristiana che li disprezzava e li temeva: "L dove si riuniscono gli uccisori di Cristo, si ride della Croce, si bestemmia Dio, si rinnega il Padre, si insulta il Figlio, si respinge la grazia dello Spirito santo ... Se i riti ebraici fossero sacri e venerabili, allora il nostro modo di vivere sarebbe erroneo.

Ma se vero, come vero, che la nostra via giusta, la loro falsa. Non parlo delle Scritture: lungi da me! Perch esse conducono a Cristo. Parlo della loro empiet e follia di oggi" (5). La diatriba di Giovanni esprime proprio quei motivi di ostilit per gli ebrei di cui si appena detto, radicati nel tessuto teologico e psicologico del cristianesimo. Questo passo proclama senza equivoci l'essenziale, inesorabile contrapposizione tra la dottrina cristiana e quella ebraica, e tra i cristiani e gli ebrei: Se i riti ebraici fossero sacri e venerabili, allora il nostro modo di vivere sarebbe erroneo. Dall'affermazione di Giovanni, dalla sua logica di assoluto rigore, emanano tutto il disagio e l'incertezza di cui il cristiano rischiava di farsi carico quando prendeva in considerazione la possibilit che gli ebrei fossero nel giusto. In questo passo di Giovanni Crisostomo, nella sua visione (e in quella della chiesa) del rapporto tra la cristianit e l'ebraismo, immanente l'esigenza psicologica di deprecare gli ebrei. E non questa l'unica fonte di antagonismo. Il fatto che gli ebrei - gli uccisori di Cristo - si radunino per pregare e praticare il culto viene letto come un atto denigratorio del cristianesimo, un blasfemo gesto di scherno. E' evidente che considerare in questi termini le loro adunanze comporta il rifiuto totale degli ebrei e dell'ebraismo (poich l'adunanza uno degli aspetti costitutivi dell'essere ebreo), la cui stessa esistenza viene percepita come un intollerabile affronto. Giovanni fa persino riferimento alla necessit di rivendicare l'interpretazione cristiana dell'Antico Testamento, demolendo quella ebraica. Se letti correttamente, i Libri non distolgono dalla retta via e, di conseguenza, gli ebrei ne danno una lettura errata. Diversamente da altre forme di empiet non cristiana, quella degli ebrei, per Giovanni Crisostomo e per chi la pensava come lui, non derivava semplicemente dall'ignoranza o dall'incapacit di distinguere la retta via: era una sorta di follia. Giovanni, teologo influente, non fu che un esempio precoce di quel rapporto di fondo del mondo cristiano con gli ebrei che si sarebbe perpetuato fino all'et moderna inoltrata. Occorre ancora una volta sottolineare che questa ostilit non appartiene alla categoria che conosciamo fin troppo bene, quella degli stereotipi e dei pregiudizi poco lusinghieri (che possono avere una forza tutt'altro che

trascurabile) nutriti da un certo gruppo nei riguardi di un altro e finalizzati a rafforzare la fiducia in s di chi li sostiene. La concezione cristiana degli ebrei, invece, era intessuta negli elementi costitutivi dell'ordine morale del cosmo e della societ; quell'ordine che, per definizione, essi avversavano, portandolo alla rovina. Lo stesso essere cristiani comportava un'ostilit totale e viscerale nei confronti degli ebrei (6), cos come del male e del diavolo: non sorprende che nel Medioevo si arrivasse a considerarli come agenti di entrambi. Dall'epoca di Giovanni Crisostomo all'et moderna l'atteggiamento dei gentili verso gli ebrei sub frequenti rettifiche di rotta, come avvenne peraltro per la dottrina e la vita cristiane (7). Ma se pure si davano cambiamenti nella teologia e nella pratica, la fede di fondo nella divinit di Ges rimaneva salda. E saldo rimaneva l'antisemitismo. Cambiavano, nei cristiani, le convinzioni elaborate riguardo agli ebrei e il trattamento a essi riservato, ma persisteva, trasmessa di generazione in generazione, la concezione essenziale della loro natura di assassini di Ges e di blasfemi. L'interpretazione del rapporto tra cristianesimo ed ebraismo, e tra cristiani ed ebrei, era sempre basata sulla fondamentale contrapposizione morale espressa da Giovanni Crisostomo. James Parkes, storico dell'antisemitismo, riconosce che non esiste rottura nel filo che conduce dagli esordi della denigrazione degli ebrei, nel periodo formativo della storia cristiana, attraverso la privazione della parit civile, nel periodo dei primi trionfi della chiesa nel quarto secolo, fino agli orrori del Medioevo (8). Indipendentemente dalle mutazioni avvenute nella dottrina e nella pratica - che furono consistenti e significative - l'atteggiamento del mondo cristiano nei confronti degli ebrei rimaneva fondato sui modelli cognitivi del cosmo e dell'ordine morale che avevano informato a s gli enunciati di Giovanni Crisostomo (9). Il nostro resoconto dell'antisemitismo cristiano e delle sue espressioni nel Medioevo e all'inizio dell'Evo moderno sar, per forza di cose, breve e toccher gli aspetti pi importanti soltanto per evidenziarne la natura nel corso delle sue metamorfosi nonch per analizzare il rapporto tra quelle convinzioni e il modo in cui i cristiani trattavano gli ebrei. Per il mondo medioevale gli ebrei erano in posizione del tutto antitetica rispetto alla cristianit. La chiesa, sicura del controllo teologico e pratico che esercitava sulle potenze d'Europa, coltivava nondimeno aspirazioni totalitarie; alla sfida

simbolica al proprio predominio che individuava negli ebrei, essa reagiva con una ferocia stemperata o acutizzata dalle condizioni contingenti. Alla particolare posizione che occupavano in quanto popolo reo insieme di aver rifiutato la rivelazione di Ges e di averlo ucciso - anche se proprio loro avrebbero dovuto essere i primi a riconoscerlo e a seguirlo come Messia - gli ebrei dovevano l'odio costante e profondo della chiesa, del clero e dei popoli d'Europa. L'odio della chiesa era dunque doppiamente intenso: da un lato aveva l'asprezza del settarismo, del confronto tra due rivali simili che lottano per conquistare il controllo sulla corretta interpretazione della tradizione comune; dall'altro la ferocia di una guerra apocalittica, in cui si giocavano le sorti del mondo, dell'anima umana. La chiesa, rappresentante di Ges sulla terra, combatteva sotto il suo vessillo; e gli ebrei, pur non costituendo in s - degradati, sottomessi, numericamente insignificanti e indifferenti al proselitismo com'erano - una minaccia concreta, divennero il simbolo materiale dell'agente che lanciava la vera sfida all'egemonia della chiesa sulla vita e l'anima del suo popolo: il diavolo. Cos voleva la logica dei Padri della chiesa, e quella che accompagn l'antisemitismo nella sua graduale evoluzione verso il momento, nel tredicesimo secolo, in cui l'ebreo divenne sinonimo del diavolo (10). Grazie al controllo assoluto che esercitava sulla cosmologia e sulla morale in Europa, la chiesa diffuse tale idea per mezzo dei suoi portavoce, i vescovi, e soprattutto i parroci, creando una concezione universale e relativamente uniforme, paneuropea, in cui gli ebrei, creature del demonio, finiscono per non far parte nemmeno dell'umanit. Davvero dubito, dichiarava Pietro il Venerabile di Cluny, che l'ebreo possa essere umano, poich non si piega al ragionamento degli uomini, n si accontenta degli enunciati dell'autorit, divina o ebraica che sia. (11). L'odio per gli ebrei nell'Europa medioevale era tanto intenso, e tanto avulso dalla realt, che ogni disastrosa evenienza poteva essere imputata al loro maligno operato. Gli ebrei rappresentavano tutto ci che era discorde: di fronte a una calamit naturale o sociale dunque si reagiva automaticamente ricercandone la presunta origine ebraica. L'antisemitismo di Martin Lutero fu tanto feroce ed ebbe cos vasta influenza da guadagnargli un posto d'onore nel pantheon della categoria, ma non gli valse a nulla presso la chiesa sua avversaria, che denunci lui e i suoi seguaci come eretici ed ebrei (12).

La logica di quelle fantastiche convinzioni era tale che, conclude Jeremy Cohen, fu quasi inevitabile che la colpa della Peste nera ricadesse sugli ebrei, e molte delle loro comunit in Germania furono sterminate in modo totale e definitivo (13). Nel Medioevo le aggressioni e le espulsioni degli ebrei erano all'ordine del giorno, tanto che alla met del Cinquecento i cristiani potevano dire di averli cacciati con la forza da buona parte dell'Europa occidentale (14). Riguardo agli ebrei, il mondo moderno ha ereditato dal Medioevo, per citare Joshua Trachtenberg, un odio tanto vasto e abissale da lasciarci senza fiato di fronte alla sua incomprensibilit (15). Nondimeno, non si tentava di ucciderli, perch la chiesa, sensibile alla comune origine del cristianesimo e dell'ebraismo, riconosceva loro il diritto di vivere e praticare la religione, pur condannandoli a una condizione degradata come punizione per aver rifiutato Ges (16). In ultima analisi, la chiesa non voleva sterminare gli ebrei, che considerava redimibili, bens convertirli e, cos facendo, riaffermare la supremazia del cristianesimo. Questa fu la "logica" dall'antisemitismo cristiano premoderno. Le evoluzioni dell'antisemitismo nella Germania dell'Ottocento furono straordinariamente complesse. Quanto a carattere e contenuti, per tre quarti di secolo esso fu in una condizione di fluidit continua, mentre procedeva la metamorfosi dalla sua incarnazione religiosa medioevale a quella razziale moderna. La storia di questa metamorfosi, con tutte le sue forme intermedie, si adatta perfettamente al concetto di cambiamento nella continuit. Mentre il contenuto cognitivo adottava nuove forme al fine di modernizzare l'antisemitismo, di armonizzarlo con il nuovo paesaggio sociale e politico della Germania, il modello cognitivo culturale esistente garantiva una notevole costanza di base agli enunciati culturali e ideologici che venivano elaborati. Il modello culturale preservava o, diversamente inteso, era una persistente espressione dell'atteggiamento emotivo nei confronti degli ebrei condiviso dalla stragrande maggioranza dei tedeschi, derivato a sua volta dall'"animus" medioevale che era il substrato della loro concezione degli ebrei. In termini funzionali, l'apparente contenuto dell'antisemitismo nella sua nuova forma andrebbe inteso come poco pi che un'appendice del pervasivo sentimento antiebraico che offriva alla gente un minimo dell'antica coerenza nel mondo moderno, un mondo fluido che metteva in discussione i modelli di vita sociale e le nozioni culturali in una sconcertante variet di modi.

Per centinaia d'anni l'antisemitismo aveva dato coerenza e orgoglio all'immagine di s del mondo cristiano; nell'Ottocento in Germania molte vecchie certezze si andavano sgretolando, e l'importanza dell'antisemitismo come modello di coerenza culturale, e poi come ideologia politica, crebbe in modo spaventoso, insieme con le sue qualit salvifiche per una societ che stava perdendo gli ormeggi (17). La trasformazione linguistica e cognitiva dell'immagine degli ebrei, e della visione metaforica che ne stava alla base, si era gi verificata all'inizio del diciannovesimo secolo. Balza all'occhio confrontando la descrizione degli ebrei contenuta in due scritti tra i pi originali e influenti dell'antisemitismo: "Entdecktes Judentum" (L'ebraismo smascherato) di Johann Andreas Eisenmenger, pubblicato nel primo Settecento, e "ber die Gefhrdung des Wohlstandes und des Charakters der Deutschen durch die Juden" (Della minaccia al benessere e al carattere dei tedeschi che viene dagli ebrei) di Jakob Friedrich Fries, pubblicato nel primo Ottocento. Eisenmenger, preilluminista, considerava ancora gli ebrei, nei termini tradizionali della teologia, come eretici; la loro perfidia stava nella fede religiosa, la loro natura derivava dagli effetti corrosivi di quella fede. Fries, un secolo dopo, gi nel 1816 aveva adottato il vocabolario laico dell'antisemitismo moderno, sostituendo alle idee informate ed elaborate dalla teologia una prospettiva sociale e politica che insisteva sul degradato carattere morale degli ebrei: secondo Fries, un gruppo di asociali fondamentalmente immorali, votati a sovvertire l'ordine della societ per strappare il controllo della Germania dalle mani dei tedeschi. Gli ebrei erano, a suo avviso, non tanto un gruppo religioso (sebbene riconoscesse questa dimensione della loro identit), ma una nazione e un'associazione politica (18). Nei primi tre quarti dell'Ottocento il dibattito sugli ebrei fu dedicato, sia pure non per consapevole intenzione, a forgiare una concezione comune di ci che costituiva la loro identit. La definizione religiosa faceva sempre meno presa, pur continuando a echeggiare e trovare consenso nel popolino. Tramite la letteratura antisemita circolava l'idea che gli ebrei fossero o una nazione o un gruppo di interesse politico. Gi nella prima met dell'Ottocento si dava voce alla definizione che sarebbe emersa nella seconda met del secolo dal confuso conflitto delle concettualizzazioni, per cui gli ebrei erano una razza (19).

Contava molto come i tedeschi concepissero gli ebrei, poich ogni concettualizzazione comportava conseguenze diverse sul potenziale trattamento che avrebbero riservato loro. Sebbene in Germania, nella contesa sulle definizioni, vi fosse un evidente dissenso su ci che faceva degli ebrei quel che erano, su ci che li impregnava delle loro presunte qualit nocive, regnava una totale unanimit su una convinzione di fondo: che fossero effettivamente nocivi (20). In pratica quelli che presero parte al verboso e prolisso dibattito sugli ebrei e sul posto che dovevano occupare nella societ tedesca - compresi coloro che ne difendevano l'emancipazione e il diritto a risiedere in Germania - concordavano sul fatto che essere ebrei ed essere tedeschi (a prescindere dalla rispettiva definizione) fossero realt reciprocamente incompatibili; o, con maggior precisione, che essere ebrei significasse essere ostili e deleteri, se non minacciosi per l'esistenza stessa, di tutto quanto fosse tedesco (21). Meditava un amico liberale degli ebrei: L'ebreo si presenta ... come una distorsione, un'ombra, il lato oscuro della natura umana (22). Il modello culturale tedesco di base dell'ebreo ("der Jude") era costituito da tre concetti: l'ebreo diverso dal tedesco, l'opposto binario del tedesco, e non un diverso innocuo, bens maligno e pernicioso. Lo si concepisse in termini di religione, nazione, gruppo politico o razza, l'ebreo era sempre un "Fremdkrper", un corpo estraneo alla Germania (23). Questa concezione era predominante e cos radicata che gli antisemiti cominciarono a vedere in tutto ci che non andava nel paese, dall'organizzazione sociale ai movimenti politici, alle turbolenze economiche, un collegamento, spesso causale, con gli ebrei. Ne deriv la loro identificazione con le disfunzioni sociali: la percezione simbolica dell'ebreo si potrebbe ridurre appunto all'idea che questi fosse tutto ci che non andava, e lo fosse intenzionalmente (24). E tali, va ribadito, non erano solo le opinioni dei polemisti antisemiti pi in vista, bens quelle prevalenti nell'intera societ tedesca. L'odio onnipresente e profondo per gli ebrei ghettizzati era parte integrante della cultura di una Germania che emergeva dal Medioevo, e dunque la rielaborazione del tema del pericolo ebraico fu una reazione quasi naturale alle proposte di emancipazione iniziate alla fine del Settecento, alle misure lente e parziali dell'Ottocento in quella direzione e ai dibattiti a tutti i livelli sociali sull'opportunit di concedere loro dapprima qualche diritto civile, poi altri. Con questo lo status quo era stato pregiudicato e poi sovvertito, e gli oppositori dell'integrazione civile dedicarono energie, intelligenza e

notevoli talenti polemici a mobilitare i compatrioti contro l'ondata della presunta infiltrazione ebraica che minacciava di abbattere i pilastri dell'identit sociale e culturale dei tedeschi. Ne risult una conversazione sociale sempre pi carica di emotivit, e sempre pi fissata sulla definizione, il carattere e la valutazione degli ebrei, tutto nella prospettiva del rapporto con i tedeschi, i quali erano per assunto diversi da loro, se non incompatibili (25). Non c' gruppo minoritario in grado di trasmettere una buona immagine di s in un dibattito svolto in queste condizioni e in questi termini, nel cui ambito esso resta definito come il gruppo di diversi di gran lunga pi chiuso all'interno di una maggioranza sociale per il resto omogenea, e gravato di un carico emotivo cos pesante. L'immagine degli ebrei ne usc particolarmente malconcia perch il modello di riferimento, ereditato dalla cultura cristiana del Medioevo tedesco, costituiva il substrato dell'intero dibattito. Dalla prima emancipazione degli ebrei in uno stato tedesco, nel 1807 (26), all'estensione dell'eguaglianza civile completa a tutti gli ebrei della Germania, nel 1869-71, la discussione fu alimentata in larga misura dal tentativo, da parte politica, di suscitare sentimento antisemita nelle incessanti battaglie legislative e parlamentari sullo statuto civile degli ebrei. A Berlino come nel Baden, a Francoforte o in Baviera, i tentativi di conferire loro lo statuto di sudditi o di cittadini tedeschi furono accompagnati da aspri scontri politici (27). Com' ovvio, il dibattito non riguardava soltanto gli ebrei ma anche in egual misura l'identit dei tedeschi, il carattere della loro nazione e la forma politica in cui essa doveva trovare espressione. In Germania antisemitismo e nazionalismo divennero e rimasero - fino a dopo la seconda guerra mondiale - un intreccio del tutto inestricabile (28). Il conflitto formale sul riconoscimento della cittadinanza tedesca agli ebrei rafforz, e di fatto sanc, il carattere vieppi politico nell'immagine negativa degli ebrei - un assioma della cultura tedesca - che era in continua evoluzione. E' indubitabile che a partire dal primo Ottocento i conservatori e i nazionalisti "vlkisch", che costituivano la grande maggioranza della popolazione, fossero profondamente antisemiti: le testimonianze sovrabbondano, come dimostra ampiamente la letteratura sul periodo (29). L'attestazione pi chiara dell'ubiquit dell'antisemitismo comunque la sua presenza anche tra gli amici degli ebrei, i liberali, i filosemiti, gli strati progressisti della societ tedesca.

Il libro che esercit una maggiore influenza a favore dell'emancipazione, e degli ebrei in generale, "ber die brgerliche Verbesserung der Juden" (Del progresso civile degli ebrei) di Wilhelm von Dohm, pubblicato in Germania nel 1781 (30), riconosceva la necessit che gli ebrei si emendassero, non solo sul piano politico ma anche su quello morale. Per Dohm l'emancipazione era un affare da concludere: gli ebrei avrebbero ottenuto l'eguaglianza politica in cambio della disponibilit a riformare i loro usi e costumi, in particolare il codice morale e i traffici economici clandestini. A suo vedere, una volta affrancati dal debilitante isolamento sociale e giuridico, in condizioni di piena libert, essi avrebbero accettato lo scambio senza esitazione: Se l'oppressione che egli [l'ebreo] ha subito per secoli l'ha reso moralmente corrotto, un trattamento pi equo lo redimer (31). Dohm, il migliore amico degli ebrei, concordava con i peggiori nemici sulla loro corruzione morale: in quanto ebrei non erano adatti a godere della cittadinanza tedesca, a prender posto in seno alla societ del paese. Dagli antisemiti pi inflessibili si discostava perch riconosceva il potenziale universale della "Bildung", la possibilit cio di educare gli ebrei; e ne era convinto soprattutto perch glielo consentiva la sua interpretazione dell'origine della loro presunta perniciosit. La sua era una concezione ecologica della natura degli ebrei, che lo induceva a trovare la soluzione alla "Judenfrage" in una modificazione ambientale. Per quanto benintenzionata, questa difesa non richiesta dell'ebreo, che pi uomo di quanto non sia ebreo (32), tradiva un'accettazione del modello cognitivo culturale tedesco: essere ebreo era in contrasto con le qualit positive, le qualit umane; per parlare bene di un ebreo, occorreva negarne l'ebraicit. Dopo la pubblicazione dell'opera di Dohm l'idea che l'ebraicit andasse sradicata fu assorbita dal pensiero liberale, ed entr persino tra le condizioni dell'emancipazione. L'editto di emancipazione del Baden, ad esempio, nel 1809, conteneva parole gravide di oscuri presagi per un popolo al quale veniva concessa l'eguaglianza: L'eguaglianza giuridica diverr pienamente operativa solo quando voi tutti [ebrei] vi sarete sforzati di esserne all'altezza nella formazione politica e morale. Per essere certi di questo sforzo, garantendo nel frattempo che la vostra eguaglianza non si ripercuota a danno degli altri cittadini, legiferiamo in proposito quanto segue... (33).

Gli ebrei venivano sottoposti a una prova, non solo nel Baden e non solo perch cos volevano i loro nemici, bens in tutta la Germania e in ottemperanza alle prescrizioni che i loro pi accaniti sostenitori avevano desunto dalla convinzione che si dovessero riabilitare (34). Una prova che non sarebbe mai terminata e che, anche agli occhi dei loro amici, non avrebbero mai superato se non avessero rinunciato del tutto alla propria ebraicit. I liberali, gli amici degli ebrei, condividevano i dogmi fondamentali dell'immagine antisemita. Per quanto impegnati a ottenerne l'emancipazione e la piena eguaglianza civile, anch'essi erano convinti, e lo sostenevano esplicitamente, che gli ebrei fossero diversi dai tedeschi, a loro ostili e perniciosi, che fossero estranei alla Germania e che in sostanza dovessero sparire. Si distinguevano dagli antisemiti dichiarati in quanto ritenevano che l'origine di quella diversit fosse correggibile, che gli ebrei potessero rinnovarsi e che loro stessi, i liberali, sarebbero riusciti, allettandoli con la prospettiva di una piena integrazione nella societ tedesca, a persuaderli a cancellare origini e identit per diventare tedeschi. Come sostiene David Sorkin, alla base dei dibattiti sull'emancipazione stava l'immagine di un popolo ebraico corrotto e degradato; a causa di questa immagine l'emancipazione si sarebbe collegata all'idea della rigenerazione morale degli ebrei. Il dibattito verteva essenzialmente sulla possibilit di tale rigenerazione, su chi dovesse esserne responsabile, su quando e in quali condizioni dovesse avvenire (35). La differenza pi rilevante tra i liberali che proponevano l'emancipazione e i loro oppositori stava nella teoria sociale razionalista dell'Illuminismo che convinceva gli amici degli ebrei della possibilit di educarli, rinnovarli e rigenerarli, trasformandoli in esseri umani morali. I liberali si distinguevano anche, come risulta implicito nella loro presa di posizione, per il grado di perniciosit che attribuivano agli ebrei: il potenziale corrosivo di questi ultimi per la Germania era per loro meno temibile e la loro avversione emotiva era meno profonda. Si poteva quindi contemplare un periodo di transizione in cui gli ebrei avrebbero dovuto spogliarsi progressivamente della loro ebraicit. I liberali, qualunque fosse la loro idea di se stessi, erano antisemiti camuffati da agnello e, sul finire del secolo, avrebbero gettato quel mantello cos poco calzante, rivelandosi non tanto diversi dai loro antichi avversari, gli spudorati antisemiti conservatori (36).

Per tutta la prima met dell'Ottocento i liberali continuarono dunque a difendere gli ebrei fondandosi sull'inquietante affermazione della loro potenzialit di rigenerazione morale e sociale. Infatti la loro concezione della natura nociva degli ebrei rispecchiava per molti aspetti quella degli antisemiti (37): essi speravano di poterli umanizzare, di poterne rivoluzionare la natura. Difendendo gli ebrei e sostenendone i diritti erano quindi in malafede; il messaggio di fondo era: Vi difenderemo purch rinunciate a essere voi stessi, e per questo l'unica via consisteva nella rinuncia all'ebraismo, perch anche i tedeschi di orientamento laico erano convinti che l'impurit degli ebrei derivasse almeno in larga parte dai dogmi di una religione che il giudizio della cultura tedesca considerava priva di amore e umanit. Dovevano cessare di essere ebrei per convertirsi a una religione della ragione ("Vernunftreligion"); sarebbero stati ammessi nella nazione tedesca quando fossero riusciti a corrispondere ai canoni cristiani, agendo secondo le virt cristiane e rinunciando a quella loro concezione egocentrica e presuntuosa di Dio (38). Sul finire del secolo i migliori amici degli ebrei, i liberali, li avevano ormai in buona parte abbandonati. La teoria sociale che prometteva la rigenerazione - sintetizzata nel 1831 da un ecclesiastico lungimirante, secondo il quale saremo disposti a essere giusti verso gli ebrei solo quando non esisteranno pi (39) - si era rivelata infondata (40); ed era stata questa teoria a distinguere i liberali dagli antisemiti, a indurli a conclusioni sul futuro degli ebrei differenti da quelle della maggioranza dei tedeschi, con la quale essi condividevano il modello culturale che negli ebrei vedeva una minaccia estranea all'esistenza stessa della Germania. I liberali avevano considerato gli ebrei esseri razionali che, una volta affrancati dalle menomazioni prodotte dall'ambiente - cio le restrizioni sociali e giuridiche cui erano soggetti -, si sarebbero spontaneamente rinnovati rinunciando, fra l'altro, alla seconda fonte della loro presunta asocialit, la religione ebraica. Per citare Uriel Tal, storico dei rapporti tra cristiani ed ebrei in Germania, la tenacia con cui gli ebrei tedeschi conservavano la propria identit contraddiceva l'idea liberale del progresso materiale, dell'illuminazione spirituale, del destino della nazione; i liberali presero dunque a considerarli, in quanto prototipi del particolarismo, come il principale impedimento all'unit spirituale della nazione (41).

Gli ebrei, ormai moderni in ogni altra accezione, li sconcertavano non reagendo alle nuove condizioni ambientali nel modo promesso dalla loro teoria sociale della redenzione. Svanito l'ottimismo, rimaneva il modello culturale degli ebrei come estranei e prendeva piede l'unica spiegazione convincente dell'origine della loro perniciosit, ormai considerata inalterabile: gli ebrei erano una razza (42). Avvenne cos il passaggio dei liberali da un filosemitismo con intenzioni eliminazioniste benigne a un antisemitismo che propendeva per soluzioni assai meno benigne. La trasformazione principale era data da una diversa concettualizzazione dell'"origine" della natura degli ebrei. Basta il fatto che la ristretta lite intellettuale e politica dei liberali, il gruppo di tedeschi con l'atteggiamento pi positivo nei confronti degli ebrei, corrispondesse alla definizione di antisemita filosemita - tale almeno fino a quando dur la fede in una teoria sociale redentrice -, che cio i migliori amici degli ebrei li considerassero come agenti estranei all'interno del corpo sociale tedesco, per dimostrare nel modo pi convincente l'esistenza in Germania di un modello culturale antisemita. E non certo l'unica riprova di come la societ tedesca, nella prima quanto nella seconda met dell'Ottocento, fosse assiomaticamente antisemita. La gamma delle organizzazioni e dei gruppi che praticavano e predicavano l'antisemitismo nella Germania dell'epoca toccava tutti o quasi i settori della societ. La grande maggioranza delle classi inferiori, che vivessero in citt o in campagna, continuava a sottoscrivere il modello cognitivo culturale dell'ebreo. I sentimenti da educande sul potenziale del popolo tedesco, espressi nel 1845 dal giornale democratico progressista Mannheimer Abendzeitung, risultano commoventi nella loro ingenuit: l'attuale voce del popolo, azzardava il foglio, non quella autentica; una volta illuminato, il popolo abiurer il suo odio profondo per gli ebrei e l'idea che essi siano la fonte di tutti i mali. Spogliata di ogni ottimismo, questa valutazione rivela l'atteggiamento culturale dell'epoca. Analogamente il presidente della Bassa Baviera, nel 1849, sosteneva che l'avversione per l'eguaglianza degli israeliti era alquanto diffusa. Nelle citt e nelle borgate la predicazione e le agitazioni antisemite erano un aspetto ordinario della vita e delle istituzioni sociali.

Dalle confraternite universitarie (incubatrici dell'lite, dei professionisti e dei pubblici amministratori) alle organizzazioni omologhe riservate agli adulti, le societ patriottiche, alle associazioni economiche dei piccoli commercianti e artigiani, ai punti di riferimento della vita sociale, come le osterie e le taverne, l'antisemitismo era parte strutturale dell'opinione pubblica e del dibattito, e anzi veniva attivamente predicato e diffuso. Il vituperio antiebraico che emanava dal pulpito, specie nelle campagne, era tanto virulento che alla met dell'Ottocento le autorit di governo, e naturalmente le comunit ebraiche, della Germania intera, dalla Prussia alla Renania, alla Baviera, vedevano in quell'agitazione motivo di grave preoccupazione. Per garantire l'ordine pubblico gli amministratori che ricoprivano cariche elettive, fino al livello dei sindaci delle citt, si impegnavano a mantenerla entro i limiti della discussione, ma questo non imped anche a molti di loro di prendervi parte attiva. Nelle campagne, l'antisemitismo endemico veniva riattizzato dagli artigiani e dai membri delle corporazioni cristiane (43). Che cosa doveva pensare, il popolo tedesco? Era stato svezzato e nutrito dalla cultura antisemita del proprio tempo, ancora pesantemente condizionata dalla tradizionale concezione cristiana dell'ebreo, alla quale si sovrapponeva ora tutta una serie di nuove accuse: che gli ebrei, identificati con i francesi - la cui conquista della Germania aveva prodotto in alcune zone direttamente, in altre indirettamente la loro emancipazione (44) -, sabotassero le aspirazioni nazionali tedesche, che volessero demolire l'ordine sociale, che fossero responsabili dei dissesti provocati dalle trasformazioni dell'economia e della societ, e cos via. E intanto tutte le istituzioni sociali continuavano a recitare la litania antisemita: le chiese, fonti ancora formidabili di autorit e consiglio, accendevano gli animi contro gli ebrei (45); le organizzazioni professionali ed economiche erano antisemite per definizione (46); i punti di riferimento principali delle attivit ricreative e del dibattito sulla morale e la politica - le associazioni culturali e sportive, le taverne - erano animati da discorsi ed emozioni antisemite (47). E chi si alzava a difendere gli ebrei, di fronte a questo devastante fuoco di sbarramento verbale? Pochi fogli liberali, i quali, anche nel sostenere la concessione dei diritti, spesso scimmiottavano i sentimenti antisemiti che alimentavano l'avversione culturale. In quale modo, per iniziativa di chi, il popolo tedesco - che nella grande maggioranza dei casi non conosceva gli ebrei, o quanto meno non aveva con essi contatti degni di nota avrebbe dovuto costruirsene una concezione

diversa? Per di pi, anche i tedeschi colti, l'lite intellettuale e culturale della Germania, a conti fatti non erano pi illuminati riguardo agli ebrei di quanto lo fossero i non illuminati (48). La pressione esercitata dal pi ampio contesto tedesco sugli ebrei culturalmente pi affermati per indurli a rinunciare all'ebraismo era tale che verso la met dell'Ottocento si calcola che due terzi di essi si siano convertiti al cristianesimo (49): troppi di loro, finch erano rimasti ebrei, si erano visti sbarrare le porte dell'accettazione sociale e professionale da parte dei loro pari e del pubblico illuminato, consumatore di cultura. La Germania era inospitale persino per i pi colti di loro, i pi occidentali, pi raffinati, pi degni di ammirazione, pi tedeschi. Finora abbiamo passato rapidamente in rassegna lo stato della societ tedesca nella prima met dell'Ottocento; rispetto all'eruzione che avrebbe infiammato gli ultimi due decenni del secolo, l'antisemitismo del periodo precedente, per quanto gi profondo, fu in genere un odio sommesso, una tendenza culturale la cui espressione sociale era affare di ordinaria amministrazione, ma che ancora non si era trasformata in una forza politica potente e organizzata. Nei due decenni che seguirono la rivoluzione del 1848, anzi, sobboll su una fiamma ancor pi bassa di un tempo, con esplosioni meno frequenti e, in generale, giocando un ruolo di minor rilievo nella vita pubblica della societ tedesca. La devastante esplosione degli anni Settanta colse molti, e gli ebrei tra questi, di sorpresa (50). Uno dei tanti fili che legano la storia sociale e politica dell'antisemitismo nell'Ottocento dato dalla serie di campagne per la raccolta di firme contro l'emancipazione e i diritti civili. Il 14 dicembre 1849 la camera bassa del Parlamento bavarese approv una legge che concedeva piena eguaglianza agli ebrei; subito, in tutta la Baviera, si scatenarono la stampa e l'opposizione popolare, e contro la legge fu organizzata una raccolta di firme spontanea, autentica, su base estremamente vasta. Con una straordinaria prova di attivismo politico, nelle difficili condizioni di un inverno rigido, in solo tre mesi furono raccolte le petizioni di millesettecento comunit bavaresi (cio, quasi un quarto del totale), con le firme, secondo un calcolo prudenziale, di una percentuale compresa tra il dieci e il venti per cento dei cittadini maschi adulti dell'intera Baviera (51). Le forze popolari a favore dell'emancipazione, invece, erano praticamente inesistenti: in tutta la Baviera solo tre comunit, due delle quali ospitavano

una numerosa popolazione ebraica, inviarono petizioni favorevoli alla legge (52). Lo studio di James Harris sulla campagna di petizioni conclude che, in una regione bavarese, i tedeschi contrari all'emancipazione erano cinque o sei volte pi numerosi di quelli a favore (53). Questa esplosione di sentimento antiebraico e di indignazione all'idea che gli ebrei non dovessero essere pi trattati come pericolosi estranei, ma come tedeschi, si verific in un periodo in cui l'antisemitismo si esprimeva in modo relativamente sommesso rispetto ad altri momenti, specie successivi. Secondo Harris, dalle petizioni risulta chiaro che molti bavaresi cristiani temevano gli ebrei. Odiavano la loro religione, ne rispettavano il talento e i successi, e li consideravano irrimediabilmente diversi. In molte petizioni, che attingevano a tutto il campionario di accuse antisemite che costituivano il senso comune della cultura tedesca contemporanea, si legge che gli ebrei sono ladri, che il loro talento rappresenta una grave minaccia per il benessere dei tedeschi, e che non si assimileranno mai. Parecchie asseriscono, con diverse formulazioni, il loro carattere inalterabilmente estraneo, e ricorre pi volte la frase: Gli ebrei restano ebrei. Una dopo l'altra, sempre presupponendo che ogni legge a beneficio degli ebrei debba necessariamente danneggiare i cristiani, le petizioni esprimono il modello manicheo su cui si fondava in larga misura il pensiero tedesco in materia (54). I firmatari prospettano senza esitazioni quelle che, secondo loro, sono le prevedibili e orrende conseguenze della malignit ebraica qualora le si dia mano libera. Scrive Harris: "Alcune petizioni si limitavano a esprimere dubbi riguardo all'effetto positivo dell'emancipazione sugli ebrei, ma per la maggior parte avanzavano prospettive decisamente pessimistiche. Le cose vanno male, scrivevano dalla Svevia; se verr l'emancipazione andranno peggio. Diverse petizioni ribadivano lo stesso tema: emancipati gli ebrei, la Baviera sar al loro servizio; emancipati, gli ebrei ci prenderanno per la gola; emancipati gli ebrei, diventeremo schiavi; emancipata, quella gente raffinata occuper tutti gli uffici; emancipati, gli ebrei domineranno. Diverse altre sostenevano che non si trattava del futuro: erano i bavaresi a doversi subito emancipare dagli ebrei, non gli ebrei dai cristiani.

Il controllo, il predominio in senso generale, non soltanto economico, degli ebrei sui cristiani era un motivo ricorrente" (55). Una delle petizioni definiva la follia della legge di emancipazione asserendo che riconoscere la piena eguaglianza degli ebrei equivaleva a mettere una volpe in un pollaio (56). Trent'anni dopo i tedeschi dell'intero paese resero nota la loro convinzione che quell'iniziativa popolare antiebraica della Baviera fosse stata saggia e lungimirante. Nel 1880 una campagna nazionale per la revoca dei diritti agli ebrei nella Germania ormai unita raccolse duecentocinquantaseimila firme, e perci il Parlamento, il Reichstag, prese in considerazione la richiesta discutendola animatamente per due giorni. E' significativo che la maggioranza dei firmatari non fosse costituita da esponenti delle classi inferiori, maleducate e non illuminate, bens da proprietari terrieri, preti, insegnanti e pubblici amministratori (57). Alla luce della costruzione sociale della conoscenza, sorprende non tanto il fatto che i tedeschi fossero fondamentalmente antisemiti quanto l'importanza che, nella loro mente e nelle loro emozioni, attribuivano agli ebrei sul piano culturale e su quello politico. L'aspetto forse pi evidente del dibattito sul posto da assegnare agli ebrei in Germania dato dall'attenzione ossessiva all'argomento, dalla marea di parole a esso dedicate, dalla passione che vi fu spesa. Dopo tutto, nel periodo pi esplosivo del vituperio antisemita gli ebrei erano soltanto l'uno per cento circa della popolazione tedesca; intere regioni della Germania ne erano praticamente prive (58). E allora dove stava il problema? Perch tanto trambusto? Ludwig Brne, un noto ebreo battezzato che per se stesso e per gli altri era ancora ebreo, cos commentava in una lettera del 1832 l'ossessione dei tedeschi: E' come un sortilegio! L'ho vissuto centinaia di volte, eppure mi appare sempre nuovo. C' chi mi fa una colpa di essere ebreo; un altro mi perdona; un terzo arriva perfino a congratularsi; ma tutti ci pensano. E' come se fossero chiusi da un incantesimo nel cerchio magico dell'ebreo, nessuno pu uscirne (59). Nessun tedesco poteva liberarsi dall'incantesimo che inchiodava la sua attenzione sugli ebrei. Senza dubbio l'impossibilit di trovare una spiegazione sufficiente a giustificare l'ossessione intensificava la meraviglia di Brne di fronte a quel sortilegio.

La sua testimonianza non si riferiva a un'esperienza strettamente personale: il vortice del dibattito sugli ebrei non avvolgeva soltanto lui, ma l'intera Germania. Per tutto l'Ottocento gruppi sostenuti da un'ampia base popolare continuarono a premere per la revoca di quanto gli ebrei avevano conquistato con l'emancipazione e nel periodo successivo. Quelle pressioni non trovano riscontro in altri paesi occidentali, il che di per s efficace testimonianza del carattere peculiare e delle profonde radici culturali dell'antisemitismo tedesco. La "Judenfrage" rivestiva un interesse particolare per i teologi e gli uomini politici dell'Ottocento, che ne enfatizzavano l'importanza fino a farle assumere dimensioni tanto fantastiche che nel corso del dibattito sull'emancipazione nel Parlamento della Renania (per fermarsi a un solo esempio) si arriv ad affermare in tutta seriet che essa riguardava il mondo intero (60). La cesura nel tessuto culturale rappresentata per i tedeschi dagli ebrei che in verit i tedeschi stessi crearono con il loro modo di concepire e trattare gli ebrei - era tanto grave che quando si trattava di loro anche i tab culturali perdevano efficacia. Ne sono un esempio ovvio, e di rado ricordato, le incitazioni all'annientamento nel corso del diciannovesimo secolo (di cui si dir tra poco). Colpiscono anche le frequenti digressioni sul tema della sessualit, che collegavano gli ebrei con la prostituzione e con ogni forma di depravazione, e in particolare li accusavano di insidiare le ignare vergini tedesche (61). Le accuse di omicidio rituale, quell'antichissima fandonia antisemita, e i processi che ne conseguivano continuavano a tormentare la comunit ebraica; in Germania e nell'Impero austroungarico tra il 1867 e il 1914 se ne tennero dodici (62). Anche i giornali liberali si misero a pubblicare ogni sorta di voci e accuse contro gli ebrei, comprese quelle di omicidio rituale, come se si fosse trattato di fatti dimostrati (63). Al contenuto rivelatore dell'antisemitismo espresso dai tedeschi si aggiungono i fiumi di inchiostro versati sulla "Judenfrage". Eleonore Sterling, tra i massimi studiosi dell'antisemitismo in Germania durante la prima met del diciannovesimo secolo, scrive: "La dottrina dell'odio viene disseminata nel popolo da una miriade di volantini, manifesti e articoli di giornale.

Nelle strade e nelle taverne i mestatori pronunciano odiosi discorsi e fanno petizioni incendiarie ... l'agitazione viene tenuta viva non solo dagli oratori da strada e da taverna, ma persino da chi ama considerarsi cristianissimo" (64). Il fuoco di sbarramento divenne ancor pi spaventoso nell'ultimo quarto del secolo, quando in Germania si scriveva della "Judenfrage" con una passione e una frequenza senza eguali in nessun altro dibattito politico. In quei trent'anni si calcola che siano uscite milleduecento pubblicazioni a essa dedicate, nella stragrande maggioranza espressioni del fronte esplicitamente antisemita. Secondo un altro calcolo, il numero delle pubblicazioni incentrate sul rapporto tra la nazione e le minoranze (nelle quali gli ebrei figuravano necessariamente in primo piano) fu superiore a quello complessivo delle pubblicazioni politico-polemiche su "ogni altro argomento" (65). Giudicando soltanto dal volume e dalla natura della produzione letteraria e verbale di quella societ, sarebbe inevitabile concludere che essa era concentrata su un'impellente minaccia mortale, un allarme totale: tanto centrale era il ruolo di quella questione oggettivamente insignificante nel dibattito pubblico della societ tedesca. L'atteggiamento ostile nei confronti degli ebrei, sia sul piano emozionale sia su quello cognitivo, era assiomatico, ma il "contenuto" dell'antisemitismo fu per tutto il secolo in uno stato di evoluzione continua. In qualsiasi momento, e tanto pi nell'arco di qualche decennio, la litania era costituita da una grande variet di concetti, non tutti armonizzati. Sono comunque individuabili taluni aspetti e indirizzi fondamentali. L'immagine predominante degli ebrei li voleva maligni, potenti e pericolosi; erano parassiti, che non davano nulla alla societ - un'idea cruciale, ripetuta ossessivamente, era che scansavano la fatica, che non svolgevano alcun lavoro produttivo - pur vivendo di quella societ, nutrendosi a spese dell'ospite. La loro impurit comprendeva anche un'altra dimensione: erano ancor pi dannosi dei parassiti, che in fondo si limitano a prendere senza restituire; gli ebrei sabotavano attivamente, con intenzione, l'ordine della societ, corrodendone i costumi e la coesione e introducendo disordine e disarmonia in un insieme altrimenti ben integrato. Erano rapaci; ovunque estendessero la loro influenza, cominciava il saccheggio (66). Ed erano organizzati.

Per l'opinione pubblica prevalente non erano soltanto un insieme di singoli principi di decomposizione, ma un gruppo di interesse che agiva di concerto, come mosso da un'unica volont. Per i tedeschi il pericolo che rappresentavano, la capacit di far danno, era colossale, soprattutto per il loro particolare talento nell'infiltrare l'economia, che li avrebbe portati ad accumulare potere; gli effetti, per citare un liberale del primo Ottocento, un amico degli ebrei (parole improntate al linguaggio naturalista, organicista, tanto amato dagli antisemiti di ogni colore), erano spaventosi. Gli ebrei erano una pianta parassita in rapida crescita, avvinta intorno all'albero ancora sano per succhiargli la linfa vitale finch il tronco, rinsecchito e divorato dall'interno, crolla nella decomposizione (67). Poich li concepivano in termini cos organici, come singole parti di un unico corpo estraneo articolato che occupava invasivamente la Germania, i tedeschi erano riluttanti a considerare gli ebrei come individui e a riconoscere a ciascuno di essi i requisiti della germanit (comunque questi venissero intesi) che davano diritto all'integrazione nella loro societ. Quanto pi tendevano a concepirli in termini collettivi, tanto meno erano disposti ad accettare che gli ebrei adottassero un'impronta tedesca, compreso il cristianesimo, a riprova della loro fedelt alla Germania e dell'appartenenza alla nazione. Col procedere del diciannovesimo secolo, si percepiscono nel carattere dell'antisemitismo tedesco numerosi cambiamenti interrelati (68). Ricorreva sempre pi spesso la metafora naturalistica, di cui si appena detto; la diagnosi del rapporto sociale ebrei-tedeschi pass dall'idea del primo Ottocento che gli ebrei volessero invadere le case dei tedeschi alla convinzione che le avessero gi occupate; il messaggio diffuso prima dell'emancipazione, teneteli lontani, divenne cacciateli (69); si giunse man mano a considerarli pi come una nazione che come una comunit religiosa (70). Con tutto questo coincise, ovviamente, l'integrazione del germanesimo con il cristianesimo, per cui la nozione stessa di tedesco comprendeva l'elemento cristiano (71). Le fusioni, contemporanee e interrelate, dell'ebraismo con la nuova idea degli ebrei come nazione da un lato, del cristianesimo con la germanit dall'altro, annunciavano l'erezione di una barriera cognitiva, e di conseguenza sociale, praticamente insuperabile per l'ebreo che avesse voluto farsi accettare quale tedesco.

Come se questo ostacolo cognitivo non fosse abbastanza imponente, nella seconda met del secolo l'antisemitismo punt su un altro concetto portante: la razza. Qualit immutabile, la razza escludeva che un ebreo potesse mai diventare un tedesco (72). Il concetto di razza diede coesione ai diversi e mutevoli filoni dell'antisemitismo che disputavano sulla collocazione degli ebrei nella mappa evolutiva del paesaggio sociale e politico della Germania. Pu essere visto anche come il vertice ideologico di una linea di argomentazione proposta dagli antisemiti contro l'emancipazione: si demolivano le fondamenta concettuali dell'idea liberale della correggibilit, proclamando l'immutabilit della natura degli ebrei. Le ragioni della "Bildung" erano forti; ora ricevevano l'assalto di una replica altrettanto forte. Pur riconoscendo validit alle posizioni razionaliste, umaniste e universaliste dell'Illuminismo, gli antisemiti asserivano che queste qualit non appartenevano, data la loro natura peculiare, agli ebrei (73). Gi prima dell'emancipazione furono avanzate, in risposta alla posizione favorevole del libro di Dohm, argomentazioni basate sull'esistenza di caratteristiche innate (74). I sostenitori della concezione essenzialista degli ebrei cominciarono a usare il vocabolario e i fondamenti concettuali della razza gi negli anni Quaranta dell'Ottocento (75). L'ideologia "vlkisch", che fungeva da surrogato del fattore di coesione nazionale, sostituto misero ma efficace di una vera politica unitaria, acquis ulteriore vigore nel corso dell'Ottocento. Con la scoperta, alla met del secolo, delle razze germanica ed ebraica, la stessa concettualizzazione del "Volk", sino ad allora basata su criteri linguistici e di nazionalit, sub una trasformazione, abbracciando i principi essenzialisti e apparentemente scientifici della razza. Nel 1847 uno dei polemisti "vlkisch" e antisemiti pi popolari e influenti bene coglieva i termini della metamorfosi, spiegando che il senso del vigore e l'amor di patria si fondavano sullo spirito cristiano germanico e sull'unit razziale germanica ("gennanische Blutseinheit"). L'ebreo, per ricorrere all'immagine del sangue, autentico elisir del pensiero razziale tedesco, era l'eterno purosangue dell'estraneit (76). Il concetto di razza forniva all'antisemitismo moderno una coerenza sino ad allora mai raggiunta. In precedenza, quando in reazione al movimento per l'emancipazione la "Judenfrage" era stata collocata al centro della scena politica, l'esplosione di

risentimento si era risolta in una ridda confusa di accuse contro gli ebrei e di interpretazioni dell'origine della loro perniciosit. Ora invece compariva finalmente, con la razza, un concetto unitario, facile da capire, di grande potenza metaforica, che integrava quei filoni variegati e incoerenti in una spiegazione completa e logica della natura degli ebrei e del loro rapporto con la Germania (77). Il modello cognitivo alla base dell'idea di razza presentava numerose propriet particolarmente confacenti all'antisemitismo, e pericolose per gli ebrei, che ne facilitavano l'innesto sull'antico tronco antisemita (78). Contrapponendo la germanicit all'ebraicit, quel modello cognitivo rilanciava la contrapposizione assoluta e binaria che da sempre gli antisemiti tradizionali individuavano tra cristianesimo ed ebraismo. Come nel Medioevo, la nuova divisione manichea trasformava delle persone, gli ebrei, in un simbolo culturale fondamentale, il simbolo di tutto ci che non quadrava nel mondo. Secondo entrambe le concezioni, peraltro, non si trattava di meri simboli inanimati, bens di agenti attivi che minacciavano in piena consapevolezza il sacro ordine naturale del mondo. Un'immagine maligna che bast a fare degli ebrei il diavolo di quella visione laica del mondo, allo stesso modo - sia pure con un'articolazione meno esplicita - in cui la mentalit cristiana del Medioevo li aveva identificati con il diavolo, la magia e la stregoneria. L'antisemitismo razziale si appropri, riproducendola, della "forma" del modello cognitivo cristiano, iniettandovi un nuovo "contenuto". Per questo la trasformazione fu promossa e accettata senza alcuna difficolt da un popolo massicciamente antisemita. Il nuovo antisemitismo era il naturale successore moderno di un'animosit secolare, la cui elaborazione cognitiva cristiana riecheggiava nell'atmosfera sempre pi laica dell'epoca con una forza ben poco ridimensionata. Per mantenere il ruolo centrale che aveva in passato nel nuovo clima politico, l'animosit contro gli ebrei richiedeva giustificazioni attualizzate capaci di tener conto del mutare delle condizioni sociali (79). Occorreva rimetterne a nuovo il modello cognitivo, affinch non entrasse in conflitto con altri concetti fondamentali per la societ. La rielaborazione dell'antica ostilit serv anche a trasformarla; il nuovo contenuto dell'antisemitismo, e soprattutto la nuova interpretazione dell'"origine" della perniciosit degli ebrei, che li rendeva del tutto inadatti al buon vicinato, portarono con s una nuova concettualizzazione della "Judenfrage" che, a sua volta, implicava diversi tipi di possibili soluzioni (80).

Il linguaggio e le accuse dell'antisemitismo razziale non lasciano dubbi sul fatto che l'ebreo fosse visto come la fonte di tutto ci che non andava nella societ, e finisse per esservi identificato. Come nel Medioevo, la litania comprendeva tutti o quasi i mali sociali, politici ed economici della Germania (81), ma nella sua forma moderna l'antisemitismo attribuiva agli ebrei una nuova e ancor pi grande importanza cosmologica. Certo nel Medioevo essi erano stati considerati responsabili di molti mali, ma erano sempre rimasti in una posizione un po' periferica, ai margini, spaziali e teologici, del mondo cristiano, fattori non rilevanti della sua interpretazione dei turbamenti terreni. Gli antisemiti moderni invece, vedendo in loro la fonte primaria del disordine e della decadenza, potevano dichiarare che finch gli ebrei non fossero stati debellati non ci sarebbe stata pace nel mondo. I cristiani medioevali non avrebbero potuto dire altrettanto poich, seppure gli ebrei fossero scomparsi, il diavolo, origine ultima del male, sarebbe rimasto. Nell'antisemitismo moderno invece, proprio perch l'ebreo si era trasformato da agente del diavolo nel diavolo stesso, le descrizioni e le raffigurazioni del danno che si presumeva recasse alla Germania potevano essere tanto spaventose. Da come venivano definiti, con grande abbondanza di metafore sulla decomposizione organica, si fatica a capire che si trattava di esseri umani. In poche parole, gli ebrei erano veleno. E queste accuse, come si gi detto, percorrevano ossessivamente e senza sosta la societ tedesca, cos universalmente ripetute da esser date sempre pi spesso per vere persino da chi un tempo era stato alleato degli ebrei. Nella seconda met del secolo divenne impossibile parlare del "Volk" tedesco senza evocare l'idea della razza, e dunque dell'esclusione degli ebrei dalla Germania. I concetti di "Volk" e di razza si sovrapponevano intrecciandosi, tanto che risulta difficile definire con precisione la differenza nell'uso e nel significato dei due termini. E inoltre la fusione del cristianesimo con il germanesimo vanificava l'antica risorsa del battesimo, tratta dal repertorio dell'antisemitismo religioso, che consentiva agli ebrei di mondarsi dei loro presunti peccati, e di rinunciare alla loro presunta natura. Rimaneva l'animosit di stampo cristiano contro gli assassini di Cristo, resisteva la potenzialit delle vecchie fandonie di suscitare l'odio contro gli

ebrei, ma le mutate idee sulla natura dei presunti deicidi e sulla sua origine escludevano ormai la possibilit della redenzione. La forza simbolica e le implicazioni metaforiche del nuovo concetto portante della razza conferivano cos all'antisemitismo una rinnovata carica esplosiva. La pervasivit e la forza della nuova concezione "vlkisch", di stampo razziale, della germanit erano tali da riuscire a scalzare uno dei precetti fondamentali del cristianesimo, incapace di tenere le proprie posizioni di fronte alla nuova visione egemonica. L'ontologia del modello cognitivo che alimentava la visione essenzialista, razzista, del mondo contraddiceva, escludendola, quella cristiana, che per tanti secoli aveva dettato legge. Gli antisemiti razzisti negavano l'antica idea cristiana che tutte le anime potessero salvarsi attraverso il battesimo e la possibilit che la conversione rimuovesse l'unica differenza esistente tra tedeschi ebrei e cristiani. Al culmine di un'ondata antisemita, nel 1881 Johannes Nordmann, un popolare e influente pamphlettista, esprimeva in termini inequivocabili la presunta barriera fisiologica che impediva agli ebrei il passaggio al cristianesimo: la conversione non poteva trasformarli in tedeschi pi di quanto si potesse far diventare bianca la pelle di un nero (82). E i tedeschi presero a considerare la conversione come uno stratagemma, un imbroglio: dato il modo di essere degli ebrei, non poteva essere altrimenti. La conversione divenne dunque irrilevante ai fini della definizione di chi fosse ebreo, e del valore morale della persona. Anche alcuni teologi cristiani cominciarono a porre limiti alla potenza del battesimo, collocando la coscienza del popolo ("vlkisches Bewusstsein"), per definizione negata agli ebrei, tra i requisiti dell'essere tedesco (83). L'ineluttabilit del conflitto tra l'ebreo e la Germania, gli indefessi tentativi degli ebrei di conquistare e distruggere il paese erano parte integrante della concezione razziale "vlkisch" che si coagul nell'ultima parte del diciannovesimo secolo. L'assenza di ogni alternativa allo scontro frontale con gli ebrei era implicita in un testo fondamentale per quell'ideologia, redatto nel 1877. I tedeschi devono convincersi, vi si diceva, che anche l'ebreo pi onesto, spinto dall'influenza ineludibile del suo sangue, portatore della moralit semitica ["Semitenmoral"] del tutto opposta alla vostra, non pu far altro che operare ovunque per la sovversione e la distruzione della natura tedesca, della moralit tedesca, della civilt tedesca (84).

Sulla sostanza di questa proclamazione avrebbero potuto essere d'accordo tutti gli antisemiti tedeschi del tardo Ottocento e in realt anche del Novecento: sia che si considerassero esplicitamente razzisti "vlkisch", o cristiani (con qualche eccezione), oppure, ed probabile che cos avvenisse per la maggioranza non intellettuale, semplicemente come impauriti nemici degli ebrei, il loro odio si fondava sulla convinzione che gli ebrei fossero, e facessero, esattamente ci che le parole sopra citate proclamavano. L'urgenza del pericolo ebraico era chiara a tutti; meno chiaro il modo per affrontarlo. La mentalit eliminazionista che contraddistingueva quasi tutti coloro che si espressero sulla "Judenfrage" a partire dalla fine del diciottesimo secolo un'altra costante del pensiero tedesco sugli ebrei (85). Per una Germania ordinata, tenuta sotto controllo e, nell'opinione di molti, sicura, la presenza ebraica doveva essere eliminata dalla societ tedesca. Che cosa si intendesse per eliminare - cio liberare la Germania da quella presenza - e in quale modo si dovesse procedere risultava poco chiaro e confuso agli occhi di molti, e per tutta l'epoca dell'antisemitismo tedesco moderno non vi fu consenso in proposito (86). La necessit di eliminare la presenza ebraica era comunque evidente per tutti e conseguiva dall'idea degli ebrei come invasori estranei del corpo sociale tedesco. Quando due popoli sono considerati alla stregua di opposti binari, e vengono attribuite le qualit del bene all'uno, quelle del male all'altro, l'esorcismo di quel male, con qualsiasi mezzo, dallo spazio sociale e temporale che essi condividono diviene un imperativo urgente. Il "Volk" tedesco scriveva un antisemita poco prima della met del secolo ha bisogno solo di sbaragliare gli ebrei per diventare libero e unito (87). Le elaborazioni ottocentesche della reazione antisemita alla minaccia ebraica sono interessanti per una variet di motivi. Poich si credeva che la "Judenfrage" fosse il problema pi grave e urgente per la Germania, non sorprende che esse riecheggiassero spesso, e con forza, gli appelli all'azione. Si rimane invece sconcertati dal fatto che un'alta percentuale di antisemiti non proponesse alcun genere di azione, pur essendo convinti che gli ebrei fossero nemici terribili e potenti. La met circa dei libelli e dei discorsi del tardo Ottocento non avanza proposte sulla soluzione della "Judenfrage" (88). Alla fine del diciannovesimo secolo, quando gli ebrei si erano gi integrati nella vita economica e professionale, alcuni, come Wilhelm Marr inventore del termine antisemitismo, autore tra i pi quotati sull'argomento -

, erano ormai convinti che la causa della purificazione della Germania fosse perduta: Noi tedeschi abbiamo portato a termine, con l'anno 1848, la nostra abdicazione ufficiale in favore dell'ebraismo ... La guerra dei Trent'anni ufficialmente dichiarata contro di noi dagli ebrei nel 1848 ... non lascia nemmeno la speranza di una disgustosa pace di Westfalia (89). Gli ebrei avevano occupato le case dei tedeschi e non si sarebbe mai pi riusciti a cacciarli: gli ebrei avevano gi vinto. E' probabile che per alcuni non avesse senso proporre soluzioni che non fossero nemmeno remotamente possibili; ed probabile che altri ancora, in quest'epoca che non aveva conosciuto l'Olocausto, non osassero enunciare quella che consideravano l'unica soluzione alla "Judenfrage" che corrispondesse alla loro concezione degli ebrei. Poich nessuna soluzione intermedia poteva essere soddisfacente, perch avanzare proposte? Le ipotesi talvolta moderate avanzate da chi pure azzard una soluzione erano in contrasto cos clamoroso con il mortale pericolo che i loro autori identificavano negli ebrei da indurci a pensare che certi antisemiti, per quanto feroce fosse il loro odio per gli ebrei, non riuscirono a compiere il salto concettuale e morale necessario per contemplare la violenza di massa, oppure rimasero prigionieri delle inibizioni etiche di un'epoca che ancora non aveva allentato tutti i freni all'espressione della fantasia. O forse, costretti entro i limiti reali imposti all'azione dallo stato tedesco, fecero come avrebbe fatto anche Hitler nei primi anni al potere, inchinandosi al pragmatismo per proporre ricette assai meno radicali di quanto avrebbero in cuor loro desiderato. Le soluzioni proposte dagli antisemiti in quel periodo andavano dall'antica speranza liberale nella scomparsa degli ebrei per totale assimilazione, alla richiesta di nuove forme legali di emarginazione fino alla revoca dell'emancipazione, all'espulsione forzata e violenta, e anche all'annientamento completo. Per quanto assai differenti, sono soltanto variazioni della mentalit eliminazionista. Sul piano funzionale, dal punto di vista degli antisemiti (anche se non da quello degli ebrei), e fatte salve le differenze, queste soluzioni erano pi o meno equivalenti: emanavano dalla comune convinzione che in un modo o nell'altro la Germania dovesse essere purificata dagli ebrei, diventare "judenrein". La mentalit eliminazionista fu il prodotto logico e reale di quella convinzione.

Le soluzioni considerate pi opportune dipendevano dalla natura della particolare variante dell'antisemitismo adottata da chi si impegnava per la ristrutturazione della societ, oltre che dalle pi generali teorie sociali ed etiche che lo ispiravano. Il contenuto dell'antisemitismo si andava coagulando intorno alla convinzione che gli ebrei fossero una razza e che rappresentassero un pericolo mortale.E negli ultimi anni dell'Ottocento i pi autorevoli autori antisemiti si arresero sempre pi alla logica delle proprie convinzioni, che portava direttamente alla richiesta dello sterminio: "Le voci che, tutte d'accordo nel dare un giudizio assolutamente negativo sull'essere ebraico, incitavano alla persecuzione e all'annientamento senza piet, erano la stragrande maggioranza, e di decennio in decennio il loro seguito aumentava. Gli ebrei erano vermi, parassiti da sterminare. Si doveva strappar loro di mano le ricchezze che avevano accumulato col furto e l'imbroglio, e poi, con grande vantaggio, deportarli definitivamente in qualche remoto angolo della terra, per esempio in Guinea. Alcuni propugnavano la soluzione pi semplice: ammazzarli, perch il dovere di difendere ... moralit, umanit e cultura imponeva una battaglia senza quartiere contro il male ... L'annientamento degli ebrei coincideva, per molti antisemiti, con la salvezza della Germania. Erano evidentemente convinti che l'eliminazione di una minoranza avrebbe posto fine a tutte le disgrazie, e il popolo tedesco sarebbe stato di nuovo padrone in casa propria" (90). Klemens Felden, l'autore del passo citato, ha analizzato i contenuti di cinquantuno autorevoli pubblicazioni di scrittori antisemiti distribuite in Germania tra il 1861 e il 1895. I risultati sono sconcertanti (91). In ventotto casi si propongono soluzioni alla "Judenfrage"; di queste, ben diciannove prevedono lo "sterminio fisico degli ebrei". Nell'era pregenocida della civilt europea - quando ancora non esisteva la consapevolezza della carneficina dei due conflitti mondiali, n tanto meno del genocidio come strumento della politica nazionale - oltre due terzi di questi noti antisemiti portavano alle estreme conseguenze le proprie convinzioni emettendo, o meglio reclamando, una sentenza genocida. Dei quaranta autori che offrono un'interpretazione dell'unit della comunit ebraica, solo uno la considera una comunit puramente religiosa, e appena sei citano come fattore unificante la religione insieme con altri attributi.

Viceversa, trentadue concepiscono come "immutabile" la natura degli ebrei, e ventitr li presentano come una razza. L'affinit elettiva tra lo sviluppo del concetto della natura immutata e immutabile degli ebrei, elaborato soprattutto in termini esplicitamente razziali, e la scelta dell'annientamento fisico come soluzione della "Judenfrage" inequivocabile. "La mentalit eliminazionista tendeva a un'altra fondata sullo sterminio" (92). E cos era gi nell'Ottocento, prima della nascita politica di Hitler. Anzi, gi alla fine del Settecento Dohm riconosceva che la logica della definizione antisemita degli ebrei implicava la necessit di spazzare via gli ebrei dalla faccia della terra (93). Due soli degli autori che chiedevano lo sterminio (e che formulavano la propria interpretazione della natura degli ebrei) non utilizzavano esplicitamente il linguaggio della razza, trattandosi invece per entrambi di una nazione. Gli antisemiti razziali erano davvero convinti, osserva Felden, che lo sterminio degli ebrei fosse la salvezza della Germania, e dunque non sorprende che sul finire del secolo crescessero la frequenza e l'intensit degli appelli in quella direzione. Nel 1899 il programma politico della sezione amburghese dei partiti antisemiti uniti ne fornisce un esempio con queste profetiche parole: Grazie allo sviluppo dei moderni mezzi di comunicazione la "Judenfrage" diventer, nel corso del ventesimo secolo, un problema globale, e in quanto tale verr risolto in modo concertato e definitivo dalle altre nazioni, con la totale segregazione, e infine (se lo imporr la legittima difesa) con l'annientamento del popolo ebraico (94). Nelle loro proposte di redenzione, gli antisemiti razziali dell'Ottocento e del primo Novecento rimanevano fedeli alle conseguenze logiche della concettualizzazione dell'ebreo. Sul finire dell'Ottocento, insomma, la convinzione che gli ebrei costituissero un pericolo estremo per la Germania, e che l'origine di tale pericolo fosse immutabile, cio razziale, insieme con la sua conseguenza, che gli ebrei dovessero essere "eliminati" dalla Germania, era estremamente diffusa. La tendenza a considerare e proporre la forma di eliminazione pi radicale, lo sterminio, era gi forte e tutt'altro che silenziosa; la societ tedesca continuava a essere profondamente antisemita, come all'inizio del secolo, ma la natura trasformata, modernizzata, dell'antisemitismo razziale proponeva per la presunta "Judenfrage" soluzioni pi complete, radicali e persino esiziali.

Con l'inizio del nuovo secolo, i semi dell'antisemitismo nazista e delle politiche antiebraiche del nazismo erano stati gettati ovunque, erano germogliati e gi si scorgevano le prime fioriture. Si esprimevano soprattutto a parole, e con azioni discriminatorie individuali, ma anche attraverso un'intensa attivit politica. Per quanto forte e potenzialmente violento, comunque, in questo periodo l'antisemitismo non esplose in un'aggressione concertata e sistematica perch non vigevano condizioni tali da trasformarlo in un programma di violenza fisica: lo stato non avrebbe mai acconsentito a proporsi come base di un'azione sociale collettiva di questo genere. La Germania guglielmina non avrebbe tollerato la violenza organizzata che gli antisemiti sembravano desiderare (95). Bloccato sul piano della mobilitazione politica, in genere per gli ebrei l'antisemitismo - pur restando un aspetto molto rilevante, ed estremamente spiacevole, della cultura e della vita tedesche, che comportava continue aggressioni verbali, discriminazioni sociali, traumi psicologici - non minacciava per la sicurezza fisica. Per tutto il secolo, e in particolare nella seconda met, nessuna immagine alternativa, non antisemita, degli ebrei raccolse mai (con la parziale eccezione del Partito socialdemocratico) il bench minimo sostegno a livello istituzionale; e ci vale non soltanto per le istituzioni politiche, ma anche per la substruttura tocquevilliana della societ, le associazioni che costituivano per la popolazione il terreno di esercizio dell'attivit politica. Per citare lo storico dell'antisemitismo tedesco Werner Jochmann, abbondano gli esempi a dimostrazione di come, negli anni Novanta, l'antisemitismo avesse infiltrato "fino all'ultima" tutte le organizzazioni di cittadini, penetrando nelle associazioni popolari come in quelle culturali (il corsivo mio). Era ormai questa l'ideologia dominante per la maggioranza delle aggregazioni borghesi, comprese quelle di natura economica. Ed era tanto forte che nel 1893, alla prima assemblea generale del sindacato nazionale tedesco dei commessi di negozio, un'associazione che si definiva nata dall'antisemitismo, il consiglio direttivo dichiarava: Non possiamo evitare quest'ondata [antisemita] e anzi faremmo bene a lasciarcene trascinare (96). Questa come altre organizzazioni, economiche o meno, si dichiaravano "judenrein", poich escludevano gli ebrei dall'iscrizione indipendentemente dalla posizione economica comune (97).

L'antisemitismo era anzi un agente stimolante cos diffuso e potente da essere usato a piene mani dalla pi svariata gamma di gruppi in cerca di sostenitori da mobilitare. Negli anni Novanta l'Associazione degli agricoltori, proponendosi di organizzare interessi disparati, da quelli dei grandi proprietari a quelli delle piccole aziende e degli artigiani di settore, si accorse che l'antisemitismo pareva essere quasi l'unico modo per reclutarli e tenerli insieme. I cattolici, ai ferri corti con l'anticattolico governo centrale, lo accusavano di essere prussianizzato e giudaizzante (98). Dichiarando che gli ebrei erano nemici, o che i propri nemici parteggiavano per gli ebrei, si raccoglievano tante adesioni che questa tesi divenne una parte fissa nel repertorio politico e sociale del tardo Ottocento. Una forte animosit antiebraica sotterranea aveva gi fatto parte del modello cognitivo culturale tedesco degli ebrei nel momento in cui la Germania aveva intrapreso il combattuto cammino della rivoluzione industriale e del processo politico che la avrebbe portata all'unit, processo alla base del quale stava il concetto esclusivista del "Volk". Nell'ampia misura in cui l'argomento degli ebrei entrava nella conversazione pubblica della societ, la stragrande maggioranza degli scrittori e degli oratori tedeschi ne trattava in una luce sinistra, se non demoniaca, impiegando il linguaggio razzista e deumanizzante allora di moda. Come annotava nel 1882 Ludwig Bamberger, capo dei liberali nazionali, parlando dell'antisemitismo, gli organismi che sono la vita stessa della nazione - l'esercito, le scuole, il mondo accademico - ne sono pieni fino a traboccare...; e dunque non sorprende che l'antisemitismo si fosse trasformato in un'ossessione che non pu non toccarti (99). Nonostante l'emancipazione, gli ebrei continuavano a subire forme di emarginazione di ogni genere, pubbliche, evidenti ed estremamente significative, che indicavano a tutti come essi non fossero veri tedeschi, ma persone non abbastanza affidabili per appartenere a pieno titolo alla societ. E' nota l'esclusione sistematica degli ebrei dal servizio nell'istituzione che pi si identificava con il patriottismo tedesco, il corpo degli ufficiali dell'esercito, e nel settore che guidava, tutelava e governava collettivamente il popolo, la pubblica amministrazione, e in particolare la magistratura (anche se in quest'ultima formalmente erano ammessi) (100): un segnale costante e inequivocabile di come essi non fossero davvero tedeschi, ma estranei inidonei a partecipare alla spartizione del potere. Queste forme di emarginazione, applicate o persino attivamente promosse dai funzionari, dai giudici, dagli insegnanti, erano cos diffuse e debilitanti

che un autorevole giurista arriv a definire quella che di fatto era una parziale revoca dell'emancipazione il ribaltamento della Costituzione a opera dell'amministrazione (101). L'antisemitismo, onnipresente nel 1800 e nel 1850, divenne pi intenso, e sicuramente micidiale, sul finire del secolo, con il progresso economico e tecnologico della Germania. Qui antisemitismo e modernit erano perfettamente compatibili, perch il concetto fondante della comunit politica che costituiva la Germania era il "Volk", concetto che trovava anche una base pseudoscientifica moderna nelle teorie razziste e darwiniane allora correnti in tanta parte della cultura europea (102). Come abbiamo gi detto, con la fine del secolo quelli che poco prima erano stati i migliori amici degli ebrei, i liberali, avevano in buona misura abiurato l'antisemitismo filosemita, la loro versione assimilazionista della mentalit eliminazionista, optando per il modello, il linguaggio e le opinioni dell'antisemitismo moderno, con le sue proposte assai meno benevole. I soli a non adeguarsi furono gli esponenti del nucleo sempre pi esiguo dei liberali di sinistra, che rimasero fedeli ai principi dell'Illuminismo; ma proprio l'adesione a quei principi in un paese tanto antisemita li ridusse all'irrilevanza politica, a una continua perdita di terreno presso l'antico elettorato liberale. In alcune zone della Germania la maggioranza degli elettori borghesi si schierava con i partiti antisemiti (103): i conservatori (che vanno distinti da chi si riconosceva quasi esclusivamente nell'antisemitismo) condividevano da sempre, e fino in fondo, quel sentimento. Nella campagna per le elezioni nazionali del 1884, il Partito conservatore dichiarava apertamente che gli ebrei stavano in contrapposizione binaria con i tedeschi: la loro lealt andava a potenze internazionali, non t edesche, e questo deve finalmente convincere ogni uomo che sia veramente tedesco del fatto che gli ebrei non daranno mai la priorit agli interessi della patria germanica (104). L'antisemitismo razziale era gi di rigore negli ambienti protestanti, e si insinuava anche in quelli cattolici (105). Gli unici gruppi di qualche rilievo identificabile che abiurassero ufficialmente le opinioni predominanti, e che ne fossero relativamente immuni, erano il vertice del movimento socialista, i suoi dirigenti e intellettuali, e l'lite liberale di sinistra, politicamente irrilevante. Questi piccoli gruppi erano mossi da una controideologia che negava le premesse dell'antisemitismo (106).

E' dunque incontestabile che i fondamenti dell'antisemitismo nazista, l'ambiente in cui si svilupp la concezione nazista degli ebrei, avessero radici profonde in Germania, facessero parte integrante del modello cognitivo culturale e della cultura politica. E' incontestabile che in Germania l'antisemitismo razziale fosse la forma dominante, ovunque un elemento della conversazione pubblica della societ. E' incontestabile che, in diverse occasioni, esso abbia disposto di un sostegno istituzionale e politico enormemente vasto e solido (come dimostrano le elezioni, le petizioni e le manifestazioni sociali) (107). E' incontestabile che l'antisemitismo razziale che vedeva negli ebrei una minaccia mortale per la Germania fosse gravido di furia omicida. L'unico dato non accertabile, ferma restando la massiccia presenza di questa opinione, il numero esatto dei tedeschi che la professarono nel 1900, nel 1920, nel 1933 o nel 1941. Da sempre, fin dal tardo Settecento, la "Judenfrage", se agli occhi degli antisemiti era anche un problema economico e sociale, fu soprattutto una questione politica, in quanto la scelta di una o dell'altra delle soluzioni al problema era demandata alle autorit politiche che alla fine davano loro sanzione giuridica; e come tale richiedeva una risposta politica. Che si trattasse della revoca formale dell'emancipazione, dell'espulsione o dello sterminio, l'agente primario del cambiamento doveva essere lo stato. Considerata la mobilitazione di massa che accompagn l'evoluzione del parlamentarismo nella Germania guglielmina, non sorprende quindi che l'antisemitismo divenisse un tema fondamentale nelle campagne elettorali e in Parlamento. L'ascesa (come vedremo tra poco) e persino il declino dei partiti politici antisemiti in Germania e in Austria confermano due concetti importanti. Nei primi decenni del ventesimo secolo l'antisemitismo era una componente diffusa della societ in quei paesi, ed era fondamentale nelle rispettive culture politiche; ed era anche una forza potente, decisiva per le fortune politiche di partiti e regimi. Negli anni Ottanta dell'Ottocento furono fondati, per contestare le elezioni parlamentari in Germania, alcuni partiti che non si limitarono a offrire spazio all'antisemitismo ma che si autodefinirono esplicitamente innanzi tutto antisemiti (108). Ancor pi significativa della loro comparsa, e dei successi elettorali che ottennero, fu la "dichiarazione formale" di antisemitismo del Partito conservatore - il principale sostenitore di Bismarck e del Reich guglielmino

in Parlamento - nel Programma di Tivoli, del dicembre 1892: Combattiamo l'influenza invadente e disgregante degli ebrei sulla vita del nostro popolo. Chiediamo un'autorit cristiana per il popolo cristiano, insegnanti cristiani per i figli dei cristiani (109). Il profondo antisemitismo dei conservatori era peraltro da tempo riconosciuto, come osservavano i Preussische Jahrbcher: I conservatori sono sempre stati fondamentalmente antisemiti ... Dichiarandosi tale, il partito non ha rinnovato nulla ... nei suoi contenuti, ma si dato alla demagogia (110). Il richiamo elettorale esercitato dai partiti antisemiti - cio quelli che proclamavano l'antisemitismo come propria ragion d'essere - fin per imporre, a sua volta, ai conservatori, pena l'ulteriore perdita di consensi, l'adozione formale di un'identit e di un programma antisemiti. Nelle elezioni del 1893, i partiti dichiaratamente antisemiti ottennero la "maggioranza" al Reichstag e i conservatori fecero la parte del leone. In Sassonia, dove nel 1880 la popolazione ebraica corrispondeva a un infinitesimale 0,25 per cento, conservatori e partiti antisemiti raccolsero insieme il 42,6 per cento dei voti, e gli antisemiti da soli misero insieme il 19,6 (111). Le fortune elettorali dei partiti antisemiti, ma non dei conservatori, declinarono nel primo decennio del Novecento. Questa instabilit deriv soprattutto da due fattori: la cooptazione del loro messaggio da parte dei conservatori e il temporaneo riorientamento dell'attenzione pubblica sulla politica estera. Ora che l'antisemitismo era parte determinante nella visione di tutti i non socialisti, i partiti che ne facevano una bandiera si ritrovavano un'arma spuntata e avendo ben poco altro da offrire sul piano programmatico, svanirono dall'orizzonte. Poich inoltre in quegli anni il potente richiamo delle avventure e dei conflitti in politica estera distoglieva l'attenzione dei tedeschi da ogni altro interesse o aspirazione, l'antisemitismo entr in crisi, riducendo le sue manifestazioni e la capacit di mobilitazione politica (112). L'affermazione dei partiti antisemiti, e la conversione di quelli istituzionali alla professione aperta o alla tacita accettazione dell'antisemitismo, dimostrano la forza della presenza di quest'ultimo nella societ tedesca. La successiva crisi dei partiti antisemiti non indicava dunque una crisi dell'antisemitismo poich essi avevano gi svolto la loro funzione storica trasferendolo dalla strada e dalle tavolate della birreria alla cabina elettorale e al Parlamento, o, per dirla con Max Weber, alla casa del potere.

Avevano posto la questione sul tappeto (113); e ora potevano quietamente dileguarsi, lasciando libero il terreno politico a successori pi potenti, pi adatti alla nuova esplosione di manifestazioni e azioni antisemite. Il declino di quei partiti coincise anche con una temporanea eclissi cognitiva e politica dell'antisemitismo a seguito delle spettacolari vicende della politica estera; ancora una volta, per, ci non significava che esso si fosse dissolto, ma soltanto che era meno dibattuto, e dunque si nascondeva in parte alla rilevazione. Sarebbe riesploso, con forza dirompente, nel giro di pochi anni. E' ovvio che questa breve storia dell'evoluzione del carattere dell'antisemitismo non pretende di essere definitiva, di argomentare appieno ognuna della sue affermazioni, n di introdurre tutte le precisazioni e le sfumature che entrerebbero in una rassegna pi estesa. Dato lo spazio limitato che possiamo dedicare a un tema cos vasto, non potrebbe essere altrimenti. Ci siamo proposti di ridisegnare l'interpretazione dello sviluppo dell'antisemitismo tedesco moderno mettendo insieme vicende ben note avvenute in diversi periodi, che in genere vengono osservate separatamente, e riconcettualizzandole alla luce della nuova struttura analitica e interpretativa enunciata nel capitolo precedente. Da questa impostazione deriva una nuova concezione dell'antisemitismo, in base alla quale esso fu assai pi costante e pervasivo nella societ tedesca moderna di quanto si sia spesso voluto sostenere. Abbiamo inoltre concentrato l'attenzione sull'esistenza, la diffusione e i contenuti dell'antisemitismo tedesco - perch questo era necessario e pertinente all'analisi che ci accingiamo ad affrontare -, e non sull'elaborazione di una sociologia storica completa che studi il fenomeno sullo sfondo di tutte le vicende politiche, sociali ed economiche della Germania. N si tratta, ovviamente, di sociologia storica comparata, perch la diffusione e la natura dell'antisemitismo in altri paesi non riguarda questo studio (114). Scopo della trattazione stato fissare e mettere a fuoco gli "aspetti fondamentali" dell'antisemitismo nella Germania dell'Ottocento (e non le eventuali eccezioni alla norma), giacch furono questi a indirizzare la storia della Germania nel Novecento: 1) Dall'inizio dell'Ottocento l'antisemitismo era presente ovunque in Germania: era il suo senso comune. 2) La preoccupazione per gli ebrei presentava le caratteristiche dell'ossessione.

3) Gli ebrei erano il simbolo e l'incarnazione di ogni e qualsiasi cosa che non andasse nella societ tedesca. 4) L'immagine dominante degli ebrei li rappresentava come maligni e potenti, tra le cause principali, se non la principale, di tutti i mali della Germania, e dunque come un pericolo per il benessere dei tedeschi: un'idea ben diversa da quella cristiana medioevale, per la quale gli ebrei erano s malvagi e causa di danni gravi, ma rimanevano pur sempre in una posizione periferica. Gli antisemiti tedeschi moderni potevano invece affermare che non ci sarebbe stata pace sulla terra fino a quando gli ebrei non fossero stati debellati. 5) Nella seconda met del diciannovesimo secolo il modello culturale si coagul intorno al concetto di razza. 6) Questa corrente dell'antisemitismo usava immagini particolarmente violente e propendeva per la violenza fisica. 7) La sua logica la spingeva a promuovere l'eliminazione degli ebrei con qualsiasi mezzo fosse necessario e possibile nei limiti dei valori etici predominanti. In termini pi generali, questa rassegna si propone di dimostrare due punti: che il modello cognitivo dell'antisemitismo nazista aveva preso forma ben prima dell'ascesa del nazismo al potere, e che per tutto l'Ottocento e il primo Novecento quel modello fu estremamente diffuso in tutte le classi e i settori della societ tedesca, perch profondamente radicato nella vita e nella conversazione culturale e politica, e integrato nella struttura morale della societ. (115). L'idea fondante del pensiero politico popolare, il "Volk", era concettualmente collegata - e in parte ne dipendeva - con la definizione degli ebrei come propria antitesi. Di quel concetto, la deprecazione degli ebrei, incarnazione di tutte le qualit e gli ideali, anche morali, negativi da cui il "Volk" era immune, era parte integrante. Tra i fondamenti concettuali e morali della vita politica tedesca c'era dunque l'idea della perniciosit degli ebrei, che offriva nuove ragioni di persistenza e forza politica al modello cognitivo culturale antisemita. Quanto si detto va a ulteriore conferma della tesi avanzata nel capitolo precedente, per cui l'antisemitismo, pur subendo importanti trasformazioni nel corso del secolo, e pur essendo sempre presente in Germania, si fece pi o meno "manifesto" a seconda delle vicende della societ tedesca, e in particolare delle sorti dell'economia (116).

E' questa storia - caratterizzata, nonostante i cicli di grande ascesa, di regressione e poi di ripresa del fenomeno, da una continuit delle concezioni e dei motivi di avversione - che impedisce di vedere nei mutamenti dell'espressione antisemita i sintomi di un'oscillazione dei tedeschi tra l'antisemitismo e il suo rifiuto. L'attestazione di un dibattito pubblico dai toni prepotentemente antisemiti, che presentava agli occhi del popolo tedesco soltanto immagini negative degli ebrei, dipingendoli come esseri velenosi, malvagi, eternamente estranei, come infiltrati sovversivi, sabotatori con mire e poteri demoniaci, dibattito al quale i tedeschi "partecipavano attivamente" -, non lascia poi dubbi sul fatto che nel corso del secolo furono ben pochi i motivi che potessero indurre le concezioni e le emozioni prevalenti nella societ a dissolversi. Poich la maggioranza dei tedeschi non aveva di fatto rapporti con gli ebrei, e comunque non poteva certo dire di conoscerli bene, gli unici ebrei che incontrava erano quelli dei discorsi, degli scritti, delle caricature e dei dibattiti antisemiti con i quali era stata allevata. Le fiabe, la letteratura, la stampa popolare, i pamphlet e le vignette politiche, portatori di immagini prepotentemente antisemite, formavano la mefitica "forma mentis" antiebraica centrale nella cultura tedesca (117). Nell'Ottocento i promotori dell'emancipazione ebraica non parlavano certo per la maggioranza dei tedeschi; vinsero la loro battaglia, ma di stretta misura (118). Nell'idea stessa dell'emancipazione costruita su un modello culturale degli ebrei derivato dall'ostilit cristiana - era insita la convinzione che essi sarebbero scomparsi. Poich non vollero farlo, le false promesse dell'emancipazione servirono solo a determinare la rinnovata virulenza dell'antisemitismo (alla vista degli ebrei che, per usare il linguaggio dell'epoca, invadevano le case dei tedeschi divenendo oggetto di feroce invidia per il loro fulmineo riscatto dalla condizione di paria), la sua metamorfosi cognitiva in concomitanza col mutare delle condizioni della societ tedesca e della posizione degli ebrei al suo interno e poich era inevitabile che con i provvedimenti per l'emancipazione non si dessero difficolt economiche e scompensi sociali una sua intensificazione e la connessa mobilitazione politica. Questo fu il lascito antisemita dell'Ottocento, che avrebbe informato a s la societ e la politica della Germania nel secolo successivo. Non stupisce dunque che nessuno sia ancora riuscito a "dimostrare" che in un qualsiasi momento dato la grande maggioranza dei tedeschi, o almeno una minoranza degna di rilievo (fatti salvi pochi gruppi d'lite), abbia mai

rinunciato al patrimonio culturale dell'animosit antiebraica, affrancandosi dal modello cognitivo dell'ebreo che dominava la Germania. Non basta infatti presupporlo o asserirlo, o ripescare gli scritti di pochi intellettuali liberali, come hanno fatto altri interpreti dell'antisemitismo tedesco. Come ho gi detto, in questa dimostrazione - che fornisce "prove" dell'atrofizzarsi del fenomeno quanto a dimensioni e intensit - si dovrebbe misurare l'effettiva entit dell'antisemitismo tedesco. Entit che non ancora stata valutata. Rimane il fatto che, con l'avvicinarsi degli anni Venti e della presa del potere da parte dei nazisti, l'orientamento del popolo tedesco nei riguardi degli ebrei era cos pericolosamente ostile come non era mai stato fin dall'alba della modernit.

NOTE AL CAPITOLO 2 N. 1. Confronta Robert Chazan, Medieval Anti-Semitism, in "History and Hate: the Dimensions of Anti-Semitism", a cura di David Berger, Philadelphia, Jewish Publications Society, 1986, pagine 53-54. N. 2. Bernard Glassman, "Anti-Semitic Stereotypes without Jews" cit., p. 152. L'autore si riferisce specificamente all'Inghilterra, dove l'antisemitismo era assai meno radicato che nelle aree di cultura tedesca dell'Europa centrale. N. 3. Una rassegna della complessa demonologia cristiana sugli ebrei e sugli infiniti mali loro attribuiti in Joshua Trachtenberg, "The Devil and the Jews" cit., in particolare pagine 153-54. N. 4. Confronta Robert Chazan, Medieval Anti-Semitism cit., pagine 61-62. N. 5. Citato da Jeremy Cohen, Robert Chazan's "Medieval AntiSemitism": a Note on the Impact of Theology, in "History and Hate" cit., p. 69. N. 6. Scrive Jeremy Cohen, ibid., pagine 68-69: Fin dagli esordi della chiesa cattolica, i chierici cristiani considerarono la polemica contro gli ebrei come loro dovere religioso.

Anche laddove essi non costituivano alcuna minaccia immediata per la chiesa, e persino dove erano del tutto assenti, la tradizione "Adversus Judaeos" continu a fiorire: la logica paleocristiana imponeva infatti l'affermazione del cristianesimo attraverso la negazione dell'ebraismo. N. 7. Joshua Trachtenberg, "The Devil and the Jews" cit., p. 79; Robert Chazan, Medieval Anti-Semitism cit., p. 50. N. 8. James Parkes, "Antisemitism", Chicago, Quadrangle Books, 1969, p. 60. Confronta anche Jeremy Cohen, "The Friars and the Tews: the Evolution of Medieval Anti-Judaism", Ithaca, Cornell University Press, 1982, p. 155, e Bernard Glassman, "Anti-Semitic Stereotypes without Jews" cit., p. 153. N. 9. Joshua Trachtenberg ("The Devil and the Jews" cit., in particolare pagine 32-43,124-39,191-92) segue attraverso i secoli le tracce delle pi radicate immagini cristiane dell'ebreo, ciascuna delle quali dipende da questo modello cognitivo. N. 10. Ibid. N. 11.Citato da ibid., p. 18. N. 12. Ibid., p. 186. Quanto all'antisemitismo di Martin Lutero, si legga "Degli ebrei e delle loro menzogne". N. 13. Jeremy Cohen, "The Friars and the Jews" cit., p. 245. Scrive Joshua Trachtenberg, "The Devil and the Jews" cit., pagine 42-43: N stupisce che gli ebrei venissero accusati dei pi infami delitti, poich era Satana il loro istigatore. Nel "Racconto della priora" Chaucer attribuiva la responsabilit ultima per l'uccisione di un bambino cristiano per mano di un ebreo al "nostro primo nemico, Satana il Serpente, che negli ebrei ha allevato il suo nido di vespe" ... Tutti sapevano che Satana e gli ebrei operavano di concerto. Per questo era tanto facile condannarli a priori per ogni concepibile malefatta, anche se non aveva il bench minimo senso. N. 14. Jeremy Cohen, "The Friars and the Jews" cit., p. 245.

Un repertorio europeo delle violenze antisemite e delle espulsioni in Paul E. Grosser e Edwin G. Halperin, "Anti-Semitism: the Causes and Effects of a Prejudice" cit. N. 15. Joshua Trachtenberg, "The Devil and the Jews" cit., p 12. N. 16. Malcolm Hay, "Europe and the Jews" cit., pagine 68-87. N. 17.Il mio esame dell'antisemitismo si concentra sulle "tendenze fondamentali", e non presenta tutte le riserve, le sfumature e le eccezioni che comparirebbero in una discussione pi estesa. Per motivi di spazio, inoltre, non affronta i dibattiti proposti dalla letteratura sul carattere dell'antisemitismo tedesco nell'Ottocento: anche negli studi citati compaiono numerose divergenze. La mia interpretazione, informata com' dalle mie posizioni teoriche e metodologiche, sottolinea la continuit di fondo dell'antisemitismo e ne asserisce l'onnipresenza, con enfasi maggiore di quella data in qualsiasi altro studio di cui io sia a conoscenza; fanno forse eccezione Klemens Felden, "Die bernahme des antisemitischen Stereotyps als soziale Norm durch die brgerliche Gesellschaft Deutschlands (1875-1900)", tesi di dottorato, Heidelberg, RuprechtKarl-Universitt, 1963, dalla quale ho attinto a piene mani; Rainer Erb e Werner Bergmann, "Die Nachtseite der Judenemanzipation: der Widerstand gegen die Integration der Juden in Deutschland, 1780-1860", Berlin, Metropol, 1989, in particolare p. 11; e Paul Lawrence Rose, "Revolutionary Antisemitism in Germany from Kant to Wagner", Princeton, Princeton University Press, 1990, il quale, forse perch la sua analisi si appunta su un gruppo ristretto di intellettuali e scrittori, ha una percezione diversa della natura della continuit, percezione che, come tutto il resto del suo studio, non si fonda su un'analisi delle idee di altri gruppi e strati della societ tedesca. N. 18. Klemens Felden, "Die bernahme des antisemitischen Stereotyps" cit., pagine 18-19. N. 19. Confronta Eleonore Sterling, "Judenhass: die Anfnge des politischen Antisemitismus in Deutschland (1815-1850)", Frankfurt am Main, Europische Verlagsanstalt, 1969, pagine 11,126 e, sull'uso del termine da parte dei liberali, pagine 86-87; Rainer Erb e Werner Bergmann, "Die Nachtseite der Judenemanzipation" cit., pagine 48-52. Per la storia del concetto di razza, Werner Conze, Rasse, in "Geschichtliche Grundbegriffe.

Historisches Lexikon zur politischsozialen Sprache in Deutschland", a cura di Otto Brunner, Werner Conze e Reinhart Koselleck, Stuttgart, KlettCotta, 1984, 5, pagine 135-78. N. 20. Confronta Jacob Katz, "From Prejudice to Destruction: AntiSemitism, 1700-1933", Cambridge Mass., Harvard University Press, 1980, pagine 148-49, e David Sorkin, "The Transformation of German Jewry, 17801840", New York, Oxford University Press, 1987, pagine 22-23. N. 21. Jacob Katz, "From Prejudice to Destruction" cit., pagine 149151. N. 22. Citato da ibid., p. 150. N. 23. Conclude Jacob Katz, ibid., p. 87: L'ebreo come alieno un tema ricorrente nelle polemiche antisemite. N. 24. Klemens Felden, "Die bernahme des antisemitischen Stereotips" cit., pagine 19-20. Paul Lawrence Rose ("Revolutionary Antisemitism in Germany from Kant to Wagner" cit., p. 57) sostiene qualcosa di analogo, pur ritenendo che i tedeschi considerassero gli ebrei insieme simbolo di tutto ci che ostacola la redenzione ed effettivi ostacoli concreti alla redenzione stessa. N. 25. Klemens Felden, "Die bernahme des antisemitischen Stereotyps" cit.; e Eleonore Sterling, "Judenhass" cit.; anche Nicoline Hortzitz ("FrhAntisemitismus in Deutschland (1789-1871/72): strukturelle Untersuchungen zu Wortschatz, Text und Argumentation", Tbingen, Max Niemeyer Verlag, 1988) riprende pi volte questo tema. N. 26. Inizi il Wrttenberg, il Baden segu nel 1809, Francoforte nel 1811, la Prussia nel 1812 e il Mecklemburgo, sia pure in forma limitata, nel 1813: confronta David Sorkin, "The Transformation of German Jewry" cit., p. 29. Per una panoramica generale sull'emancipazione - e su quanti degli iniziali provvedimenti in tal senso furono pi tardi annullati -, confronta Werner E. Mosse, From "Schutzjuden" to "Deutschen Staatsbrger Jdischen Glaubens": the Long and Bumpy Road of Jewish Emancipation in Germany, in "Paths of Emancipation: Jews, States, and Citizenship", a cura di Pierre Birnbaum e Ira Katznelson, Princeton, Princeton University Press, 1995, pagine 59-93, nonch Reinhard Rurup, "The Tortuous and Thorny Path to Legal Eguality: Jews Laws and Emancipatory Legislation in

Germany from the Late Eighteenth Century", in Leo Baeck Institute Yearbook, 31,1986, pagine 3-33. N. 27. Sulla Baviera, confronta James F. Harris, "The People Speak! AntiSemitism and Emancipation in Nineteenth-Century Bavaria", Ann Arbor, University of Michigan Press, 1994; sul Baden, Dagmar Herzog, "Intimacy and Exclusion: Religious Politics in Pre-Revolutionary Baden", Princeton, Princeton University Press, 1996. Un rendiconto dei tumulti antiebraici (i cosiddetti Hep Hep) di Wrzburg, Francoforte e Amburgo , tra gli altri, in Jacob Katz, "From Prejudice to Destruction" cit., pagine 92-104. N. 28. Confronta Shmuel Almog, "Nationalism and Antisemitism in Modern Europe" cit., pagine 13-16, e Peter G.J. Pulzer, "The Rise of Political AntiSemitism in Germany and Austria", New York, John Wiley & Sons, 1964, pagine 226-33. N. 29. Confronta Eleonore Sterling, "Judenhass" cit., pagine 105-29; Jacob Katz, "From Prejudice to Destruction" cit., pagine 51-104; Nicoline Hortzitz, "Frh-Antisemitismus in Deutschland" cit. N. 30. Christian Wilhelm Dohm, "ber die brgerliche Verbesserung der Juden", Berlin, Friedrich Nicolai 1781. N. 31. Citato da David Sorkin, "The Transformation of German Jewry" cit., p. 25. N. 32. Citato da ibid. In uno spirito simile, un elogio dell'Editto di tolleranza austriaco di Giuseppe Secondo, che pur conservando una rigorosa distinzione concettuale e giuridica tra ebrei e non ebrei di fatto aboliva una serie di pesanti restrizioni, cos inneggiava all'imperatore: Avete fatto dell'ebreo un essere umano.... Confronta Paul Lawrence Rose, "Revolutionary Antisemitism in Germany from Kant to Wagner" cit., pagine 77-79. N. 33. Citato da David Sorkin, "The Transformation of German Jewry" cit., pagine 30-31. N. 34.

Di fatto, in tutti gli stati tedeschi l'emancipazione procedette per gradi: alcuni concessero agli ebrei maggiori diritti, mentre altri avrebbero revocato quanto era stato inizialmente concesso dai francesi. Anche dopo l'emancipazione giuridica, politica e sociale, gli ebrei continuavano quindi a rimanere distinti, come diversi e inferiori, rispetto agli altri tedeschi. Confronta ibid., p. 36. N. 35. Ibid., p. 23. Confronta anche Rainer Erb e Werner Bergmann, "Die Nachtseite der Juden emanzipation" cit., pagine 27-28, e i tre capitoli seguenti, per una discussione sul lato oscuro dell'emancipazione e sulle argomentazioni su cui si fondava. Per una disamina delle ragioni di stato - derivate dalle concezioni illuministiche dello stato, della modernit e della cittadinanza - che indussero i diversi stati tedeschi (anche quando i loro stessi ministri condividevano il modello culturale cognitivo dominante dell'ebreo come essere fondamentalmente e sgradevolmente alieno), confronta Werner E. Mosse, From "Schutzjuden" to "Deutschen Staatsbrger Jdischen Glaubens" cit., pagine 68-71, 84-87. N. 36. Confronta Uriel Tal, "Christians and Jews in Germany: Religion, Politics, and Ideology in the Second Reich, 1870-1914", Ithaca, Cornell University Press, 1975, pagine 295-98. N. 37. Scrive Paul Lawrence Rose, "Revolutionary Antisemitism in Germany from Kant to Wagner" cit., p. 77: Il rischio particolare insito in molte opere "filoebraiche" tedesche sta nel fatto che spesso le virt degli ebrei sono soltanto l'aspetto manifesto di un pi generale sistema argomentativo di cui i loro vizi nascosti sono parte integrante. Nella sua lodevole esposizione degli argomenti in favore della concessione dei diritti agli ebrei, Dohm utilizzava comunque termini che accettavano implicitamente la percezione della loro "estraneit" cos radicata nella cultura tedesca. N. 38. Mi riferisco qui a un paragrafo in Eleonore Sterling, "Judenhass" cit., p. 85. Nei primi anni Quaranta un giornale tedesco cos riassumeva la promessa dell'emancipazione, la fusione liberale dell'ebreo moderno: grazie all'emancipazione l'ebraismo perir ... l'essenza stessa dell'ebraismo ne sar

sbaragliata, rimuovendo il terreno in cui si radica la loro religione, che dunque avvizzir spontaneamente: le sinagoghe diverranno case di preghiera cristiane. N. 39. Ibid., pagine 85-86. Confronta anche Alfred D. Low, "Jews in the Eyes of Germans: from the Enlightenment to Imperial Germany", Philadelphia, Institute for the Study of Human Issues, 1979, pagine 246-47. N. 40. Klemens Felden, "Die bernahme des antisemitischen Stereotyps" cit., pagine 109-12; Jacob Katz, "From Prejudice to Destruction" cit., pagine 257-59, 267-68. N. 41. Uriel Tal, "Christians and Jews in Germany" cit., p. 296. N. 42. Klemens Felden, "Die bernahme des antisemitischen Stereotyps" cit., p. 39, Eleonore Sterling, "Judenhass" cit., pagine 6887,117,126. N. 43. Il materiale degli ultimi due paragrafi si basa su Eleonore Sterling, "Judenhass" cit., pagine 143-44, 148-56, 161. N. 44. Confronta Werner E. Mosse, "From "Schutzjuden" to "Deutschen Staatsbrger Jdischen Glaubens" cit., pagine 68-71. N. 45. Sul modo di vedere gli ebrei dei cristiani, confronta Eleanore Sterling, "Judenhass" cit., pagine 48-66. N. 46. Sugli artigiani, confronta Shulamit Volkov, "The Rise of Popular Antimodernism in Germany: the Urban Master Artisans, 17831869", Princeton, Princeton University Press, 1978, in particolare pagine 215-29. N. 47. Eleonore Sterling, "Judenhass" cit., p. 146. N. 48. Alfred D. Low conclude il suo studio sull'antisemitismo tedesco ("Jews in the Eyes of Germans" cit., pagine 413-14), che si concentra sulle opinioni dell'lite politica, degli intellettuali e degli scrittori, con una devastante ammissione della sua onnipresenza, osservando che pochi tedeschi evitarono una prolungata fase antisemita, e molti ... non ne uscirono mai ...

Furono molti i tedeschi che rimasero prigionieri per tutta la vita dei loro pregiudizi; altri riuscirono in una certa misura a superarli; pochi se ne liberarono del tutto. N. 49. Jacob Katz, "From Prejudice to Destruction" cit., p. 176. N. 50. Klemens Felden, "Die bernahme des antisemitischen Stereotyps" cit., pagine 34-35; Jacob Katz, "From Prejudice to Destruction" cit., pagine 2-3. N. 51. Un'analisi della campagna in James F Harris, "The People Speak!" cit., pagine 123-49, in particolare 123-26. Eleonore Sterling ("Judenhass" cit., pagine 160-62) rileva che l'attendibilit di queste campagne come indicazione delle opinioni dei bavaresi riguardo la concessione dei diritti agli ebrei fu contestata all'epoca dai sostenitori dell'emancipazione, convinti che le petizioni a essa favorevoli fossero state confiscate dalle autorit locali. L'indagine del governo bavarese concluse che non tutte le regioni, n tutte le persone, erano contrarie, e che anzi molti erano indifferenti alla questione, quando le loro passioni non venivano risvegliate dai preti o da altri agitatori antiebraici. Questa conclusione, pur mostrando che l'antisemitismo della popolazione non era uniformemente profondo, comunque indicativa della diffusione del sentimento in Baviera, proprio perch agli agitatori fu cos facile provocarne l'espressione. N. 52. James F. Harris, "The People Speak!" cit., p. 166. N. 53. Ibid., p. 169. N. 54. Ibid., pagine 128, 132-37, 142. N. 55. Ibid., p. 142. N. 56. Ibid., p. 137. N. 57. Jacob Katz, "From Prejudice to Destruction" cit., p. 268. Oltre ai movimenti genericamente antiebraici, i tedeschi lanciarono numerose campagne per bandire diverse pratiche specifiche, in particolare la "shehitah", la macellazione rituale necessaria per garantire che la carne sia "kasher".

Le campagne contro pratiche considerate fondamentali per l'esistenza dagli ebrei ortodossi equivalevano ad aggressioni simboliche contro l'ebraismo in s, in quanto dichiaravano che taluni suoi aspetti fondanti violavano la morale provocando inutili sofferenze agli animali. Confronta Isaac Lewin, Michael Munk, Jeremy Berman, "Religious Freedom: the Right to Practice Shchitah", New York, Research Institute for Post-War Problems of Religious Jewry, 1946. N. 58. Nel 1871, 512 mila ebrei vivevano nei territori dell'Impero tedesco, pari all'1,25 per cento della popolazione. Intorno al 1910 il loro numero era salito a 615 mila unit, che per, data la crescita della popolazione tedesca, equivalevano a meno dell'1 per cento. Confronta Peter G.J. Pulzer, "The Rise of Political Anti-Semitism" cit., p. 9. N. 59. Citato da Nicoline Hortzitz, "Frh-Antisemitismus in Deutschland! cit., p. 61. N. 60. Eleonore Sterling, "Judenhass" cit., p. 51. Che il problema assumesse dimensioni cosmiche era dovuto al fatto che i tedeschi vedevano negli ebrei una minaccia all'ordine morale della societ, ordine che, nella mentalit cristiana, era imprescindibile da quello naturale: per questo anche la minaccia era globale. N. 61. Klemens Felden, "Die bernahme des antisemitischen Stereotyps" cit., p. 20. N. 62. Peter G.J. Pulzer, "The Rise of Political Anti-Semitism" cit., p. 71. L'idea, di natura culturale, che gli ebrei usino sangue cristiano per le loro pratiche rituali ha antichi precedenti, che risalgono fino al Medioevo. Confronta R. Po-chia Hsia, "The Myth of Ritual Murder: Jews and Magic in Reformation Germany", New Haven, Yale University Press, 1988. N. 63. Confronta, ad esempio, Eleonore Sterling, "Judenhass" cit., pagine 14445, e Klemens Felden, "Die bernahme des antisemitischen Stereotyps" cit., p. 44. N. 64. Eleonore Sterling, "Judenhass" cit., p. 146. N. 65.

Klemens Felden, "Die bernahme des antisemitischen Stereotyps" cit., p. 38. N. 66. Confronta ibid., pagine 35-36, 47-71. N. 67. Citato in Jacob Katz, "From Prejudice to Destruction" cit., p. 150. N. 68. Per una analisi dei cambiamenti, Klemens Felden, "Die bernahme des antisemitischen Stereotyps" cit.; Nicoline Hortzitz, "FrhAntisemitismus in Deutschland" cit.; Jacob Katz, "From Prejudice to Destruction" cit. N. 69. Tutto questo si basa, tra le altre fonti, sulla lettura dei documenti raccolti da Nicoline Hortzitz, "Frh-Antisemitismus in Deutschland" cit. Una manifestazione particolarmente istruttiva del sentimento antiemancipazionista quella di un prete del Baden che, negli anni Trenta, dichiar che avrebbe preferito il colera nella sua comunit all'emancipazione degli ebrei (Rainer Erb e Werner Bergmann, "Die Nachtseite der Juden emanzipation" cit., p. 193). N. 70. La concezione tedesca degli ebrei come nazione, con un proprio specifico - e nocivo - carattere nazionale, sta al centro dell'argomentazione di Paul Lawrence Rose circa la continuit e la natura dell'antisemitismo tedesco moderno ("Revolutionary Antisemitism in Germany from Kant to Wagner" cit., pagine 3-22). Rose, tuttavia, ritiene che questa concezione dominante abbia assunto un ruolo centrale prima dell'emancipazione, e che nel corso del diciannovesimo secolo essa non abbia subito alterazioni di fondo, fatta salva la sovrapposizione dell'idea pseudoscientifica della razza. N. 71. Klemens Felden, "Die bernahme des antisemitischen Stereotyps" cit., p. 41. N. 72. Ibid., p. 71 N. 73. Jacob Katz, "From Prejudice to Destruction" cit., p. 8. N. 74. David Sorkin, "The Transformation of German Jewry" cit., p. 28; Paul Lawrence Rose, "Revolutionary Antisemitism in Germany from Kant to Wagner" cit., pagine 12-14. N. 75. Eleonore Sterling, "Judenhass" cit., p. 126.

Confronta anche Rainer Erb e Werner Bergmann, "Die Nachtseite der Juden emanzipation" cit., pagine 18-52, nel quale gli autori scrivono che, in quel periodo, nella stampa popolare era presente un "razzismo prerazzista" (p. 50). N. 76. Citato in Eleonore Sterling, "Judenhass" cit., p. 120. N. 77. Su questo punto confronta Klemens Felden, "Die bernahme des antisemitischen Stereotyps" cit., p. 34. N. 78. Scrive Steven Aschheim in "Brothers and Strangers: the East European Jew in German and German Jewish Consciousness, 1800-1923", Madison, University of Wisconsin Press, 1982, p. 78: In Germania l'immagine storica dell'ebreo non era mai morta, ed era pronta per essere sfruttata nei pi opportuni momenti di crisi strutturale. Alla paura e alla diffidenza tradizionali del Talmud e dell'ebreo del ghetto si sovrapponeva l'idea dell'ebreo moderno, privo di carattere e mosso da intenzioni distruttive. N. 79. Confronta Peter G.J. Pulzer, "The Rise ot Political AntiSemitism" cit., p. 50. N. 80. Ibid., p. 70. Pulzer coglie sinteticamente, ma con scarsa precisione, il rapporto tra quello che definisce l'antisemitismo preliberale, rivolto al passato e il sentimento post-liberale, di massa: E' probabile che l'immagine vaga e irrazionale che il pubblico aveva degli ebrei come nemici non si modificasse troppo quando gli oratori cessarono di definirli "assassini di Cristo" e cominciarono a parlare invece di leggi del sangue. La differenza stava negli effetti: l'antisemitismo poteva cos diventare pi elementare e intransigente. La conclusione logica fu il passaggio dal pogrom alla camera a gas. N. 81. Una rassegna delle accuse in Klemens Felden, "Die bernahme des antisemitischen Stereotyps" cit., pagine 47-70. N. 82. Ibid., p. 51. L'insistenza sulla base fisiologica, razziale dell'ebraicit degli ebrei divenne ancor pi pronunciata nell'ultima parte del secolo.

L'iconografia presentava gli ebrei regolarmente in forme sinistre e demoniache. Confronta, ad esempio, Eduard Fuchs, Die luden in der Karikatur, Munchen, Albert Langen, 1921. N. 83. Klemens Felden, "Die bernahme des antisemitischen Stereotyps" cit., p. 66. N. 84. Citato da ibid., p. 51. N. 85. Confronta Eleonore Sterling, "Judenhass" cit., pagine 11314,128-29. N. 86. Uriel Tal, "Christians and Jews in Germany" cit., p. 304, scrive che l'antisemitismo razziale e il cristianesimo tradizionale, pur partendo da poli opposti e a prima vista inconciliabili, erano mossi da un impulso comune diretto alla conversione o allo sterminio degli ebrei. Per un esame del rapporto tra le varie proposte per liberare la Germania dagli ebrei, confronta Paul Lawrence Rose, "Revolutionary Antisemitism in Germany from Kant to Wagner" cit., pagine 35-39. N. 87. Citato in Eleonore Sterling, "Judenhass" cit., p. 121. N. 88. Klemens Felden, "Die bernahme des antisemitischen Stereotyps" cit., p. 68. N. 89. Citato in Peter G.J. Pulzer, "The Rise of Political AntiSemitism" cit., p. 50. N. 90. Klemens Felden ("Die bernahme des antisemitischen Stereotyps" cit., p. 69) parafrasa qui una quantit di autori diversi. N. 91. Confronta ibid., la tabella all'ultima pagina (non numerata) del volume. L'analisi di questi dati mia. N. 92. Non v' dubbio che la concezione eliminazionista fosse capace di prendere in considerazione diverse alternative. Come molte altre, le convinzioni eliminazioniste sono multipotenziali, e la scelta dell'azione da intraprendere dipende da una serie di altri fattori, cognitivi e no.

Qui intendo affermare soltanto che di per s quelle convinzioni precedenti lo stato nazista, e da esso ovviamente indipendenti - erano decisamente orientate a una soluzione genocida. Casi significativi sono riportati ibid., pagine 150-51, Nicoline Hortzitz, "Frh-Antisemitismus in Deutschland" cit., p. 283; Eleonore Sterling, "Judenhass" cit., pagine 113-14. N. 93. Rainer Erb e Werner Bergmann, "Die Nachtseite der Juden emanzipation" cit., pagine 26-27. N. 94. "Deutsche Parteiprogramme", a cura di Wilhelm Mommsen, Mnchen, Isar Verlag, 1960, vol. 1, p. 84. N. 95. Werner E. Mosse From "Schutzjuden" to "Deutschen Staatsbrger Jdischen Glaubens" cit., p. 90) scrive che negli anni Ottanta e Novanta dell'Ottocento se lo stato non si fosse mantenuto neutrale, e non avesse tutelato l'ordine pubblico, ove necessario anche con la forza, indubbio che la Germania sarebbe stata spazzata da un'ondata di pogrom dai risultati incalcolabili. Un vivace ritratto di un uomo che anelava ad aggredire fisicamente gli ebrei, ma era trattenuto dai limiti imposti dallo stato, in Erich Goldhagen, "The Mad Count: a Forgotten Portent of the Holocaust", in Midstream, 22, febbraio 1976, n. 2. Scrive Goldhagen (pagine 61-62): Le parole, per, non bastavano a soddisfare il conte: aveva sete di azione. Ma il piacere di colpire fisicamente gli ebrei gli era negato dal governo imperiale che, pur concedendo che si abbaiasse contro di loro, non tollerava i pestaggi. Il conte Pueckler scelse quindi di esprimere le sue passioni con la finzione. Alla testa di un reparto di contadini a cavallo, da lui selezionati appositamente per queste occasioni, al suono di una fanfara, comandava cariche di cavalleria contro ebrei immaginari, abbattendoli e calpestandoli sotto gli zoccoli: uno spettacolo che era l'equivalente psicologico dell'omicidio. E inoltre, un'efficace prefigurazione della Soluzione finale. N. 96. Werner Jochmann, Structure and Functions of German AntiSemitism, 1878-1914, in "Hostages of Modernization: Studies on Modern Antisemitism, 1870-1933/39", a cura di Herbert A. Strauss, Berlin, Walter de Gruyter, 1993, pagine 52-53. N. 97.

Confronta Hans Rosenberg, Antisemitism and the "Great Depression", 1873-1896, in "Hostages of Modernization" cit., p. 24. N. 98. Werner Jochmann, Structure and Functions of German AntiSemitism, 1878-1914 cit., pagine 54-55, 58. N. 99. Citato da Hans-Ulrich Wehler, Anti-Semitism and Minority Policy, in "Hostages of Modernization" cit., p. 30. N. 100. Confronta Peter G.J. Pulzer, "Jews and the German State: the Political History of a Minority", 1848-1933, Oxford, Basil Blackwell, 1992, pagine 44-66. N. 101. Werner Jochmann, Structure and Functions of German AntiSemitism, 1878-1914 cit., p. 48. N. 102. Confronta George L. Mosse, "The Crisis of German Ideology: Intellectual Origins of the Third Reich", pagine 88-107 (trad. it. "Le origini culturali del Terzo Reich", Milano, Il Saggiatore, 1984). N. 103. Werner Jochmann, Structure and Functions of German AntiSemitism, 1878-1914 cit., p. 58. N. 104 Hans-Ulrich Wehler, Anti-Semitism and Minority Policy cit., p. 30. N. 105. Klemens.Felden, "Die bernahme des antisemitischen Stereotyps" cit., p. 85. N. 106. Peter G.J. Pulzer, "Jews and the Gennan State" cit., pagine 148-67. N. 107. Dal 1890 sia il Partito nazional-liberale che il Partito del centro cominciarono a inserire appelli antisemiti nelle rispettive campagne politiche. Confronta Klemens Felden, "Die bernahme des antisemitischen Stereotyps" cit., p. 46. N. 108. Il Programma di Erfurt del Partito popolare antisemita di Bckel si apriva con un'esplicita dichiarazione della sua identit e della sua aspirazione fondamentale: Il Partito antisemita ... vuole la revoca, con mezzi legali,

dell'emancipazione degli ebrei, la loro subordinazione a una Legge sugli stranieri, e la creazione di una pi sana legislazione sociale. Sui diciotto punti del programma, confronta Peter G.J. Pulzer, "The Rise of Political Anti-Semitism" cit., pagine 339-40. N. 109. Citato da ibid., p. 119. N. 110. Citato da ibid., p. 120. N. 111. Ibid., pagine 121-123. Naturalmente il Partito conservatore sosteneva anche molte altre cose, ma in Germania l'antisemitismo era simbolicamente e concettualmente intrecciato con molteplici aspetti della vita politica, compreso il nazionalismo. N. 112. Per una discussione di questi temi, confronta ibid., pagine 194-97. Peter G.J. Pulzer rileva che persino i partiti liberali, che pure non erano apertamente razzisti, erano giunti tacitamente ad accettare l'antisemitismo, se non altro perch si rendevano conto che molti dei loro sostenitori erano antisemiti. N. 113. Scrive Peter G.J. Pulzer (ibid., p. 290): Nella misura in cui erano riusciti a impregnare vasti settori della popolazione con le idee antisemite, quei partiti avevano conseguito il loro obiettivo ma di fatto si trovavano ora disoccupati. N. 114. Di questo argomento si discuter nel capitolo 16. Confronta Jacob Katz, "From Prejudice to Destruction" cit., per una trattazione comparata dell'evoluzione dell'antisemitismo in numerose regioni europee. N. 115. Rainer Erb e Werner Bergmann ("Die Nachtseite der Juden emanzipation" cit., p. 196) concordano sul fatto che nel periodo da loro considerato (1780-1860) la maggioranza dei tedeschi intratteneva, sia pure in varia misura, la comune convinzione della perniciosit degli ebrei, e che gli appelli allo sterminio nascevano da questo modello culturale condiviso. N. 116. Hans Rosenberg, Antisemitism and the "Great Depression", 1873-1896, cit., pagine 19-20. N. 117.

Confronta Alfred D. Low, "Jews in the Eyes of the Germans" cit., per abbondanti testimonianze scritte di antisemitismo; quanto all'iconografia dell'ebreo, confronta Eduard Fuchs, "Die Juden in der Karikatur" cit. N. 118. Scrive Werner E. Mosse (From "Schutzjuden" to "Deutschen Staatsbrger Jdischen Glaubens" cit., p. 72): Di fatto, nei decenni che seguirono l'emancipazione, divenne assiomatico - e non senza ragione - che il grosso della popolazione, soprattutto nelle zone rurali in cui risiedeva la maggioranza degli ebrei, li detestasse e fosse contrario a ogni ulteriore concessione.

Capitolo 3 L'ANTISEMITISMO ELIMINAZIONISTA: IL SENSO COMUNE DELLA SOCIETA' TEDESCA NEL PERIODO NAZISTA

Alla vigilia della prima guerra mondiale si registrava un ormai trentennale dibattito - cio discussioni inquadrabili in uno schema fisso, con punti di riferimento, immagini ed elaborazioni chiare ampiamente accettate - sugli ebrei. L'affermarsi di questo dibattito, la formazione di un insieme di presupposti e convinzioni comuni, e la cristallizzazione degli ebrei come simbolo di corruzione, di malvagit, di volont malefica resero quasi impossibile pensarli se non all'interno di tale quadro di riferimento. Nelle pubblicazioni antisemite di tardo Ottocento, quando compariva qualche nuova accusa o argomentazione in proposito, essa veniva subito incorporata nelle nuove edizioni di altre opere antisemite uscite prima di quel fresco contributo al "corpus" del pensiero antiebraico (1). Per certi versi il discorso si fondava sull'idea diffusissima, praticamente assiomatica, che esistesse una "Judenfrage", una questione ebraica (2). Il termine presupponeva e conteneva in s una serie di concetti interrelati. I tedeschi ebrei erano essenzialmente diversi da quelli non ebrei. La presenza ebraica nel paese costituiva un grave problema per la Germania; e la responsabilit del problema era degli ebrei, non degli altri tedeschi. In conseguenza a questi fatti, era necessario e urgente un radicale cambiamento nella natura degli ebrei o altrimenti della loro posizione in Germania.

Chiunque accettasse l'esistenza di una "Judenfrage", anche chi non era appassionatamente avverso agli ebrei, sottoscriveva queste idee, elementi costitutivi del modello cognitivo. Ogniqualvolta venisse pronunciata, ascoltata o letta l'espressione "Judenfrage" (o qualsiasi altra parola o frase a essa associata), chi prendeva parte alla conversazione attivava il modello cognitivo necessario per comprenderla (3). Un cambiamento di qualche tipo era ritenuto necessario, ma i tedeschi consideravano immutabile la natura degli ebrei a causa della loro razza: era opinione predominante che essi appartenessero a una razza inesorabilmente estranea a quella germanica. L'evidenza empirica, inoltre, mostrava ai tedeschi che gli ebrei si erano gi assimilati, avendo assunto i modi, l'abbigliamento e il linguaggio della Germania moderna, e dunque gi avevano goduto di ogni possibilit di diventare buoni tedeschi, ma non ci erano riusciti (4). Questa convinzione assiomatica dell'esistenza della "Judenfrage" era un presagio di un'altra, altrettanto assiomatica, circa la necessit di eliminare gli ebrei dalla Germania quale unica soluzione al problema. Persino coloro che, fedeli ai principi dell'Illuminismo, avevano opposto resistenza alla demonizzazione degli ebrei ora pagavano lo scotto di quei decenni di antisemitismo verbale, letterario, istituzionale e politico. La "forma mentis" eliminazionista era talmente diffusa che l'inveterato antisemita e fondatore della Lega pangermanica Friedrich Lange poteva giustamente proclamare l'universale credenza nella "Judenfrage", osservando che l'unico elemento di dubbio e disaccordo riguardava ormai i mezzi della soluzione, non l'esistenza del problema: Asserisco che l'atteggiamento dei tedeschi colti verso l'ebraismo totalmente mutato rispetto a pochi anni fa ... La "Judenfrage" oggi non riguarda pi i "se", ma i "come" (5). L'assioma della perniciosit degli ebrei e della necessit di eliminarli dalla Germania trov nuova e intensa espressione in un contesto imprevisto, in uno di quei tipici momenti in cui si forgia e si irrobustisce la solidariet nazionale, e i conflitti sociali vengono soffocati e rinviati: l'emergenza di una guerra totale. Durante la prima guerra mondiale i tedeschi accusarono gli ebrei di scansare l'arruolamento nell'esercito, di non difendere la patria, rimanendo invece al sicuro nelle loro case e approfittando dello stato di guerra per sfruttarli e ridurli in miseria con la borsa nera. Il risentimento antiebraico era talmente forte che nel 1916 le autorit prussiane provvidero al censimento degli ebrei nelle forze armate per

valutarne il contributo allo sforzo bellico, un'iniziativa umiliante che attesta senza possibilit di equivoci la precariet della loro posizione sociale e la costante importanza data alla "Judenfrage" (6). E, proprio perch da tanto tempo gli ebrei venivano considerati pericolosi estranei, la solidariet sociale intorno alla quale i tedeschi strinsero i ranghi non port a un calo dell'animosit, ma a una recrudescenza di espressioni e aggressioni antisemite. Quanto pi incerti erano i tempi - cos voleva la logica antisemita - tanto pi pericolosi e dannosi erano gli ebrei. Franz Oppenheimer cos riassumeva l'atteggiamento dei tedeschi verso gli ebrei, che gli ebrei stessi non potevano modificare in senso favorevole neppure dedicandosi con il massimo fervore alla causa patriottica: Non illudetevi: voi siete e rimarrete i paria della Germania (7). C'era sempre stata una componente autistica nella concezione antisemita degli ebrei; quell'autismo era destinato ad aggravarsi. La Repubblica di Weimar si costitu nel 1919, dopo la sconfitta militare, l'abdicazione del sovrano tedesco e lo sgretolamento del secondo impero germanico. Con l'eccezione di qualche personaggio di spicco, il contributo ebraico alla fondazione e al governo di Weimar fu marginale; ci nonostante, come tutte le cose che si odiavano in Germania, la Repubblica fu identificata dogmaticamente dai suoi molti nemici con gli ebrei, un metodo efficacissimo per delegittimare la democrazia. Le privazioni economiche dei primi anni di Weimar, squassati dalla penuria di cibo e dall'inflazione, furono spaventose; e i tedeschi nel modo pi scontato, abitudinario e diffuso - scaricarono la colpa delle loro sofferenze individuali e collettive sugli ebrei. Lo attesta un gran numero di rapporti provenienti da ogni parte della Germania, in cui i funzionari pubblici parlano di un odio per gli ebrei talmente virulento da essere esplosivo. Il capo del governo della Svevia, per esempio, cos riferiva nel marzo 1920: Non posso esimermi dal rimarcare con insistenza l'agitazione e la discordia straordinarie e continue di cui preda la popolazione nelle citt e nelle campagne a seguito del costante aumento dei prezzi ... Ovunque si sente dire che "il governo ci sta consegnando agli ebrei". Da Monaco un rapporto sul clima politico nell'ottobre 1919 avvertiva che l'umore della gente rendeva del tutto ipotizzabili i pogrom contro gli ebrei. Due anni dopo, nell'agosto 1921, un altro rapporto generale di polizia sosteneva che l'atteggiamento dei tedeschi era, se possibile, ancor pi

minaccioso: I rapporti concordano sulla diffusione sistematica "in tutte le parti del paese" della voglia di pogrom antiebraici (corsivo mio) (8). Da una rassegna della vita politica e sociale di Weimar risulta evidente che tutte o quasi le pi importanti istituzioni e aggregazioni, compresi le scuole e le universit, le forze armate, la burocrazia e la magistratura, le associazioni professionali, le chiese e i partiti politici, erano permeate dall'antisemitismo. Molte arrivavano a dichiararlo apertamente e con orgoglio. Basta un'occhiata alle istituzioni forse pi rivelatrici, quelle dell'istruzione, per capire che gli adolescenti e i giovani della Germania di Weimar costituivano una vasta base di quadri per l'imminente governo nazista. Nelle scuole pullulavano le parole e i simboli antisemiti, sia tra gli insegnanti sia tra gli allievi, tanto che nel 1919-22 i ministeri della Pubblica istruzione di numerosi stati tedeschi proibirono la divulgazione della letteratura e dei simboli antisemiti come la svastica. Ma molti insegnanti continuarono a predicare elementi della litania, compreso quello fondamentale dell'esistenza in Germania della "Judenfrage", con tutti gli avvertimenti, impliciti ed espliciti, di pericolo che gli ebrei rappresentavano per il benessere dei tedeschi (9). Le universit erano ancor pi travolte dall'ondata antisemita che agitava l'intera societ. Per tutta la durata della Repubblica di Weimar le organizzazioni e le corporazioni studentesche nell'intero paese diedero prova di virulenti sentimenti antiebraici. In un ateneo dopo l'altro, le associazioni degli iscritti vennero occupate, gi nei primi anni della Repubblica, dalle forze nazionaliste, "vlkisch" e antisemite, spesso con maggioranze elettorali comprese fra i due terzi e i tre quarti. Molte di esse, con ben poca opposizione interna, adottarono poi gli "Arierparagraphen", clausole di regolamento che rivendicavano l'esclusione - o quanto meno rigorose restrizioni degli ebrei sia dalle organizzazioni studentesche sia dai corsi universitari. Nel 1920, per esempio, due terzi dell'assemblea dell'Universit tecnica di Hannover approvarono la richiesta di escludere gli studenti di discendenza ebraica. L'ostilit verso gli ebrei da parte di studenti e professori, e i numerosi atti di discriminazione che l'accompagnavano, furono descritti con allarme nel 1920 dal ministro prussiano per le Scienze, le arti e l'istruzione popolare

come una massiccia lievitazione delle tendenze antisemite nelle nostre universit. Qualche mese prima Max Weber osservava in una lettera che l'atmosfera nell'accademia si fatta estremamente reazionaria, e per di pi radicalmente antisemita (10). Tutto ci sarebbe ulteriormente peggiorato dieci anni dopo, quando molte di queste organizzazioni avrebbero accettato con grande entusiasmo di lasciarsi guidare dagli studenti nazisti, e la Lega degli studenti nazionalsocialisti avrebbe conquistato la maggioranza in Germania e in Austria. I professori, a loro volta nient'affatto insensibili ai modelli culturali prevalenti sugli ebrei, di rado criticavano l'antisemitismo razzista che costituiva la norma pi diffusa nelle universit. Persino il grande storico Friedrich Meinecke, di idee politiche liberali e democratiche, era un antisemita (11). Nella Germania di Weimar l'antisemitismo era endemico, cos diffuso che non esisteva quasi gruppo politico che non escludesse gli ebrei; questi, bench ferocemente attaccati, non trovavano pressoch nessun difensore nella societ tedesca. I discorsi comuni su di loro erano in genere del tutto negativi. Albert Einstein, che qualche anno prima, precedentemente al suo arrivo in Germania, non era mai stato molto consapevole del suo essere ebreo, n sensibile all'antisemitismo, era talmente convinto della disperata situazione da prevedere gi nel 1921 che sarebbe stato costretto a lasciare la Germania entro dieci anni (12). Un rapporto generale di polizia dell'ottobre dell'anno dopo prevedeva un brillante futuro per il Partito nazista, perch la sua attenzione al pericolo rappresentato dagli ebrei era condivisa largamente, e non soltanto da qualche gruppo ristretto: E' innegabile che l'idea antisemita sia penetrata nei pi ampi livelli della classe media, e a fondo anche nella classe operaia (13). Dopo una rassegna del decennio 1914-24, Werner Jochmann conclude che gi nei primi anni della Repubblica l'inondazione antisemita aveva travolto tutte le dighe della legalit. Ancor pi grave era la devastazione nella sfera dello spirito. Persino i partiti democratici e i governi della Repubblica si convinsero di poter allentare la pressione cui gli ebrei erano sottoposti, consigliando loro di astenersi dalla vita politica e sociale, e deportando o internando quelli provenienti dall'Europa orientale (14).

La situazione all'avvento di Weimar and aggravandosi con il procedere della storia della Repubblica: i tedeschi non si scatenarono soltanto a parole, ma anche con violenti tumulti, a partire gi dal 1918 a Monaco e a Berlino, dove la folla aggred gli ebrei durante la rivoluzione. Un'altra ondata di tumulti, esplosa nel 1923-24, fece qualche morto tra gli ebrei (15). Considerate l'ubiquit e l'intensit del sentimento antisemita in Germania, che in seguito il regime nazista avrebbe mobilitato e incanalato verso l'aggressione violenta e omicida, indubbio che le restrizioni imposte dal governo di Weimar impedirono ai continui attacchi verbali di trasformarsi in violenza fisica pi spesso di quanto non sia avvenuto. Di fatto, in una societ che definiva in modo cos costante e clamoroso gli ebrei e i tedeschi come entit contrapposte, che della condizione dei primi in Germania faceva un problema politico fondamentale (e non soltanto un tema riguardante la societ civile), era praticamente impossibile non schierarsi, non avere un'opinione su come risolvere la "Judenfrage" e, schierandosi, non adottare il linguaggio manicheo prevalente. Siccome i dirigenti dei partiti sapevano che i loro elettori, anche nella classe operaia, erano antisemiti, alla fine dell'esperienza di Weimar nessuno pot rinfacciare a Hitler di esserlo, anche se molto altro gli veniva rinfacciato (16). Il rapporto di forze configuratosi al tramonto di Weimar stato cos riassunto: Per l'antisemitismo centinaia di migliaia di persone erano disposte a salire sulle barricate, a scatenare risse nei luoghi pubblici, a dimostrare per le strade; contro l'antisemitismo nessuno, o quasi, muoveva un dito. Gli slogan che pure venivano lanciati contro Hitler parlavano di altre cose, non della repulsione per il suo antisemitismo (17). In Germania gruppi pi propensi a nutrire opinioni favorevoli, o quanto meno diverse, sugli ebrei furono, o si sentirono, costretti a tenere per s le proprie idee di fronte all'antisemitismo che permeava la societ, le istituzioni e la politica. Gli ebrei rimanevano soli e abbandonati, mentre la Germania si accingeva, nel 1933, a cancellare ogni equivoco su quanto era vero gi da tempo, e cio, secondo le parole del grande banchiere ebreo Max Warburg, sulla sua squalifica dai ranghi dei popoli civili ["Kulturvlker"] per prendere posto in quelli dei paesi soggetti a pogrom ["Pogromlnder"] (18). Fra i partiti politici che conquistarono il potere nella storia d'Europa, quello nazista fu certamente il pi radicale; ed significativo che, a dispetto del suo radicalismo scopertamente omicida, esso lo abbia conquistato attraverso le elezioni.

Il Partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi - questa la denominazione ufficiale - fu fondato come Partito dei lavoratori tedeschi a Monaco il 5 gennaio 1919, durante il torbido periodo di disfatta, rivoluzione e ricostruzione successivo alla prima guerra mondiale. Il ventinovenne Adolf Hitler, che viveva a Monaco dopo aver partecipato al conflitto con il grado di caporale, ne divenne il settimo iscritto nel settembre dello stesso anno. Gli fu affidato ben presto il settore propaganda, e nel 1921 egli assunse la direzione politica, oltre che intellettuale e ideologica, del partito; con le sue grandi doti di oratore, Hitler era il suo pi efficace portavoce pubblico. Come Hitler, fin dall'inizio il partito fu votato alla distruzione della democrazia repubblicana, alla revisione del Trattato di Versailles, al revanscismo, all'antibolscevismo, al militarismo e, in modo particolare e indefesso, all'antisemitismo. Gli ebrei, come recitavano ossessivamente Hitler e i nazisti, erano la causa primaria di tutte le altre sofferenze della Germania, compresi la sconfitta in guerra, l'abbattimento delle sue forze con l'imposizione della democrazia, la minaccia bolscevica, le fratture e il disorientamento prodotti dalla modernit, e quant'altro. I venticinque punti del programma, promulgato nel febbraio 1920 (e mai modificato), comprendevano numerosi attacchi agli ebrei e appelli a escluderli dalla societ e dalle istituzioni tedesche, e a bloccarne l'influenza. Il punto quattro recitava: Solo chi appartiene alla nazione pu essere cittadino dello stato. Solo chi ha sangue tedesco, qualsiasi sia la sua fede, pu appartenere alla nazione. Di conseguenza nessun ebreo pu appartenere alla nazione. Il programma, stilato da Hitler e Anton Drexler, fondatore del partito, concepiva gli ebrei in termini esplicitamente razzisti: il partito si votava a combattere lo spirito giudaico-materialista e, di fatto, a propugnare un progetto eliminazionista (19). Esso diveniva cos il partito di Hitler, ossessivamente antisemita e apocalittico nella retorica che rovesciava sui nemici. L'importanza dell'antisemitismo nella sua visione del mondo, nel programma e nella retorica rispecchiava - sia pure in forma pi elaborata e scopertamente violenta - i sentimenti della cultura tedesca: la sua affermazione, alla fine del decennio, sarebbe stata fulminea. Nei primi anni, i nazisti rimasero una piccola organizzazione popolare; nel periodo formativo, la loro comparsa pi rilevante sulla scena politica nazionale fu il "Putsch" della birreria, l'8-9 novembre 1923, quando Hitler e

due-tremila accoliti tentarono di rovesciare la Repubblica di Weimar, ma furono immediatamente bloccati. Non fosse stato per il successivo trionfo del nazismo, questa rivoluzione donchisciottesca, quasi comica, verrebbe a malapena ricordata. Il processo giudiziario che segu il "Putsch" conquist a Hitler una nuova visibilit a livello nazionale (un tribunale molto accondiscendente gli consent di usarlo come megafono), e i nove mesi che egli trascorse in carcere gli fornirono il tempo per scrivere la sue memorie, in cui formulava in modo pi sistematico le idee sulla politica, sulla Germania e sugli ebrei che tanto spesso aveva proclamato nei suoi instancabili e popolarissimi comizi. "Mein Kampf" fu davvero una traccia per le sue successive imprese alla guida della Germania. Con un linguaggio spaventoso, omicida, Hitler si presentava come un capo visionario, offrendo ai tedeschi il futuro di una societ razzialmente armoniosa, monda da ogni conflitto sociale e, soprattutto, dagli ebrei; e proponeva a gran voce l'antisemitismo razzista come suo principio portante. In un passo indicativo, cos spiegava il motivo per cui, nella sua interpretazione della storia e del mondo contemporaneo, la salvezza della nazione era possibile soltanto adottando provvedimenti micidiali: "Non principi n favorite di principi brigano e mercanteggiano per i confini degli stati, ma gli inesorabili ebrei di tutto il mondo lottano per il loro predominio sui popoli". Nessun popolo pu liberarsi dalla stretta alla gola se non mettendo mano alla spada. Soltanto le forze riunite e concentrate di una vigorosa, ribelle passione nazionale possono sfidare l'internazionale schiavit dei popoli. Tale processo , e rimane, un processo sanguinario (20). Riguardo alla parte avuta dagli ebrei tedeschi nella prima guerra mondiale, egli ragionava in termini generalmente omicidi: Se all'inizio delle ostilit o durante la guerra dodicimila o quindicimila di questi ebrei corruttori del popolo fossero stati sottoposti a gas velenosi, allora milioni di veri tedeschi sarebbero stati risparmiati (21). Negli scritti, nei discorsi e nella semplice conversazione, Hitler era chiaro e diretto: i nemici interni ed esterni della Germania dovevano essere distrutti o messi in condizione di non nuocere. A nessuno che l'avesse letto o ascoltato poteva essere sfuggito un messaggio tanto cristallino. Pochi anni dopo la scarcerazione di Hitler e la rinascita del Partito nazista, quest'ultimo sarebbe diventato la forza politica dominante a Weimar.

Esso ottenne i primi, piccoli successi con le elezioni nazionali e regionali a cominciare dal 1925; poi, con quelle nazionali del 14 settembre 1930, si conquist un consenso di tutto rispetto: 6,4 milioni di voti, pari al 18,3 per cento, 107 seggi al Reichstag su 577. Da un momento all'altro i nazisti erano diventati il secondo partito politico del paese. La Repubblica di Weimar, che molti tedeschi non avevano mai considerato legittima, era ormai ridotta al lumicino, a causa di una crisi economica che nel 1932 vide un buon 30,8 per cento della forza lavoro disoccupata. In quei momenti difficili la figura carismatica di Hitler e il messaggio antisemita, antinternazionale, antibolscevico e antiWeimar dei nazisti guadagnavano consensi sempre maggiori. Alle elezioni del 31 luglio 1932 quasi "14 milioni" di tedeschi, il 37,4 per cento dei votanti, si schierarono con Hitler, incoronando i nazisti quale primo partito politico della Germania, con 230 seggi al Reichstag. All'inizio del 1933 il presidente della Repubblica di Weimar, Paul von Hindenburg, dopo un'altra elezione che a dire il vero aveva visto una flessione del 4 per cento dei voti nazisti, offr a Hitler di diventare cancelliere e di formare un governo. I nazisti furono portati al potere dal convergere di diversi fattori, tra i quali la crisi economica, l'aspirazione della Germania a vedere la fine dei disordini e della violenza di strada organizzata che avevano tormentato gli ultimi anni di Weimar, l'astio diffuso per la Repubblica democratica pi in generale, l'apparente minaccia della presa di potere da parte delle sinistre, l'ideologia visionaria del nazismo e la personalit stessa di Hitler, il cui odio feroce sbandierato apertamente esercitava un'attrazione forte, e persino irresistibile, per numerosi tedeschi. Il catastrofico disordine politico ed economico fu certo la causa immediata della sua vittoria finale; molti votarono per il nazismo perch era l'unica forza politica nel paese che sembrasse loro capace di ripristinare l'ordine e la pace sociale, debellando i nemici interni e restituendo alla Germania la sua posizione di grande potenza internazionale (22). Nell'assumere il cancellierato, Hitler convoc le ultime elezioni nazionali per il 5 marzo 1933. Non furono certo elezioni libere, n oneste (il Partito comunista era fuori legge, e le intimidazioni contro l'opposizione furono continue), eppure n queste tattiche antidemocratiche, n la violenza gi scatenata contro gli ebrei e la sinistra ebbero alcun effetto deterrente sugli elettori, tanto che i nazisti raccolsero 17 milioni di voti, pari al 43,9 per cento (23).

All'epoca Hitler aveva gi abolito di fatto le libert civili, la Repubblica di Weimar e qualsiasi meccanismo politico che avrebbe potuto consentire la sua deposizione, escludendo il ricorso alla violenza. I nazisti erano al potere: era giunto il momento di cominciare a realizzare il programma rivoluzionario di Hitler, che i tedeschi, con qualche parziale riserva, avrebbero fatto proprio con entusiasmo. Nel giorno fatale in cui Hitler assunse il cancellierato, il 30 gennaio 1933, i nazisti scoprirono che quanto meno per un aspetto centrale - il pi importante, forse, dal loro punto di vista - non sarebbe stato necessario riformare i tedeschi: al di l della loro opinione su Hitler e sul suo movimento, al di l dei motivi che potevano indurli a detestare questo o quell'aspetto del nazismo, in larga maggioranza essi sottoscrivevano il suo modello degli ebrei, e in questo senso (i nazisti ne erano ben consapevoli) erano gi nazificati. Non sorprende - a dir poco - che sotto l'ala del nazismo la grande maggioranza dei tedeschi continuasse a essere antisemita, che l'antisemitismo fosse sempre vigoroso e razzista, e che la soluzione socialmente condivisa alla "Judenfrage" fosse sempre di tipo eliminazionista. Non vi fu nulla, nella Germania nazista, che potesse scalzare o erodere il modello cognitivo culturale degli ebrei che per decenni era stato alla base degli atteggiamenti e delle emozioni dei tedeschi nei confronti della spregevole minoranza che stava in mezzo a loro. Tutto ci che veniva detto e fatto in pubblico confermava la validit del modello (24). Nella Germania nazista la presunta malignit degli ebrei si respirava nell'aria, se ne parlava incessantemente, era considerata all'origine di ogni male che avesse colpito la nazione e di ogni pericolo imminente. L'ebreo, "der Jude", era una minaccia insieme metafisica ed esistenziale, reale come poteva essere quella di un potente esercito nemico schierato lungo i confini della Germania e pronto all'attacco. Melita Maschmann, in una confessione autobiografica rivolta a uno scomparso amico d'infanzia ebreo, riassume perfettamente il carattere, l'ubiquit e la logica operativa dell'antisemitismo tedesco nel periodo nazista. Militante fedele della sezione femminile della Giovent hitleriana, la Maschmann era tutt'altro che una zotica, figlia di un laureato e di una donna cresciuta in un'agiata famiglia di commercianti.

Parlando del modo in cui vedeva gli ebrei al tempo della sua giovinezza, comincia con il dire che la concezione comune non aveva alcuna base empirica. "'Quegli' ebrei erano e rimanevano qualcosa di misteriosamente e minacciosamente anonimo. Non erano la somma di tutti gli individui ebrei ... Erano una potenza maligna, con tutti gli attributi di uno spauracchio, che non si poteva vedere, ma che stava l, come una forza attiva del male. Da bambini ci avevano raccontato le favole per farci credere ai maghi e alle streghe; ora eravamo troppo grandi per prendere sul serio la stregoneria, eppure continuavamo a credere agli ebrei cattivi. Non si erano mai manifestati concretamente, ma l'esperienza quotidiana ci insegnava che gli adulti ci credevano. Dopo tutto, non potevamo verificare nemmeno se la Terra era davvero rotonda e non piatta, o meglio, era una proposizione che non consideravamo necessario verificare. Gli adulti sapevano, e noi assorbivamo questa conoscenza con piena fiducia. Sapevano anche che gli ebrei erano malvagi, e che la loro malvagit era rivolta contro il benessere, l'unit e il prestigio della nazione tedesca, che avevamo imparato ad amare fin da piccoli. L'antisemitismo dei miei genitori era una parte della loro visione del mondo che davamo per scontata ... Per quanto potevamo ricordare, gli adulti avevano vissuto questa contraddizione con assoluta disinvoltura. Si era amici dei singoli ebrei che ti piacevano, cos come, da protestanti, si era amici dei singoli cattolici. Ma, mentre non succedeva che qualcuno fosse ideologicamente ostile verso i cattolici, questo capitava, e sistematicamente, con 'gli' ebrei. Con tutto ci, nessuno pareva preoccuparsi di non avere le idee affatto chiare su chi fossero, 'gli' ebrei. Erano ebrei i battezzati e gli ortodossi, i trafficanti di roba usata che parlavano yiddish e i professori di letteratura tedesca, gli agenti comunisti e gli ufficiali della prima guerra mondiale decorati con le massime onorificenze, i sionisti entusiasti e i nazionalisti tedeschi sciovinisti ... Dall'esempio dei miei genitori avevo imparato che si potevano avere opinioni antisemite senza che ci inficiasse i rapporti personali con i singoli ebrei. Potrebbe sembrare che in questo atteggiamento rimanesse qualche vestigia di tolleranza, ma proprio a tale confusione io imputo il fatto di

essere poi riuscita a dedicarmi anima e corpo a un sistema politico disumano, senza che mi sorgesse il bench minimo dubbio sulla mia correttezza personale. Quando predicavo che tutte le miserie della nazione erano dovute agli ebrei, o che lo spirito degli ebrei era sedizioso, e che il loro era un sangue corruttore, non mi sentivo portata a pensare a te, o al vecchio signor Lewy, o a Rosel Cohen: pensavo solo all'Uomo nero, l'Ebreo. E quando sentivo dire che gli ebrei venivano cacciati dal lavoro e dalle loro case, e rinchiusi nei ghetti, nella mia mente scattava automaticamente il meccanismo che mi faceva evitare il pensiero che lo stesso destino poteva travolgere anche te o il vecchio Lewy. Il perseguitato, quello che veniva reso inoffensivo, era soltanto l'Ebreo" (25). Meglio di qualsiasi analisi scientifica che io conosca, il resoconto della Maschmann esprime tutti gli aspetti fondamentali dell'antisemitismo tedesco: l'immagine allucinatoria degli ebrei; lo spettro del male che pareva facessero aleggiare sulla Germania; l'odio virulento nei loro confronti; il carattere astratto delle convinzioni che determinavano il modo in cui l'antisemita trattava gli ebrei "reali"; e la logica eliminazionista che induceva i tedeschi ad approvarne la persecuzione, la ghettizzazione e lo sterminio (l'evidente significato dell'eufemismo rendere inoffensivi). Non si pu dubitare che molti, in Germania, assorbissero l'antisemitismo con il latte materno, come parte della coscienza collettiva intesa in termini durkheimiani; nell'acuta ricostruzione di questa donna, si trattava di una parte della loro visione del mondo che davamo per scontata. Le conseguenze di tali opinioni, di tale mappa ideologica si possono verificare nel successo sfrenato della persecuzione antisemita eliminazionista - nient'affatto dissimulata - che prese avvio con l'ascesa al potere dei nazisti. Nel periodo nazista, l'antisemitismo tedesco segu un percorso prevedibile. Ormai sfruttati ai fini di uno stato occupato dagli antisemiti pi violenti e irriducibili che mai avessero assunto il controllo di una nazione moderna (26), gli odi e le invidie, un tempo tenuti entro i limiti imposti da una societ civile in paesi che non avevano voluto servirsi di quei sentimenti brucianti per una persecuzione sistematica, divennero i principi informatori della sua politica, con una serie di conseguenze tutt'altro che inaspettate: 1) l'imposizione di pesanti ed estese restrizioni legali all'esistenza degli ebrei in Germania; 2) aggressioni fisiche e verbali, sia spontanee da parte di tedeschi comuni sia orchestrate dalle strutture di governo e di partito; 3)

l'intensificazione dell'antisemitismo nella societ; 4) la trasformazione degli ebrei in esseri socialmente morti (27); 5) il consenso generale sulla necessit di annullare l'influenza ebraica in Germania. Tutto questo non riguardava soltanto i capi del nazismo, bens la grande maggioranza del popolo tedesco, la quale, informata di quanto il governo e i compatrioti stavano facendo agli ebrei, concordava su quelle misure e, quando se ne presentava l'opportunit, partecipava attivamente alla loro applicazione. La serie di decisioni e di provvedimenti legali da parte tedesca in chiave antiebraica fu avviata quasi subito dalle aggressioni fisiche, quasi sempre brevi e ancora sporadiche, contro gli ebrei, le loro propriet, i cimiteri e i luoghi di culto, e dalla costituzione di campi di concentramento irregolari per loro e per la gente di sinistra (28). Lasciando da parte le gravissime aggressioni verbali del regime e dell'opinione pubblica, il primo attacco organizzato su vasta scala, con forti valenze simboliche, alla comunit ebraica tedesca venne due solo mesi dopo l'ascesa al potere di Hitler: il boicottaggio nazionale dei negozi ebraici, il primo aprile 1933, fu un segnale che annunciava a tutti i tedeschi che i nazisti facevano sul serio (29). Gli ebrei sarebbero stati trattati cos come imponeva la concezione tanto spesso enunciata della loro natura di estranei al corpo sociale tedesco, nemici del suo benessere. La retorica doveva trasformarsi in realt. Come reagirono i tedeschi al boicottaggio? Un ebreo racconta che qualcuno os esprimere la sua solidariet agli ebrei assediati, ma queste proteste non furono molto diffuse. L'atteggiamento generale della gente si riassume in un episodio avvenuto in una farmacia. Entr una signora, accompagnata da due nazisti in uniforme. Portava dei prodotti che aveva acquistato qualche giorno prima, e chiese di essere rimborsata. "Non sapevo che foste ebrei" dichiar "non voglio comprare niente dagli ebrei" (30). E cos il "Volk" tedesco, organizzato dallo stato tedesco, boicottava collettivamente un intero gruppo di cittadini tedeschi perch quel gruppo, in combutta con i suoi confratelli di razza all'estero, operava per il male della Germania (31). I nazisti annunciavano nel modo pi chiaro e insistito - il boicottaggio un esempio fra tanti che in Germania il tempo degli ebrei stava per finire. A questo boicottaggio, che ebbe effetti devastanti sulla posizione degli ebrei, ormai proclamati pubblicamente e ufficialmente, e anche trattati,

come popolo paria, segu una serie di provvedimenti legali che diede l'avvio alla loro esclusione sistematica dalla vita economica e culturale, dall'esistenza pubblica nella societ tedesca (32). Pochi giorni dopo i nazisti promulgarono la Legge per il ripristino dell'ordine professionale nel pubblico impiego, che port al licenziamento immediato di migliaia di ebrei imponendo il criterio della razza come requisito per aspirare a un lavoro statale (33). Ancora una volta, la valenza simbolica risultava chiarissima: questa legge, una delle prime in assoluto emesse dai nazisti, era rivolta contro gli ebrei, mirava alla purificazione dello stato, a eliminare la loro presenza nell'istituzione forse pi identificata con il benessere comune e collettivo del popolo, quella che appunto serviva il popolo; e gli ebrei, per definizione, non potevano servire (perch servire significa anche aiutare) il popolo tedesco. Ci furono cittadini del Reich che criticarono la violenza aperta contro gli ebrei e il boicottaggio (che si riteneva avesse danneggiato l'immagine della Germania all'estero, ed era stato accompagnato da grande brutalit), ma in genere le critiche non tradivano n dissenso rispetto alla concezione alla base dei provvedimenti, n alcuna solidariet con le loro vittime (34). La legge che escludeva gli ebrei dall'impiego pubblico, siccome non comportava manifestazioni esplicite di brutalit, fu accolta con grande favore popolare (35), soprattutto tra i colleghi degli esclusi. L'aver lavorato per anni al loro fianco non aveva dunque generato fra i tedeschi, come avviene invece di consueto, sentimenti di cameratismo e compassione (36). Thomas Mann, gi da tempo aperto oppositore dei nazisti, era comunque in qualche sintonia con loro quando si trattava di eliminare l'influenza degli ebrei dalla Germania: Non una gran disgrazia, dopo tutto, che ... si sia posto fine alla presenza ebraica nella magistratura (37). Il modello culturale cognitivo degli ebrei e la mentalit eliminazionista che esso aveva generato erano dominanti in Germania. Nei due anni che seguirono, i tedeschi, al governo e fuori dal governo, riuscirono a rendere praticamente insopportabile la vita agli ebrei, subissati da una miriade di leggi, decreti e violenze contro le loro fonti di sostentamento, la loro posizione sociale e le loro stesse persone (38). L'aggressione, voluta da un'intera societ, procedeva per ancora in modo scoordinato: per certi versi era imposta dall'alto, per altri veniva dal basso, in genere, ma non sempre, da parte di nazisti dichiarati. I suoi promotori principali, ma non unici, erano gli uomini delle S.A., le truppe d'assalto in camicia bruna del regime, che nei mesi centrali del 1933

scatenarono attacchi concretamente devastanti e simbolici contro gli ebrei in tutta la Germania. Le aggressioni coprivano l'intera gamma di quello che sarebbe diventato il repertorio tedesco. Le violenze verbali erano talmente diffuse da diventare normali, da non meritare nemmeno attenzione: la condizione di paria degli ebrei veniva rinfacciata loro con segnali pubblici espliciti e univoci. In tutta la Franconia, per esempio, all'ingresso di molti paesi e nei ristoranti e negli alberghi erano affissi cartelli che proclamavano Qui non vogliamo ebrei o Ingresso vietato agli ebrei (39). Alla periferia di Monaco, gi nel maggio 1933, i cartelli avvertivano che gli ebrei non erano desiderati (40). Negli anni Trenta, molte citt in tutta la Germania proibirono ufficialmente l'ingresso agli ebrei, e quei segnali divennero un elemento quasi immancabile del paesaggio tedesco. Cos li vide, nel 1938, uno storico: "Anche se non ci sono ordinanze ufficiali [che bandiscono gli ebrei da una localit], i manifesti affissi lungo le strade principali che portano in citt sortiscono lo stesso effetto. Gli ebrei entrano a loro rischio e pericolo, E' severamente vietato agli ebrei l'ingresso in citt, Borseggiatori ed ebrei, in guardia!, sono tra i pi comuni. I poeti vengono invitati, per questi annunci, a trovare rime con porco, aglio, puzza; agli artisti si offre la possibilit di illustrare sul manifesto la sorte che attende ogni ebreo abbastanza incauto da non curarsi dell'avvertimento. Questi manifesti sono ovunque in Assia, nella Prussia orientale, in Pomerania e in Meclemburgo, e altrove si registrano nella met circa delle citt (non se ne trovano, invece, in localit turistiche come Baden-Baden, Kissingen o Nauheim). Le stazioni, gli edifici pubblici e tutte le grandi strade ripetono lo stesso ritornello. Nei pressi di Ludwigshafen, una curva pericolosa viene cos segnalata agli automobilisti: Guidare con prudenza, curva stretta. Ebrei, 150 chilometri all'ora!" (41). Tale pubblica diffamazione (42) e umiliazione esprimevano l'intento eliminazionista dei tedeschi. Alle aggressioni verbali se ne accompagnavano di fisiche dallo spaventoso contenuto simbolico, iniziate nei primi mesi dell'epoca nazista e

continuate finch essa non si concluse: tra queste, il taglio della barba e dei capelli. Un profugo ebreo ricorda di aver visto, in un ospedale di Berlino all'inizio del 1933, un vecchio con strane ferite in faccia: Era un povero rabbino della Galizia; l'avevano fermato per strada due uomini in uniforme. Uno lo prese per le spalle, l'altro gli afferr la lunga barba, tir fuori di tasca un coltello e gliela tagli. Per raderlo a fondo, gli aveva strappato diversi brani di pelle. Al medico che gli domandava se l'aggressore avesse detto qualcosa, il vecchio rispose: Non lo so. Mi gridava in faccia: "Morte agli ebrei!" (43). Gli attacchi ai negozi, alle sinagoghe e ai cimiteri erano opera sia di individui sia di gruppi organizzati. A Monaco nel 1934, per esempio, un uomo che non aveva alcun rapporto con i nazisti provoc una folla di tedeschi a dimostrare contro i negozianti ebrei, e la manifestazione fin nella violenza. I pestaggi, le mutilazioni e gli omicidi di ebrei divennero anch'essi fatti fin troppo normali in quegli anni (44). Un episodio emblematico ci viene riferito dalla figlia di un mercante di bestiame di una cittadina nella Prussia orientale, che nel pieno di una notte del marzo 1933 si trov di fronte a cinque uomini delle S.A. armati fino ai denti: Quello delle S.A. prima picchi mio padre, poi mia madre, poi me con un manganello di gomma. Mia madre ebbe un taglio profondo sulla testa, e anch'io avevo una lacerazione in fronte ... Sul portone si accalcavano tutti i concorrenti di mio padre, che si comportavano in modo talmente indecente che una ragazzina come me non pu riferirlo... (45). Le aggressioni non erano limitate certo alle citt: nei primi anni del regime gli ebrei che vivevano in campagna o nei paesi furono tanto perseguitati dai vicini, e subirono tali violenze, che prima o poi finirono tutti per fuggire verso l'anonimato delle citt pi grandi o all'estero (46). Tali aggressioni dei vicini, di gente che accanto agli ebrei aveva vissuto, lavorato, partorito, seppellito i suoi morti, erano feroci. Quanto avvenne in due cittadine dell'Assia fu tutt'altro che straordinario (47). In una di queste, Gedern, vivevano al momento dell'ascesa al potere nazista quaranta famiglie di ebrei.

Gi meno di due mesi dopo, la notte del 12 marzo 1933, alcuni tedeschi irruppero nelle loro case e li picchiarono; uno fu tanto malmenato che poi dovette rimanere per un anno in ospedale. Quando, in occasione delle uniche elezioni nazionali del periodo nazista, furono scoperte su un ponte delle scritte che invitavano a votare per il capo (dichiarato fuori legge) del Partito comunista, i tedeschi locali trascinarono un gruppo di ebrei, a passo di marcia, fino al ponte per farglielo ripulire, poi li bastonarono. In quello stesso periodo un ragazzino ebreo fu aggredito per strada e perse un occhio. Qualche tempo dopo due uomini furono costretti a sfilare di fronte alla cittadinanza, tormentati con le fruste fornite da un ricco agricoltore. I tedeschi del luogo manifestarono il proprio desiderio di liberarsi degli ebrei con un'altra azione simbolica inequivocabile, molto diffusa nella Germania dell'epoca: l'abbattimento delle lapidi nel cimitero. Tutti gli ebrei di questa cittadina fuggirono da tale intollerabile situazione ben prima della Notte dei cristalli; l'ultimo se ne and il 19 aprile 1937. E mentre quel povero derelitto si accingeva a partire, nessuno dei vecchi vicini volle dargli qualcosa da mangiare (48). Anche nella seconda cittadina, Bindsachsen, l'offensiva contro l'esistenza degli ebrei non si fece aspettare. La sera del 27 marzo 1933 una consistente parte degli abitanti si radun per guardare un gruppo di S.A. che massacravano di botte la vittima prescelta, un ebreo che tutti conoscevano; la gente, entusiasmata dalla sua sofferenza, incitava a gran voce le S.A. Poi si scaten l'assalto generale (49). Una cronaca delle aggressioni di tutti i tipi subite dagli ebrei in questo periodo (non coordinate dallo stato o dal partito) richiederebbe molti volumi; gli esempi che qui riportiamo non erano per nulla straordinari. Dal momento in cui il nazismo fu nella posizione di poter scatenare la sua passione antisemita prima trattenuta, questi fatti divennero parte normale, quotidiana, della vita in Germania (50). Le violenze erano in larga misura provocate, per iniziativa spontanea, dalla truppa delle S.A., ansiosa di sfogare impunemente il proprio odio: lo stato aveva dichiarato caccia aperta agli ebrei, esseri che bisognava eliminare dalla societ tedesca con qualsiasi mezzo, compresa la forza. Le S.A. sono sempre state rappresentate come un'organizzazione di canaglie in uniforme, gente brutale ai margini della societ, piena di risentimento e animata da impulsi violenti (51).

La descrizione in buona parte veritiera, ma va sottolineato che le S.A. annoveravano circa "due milioni" di uomini, corrispondenti pi o meno al dieci per cento dei civili maschi nelle fasce d'et interessate all'arruolamento (52). Bastano queste cifre per indicare che le S.A. raccoglievano una percentuale elevata del popolo tedesco. Inoltre, come sempre avviene per questo genere di organizzazioni marziali estremiste, i brutali antisemiti delle S.A. potevano contare sulle simpatie di molti tedeschi esterni, disposti anche a partecipare alle aggressioni agli ebrei. L'esempio del disumano pestaggio dell'ebreo di Bindsachsen illustra questo fenomeno comune: le S.A. prendevano l'iniziativa, e venivano incitate e aiutate dalla popolazione locale, che con ogni probabilit non faceva parte dell'organizzazione. Nei primi anni di governo nazista le offensive furono cos diffuse, e sostenute da una base cos ampia, che sarebbe un gravissimo errore attribuirle soltanto ai picchiatori delle S.A., come se i tedeschi pi in generale non avessero alcuna influenza, n alcuna parte, nelle violenze. Un rapporto della Gestapo da Osnabrck, dell'agosto 1935, smentisce qualsiasi ipotesi sulla sua innocenza. Scrive Robert Gellately: "Nella citt e nel circondario avvenivano massicce dimostrazioni contro i negozi ebraici, marchiati e assediati da folle; chi li frequentava veniva fotografato, e la sua immagine era esposta al pubblico. Nelle strade un'agitazione continua, parate e via dicendo ... L'apogeo della lotta contro gli ebrei - per citare il rapporto fu un comizio il 20 agosto, in cui venticinquemila persone convennero per ascoltare il Kreisleiter [governatore distrettuale] Mnzer sul tema Osnabrck e la "Judenfrage". La situazione divenne per tanto esplosiva che la Gestapo e altri funzionari dello stato dovettero chiedere a Mnzer di mettere freno alle azioni individuali; Mnzer pubblic un avviso su tutti i giornali locali, e il 27 agosto quelle azioni furono ufficialmente vietate" (53). Le aggressioni agli ebrei, e i tentativi di accelerare il programma eliminazionista, non venivano certo soltanto dalla feccia della societ tedesca, da quel dieci per cento che stava al fondo della scala socioeconomica, messo da parte con troppa leggerezza dagli interpreti del periodo come gente immorale e amorale dalla quale non ci si poteva aspettare un comportamento diverso.

L'iniziativa di escludere gli ebrei dal contatto sociale con i tedeschi fu intrapresa anche dalle municipalit e da gruppi della pi eterogenea estrazione di classe, ben prima che venisse imposta dallo stato: gi nel 1933, per esempio, citt grandi e piccole avevano interdetto agli ebrei le piscine o i bagni pubblici (54). Le misure ostili e le offensive provocate in questo periodo iniziale dal ceto dei piccoli commercianti furono per talmente tante da indurci a considerare quella categoria come la fonte della maggioranza degli atti persecutori promossi da privati cittadini (55). Ma all'eliminazione dell'influenza ebraica dalla societ si dedicavano anche i professionisti pi colti e prestigiosi. Le strutture e le associazioni mediche, per esempio, manifestarono il loro odio escludendo i colleghi ebrei ancor prima che il governo decidesse di imporlo (56). In tutta la Germania gli amministratori delle universit, i collegi dei docenti e gli studenti si adeguavano con entusiasmo a questa tendenza generale, espellendo i colleghi ebrei dai rispettivi posti (57). I giudici e gli iscritti agli ordini professionali del settore giuridico erano talmente ansiosi di purgare la patria e le loro strutture dalla presenza ebraica che gi nei primi mesi del governo nazista prevennero spesso i decreti ufficiali del regime. Nell'ottobre 1933 un tribunale di Berlino ratific che un ebreo fosse escluso dall'amministrazione di una propriet, stabilendo che l'odio diffuso per gli ebrei rende inopportuno mantenere l'incarico a uno di loro, anche in assenza di una legge specifica in proposito. Poco prima, in luglio, un altro tribunale berlinese aveva elaborato una giustificazione di pi ampio respiro per le iniziative dei giudici nella lotta contro gli ebrei. Secondo Die Juristische Wochenschrift", il pi importante periodico giuridico tedesco, questo tribunale aveva fatto rilevare, con evidente tono di approvazione, che una legislazione rivoluzionaria [i nazisti erano al potere da solo sei mesi] contiene ovviamente delle scappatoie che vanno arginate dal tribunale applicando i principi della "Weltanschauung" nazionalsocialista (58). La magistratura tedesca - i cui esponenti erano entrati a farne parte per lo pi nell'epoca weimariana, e dunque non erano, almeno formalmente, giudici nazisti - era costituita da antisemiti razzisti cos accesi che i capi del partito (convinti che il programma eliminazionista dovesse svolgersi nella legalit) giunsero a censurare le violazioni della legge cui li aveva condotti il loro ardore eccessivo.

Lo stesso ministro degli Interni Wilhelm Frick tent di frenare, nell'ambito sottoposto alla sua giurisdizione - che comprendeva molti reduci di Weimar -, l'estendersi dei provvedimenti eliminazionisti oltre i limiti posti dalle leggi del regime (59). Il generoso contributo della magistratura alla persecuzione degli ebrei nel periodo nazista ne denuncia gli esponenti come zelanti esecutori e promotori dei provvedimenti eliminazionisti: i giudici costituivano evidentemente un gruppo che al tempo di Weimar era animato da odio antiebraico, e che poi, con l'ascesa al potere di Hitler, si trov libero di agire secondo le proprie convinzioni (60). In questo senso, a dispetto della cultura e della formazione giuridica, i giudici non erano diversi da tanti altri gruppi tedeschi: nel loro caso, la metamorfosi risulta soltanto pi madornale. Nei primi anni del nazismo, il carattere asistematico dei provvedimenti legislativi contro gli ebrei e, in particolare, le aggressioni scoordinate e spesso selvagge - che, stando agli stessi rapporti del governo, si verificarono in ogni distretto amministrativo e, in pratica, in ogni localit (61) provocarono disagio in molti tedeschi. Alcuni erano contrari alla violenza gratuita, e molti, all'interno e all'esterno del governo e del partito, non avevano un'opinione certa su quali azioni contro gli ebrei fosse opportuno intraprendere o tollerare. Le Leggi di Norimberga del settembre 1935 e i decreti successivi misero ordine in quello stato di cose, definendo con precisione chi dovesse essere considerato ebreo, o parzialmente ebreo, e imponendo un'ampia serie di divieti coerenti con il programma eliminazionista. Soprattutto tali leggi resero esplicita, e in buona misura codificarono, l'eliminazione degli ebrei dalla vita civile e sociale della Germania, creando una separazione ormai quasi insuperabile tra loro e gli appartenenti al "Volk". I due provvedimenti da cui erano composte, la Legge sulla cittadinanza del Reich e quella per la protezione del sangue e dell'onore tedesco, spogliavano gli ebrei della cittadinanza e proibivano i nuovi matrimoni e i rapporti sessuali al di fuori dei matrimoni gi in atto fra tedeschi ed ebrei (62). Furono disposizioni molto popolari, accolte con favore dai tedeschi perch davano coerenza a un contesto tra i pi scottanti, e ancor pi per il tenore del loro contenuto. Un rapporto della Gestapo di Magdeburgo coglieva bene gli umori popolari osservando che la popolazione considera la regolazione dei rapporti con gli ebrei un atto emancipatorio, che porta chiarezza e, nel

contempo, maggiore fermezza nella tutela degli interessi razziali del popolo germanico (63). Il programma eliminazionista riceveva insieme l'enunciazione pi coerente e l'impulso pi energico. Le Leggi di Norimberga promettevano di realizzare quanto da decenni ormai era soltanto oggetto di discussioni ed esortazioni "ad nauseam". In questo momento di codificazione della religione tedesca nazista, il regime esponeva davanti agli occhi di tutti le tavole della sua legge. Erano scritte in un linguaggio ben noto, e molti chiedevano l'accelerazione del programma, come comunica un rapporto della Gestapo da Hildesheim nel febbraio 1936, pochi mesi dopo la loro promulgazione: Molti sostengono che in Germania gli ebrei siano ancora trattati con eccessiva umanit (64). Dopo le Leggi di Norimberga, le violenze diminuirono, e mantennero un'intensit ridotta per tutto il 1937. Continuavano le aggressioni verbali e fisiche agli ebrei, e procedeva la loro esclusione giuridica, economica, sociale e professionale dalla vita della Germania, ma cal il volume complessivo della violenza. Nel 1938, comunque, questa calma relativa fu interrotta da una ripresa delle offensive di ogni tipo, e dell'impegno delle istituzioni dello stato e del partito per la soluzione della "Judenfrage". Per dare un'idea dell'intensit dell'attivit antisemita, si pu ricordare che nelle due settimane di una campagna concertata dal partito con lo slogan Un "Volk" spezza le sue catene, nella sola Sassonia si tennero 1350 riunioni antiebraiche (65). Il 1938 fu caratterizzato da una recrudescenza di aggressioni fisiche, distruzioni di beni, pubbliche umiliazioni e arresti cui faceva seguito l'internamento nei campi di concentramento. L'ostilit della gente comune era tale che ormai per gli ebrei era impossibile vivere al di fuori delle grandi citt, gli unici luoghi in cui potevano sperare nell'anonimato. Secondo un rapporto del Partito socialdemocratico, nel luglio 1938, a seguito del costante fuoco di sbarramento antisemita, gli ebrei tedeschi non possono pi rimanere nelle piccole localit di provincia. Sono sempre pi numerosi i paesi che si proclamano "judenrein" (66). E non furono soltanto le zone rurali a liberarsene: una gradita conseguenza dell'impegno che il regime e la gente comune dedicavano a rendere loro la vita impossibile fu l'incremento dell'emigrazione degli ebrei dalla Germania.

La popolazione in genere rispondeva con favore agli obiettivi e ai provvedimenti eliminazionisti, anche se spesso disapprovava la brutalit pi incontrollata. Tuttavia, con qualche rara eccezione per i conoscenti diretti, i tedeschi non davano prova di grande compassione per la sorte degli ebrei (67). La ripresa delle aggressioni aveva segnalato a tutti che la relativa calma dei due anni precedenti era stata un'aberrante fase di passaggio; la bench minima speranza per gli ebrei presenti in Germania fu comunque frantumata in tutto il paese dalla violenza, senza precedenti nella storia moderna, della Notte dei cristalli. Tenuto conto delle persecuzioni e delle violenze gi avvenute in tutta la Germania (specie rurale), quello non fu che il momento culminante del selvaggio terrorismo interno inflitto dai tedeschi agli ebrei. Il ministro per la Propaganda Joseph Goebbels orchestr l'attacco presentandolo come una rappresaglia per l'uccisione di un diplomatico tedesco per mano di un ebreo disperato i cui genitori erano stati deportati in Polonia insieme con altri quindicimila ebrei polacchi (68). La notte del 9-10 novembre i tedeschi delle citt, delle borgate e dei villaggi nell'intero paese furono svegliati dal rumore dei vetri infranti, dai bagliori e dal fetore delle sinagoghe che bruciavano, dalle grida di agonia degli ebrei massacrati dai loro concittadini. L'entit delle violenze e delle distruzioni, l'enormit (rispetto ai criteri dell'epoca, in cui la situazione non era ancora del tutto precipitata) del salto di qualit operato in quella notte si riflettono nelle statistiche. Gli esecutori, soprattutto uomini delle S.A., ammazzarono circa cento ebrei e ne trascinarono altri trentamila nei campi di concentramento; incendiarono e demolirono centinaia di sinagoghe, quasi tutte quelle che non erano ancora state distrutte; e fracassarono le vetrine di circa 7500 negozi e magazzini ebraici, da cui il nome Notte dei cristalli (69). Come reag il popolo tedesco? Nelle piccole citt le S.A. furono accolte a braccia aperte da molta gente del luogo, ben felice di approfittare dell'occasione per partecipare all'offensiva. La consapevolezza che in quel giorno gli ebrei erano "caccia aperta" ["vogelfrei"] si comunic a cittadini che non facevano parte delle truppe speciali ["Einsaztruppen"], e nemmeno del partito ... E alcuni si lasciarono prendere la mano, accanendosi sugli ebrei tormentati e indifesi (70). La gente comune partecip spontaneamente, senza essere provocata o incoraggiata, a quelle brutalit; persino i ragazzi e i bambini fecero la loro parte, alcuni sicuramente con la benedizione dei genitori.

Altri, centinaia di migliaia, rimasero a guardare le violenze di quella notte e del giorno dopo, con le solenni sfilate di ebrei in marcia verso i campi di concentramento (71). Le S.A., con o senza l'aiuto dei volontari, diedero uno spaventoso spettacolo di sfrenata brutalit, letale per gli ebrei e inquietante per molti tedeschi. Quella violenza selvaggia, coordinata dalle autorit, suscit critiche da ogni parte, anche all'interno del partito. Ci furono sicuramente tedeschi che si impietosirono alla vista delle vittime picchiate e terrorizzate, ma tutto dimostra che nella stragrande maggioranza dei casi le critiche non erano mosse da una disapprovazione di principio per le sofferenze inflitte agli ebrei, dalla convinzione che fosse stata commessa un'ingiustizia. In linea di massima, le critiche e qualche raro gesto di indignazione dei tedeschi dopo la Notte dei cristalli furono mossi da tre motivazioni. Molti aborrivano l'uso di una violenza cos sfrenata nella vita quotidiana: la vista delle S.A. e dei loro accoliti in preda agli istinti pi selvaggi, che portavano morte e distruzione nelle strade delle loro comunit, era talmente inquietante che per la prima volta qualche tedesco non ebreo e non di sinistra cominci a domandarsi se un movimento cos radicale non avrebbe finito per ritorcersi anche contro il "Volk" (72). Molti, interpretando gli eventi nei termini della propria percezione allucinatoria dell'onnipotenza ebraica, erano inoltre preoccupati dalla prospettiva che essi potessero vendicarsi sulla Germania (73). Nel suo diario un tedesco ricorda che il giorno dopo la Notte dei cristalli una zia lo accolse con parole solenni: Noi tedeschi pagheremo caro quello che stato fatto agli ebrei stanotte. Distruggeranno le nostre chiese, le nostre case, i nostri negozi. Puoi starne certo (74). E infine, ai tedeschi faceva orrore la distruzione di tanti beni (75): se pure erano convinti che gli ebrei stessero subendo la tempesta di vento da loro stessi provocata, essi pensavano comunque che fosse inutile disperdere tutti quei patrimoni (76). Si calcola che i danni ammontassero a centinaia di milioni di marchi (77). La deprecazione per le distruzioni materiali dissennate era cos profonda anche nella classe operaia - che "si presuppone" in genere, sulla base di scarsi elementi, sia uno dei gruppi meno antisemiti - che il movimento comunista clandestino tent di guadagnarsi simpatie criticando soprattutto i costi materiali della Notte dei cristalli.

In un loro appello i comunisti dissociavano ottimisticamente il popolo tedesco da quelle azioni, sostenendo che in nessun modo potevano essere attribuite all'"ira del popolo". Come potevano esserne certi? Non perch credevano che la gente provasse simpatia e solidariet per i concittadini ebrei, ma perch i lavoratori stanno calcolando le ore di straordinario che dovranno fare per riparare il danno inflitto al patrimonio della nazione tedesca. Le mogli degli operai ... hanno visto quello scialo con grande amarezza (78). I dissensi contro le violenze sfrenate e le distruzioni inutili della Notte dei cristalli, che pure erano diffusi in tutta la Germania, vanno intesi come critiche limitate a un indirizzo eliminazionista che la stragrande maggioranza dei tedeschi considerava fondamentalmente legittimo, ma che in questa occasione aveva imboccato la via sbagliata. A tale moderata opposizione si contrapponevano il generale entusiasmo per il programma eliminazionista, che prosegu senza tregua dopo la Notte dei cristalli, e l'enorme soddisfazione con cui molti tedeschi avevano accolto quegli eventi. Il giorno dopo a Norimberga, per esempio, si tenne un comizio in cui quasi centomila persone convennero spontaneamente per ascoltare le invettive antiebraiche di Julius Streicher, l'editore di Der Strmer noto come il pi fanatico antisemita di Germania. Nelle fotografie del raduno gli uomini in uniforme sono relativamente pochi; si vedono invece i volti dei tedeschi comuni - ossia della gente di Norimberga e di tutto il paese - accorsi per esprimere la loro ardente adesione al governo e al programma eliminazionista. Dopo la guerra, un osservatore rifletteva su quel comizio sostenendo che la stragrande maggioranza degli uomini e delle donne di Norimberga si sarebbe potuta tenere alla larga senza rischiare rappresaglie; invece, scelsero di andare ad acclamare i criminali del governo (79). La Notte dei cristalli stava davanti agli occhi non solo della Germania, ma anche dell'intero mondo occidentale. E il mondo reag con repulsione e indignazione morale. Il popolo tedesco non diede prova di altrettanta repulsione e indignazione - n di un dissenso di principio dal modello antisemita alla base di quelle devastazioni -, anche se tutto ci era avvenuto in suo nome, sotto i suoi occhi, a spese dei suoi concittadini, per di pi indifesi. Fu questo il momento in cui per tutti i tedeschi divenne evidente che il governo non avrebbe esitato a ricorrere ai mezzi pi radicali per garantire l'eliminazione degli ebrei e della loro influenza dalla Germania.

Per citare Alfons Heck, a suo tempo membro della Giovent hitleriana, dopo la Notte dei cristalli nessun tedesco abbastanza grande da camminare poteva pi dire di ignorare la persecuzione, e nessun ebreo poteva pi illudersi che Hitler si sarebbe accontentato di qualcosa di meno di una Germania "judenrein" (80). Criticare la Notte dei cristalli non era affatto impossibile, e vi furono tedeschi che espressero, apertamente e senza mezzi termini, la loro delusione di fronte allo spreco e all'ottusa brutalit di quell'aggressione; quindi significativo che nessuno di loro levasse la voce contro l'enormit dell'ingiustizia, che non pareva toccarli. Vi fu indignazione morale tra gli insegnanti di religione bavaresi, per esempio, ma non per ci che i compatrioti avevano fatto agli ebrei, che evidentemente aveva la loro approvazione: nella Media e Alta Franconia un buon 84 per cento dei protestanti e il 75 per cento dei cattolici si astennero dalle lezioni in segno di protesta per l'assassinio del diplomatico tedesco, non per le immani sofferenze inflitte agli ebrei innocenti (81). Questo fu forse il giorno pi rivelatore dell'intera epoca nazista, quello in cui il popolo tedesco ebbe l'occasione di manifestare la propria solidariet per i concittadini ebrei, ma prefer sigillarne la sorte facendo percepire alle autorit la propria adesione all'impresa eliminazionista, sia pure avanzando, anche ad alta voce, qualche obiezione contro alcuni dei suoi aspetti. E' ancora Melita Maschmann a consentirci di cogliere i meccanismi mentali con cui i tedeschi tentarono di farsi una ragione dell'orrore che in quella notte li aveva risvegliati dal sonno. "Per un istante mi resi chiaramente conto che era successo qualcosa di terribile, qualcosa di spaventosamente brutale. Ma quasi subito giunsi a pensare che quanto era avvenuto si era ormai concluso, e non richiedeva riflessioni critiche. Dissi a me stessa: gli ebrei sono i nemici della nuova Germania; la notte scorsa si sono accorti di ci che questo significa. Speriamo che l'Ebraismo Mondiale, che ha deciso di ostacolare i nuovi passi verso la grandezza della Germania, prenda atto dell'avvertimento. Se gli ebrei seminano odio contro di noi in tutto il mondo, devono sapere che teniamo degli ostaggi nelle nostre mani" (82). E' evidente che, al di l delle condanne espresse sulla natura della sentenza e sui modi in cui era stata eseguita, la grande maggioranza dei tedeschi concordava sulla colpevolezza degli ebrei. La progressiva esclusione degli ebrei dalla societ, avviata fin dall'ascesa al potere dei nazisti, acquis nuovo impeto con la Notte dei cristalli.

I tedeschi erano giunti a trasformare gli ebrei che non avevano cercato scampo fuori dalla Germania in una comunit da evitare e deridere, alla stregua dei lebbrosi nel Medioevo (83). Il contatto con loro, ridotto al minimo da tutti o quasi, era visto comunemente e ci si rifletteva nel comportamento individuale - come qualcosa di inquinante, di pericoloso per il benessere. Perch, altrimenti, una Legge per la protezione del sangue e dell'onore tedesco, legge promulgata dopo che molti tedeschi l'avevano chiesta, e che godeva di immensa popolarit, non soltanto per aver codificato una volta per sempre quali fossero i rapporti leciti con gli ebrei? Non sorprende inoltre la frequenza delle cause per disonore della razza ("Rassenschande") cio le relazioni sessuali extraconiugali tra ebrei e tedeschi, assolutamente proibite - promosse dalla gente comune contro gli ebrei (84). La storia di Emma Becker, riferita da David Bankier, illustra in modo particolarmente efficace quell'implacabile ostilit. La Becker era un'ebrea, ma si trovava in una condizione che potrebbe sembrare insolitamente propizia per ricevere un trattamento decente da parte dei compatrioti tedeschi: sposata con un cattolico, si era convertita alla fede del marito, rinunciando alla propria identit religiosa originaria e troncando ogni legame formale con l'ebraismo. Ci nonostante, nel 1940 i vicini le fecero chiaramente capire di non gradire di vivere accanto a lei che, nelle loro menti inficiate dal razzismo, era ancora un'ebrea. L'unica persona che andasse da lei era il suo confessore; e per questo atto di gentilezza, che peraltro faceva parte dei suoi doveri di sacerdote, lui stesso fu insultato dai vicini. Emma racconta le esplicite espressioni di odio che le venivano rivolte, e l'ostracismo totale dalla comunit cristiana, che giunse a trattarla come un'emarginata lebbrosa nella sua stessa chiesa. Fu cacciata dal coro, che non voleva cantare le lodi del Signore a fianco di quell'ebrea, e i suoi correligionari rifiutavano di inginocchiarsi o di prendere la comunione accanto a lei; persino i preti, gli uomini di Dio, che dicevano di credere nel potere del battesimo, la evitavano. Questi tedeschi comuni, tra i quali c'erano anche istruiti impiegati pubblici, si spinsero ben oltre quanto prescritto dal regime; come convertita sposata a un cattolico, la Becker era "tutelata dalla legge" contro la persecuzione generale (85). La legge le consentiva di vivere dove viveva, di intrattenere normali rapporti sociali, e certamente di andare in chiesa.

Quei tedeschi esprimevano, senza possibilit di equivoci, il loro odio per gli ebrei, un odio fondato su una concezione della razza che bollava una persona come ebrea indipendentemente dalla sua religione, dall'identit che lei stessa si attribuiva e dal fatto che avesse rinunciato a ogni legame con l'ebraismo. E dire che, fra tutti i tedeschi, i cattolici, dominati dall'antica idea dell'origine religiosa della malignit ebraica, erano coloro che avrebbero dovuto opporre maggiore resistenza a quel modello cognitivo razziale! Invece, la diffusa persecuzione verso gli ebrei convertiti dimostra comunque che anch'essi avevano accettato i dogmi dell'antisemitismo razzista (86). La sorte della Becker fu un caso tutt'altro che isolato; nell'intera Germania le chiese protestanti e cattoliche, in genere raccogliendo le esplicite proteste dei tedeschi che non volevano pregare o prendere la comunione insieme con gli ebrei, cercavano il modo di separare i convertiti dal resto della congregazione (87). Il popolo tedesco si era talmente allontanato dai precetti cristiani che la chiesa confessante di Breslavia distribu in tutta la Germania volantini che incitavano a non discriminare gli ebrei convertiti, e suggeriva le misure da prendere per evitare che i convertiti venissero aggrediti in chiesa! (88). Tanto basta per evidenziare che la gerarchia ecclesiastica - nella sua componente ancora fedele alla dottrina cristiana della salvezza per il battesimo - sapeva bene quanto devoto fosse il suo gregge alle idee dell'antisemitismo razzista eliminazionista. L'ultima fase della soluzione finale, cos come fu messa in scena per gli ebrei tedeschi nella Germania propriamente detta, fu la loro deportazione verso l'Est, nei luoghi dove avrebbero trovato la morte, che incominci nell'ottobre 1941 e continu fino all'inizio del 1943 (89). Le deportazioni, la misura eliminazionista pi esplicita e inequivocabile tra quante erano state fino ad allora prese in territorio tedesco, furono assai gradite, con qualche eccezione, dal popolino. A quel periodo, quando i tedeschi avevano gi scovato o deportato la maggioranza degli ebrei, e altri milioni ne stavano ammazzando nel resto d'Europa, risale un episodio emblematico, riferito da una donna non ebrea nel suo diario. Stoccarda, ottobre 1942: "Ero in tram. Affollatissimo. Poi sal un'anziana signora. Aveva i piedi cos gonfi che parevano esplodere nelle scarpe.

Portava la stella di Davide sul vestito. Mi sono alzata per farla sedere, e con questo ho provocato - come poteva essere altrimenti? - la cos diffusa furia popolare. Qualcuno ha gridato Fuori!; poi c' stato un coro di Fuori!. Nel chiasso delle voci ho sentito le parole indignate di Serva degli ebrei! Gente senza dignit!. Il tram si fermato tra una fermata e l'altra e l'autista ha ordinato Fuori tutt'e due!" (90). Tale era l'odio spontaneo per una disgraziata figlia di un popolo che proprio allora veniva massacrato. La passione antisemita era cos profonda che a Berlino, quando venivano riuniti gruppi di ebrei rastrellati che poi sarebbero stati deportati, si verificavano aperte ed entusiastiche manifestazioni di soddisfazione per la sorte che li attendeva. Ne fu testimone una tedesca: Purtroppo devo anche riferire che c'era gente sulla porta di casa che dava libera espressione alla sua gioia di fronte a quella processione di infelici. "Guardate quegli ebrei impudenti" gridava uno. "Adesso ridono ancora, ma ormai la loro ultima ora suonata" (91). Come era accaduto dopo la Notte dei cristalli o in altri casi di violenza gratuita nelle strade, qualche tedesco esprimeva la propria disapprovazione per la brutalit, palesemente superflua, dei suoi compatrioti impegnati nelle deportazioni. Lo stesso direttore di Das Schwarze Korps, giornale ufficiale delle S.S., tutt'altro che amico degli ebrei, scrisse a Heinrich Himmler per lamentare che, in un'impresa cos degna e ben indirizzata, si fosse dato prova di tanta brutalit davanti agli occhi dei civili, delle donne e persino degli stranieri, perch dopo tutto non vogliamo fare la figura dei sadici deliranti (92). Ben pochi, all'epoca, potevano farsi illusioni sulla sorte degli ebrei; le voci sulle stragi che avvenivano nelle zone orientali circolavano per tutta la Germania. Il 15 dicembre 1941 un insegnante trascriveva nel suo diario l'ovvio significato delle deportazioni: E' chiaro come il sole che questa una campana a morto. Li porteranno in qualche landa deserta e devastata della Russia, e li lasceranno morire di fame e di freddo. I morti non parlano (93). Una donna che si adoper per salvare degli ebrei a Berlino scrive nel diario, il 2 dicembre 1942: Gli ebrei spariscono a frotte. Corrono voci orrende sulla sorte degli evacuati: fucilazioni in massa e morti per fame, torture e gas (94).

Nessuno poteva credere che la sorte in attesa di quegli uomini, donne, vecchi e bambini che il governo tedesco, nel bel mezzo della guerra, trasferiva con la forza, e spesso con brutalit, verso est, sarebbe stata men che tragica. L'entusiasmo manifestato dai tedeschi, l'evidente mancanza di ogni compassione per quei disgraziati che erano vissuti in mezzo a loro e l'assenza di un diffuso sentimento di disapprovazione o di opposizione alle deportazioni stanno a indicare il loro assenso alle misure destinate a rendere "judenrein" la Germania, anche se questo avrebbe probabilmente comportato lo sterminio degli ultimi ebrei rimasti (95). Dopo il gennaio 1933 non si sosteneva in Germania alcuna opinione diversa da quella predominante, che ora si esprimeva nella sua pi ossessiva elaborazione nazista. In ogni istituzione nazionale di qualche importanza, in ogni sede di pubblico dibattito veniva promossa l'idea della loro irrimediabile ostilit e perniciosit per la Germania. La concezione degli ebrei come razza a parte e una pervasiva interpretazione razzista della storia e delle differenze tra gli uomini costituivano il comune sentire di tutta la cultura politica, fatta eccezione, talvolta, per la chiesa cattolica. E persino nella chiesa - a dispetto dell'inconciliabilit della sua grande e coerente visione del mondo con il razzismo germanico nazista - troppi dimostrarono, abbandonando a loro stessi o perseguitando gli ebrei convertiti, la loro adesione alla retorica e alla cultura razzista del momento (96). Quel modello, infatti, era talmente forte, in Germania, che anche la chiesa cattolica tedesca fin pi o meno per accettarlo, introducendolo nel suo insegnamento. Nel febbraio 1936 le istruzioni ufficiali dell'episcopato tedesco ai catechisti proclamavano che razza, patria, sangue e popolo sono preziosi valori naturali creati dal Signore, che ne ha affidato la tutela a noi tedeschi (97). L'ossessivo antisemitismo ufficiale si sovrapponeva al sentimento che aveva sostanzialmente dominato l'evoluzione ideologica della societ civile tedesca nella recente storia prenazista, consolidando una concezione razzista egemonica dalla quale ben pochi dissentivano. La dimostrazione pi semplice data da quei gruppi che si tenderebbe a considerare meno disposti ad accettare tale concezione degli ebrei. Come abbiamo gi detto, tutte o quasi le categorie professionali di maggiore prestigio - cio i pi colti, abituati a pensare in modo indipendente

e dotati della preparazione necessaria per distinguere il vero dalle fandonie diedero prova di essersi votate all'antisemitismo. I lavoratori, molti dei quali avevano aderito al marxismo ed erano quindi oppositori ideologici del nazismo, sulla questione degli ebrei erano in genere d'accordo con gli avversari, come dovettero riconoscere con sconforto gli stessi informatori clandestini del Partito socialdemocratico (nell'insieme restii a sottolineare i segnali che davano per disperata la loro causa). In Sassonia, regione particolarmente antisemita, un rapporto del gennaio 1936 concludeva che "l'antisemitismo si senza dubbio radicato in vasti settori della popolazione. Se la gente compera ancora nei negozi degli ebrei, non per aiutarli, ma per dare fastidio ai nazisti. La generale psicosi antisemita colpisce anche le persone pi riflessive, e i nostri stessi compagni. Tutti sono decisamente contrari alla violenza, ma la gente comunque favorevole a stroncare una volta per sempre la supremazia degli ebrei, costringendoli entro particolari campi di lavoro. [Julius] Streicher [l'editore dello Strmer] viene universalmente deprecato, ma in fondo si sostanzialmente d'accordo con Hitler. Gli operai dicono che nella Repubblica [di Weimar] e nel partito [socialdemocratico] gli ebrei erano diventati troppo potenti" (98). Sebbene alcuni altri rapporti informativi dipingano un quadro pi roseo dell'atteggiamento degli operai tedeschi, i curatori del volume che li raccoglie hanno concluso che opinione comune che esista una "Judenfrage" (99). La diffusione pressoch universale di questa convinzione, e quindi del modello cognitivo di cui si parlato in precedenza, non pu dunque essere messa in dubbio (100). La bancarotta morale delle chiese tedesche, protestante e cattolica, riguardo agli ebrei fu tanto grave e abietta da meritare un'attenzione ben pi approfondita di quella che le viene dedicata in questa sede. Gi al tempo di Weimar l'antisemitismo delle chiese in quanto istituzioni, del clero nazionale e locale, e dei fedeli era minacciosamente diffuso; il 7080 per cento dei pastori seguiva il Partito nazionalpopolare tedesco, e anche prima che i nazisti venissero mandati al potere con le elezioni il loro antisemitismo permeava la stampa protestante (101).

Questa, con i suoi milioni di lettori, esercitava un'enorme influenza e ci fornisce utili indicazioni sia sulla mentalit e sull'umore degli ecclesiastici sia su quanto essi propinavano al loro gregge. Negli anni Venti il volume e l'intensit della propaganda antisemita da parte protestante videro un enorme incremento, mentre il fenomeno pi in generale si acutizzava nella turbolenta atmosfera politica di Weimar. I mezzi di comunicazione religiosi pi attivi e influenti nella diffusione del sentimento antiebraico erano i "Sonntagsbltter", i settimanali della domenica che insieme raggiungevano una circolazione di 1,8 milioni di copie e i cui lettori, secondo una stima prudenziale, erano pi del triplo (102); una circolazione che spiega la loro funzione determinante nella formazione delle opinioni collettive del laicato protestante, che nel 1933 costituiva circa il 63 per cento della popolazione tedesca. (103). Una rassegna di sessantotto "Sonntagsbltter" pubblicati tra il 1918 e il 1933 rivela la centralit dei temi degli ebrei e dell'ebraismo, che venivano trattati quasi invariabilmente in tono ostile. Quei fogli religiosi, destinati a edificare i lettori e a coltivare la piet cristiana, predicavano che gli ebrei erano i naturali nemici della tradizione nazional-cristiana, che erano stati loro la causa del crollo dell'ordine cristiano e monarchico, nonch i responsabili di una pletora di altri mali. Ino Arndt, autore di questo studio, ne conclude che l'incessante diffamazione dei settimanali protestanti fin certamente per ottundere in milioni di lettori ogni sentimento umano, e in definitiva cristiano verso gli ebrei (104). Non sorprende che quei cristiani potessero guardare con occhio impietoso gli ebrei che venivano aggrediti, tormentati, degradati e ridotti alla condizione sociale dei lebbrosi. Dalla fine del 1930 sino alla presa di potere nazista l'orientamento antiebraico di quasi tutti i "Sonntagsbltter" divenne di gran lunga pi acceso di quanto non fosse mai stato. Incoraggiati e influenzati dall'atmosfera sempre pi intensamente antisemita, i giornali emulavano, in ingiurie e toni violenti, la retorica del Partito nazista, la cui vittoria si annunciava imminente. Giunti al potere, i nazisti si sarebbero adoperati per sincronizzare le convinzioni e la condotta di tutti i tedeschi con i dettati della nuova fede. Le chiese e le organizzazioni cristiane non erano disposte a piegarsi a questa pretesa con obbedienza militaresca; anzi, opposero resistenza alla sincronizzazione in tutte le materie importanti in cui i loro valori cozzavano contro quelli nazisti.

Quando per si giungeva alle convinzioni e all'atteggiamento nei confronti degli ebrei, i nazisti e i fogli protestanti della domenica non erano poi cos distanti, ma anzi qualitativamente affini. E dunque in questo settore la sincronizzazione pot procedere senza ostacoli. Anche prima della presa del potere da parte di Hitler, che appariva man mano sempre pi probabile, i direttori di quei devoti fogli cristiani si sforzavano di armonizzare la loro gi violenta retorica antisemita con quella dei nazisti, e lo facevano di propria iniziativa, senza alcuna sollecitazione e con innegabile passione ed efficienza. E' ovvio che la stampa protestante non avrebbe potuto ammannire al popolo tedesco una zuppa antisemita cos spietata, volgare e nazisteggiante, se le autorit religiose cristiane non l'avessero approvato. Anzi, le alte gerarchie protestanti, ben prima dell'avvento di Hitler, gi concepivano gli ebrei come i pi temibili nemici del cristianesimo e della Germania (105). In una lettera scritta poco dopo il boicottaggio dell'aprile 1933, una delle guide spirituali della nazione, il sovrintendente generale della diocesi di Kurmark della chiesa evangelica (luterana) di Prussia, il vescovo Otto Dibelius, dichiarava di essere sempre stato antisemita. Non si pu mancare di rilevare continuava che in tutte le manifestazioni pi corrosive della civilt moderna gli ebrei hanno un ruolo determinante (106). Nel 1928, cinque anni prima dell'ascesa al potere di Hitler, Dibelius aveva persino dato espressione alla logica dominante dell'antisemitismo eliminazionista proponendo la seguente soluzione alla "Judenfrage". L'immigrazione degli ebrei dall'Europa orientale doveva essere vietata perch, entrato in atto quel divieto, sarebbe cominciato il declino dell'ebraismo. Le famiglie ebree hanno pochi figli. Il processo di estinzione si sviluppa in modo sorprendentemente rapido (107). Diversamente da Hitler, che voleva ucciderli, il vescovo luterano desiderava dunque che gli ebrei si estinguessero pacificamente, senza spargimento di sangue. Wolfgang Gerlach, pastore evangelico tedesco e storico delle chiese cristiane nel periodo nazista, osserva che i sentimenti antisemiti del vescovo Dibelius erano abbastanza emblematici della cristianit tedesca all'inizio del 1933 (108).

Questo giudizio a posteriori viene confermato da quello contemporaneo del grande teologo protestante Dietrich Bonhoeffer, disperato di fronte all'ondata di antisemitismo che travolgeva anche i suoi colleghi. Poco dopo la presa del potere da parte dei nazisti, Bonhoeffer scriveva a un amico teologo che sul tema degli ebrei anche la gente pi ragionevole ha perduto la testa e il senso stesso della Bibbia (109). Nonostante si registrasse un certo dissenso personale ai massimi livelli della gerarchia ecclesiastica per alcuni aspetti della dottrina nazista sugli ebrei e per la componente di morte propria dell'impresa eliminazionista riflesso comunque del pi vasto e generale conflitto con un regime deciso a spezzare il suo potere -, la chiesa cattolica tedesca in quanto istituzione fu sempre profondamente e pubblicamente antisemita. Lo dichiarava il cardinale Michael Faulhaber di Monaco nei suoi sermoni per l'Avvento del 1933, e la sua sarebbe potuta ben essere la voce dei cattolici in generale. Bench difendesse la religione ebraica e gli ebrei vissuti prima di Ges, Faulhaber metteva bene in chiaro che andavano distinti da quelli vissuti dopo Ges, tra i quali vi erano i contemporanei. L'anno dopo, quando alcuni stranieri interpretarono male le sue parole sostenendo che si era fatto campione degli ebrei tedeschi, il cardinale lo neg con la massima enfasi (110). Prima e durante l'epoca nazista le pubblicazioni cattoliche, destinate al laicato, agli ecclesiastici o ai teologi, diffondevano la litania antisemita in termini spesso indistinguibili da quelli usati dai nazisti, giustificando il desiderio di eliminare i corpi estranei ("Fremdkrper") ebrei dalla Germania. Prendere provvedimenti contro gli ebrei, secondo gran parte di quelle pubblicazioni, era un atto di legittima difesa dalle caratteristiche e dalle influenze dannose della razza ebraica (111). Nel marzo 1941, quando gi i tedeschi avevano inflitto spaventose sofferenze agli ebrei di Germania e d'Europa, l'arcivescovo Konrad Grber pubblic una lettera grondante di antisemitismo, in cui accusava gli ebrei di aver ucciso Cristo, il che giustificava quanto essi stavano subendo: La maledizione autoimposta degli ebrei, "Il Suo sangue ricada su di noi e suoi nostri figli", si avvera nel presente, oggi (112). Grber non era certo un antisemita isolato, nella chiesa cattolica. Malgrado le autorit cattoliche criticassero apertamente molti aspetti della politica nazista, non emisero mai una condanna ufficiale della persecuzione eliminazionista degli ebrei, n degli eventi che annunciarono l'avvio del programma; non vi furono inoltre proteste formali per il boicottaggio dell'aprile 1933, n per le Leggi di Norimberga, n per le devastazioni della

Notte dei cristalli e nemmeno per le deportazioni degli ebrei destinati alla morte (113). Non sorprende quindi che i vescovi cattolici, nonostante avessero fatto qualche denuncia pubblica del trattamento riservato agli stranieri e addirittura di uccisioni da parte nazista, non si pronunciassero esplicitamente contro lo sterminio degli ebrei (di cui erano pienamente consapevoli), limitandosi a vaghe formulazioni che potevano riferirsi a chiunque, compresi i cristiani slavi, in quell'Europa imbarbarita dai tedeschi e dilaniata dalla guerra. Allo stesso proposito le autorit protestanti furono ancor meno sensibili (114). Comunque, mai un vescovo tedesco, cattolico o protestante, parl in pubblico in favore degli ebrei, come fece invece l'arcivescovo cattolico francese di Tolosa, Jules-Grard Salige: Al nostro tempo stato dato in sorte di assistere al triste spettacolo di bambini, donne, padri e madri trattati come bestiame; alla separazione di membri della stessa famiglia, portati via verso ignote destinazioni ... Gli ebrei sono uomini, le ebree sono donne ... Non possono essere maltrattati a discrezione ... Fanno parte del genere umano. Sono nostri fratelli allo stesso titolo di tanti altri. Un cristiano non pu dimenticarlo (115). Pur contrapponendosi con energia al regime su molte questioni, le chiese tedesche abbandonarono del tutto gli ebrei; in questo senso le autorit religiose della Germania furono prima tedeschi, e poi uomini di Dio - tale era la forza del modello antisemita -, perch furono incapaci di proclamare che gli ebrei fanno parte del genere umano, denunciando al loro gregge l'inammissibilit della sospensione delle leggi morali nei loro confronti. Profondamente antisemiti, questi tedeschi, uomini di Dio, non soltanto non si ersero a difesa degli ebrei pur vedendoli braccati, picchiati, cacciati da casa e dalla patria e infine assassinati dai loro parrocchiani, ma contribuirono anche attivamente al progetto eliminazionista. E non si tratt soltanto dei tanti sermoni antisemiti con i quali quei tutori della moralit della nazione confermavano e consacravano l'odio dei tedeschi comuni. L'elemento fondante delle Leggi di Norimberga era dato dalla capacit del regime di determinare e dimostrare l'entit delle ascendenze ebraiche di ciascuno, di sapere chi fosse ebreo; la loro applicazione dipendeva quindi dagli archivi genealogici conservati presso le chiese locali. Scrive Gnther Lewy, storico della chiesa cattolica:

"L'importante questione se la chiesa cattolica dovesse prestare il suo aiuto allo stato nazista per individuare le persone di discendenza ebraica non fu mai dibattuta; anzi. Abbiamo sempre lavorato altruisticamente per il popolo senza pensare alla gratitudine o all'ingratitudine, scriveva un prete sul Klerusblatt nel settembre 1934. Faremo del nostro meglio per contribuire a questo servizio reso al popolo. E la cooperazione della chiesa continu per tutti gli anni della guerra, quando il prezzo dell'essere ebreo non era pi il licenziamento dall'impiego pubblico e la perdita del reddito, ma la deportazione e la completa distruzione fisica" (116). Le chiese tedesche collaborarono di buon grado a quell'iniziativa palesemente eliminazionista e spesso omicida. Se i fari morali, le coscienze della Germania, operavano spontaneamente al servizio delle politiche antisemite, come aspettarsi che i loro fedeli fossero da meno? Quelle stesse autorit religiose si opposero in modo deciso ed esplicito ai cosiddetti assassini per eutanasia, e ad altre iniziative del governo come la tolleranza per la pratica del duello e per la cremazione dei defunti (ma non ai forni crematori di Auschwitz, di cui pure erano al corrente) (117). Mentre in tutta Europa, comprese Danimarca, Olanda, Norvegia e Francia, occupate dai tedeschi, le istituzioni ecclesiastiche condannavano la persecuzione e lo sterminio degli ebrei, invitando (a volte invano) i loro compatrioti a non prendervi parte (118), in Germania li abbandonarono al loro destino (talvolta con l'eccezione dei convertiti) o contribuirono persino in modo diretto alla persecuzione eliminazionista (119). Le ottimistiche divagazioni del vescovo Dibelius sull'eventuale estinzione incruenta degli ebrei furono solo il preludio dell'esplicita consacrazione, da parte di un consistente numero di autorit religiose tedesche, dei provvedimenti eliminazionisti pi radicali e violenti, proprio mentre il regime li andava applicando. Un autorevole esponente protestante, il vescovo Martin Sasse della Turingia, pubblic, poco dopo l'orgia antiebraica della Notte dei cristalli, un compendio del vetriolo antisemita di Martin Lutero, nell'introduzione al quale plaudiva al rogo delle sinagoghe compiuto in coincidenza con un giorno cos propizio: Il 10 novembre 1938, compleanno di Lutero, in Germania bruciano le sinagoghe.

E incitava il popolo tedesco a prestare ascolto alle parole del massimo antisemita del suo tempo, colui che mise in guardia il suo popolo dal pericolo rappresentato dagli ebrei (120). Poich questo era lo spirito che pervadeva le chiese protestanti, non sorprende che persino molti autorevoli membri della gerarchia ecclesiastica gettassero il proprio peso morale sul piatto di iniziative antiebraiche ancor pi radicali di quelle della Notte dei cristalli. I tedeschi diedero inizio allo sterminio sistematico degli ebrei d'Europa nel giugno 1941 in Unione Sovietica. Alla fine dell'anno il massacro era gi ben avviato, ed era fatto ben noto ai milioni di tedeschi trasferiti a Est quali soldati o coloni, ma anche a quelli rimasti in patria, come attesta il parroco della chiesa americana di Berlino, Stewart Herman, rimasto in Germania fino al dicembre di quell'anno: Era risaputo con certezza, grazie ai soldati di ritorno dal fronte, che nella Russia occupata e in particolare a Kiev [luogo del massacro di Babi-Yar, alla fine di settembre, in cui furono uccisi pi di 33 mila ebrei] i civili ebrei - uomini, donne, bambini venivano allineati e abbattuti a migliaia con le mitragliatrici (121). La notizia delle stragi giungeva anche alle autorit ecclesiatiche: lo dichiar esplicitamente il vescovo protestante Teophil Wurm scrivendo nel dicembre 1941 al ministro del Reich per le Chiese Hanns Kerrl a proposito delle voci sulle uccisioni in massa nell'Est che erano arrivate all'orecchio del popolo (122). Ma nemmeno questo serv a limitare l'ostilit delle gerarchie della chiesa per gli ebrei, n la loro adesione alle politiche del regime. Il 17 dicembre di quell'anno i maggiori esponenti della chiesa evangelica protestante del Meclemburgo, della Turingia, della Sassonia, dell'AssiaNassau, dello Schleswig-Holstein, dell'Anhalt e di Lubecca pubblicarono una dichiarazione congiunta che negava agli ebrei la possibilit di ottenere la salvezza attraverso il battesimo, a causa della loro condizione razziale, e li accusava di essere responsabili della guerra e nemici per nascita del mondo e del Reich ("geborene Welt- und Reichsfeinde"). Essi propugnavano quindi l'adozione delle pi severe misure nei confronti degli ebrei e la loro cacciata dai territori tedeschi (123). Com' logico, il superlativo le pi severe misure implica che gli ebrei erano passibili delle pene peggiori, estreme, compresa la morte. E poich il contesto era quello apocalittico della guerra con l'Unione Sovietica e del gi avviato sterminio degli ebrei russi, il significato di tali parole era soltanto uno: le autorit ecclesiastiche protestanti di buona parte della Germania ratificavano di propria iniziativa - implicitamente, ma in

modo collettivo, istituzionale, con tutta l'autorit della carica lo sterminio in massa degli ebrei (124). Anche gli ecclesiastici pi autorevoli che si opposero attivamente al regime potevano essere antisemiti fin nel profondo di s, condividendo taluni elementi centrali dell'immagine nazista degli ebrei. Lo esprime nel modo pi efficace il discorso che segue: Parliamo dell'"ebreo eterno", evocando l'idea di un irrequieto vagabondo, senza patria e senza pace. Vediamo un popolo di grande talento, che produce di continuo nuove idee a beneficio del mondo; ma tutto ci che esso intraprende diventa velenoso, e tutto ci che raccoglie odio e disprezzo, perch di tanto in tanto il mondo si accorge dell'inganno e si vendica alla sua maniera (125). Non sono parole di un ideologo del nazismo, bens di uno dei suoi maggiori e celebrati oppositori, il pastore protestante Martin Niemller, che le pronunci durante un sermone al suo gregge, quando Hitler era gi al potere. Come molti antinazisti, nonostante l'odio per il regime, egli ne condivideva la visione del mondo in almeno un aspetto fondante: gli ebrei erano un male eterno (126). Persino il giustamente ammirato e riverito pastore Heinrich Grber un ecclesiastico profondamente umano, pietoso e caritatevole, responsabile di un ufficio creato dalla chiesa protestante per aiutare gli ebrei convertiti, che nel 1940 fu arrestato per le sue proteste contro le deportazioni -, persino questo tedesco eroico aveva opinioni sugli ebrei simili a quelle dei nazisti. In un'intervista a un giornale dei Paesi Bassi del primo febbraio 1939 rimproverava agli olandesi di non voler accettare l'idea dello sradicamento degli ebrei, un'idea, aggiungeva con approvazione, di cui si discute senza problemi nella Germania nazionalsocialista. Grber si dichiarava convinto che la maggioranza degli ebrei che vivevano in Germania era senza radici. Non facevano lavori produttivi, ma solamente "affari" [cio affari loschi]. La perniciosit degli ebrei era data da qualcosa di pi grave del semplice sradicamento. Furono questi ebrei a governare la Germania nella finanza, nell'economia, nella politica, nella cultura, nella stampa, dal 1919 al 1932. Si pu davvero parlare di un predominio ebraico. Pur riconoscendo che molti israeliti, rimasti fedeli alle leggi di Mos, sono migliori di questi, Grber voleva che gli olandesi si convincessero dell'effettiva esistenza di una "Judenfrage" mondiale, e si astenessero dal

criticare la Germania, che aveva dato un esempio di come essa poteva essere affrontata. Chiunque voglia contribuire alla soluzione non dovrebbe lasciarsi influenzare da sentimenti di simpatia o antipatia, ma collaborare con altri uomini di buona volont per favorire l'emigrazione degli ebrei verso quei paesi dove c' bisogno di loro (127). Grber era un tipico tedesco nella misura in cui, prodotto di una comune cultura, condivideva le convinzioni antisemite dei compatrioti, ma non lo era affatto in quanto aderiva a un'etica autenticamente cristiana, che lo induceva a adoperarsi per alleviare le sofferenze degli ebrei malgrado gli enormi danni che riteneva avessero arrecato alla Germania. Anche il grande teologo Karl Barth, personaggio di spicco della chiesa confessante protestante e accanito oppositore del nazismo, era antisemita. Con l'avanzare degli anni Trenta, considerazioni teologiche lo spinsero invece a prendere le difese degli ebrei, nonostante i suoi sentimenti profondi, che nel sermone d'Avvento del 1933 lo avevano indotto a denunciarli come popolo ostinato e malvagio (128). Occorre sottolineare che - come dimostrano le dichiarazioni di questi e molti altri esponenti del clero cristiano, oppositori o sostenitori del regime che fossero - nell'ambiente non erano certo gli antisemiti a costituire l'eccezione; rari erano piuttosto coloro che potevano dirsi indenni da quel sentimento. I pochi che presero le difese degli ebrei si trovarono di fatto del tutto isolati. Grber, che aiut davvero i perseguitati, ricordava che da qualche assemblea della chiesa confessante si lev in effetti un appello alla protesta. Ma furono pochi a protestare, rispetto ai milioni che collaborarono o rimasero in silenzio, e nella migliore delle ipotesi fecero come gli struzzi o strinsero i pugni nelle tasche (129). Nei riguardi degli ebrei c'era di fatto ben poca differenza tra le chiese protestanti tradizionali e gli scissionisti Cristiani tedeschi, dichiaratamente razzisti e antisemiti, che aspiravano a fondere la teologia cristiana con gli altri principi del nazismo. Tutte le numerose lettere in cui i pastori protestanti tradizionali spiegano i motivi del loro dissenso con quel movimento insistono sull'inammissibilit della commistione tra religione e politica, ma neanche una critica la persecuzione in atto degli ebrei, momento centrale della teologia e dell'ideologia politica dei Cristiani germanici (130). Come osserva uno storico, le pi impavide dichiarazioni e azioni individuali [in favore degli ebrei] non dovrebbero mascherare il fatto che la

chiesa divenne una compiacente collaboratrice della politica ebraica nazista (131). Dopo la guerra, finalmente consapevole del carattere malefico dell'antisemitismo tedesco, Martin Niemller avrebbe concordato con questo giudizio devastante: in una lezione del marzo 1946 a Zurigo dichiar che la comunit cristiana tedesca ha di fronte a Dio una responsabilit maggiore di quella dei nazionalsocialisti, delle S.S. e della Gestapo. Avremmo dovuto riconoscere il Signore nel fratello sofferente e perseguitato, nonostante fosse comunista o ebreo ... Non abbiamo forse noi cristiani colpe ben pi gravi, non sono io ben pi condannabile di tanti che hanno immerso le mani nel sangue?. A parte le iperboli, Niemller enunciava la dura verit: la comunit cristiana tedesca non aveva saputo vedere nella radicale persecuzione eliminazionista una trasgressione morale. Il problema aveva radici sostanzialmente cognitive: i pastori della chiesa e i tedeschi in generale non erano riusciti a capire che gli ebrei non sono per natura una trib maligna (132). Gli esponenti della tanto decantata resistenza a Hitler, con le loro critiche esplicite e violente al nazismo, sarebbero dovuti essere, fra i tedeschi, i pi propensi a rifiutare il modello cognitivo culturale dominante e il programma eliminazionista; e invece, come Niemller e Barth, anch'essi finirono in genere per lasciarsi condizionare dalla comune concezione degli ebrei. Le misure eliminazioniste adottate negli anni Trenta prima del genocidio, che privavano gli ebrei della cittadinanza e di ogni diritto, riducendoli in miseria, le violenze cui furono sottoposti, la deportazione nei campi di concentramento, la caccia spietata che li costringeva a emigrare dalla Germania, tutto questo non bast a suscitare l'indignazione, o un'opposizione degna di rilievo, tra i futuri esponenti dei maggiori gruppi di resistenza. Anzi, secondo Christof Dipper, massimo esperto dell'argomento, la Gestapo, nel valutare gli autori dell'attentato a Hitler del 20 luglio 1944 (basandosi sulle dichiarazioni rese sotto interrogatorio), sottolinea giustamente che essi condividevano la concezione degli ebrei promossa dal regime, pur dissentendo sul modo in cui essi sarebbero dovuti essere trattati: "I cospiratori, pur aderendo in linea di principio all'antisemitismo, criticavano i metodi con cui veniva applicato. In parte si trattava di considerazioni umanitarie: i provvedimenti non erano abbastanza rispettosi della dignit umana e non corrispondevano al carattere dei tedeschi.

In parte essi ponevano questioni di opportunit, attribuendo la tensione nei rapporti con il resto del mondo al rigore e alla subitaneit con cui gli ebrei erano stati rimossi" (133). In sostanza, l'opposizione e la resistenza al nazismo non furono mosse da un dissenso di principio per l'eliminazione degli ebrei dalla societ tedesca. Stando alla testimonianza del fratello di un personaggio della caratura di Claus von Stauffenberg, l'uomo che colloc la bomba destinata a uccidere Hitler, nella sfera della politica interna condividevamo per la gran parte i dogmi fondamentali del nazionalsocialismo ... Il concetto della razza ci pareva sano e molto promettente; l'unica obiezione era contro la sua applicazione esagerata e portata troppo avanti (134). A nome della maggioranza degli oppositori non comunisti e non socialisti, lo zio di Stauffenberg, il conte xkll, cos riassumeva le intenzioni del gruppo di resistenza pi numeroso e influente, quello conservatore e militare che faceva capo a Stauffenberg e Carl Goerdeler: Dobbiamo sostenere, nella misura del possibile, il concetto della razza (135). Nella Germania nazista l'affermazione della razza come principio organizzatore della vita sociale e politica coincideva con l'adesione al modello cognitivo culturale dominante degli ebrei. Uno dei pi importanti documenti della resistenza antihitleriana - stilato al principio del 1943 per iniziativa di Dietrich Bonhoeffer dal Circolo di Friburgo, formato da autorevoli teologi e docenti universitari protestanti, e portato a conoscenza di Goerdeler - comprendeva un'appendice intitolata "Proposte per la soluzione della Judenfrage in Germania", in cui si affermava la legittimit delle misure che lo stato postnazista avrebbe intrapreso per tutelarsi dall'influenza calamitosa di quella razza sulla comunit popolare ["Volksgemeinschaft"]. Pur condannando esplicitamente il genocidio, il documento tradisce inequivocabili derivazioni dall'antisemitismo eliminazionista: ovunque si trovassero, gli ebrei creavano problemi alla nazione ospite. In quel testo si riconoscevano l'esistenza di una "Judenfrage", i danni che gli ebrei avevano arrecato alla Germania, nonch la necessit di una soluzione che impedisse danni ulteriori per il futuro. Si azzardava inoltre l'ipotesi che forse sarebbe stato possibile concedere agli ebrei di ritornare in Germania con pieni diritti. Perch? Perch i nazisti ne avevano uccisi a sufficienza: Il numero degli ebrei sopravvissuti che rientrerebbero in Germania non sarebbe tale da dover continuare a considerarli una minaccia per la nazione tedesca (136).

Quasi tutti i pronunciamenti e i programmi dei gruppi della resistenza, sovente antisemita, ipotizzavano una Germania senza ebrei o che avrebbe negato loro i diritti fondamentali come la cittadinanza (137). Il loro dissenso rispetto alle pratiche omicide del regime era dovuto a inibizioni etiche e a considerazioni pragmatiche, non a una concezione diversa, pi benevola degli ebrei. La persecuzione eliminazionista e, in definitiva, persino lo sterminio degli ebrei non valsero a mobilitare non soltanto i congiurati conservatori e religiosi dell'attentato a Hitler, ma neanche la resistenza antinazista della classe operaia (138). Il fatto che i delitti pi atroci non avessero effetto nemmeno su molti oppositori convinti del nazismo risulta meno bizzarro alla luce della storia e della pervasivit dell'antisemitismo in Germania. Inoltre attesta nel modo pi convincente la netta separazione delle due sfere, grazie alla quale anche gli antinazisti pi accesi potevano accettare e applaudire l'eliminazione e persino lo sterminio degli ebrei (139). Se era impossibile individuare una concezione favorevole o quanto meno neutrale degli ebrei sia tra i pastori della morale cristiana sia tra i nemici mortali di Hitler, dove altro cercarla nella societ tedesca? Il modello cognitivo culturale degli ebrei apparteneva in eguale misura ai nazisti e ai non nazisti. La madornale assenza di una protesta, o di un dissenso anche a livello privato, riguardo al modo in cui gli ebrei venivano trattati e al massacro genocida non fu dovuta n a un lavaggio del cervello nazista, n all'impossibilit per i tedeschi di esprimere la propria insoddisfazione per il regime e le sue scelte: entrambe le ipotesi non sono infatti in alcun modo suffragate dalle testimonianze contemporanee. In molte altre sfere e su molte altre questioni, i nazisti non riuscirono a indottrinare il popolo - per dirla con parole diverse, non riuscirono a convincerlo della bont e della giustizia delle loro prese di posizione -; e i tedeschi si fecero sentire, esprimendo dissenso e opposizione. Queste differenti reazioni - da un lato accettazione e sostegno del programma eliminazionista, dall'altro disapprovazione e persino sabotaggio delle scelte dei nazisti in altri campi - dimostrano in modo inequivocabile che i tedeschi furono tutt'altro che pedine passive o vittime terrorizzate del governo: ne furono invece gli agenti consenzienti, a seguito di scelte consapevoli determinate da valori e convinzioni che, per quanto in continua evoluzione, erano comunque preesistenti.

Certo, erano soggetti a limiti imposti dal regime, ma quegli stessi limiti si ritrovavano anche in altre sfere o questioni e tuttavia non influenzavano le loro azioni, cos come avvenne nel rapporto con gli ebrei. A tale proposito rivelatore il modo in cui furono trattati gli stranieri non ebrei, che anche nel caso di popoli considerati dai nazisti e dalla maggioranza dei tedeschi inferiori o persino subumani, come i polacchi, fu alquanto diverso e assai migliore (140). Che nei campi di concentramento e in altri contesti ai non ebrei fosse riservata una sorte assai migliore di quella degli ebrei un dato che riflette l'atteggiamento generale della popolazione civile tedesca: ne parleremo diffusamente nei capitoli che seguono. L'applicazione delle leggi e dei regolamenti razziali dipendeva in larga misura dalle informazioni fornite spontaneamente dalla gente alla Gestapo, un'istituzione che - a differenza della sua immagine comune - era terribilmente a corto di personale e non sarebbe stata in grado di controllare la societ tedesca con le sue sole forze. La misura diversificata della collaborazione che i tedeschi offrirono alla Gestapo nel perseguire i vari gruppi di vittime rivela da un lato che in questa sfera la loro azione fu del tutto spontanea, dall'altro che di tali gruppi essi nutrivano concezioni ben distinte. Collaborarono all'attivit di polizia contro gli ebrei - che risiedevano in Germania da sempre - con zelo e diligenza assai maggiori che non a quella contro gli stranieri, compresi i subumani slavi (141). Analogamente il popolo tedesco, che tanto contribu alle misure eliminazioniste contro gli ebrei, fu piuttosto restio a prestare aiuto alle autorit nell'applicazione della politica razziale ai subumani polacchi (142). Non soltanto la collaborazione fu dunque sistematicamente differenziata, ma fu diverso lo stesso rapporto diretto con i non ebrei e con gli ebrei, e spesso gli stranieri non ebrei furono trattati in modo cos benevolo da violare la legge. Il divieto dei rapporti sessuali con i milioni di stranieri, in maggioranza slavi, che lavoravano come schiavi in Germania era rigoroso quanto quello che dal 1935 inibiva i rapporti con gli ebrei. Ma se i tedeschi tennero sempre gli ebrei a debita distanza, come fossero lebbrosi, il loro comportamento con i lavoratori stranieri diede invece molto da fare alla Gestapo. Tra il maggio e l'agosto 1942, per esempio, i casi di rapporti vietati fra tedeschi e stranieri furono 4960; l'anno dopo, tra luglio e settembre, la Gestapo arrest 4637 tedeschi rei di aver socializzato con lavoratori stranieri (143).

Queste cifre, del tutto inimmaginabili nei rapporti fra tedeschi ed ebrei, indicano peraltro solo i casi scoperti dalla polizia, che possiamo considerare una minima parte di quelli effettivi. In favore dei polacchi, ma non degli ebrei, alcuni tedeschi - spesso preti presero anche apertamente posizione (144); bisogna dire che i polacchi erano cattolici, ma la condizione e la sorte degli ebrei, assai peggiori della loro, rendevano i secondi assai pi bisognosi di aiuto. Sul finire del 1944 le autorit giudiziarie di Bamberga, colpite dall'inanit del compito di obbligare i tedeschi al rispetto delle leggi sulla tutela del sangue dall'incrocio con stranieri non ebrei, avevano pressoch rinunciato a qualsiasi speranza in quella direzione. In una curiosa descrizione del comportamento dei tedeschi, che nessun ebreo avrebbe mai potuto immaginare, scrivevano che in molti casi la persona razzialmente straniera vive - soprattutto nelle campagne - sotto lo stesso tetto del camerata tedesco; il tedesco non vede in lui il membro di uno stato straniero o nemico, bens un prezioso compagno di lavoro in un momento di penuria di manodopera. La piet e la carit sono il frutto di questa falsa prospettiva e del sentimentalismo dei tedeschi (145). Sono uomini anche loro! un'osservazione critica nei confronti del regime raccolta spesso tra i tedeschi che assistevano alle impiccagioni di polacchi per reati considerati troppo lievi per giustificare una simile punizione (146). Le affermazioni sull'umanit degli ebrei o le espressioni di sincera e autentica compassione nei loro confronti erano invece talmente rare nella Germania votata al nazismo da balzare subito all'occhio. Ancora una volta, proprio in questo dichiarare le proprie idee in tanti modi diversi, i tedeschi dimostravano di non aver subito alcun lavaggio del cervello, di nutrire opinioni contrarie a quelle del regime e di essere spesso disposti a esprimerle. Non stupisce che il Gauleiter nazista di Wrzburg, scrivendo nel dicembre 1939 del modo in cui venivano trattati i lavoratori polacchi e i prigionieri di guerra, arrivasse a concludere che l'atteggiamento della popolazione lascia molto a desiderare (147). L'antisemitismo non era un mero pregiudizio nei confronti di una minoranza degradata; se i tedeschi fossero stati cos malleabili e acritici da divorare avidamente qualsiasi pastoia ideologica ammannita loro dal regime, avrebbero adottato un atteggiamento altrettanto inflessibile anche verso i polacchi.

Nessuna spiegazione sociopsicologica semplicistica, che non tenga conto delle particolarit della complessa, secolare, allucinata concezione tedesca dell'ebreo, pu, dunque, dar conto di quegli atteggiamenti e di quelle azioni. Le attestazioni della capacit dei tedeschi di opporsi alle decisioni che disapprovavano si estendono a molti altri contesti della vita sociale e politica. Le aggressioni pubbliche dei nazisti al cristianesimo, per esempio, provocarono molta insoddisfazione nel popolo, soprattutto nelle regioni cattoliche. I tentativi dei funzionari nazisti locali di limitare le pratiche di culto e di eliminare i crocifissi dalle scuole bavaresi produssero tanta indignazione e proteste talmente feroci da costringerli il pi delle volte a revocare i provvedimenti (148). Vale la pena di notare che questo accadeva mentre gli ebrei venivano aggrediti in ogni parte della regione, senza che i bavaresi pronunciassero una sola parola di dissenso, per non dire di protesta. Gi nel 1934 i ripetuti sforzi del partito di mobilitare il popolino per le adunate e le parate politiche cominciarono a scontrarsi con critiche e resistenze organizzate. Pur approvando in linea di massima la direzione verso cui la Germania nazista si era avviata, i tedeschi si opponevano a gran voce alle esortazioni del regime a una maggiore partecipazione, come attesta nel 1934 un rapporto del governatore del distretto di Coblenza: La gente delle campagne proclama che fino a quando non verranno effettivamente imposti dei cambiamenti significativi, a dispetto delle favole sui progressi continui raccontate dal partito, non avr alcun senso prendere parte alle adunate (149). La disaffezione per molte iniziative politiche e di propaganda non era certo limitata alla popolazione rurale; anche gli operai delle industrie reagivano con esplicita insoddisfazione ai tentativi di indottrinamento e, ancor peggio, alle imposizioni della politica economica nazista (150). Inoltre, il malcontento si trasformava in azioni di sciopero. Tra il febbraio 1936 e il luglio 1937, per esempio, una tabella di fonte governativa, peraltro incompleta, registra ben centonovantadue scioperi in tutta la Germania (151): erano proteste aperte contro scelte politiche che i lavoratori consideravano ingiuste. Molte volte il regime accondiscese alle loro richieste. Su un piano pi generale, il costante desiderio del popolo tedesco di ottenere notizie da fonti straniere basta a indicare le riserve, e persino la sfiducia, che esso nutriva nei confronti del regime (152).

E la presenza di migliaia di agenti in tutto il paese, incaricati di sondare gli umori della gente - non di effettuare arresti -, basta a dimostrare che il regime era pienamente consapevole che il popolo alimentava dissensi di non poco conto sulla politica del paese, e che intendeva esprimerli: i rapporti di questi agenti lo confermano appieno, e senza peli sulla lingua (153). Ian Kershaw rileva con stupore il gran numero di persone disposte a esprimere critiche aperte nonostante il clima intimidatorio, e la frequenza con cui i rapporti riferiscono quei commenti in modo evidentemente fedele (154). L'episodio di protesta pi noto scatur dalla diffusa indignazione contro il programma di eutanasia (detto T4, dall'indirizzo del suo quartier generale berlinese, al 4 di Tiergarten Strasse), nel corso del quale i medici tedeschi uccisero pi di settantamila persone che a loro giudizio conducevano una vita indegna di essere vissuta, perch malati di mente o con difetti fisici congeniti. La protesta, iniziata dai parenti degli uccisi, si diffuse in tutto il paese, e fu portata avanti da preti e vescovi. I tedeschi 1) riconobbero che la strage era ingiusta, 2) manifestarono le loro opinioni in proposito, 3) protestarono apertamente chiedendo la fine degli omicidi, 4) non subirono alcuna rappresaglia per questo e 5) riuscirono a ottenere la revoca formale del programma, salvando la vita ad altri tedeschi (155). Ecco un modello - messo in pratica dalle stesse persone che rimanevano a guardare l'applicazione del programma eliminazionista di possibile risposta alla persecuzione e al genocidio degli ebrei: valutazione e presa di coscienza morale, manifestazione di tali opinioni, protesta e poi, chiss, il successo. Questo processo, il cui effettivo verificarsi cos facilmente identificabile in reazione alla strage dei malati congeniti e mentali, dovrebbe essere altrettanto facile (pi facile anzi, date l'enormit e la durata assai maggiore dell'Olocausto) da riconoscere nel caso degli ebrei tedeschi, se le stesse azioni fossero mai state intraprese. E invece, con qualche rara eccezione, non se ne trova traccia (156). In un'unica occasione si verific una protesta su vasta scala in favore degli ebrei, quando migliaia di donne tedesche convennero a Berlino dove manifestarono per tre giorni chiedendo la liberazione dei mariti ebrei recentemente incarcerati. Come reag il regime a questa protesta popolare? Fece marcia indietro: i seimila ebrei furono liberati e le donne non subirono alcuna conseguenza (157).

E' evidente che, se i tedeschi si fossero curati della sorte degli ebrei, non soltanto saremmo venuti a saperlo, ma anche la capacit del regime di perseguire il suo programma di eliminazione ne sarebbe risultata alquanto limitata (158). Il lungo e significativo elenco delle manifestazioni di dissenso provocate da "particolari" provvedimenti dei nazisti non si trasform in alcun modo in un'opposizione "generale" al regime stesso (159), al sistema nazista e al suo obiettivo prioritario di una Germania razzialmente pura e militarizzata, in grado di riaffermarsi nel consesso europeo. Il regime fu assai popolare nei suoi primi anni di vita e ottenne consensi ancor pi entusiastici sul finire del decennio, grazie alla politica estera e agli iniziali successi militari di Hitler (160). Come osserva Ian Kershaw, anche i cattolici bavaresi, per quanto contrariati dagli attacchi del regime alla loro chiesa, erano in buona parte ardenti sostenitori degli obiettivi portanti del nazismo: "Quella stessa regione in cui era tanto vigorosa l'opposizione popolare alla politica religiosa del nazismo continuava di fatto a presentarsi come un fertile terreno di coltura del pi maligno antisemitismo popolare, non dava alcun segno di aver ridotto la sua totale adesione alla politica estera sciovinistica e aggressiva del regime, ed era sempre un bastione dei pi ardenti sentimenti filohitleriani. Nel conflitto sulla chiesa l'opposizione era in larghissima misura diretta non contro il regime in quanto tale, ma semplicemente contro un unico aspetto sgradito e - si riteneva - del tutto superfluo della sua politica" (161). Nemmeno gli scontri pi aspri, che provocarono proteste popolari prolungate e determinate contro il regime, poterono intaccare la solidit del consenso tedesco per il nazismo e, in particolare, per il suo programma eliminazionista. Analogamente, l'episodica opposizione a certi aspetti dell'aggressione agli ebrei non deve essere intesa come indicazione di un rifiuto diffuso e generalizzato dell'ideale e del programma eliminazionista. Non sorprende certo che nella Germania degli anni Trenta si levassero voci di dissenso e disagio per quelle misure senza precedenti, anche se quasi mai per il fondamento ideale che le aveva generate. Molti studiosi del periodo hanno usato queste critiche per dimostrare che una parte consistente del popolo tedesco non era antisemita o che molti tedeschi disapprovavano per principio la persecuzione degli ebrei. E' un'interpretazione sbagliata (162).

Ed sbagliata non soltanto per il carattere e la schiacciante abbondanza delle controprove (che qui possiamo addurre solo in minima parte), infinitamente pi numerose delle insignificanti espressioni di dissenso per quelli che, a un esame pi attento, risultano essere in genere solo aspetti specifici del pi vasto programma eliminazionista, e non per i principi che lo governavano. Se infatti prendiamo in considerazione il loro contenuto, quelle critiche rivelano anche, e soprattutto, che l'insoddisfazione non nasceva quasi mai dal rifiuto dell'antisemitismo, dell'idea che gli ebrei avessero danneggiato intenzionalmente e gravemente la Germania e continuassero a danneggiarla, della convinzione che i tedeschi potessero e dovessero trarre immenso profitto dall'eliminazione di quella gente e della sua influenza. Se vi fu insoddisfazione, essa nasceva quasi sempre da altre considerazioni. Poteva trattarsi di riluttanza a subire le difficolt finanziarie derivanti dal taglio dei fondamentali legami economici con gli ebrei. Per esempio, durante gli anni Trenta rimase in generale inascoltato l'appello del regime a non frequentare i negozi degli ebrei, molti dei quali offrivano merci e servizi a prezzi favorevoli; e, soprattutto nelle zone rurali, dove spesso gli agricoltori tedeschi dipendevano per i loro rapporti commerciali dagli ebrei, tali legami non furono spezzati (163). Oppure poteva trattarsi di una condanna della brutalit gratuita, da pogrom, che turbava la quiete delle strade, di fronte alla quale molti tedeschi si ritraevano d'istinto, considerandola illegittima, indecorosa, inutile e indegna, nella sua atavica ferocia, di una societ civile. Nell'agosto 1935 un rapporto della Gestapo da Hannover riferisce che nelle ultime settimane il clima antisemita si andato notevolmente diffondendo in ampi strati della popolazione. Fatta eccezione per pochi casi privi di seguito, la drastica soppressione delle intromissioni ebraiche viene accolta ovunque e da tutti con sollievo. La grandissima maggioranza della popolazione, per, non comprende certi insensati atti individuali di violenza e terrorismo, che purtroppo si sono recentemente riscontrati, proprio ad Hannover (164). Il rapporto continua riferendo che la polizia era stata costretta a intervenire in nome della legge e dell'ordine ed esprime poi il timore che, avendo il popolino sentito i terroristi gridare servi degli ebrei ("Judenhrige") e amici degli ebrei ("Judenfreunde") ai poliziotti, l'autorit dello stato potesse risultarne diffamata. Non che un esempio dei tanti modi in cui gli antisemiti potevano esprimere una condanna degli atti insensati di terrorismo.

L'agente della Gestapo stesso dimostra l'assenza di contraddizione tra le due posizioni: era cos antisemita, e sapeva quanto antisemita fosse il popolino, da temere che il solo accenno al fatto che la polizia potesse proteggere gli ebrei l'avrebbe resa sospetta, diminuendone l'autorit; ma anche lui, come la gente di cui riferiva, aveva evidentemente disapprovato gli atti insensati di terrorismo (165). Anche l'ansia per la vendetta che i tedeschi, nelle fantasie del loro delirio antisemita, si attendevano dagli ebrei per le persecuzioni subite induceva alcuni a un giudizio ambivalente sull'aggressione eliminazionista. La preoccupazione fu espressa pi volte durante gli anni Trenta, e poi durante la guerra, soprattutto in relazione ai bombardamenti della Germania. Nel novembre 1943 il presidente della Corte suprema del Braunschweig riferiva che molti attribuivano al Partito nazista la colpa dei bombardamenti a tappeto, provocati dal modo in cui erano stati trattati gli ebrei (166). La paura, gi negli anni Trenta, di una rappresaglia da parte degli onnipotenti ebrei e poi la distruzione del paese nella guerra, che i tedeschi ritenevano da loro provocata, ebbero ripercussioni di tale imponenza da indurre anche alcuni tra i pi zelanti antisemiti a domandarsi se la persecuzione fosse stata davvero opportuna. Il fatto che essi potessero attribuire la responsabilit per la distruzione delle citt tedesche agli ebrei, oggettivamente impotenti, di per s prova incontrovertibile della loro adesione all'antisemitismo nazificato (167). Un'altra forma di critica ad aspetti particolari del programma eliminazionista era da ricondursi al desiderio di alcuni tedeschi di imporre qualche eccezione per i propri conoscenti: un fenomeno ben noto, che coesiste senza difficolt, nelle stesse persone, con l'odio pi profondo verso il gruppo nel suo insieme. Un rapporto del 1938 da un distretto della Sassonia fornisce un esempio perfetto di questo atteggiamento, mostrando tutta l'irrilevanza delle riserve che potevano derivarne rispetto all'adesione pressoch assiomatica dei tedeschi al progetto eliminazionista e ai principi sui quali esso si fondava: Nel nostro distretto gli ebrei sono pochi. Quando la gente legge delle misure prese contro gli ebrei nelle grandi citt, sempre d'accordo. Ma quando viene colpito un ebreo che appartiene al circolo pi ristretto delle loro conoscenze, le stesse persone piagnucolano contro il terrorismo del regime e si sentono di nuovo rimescolare dalla compassione (168).

L'aspetto fondamentale dato dall'atteggiamento verso gli ebrei nelle grandi citt, cio verso gli ebrei in generale: quando si tratta di loro, tutti i tedeschi approvano le misure eliminazioniste. Questa testimonianza non dimostra un allontanamento dai precetti e dalle pratiche del nazismo, ma al contrario ne attesta la pi completa accettazione. L'ultima forma di dissenso, in questo caso riferito soltanto all'aspetto pi radicale del programma eliminazionista, si manifestava nelle obiezioni di carattere pragmatico o etico all'applicazione di una sentenza di morte collettiva, al genocidio come politica dello stato. Le obiezioni pragmatiche si riscontravano, come abbiamo gi visto, tra gli oppositori conservatori di Hitler; quelle etiche assumevano maggiore rilievo tra le autorit ecclesiastiche (169). Nel luglio 1943, quando i tedeschi avevano ormai massacrato buona parte delle loro vittime ebree, il vescovo Wurm si decise finalmente a scrivere a Hitler una lettera privata di protesta contro lo sterminio, nella quale peraltro non menzionava esplicitamente gli ebrei; riguardo a loro, comunque, lo stesso Wurm aveva pi volte dichiarato di condividere gli aspetti essenziali della concezione nazista. In quell'occasione egli non contestava i principi e gli obiettivi del progetto, ma il modo disumano in cui il regime lo stava mettendo in pratica. Tre mesi prima aveva spiegato al ministro degli Interni Frick che le critiche sue e di altri cristiani alla politica del regime non erano ovviamente dovute a una qualsiasi forma di preferenza per gli ebrei, la cui influenza sproporzionatamente enorme sulla vita culturale, economica e politica al tempo [di Weimar] ... era stata riconosciuta come disastrosa quasi soltanto dai cristiani (170). Inoltre, in una lettera al capo della Cancelleria di Hitler, Hans Lammers, alla fine del 1943, Wurm dichiar esplicitamente che il suo interlocutore (oppure noi stessi) non doveva assolutamente interpretare quelle obiezioni etiche al genocidio come indici di un suo dissenso rispetto alla demonizzazione degli ebrei, condivisa, a suo dire, da tutti i cristiani. Wurm e i cristiani che la pensavano come lui non erano mossi da una qualche propensione filosemita, ma soltanto da sentimenti religiosi ed etici (171). Questi scrupoli, nella misura in cui si manifestarono, erano reazioni perfettamente comprensibili a diverse caratteristiche di un programma di eliminazione radicale. Particolari aspetti della pratica antisemita nazista incontrarono, infatti, qualche opposizione persino tra coloro che realizzarono l'Olocausto.

Per esempio, durante una riunione del 12 novembre 1938, dopo la Notte dei cristalli, Hermann Gring, al quale Hitler aveva affidato il coordinamento del programma eliminazionista, rimprover ad alcuni dei presenti gli enormi danni materiali che avevano contribuito a provocare, ma non certo le aggressioni contro le persone: Avrei preferito che aveste ammazzato duecento ebrei, senza distruggere tutto quel bendidio (172). Chi muoveva tale genere di rimproveri non rifiutava certo l'antisemitismo, n si opponeva all'Olocausto: accade spesso - e non soltanto nella Germania nazista che anche chi sostiene i principi di un programma di governo, pure non radicale, ritenga di dover criticare il modo in cui questo viene eseguito. Pertanto possiamo dire che, rispetto alla sorte degli ebrei e alla nostra comprensione dell'atteggiamento dei tedeschi nei loro confronti, gli scrupoli suscitati in pochi individui da eventi particolari non possono essere interpretati come espressione di un'opposizione di principio al programma eliminazionista n, soprattutto, alle convinzioni che lo avevano generato (173). L'eccezione pi significativa data da quei tedeschi che, per diversi ordini di motivi, aiutarono i circa diecimila ebrei che tentarono di sfuggire alla deportazione nascondendosi: l'isolamento di questi e dei loro connazionali che rimasero al fianco del proprio coniuge ebreo fa capire quanto rari fossero i loro casi nell'ambito dell'intera popolazione (174). Con queste eccezioni, pressoch tutte le critiche alla persecuzione, rivolte quasi sempre ad aspetti particolari, ebbero carattere epifenomenico, nel senso che - come dimostrano gli esempi riportati - non derivavano (e dunque non lo segnalano) da un rifiuto dei due momenti fondamentali nella determinazione della sorte degli ebrei: l'antisemitismo eliminazionista e la sua conseguenza pratica, il programma che doveva cancellare ogni influenza ebraica dalla Germania. Gli scrupoli che si manifestarono tradiscono quasi sempre un'adesione essenziale alla concezione nazificata degli ebrei. Se molti tedeschi avessero dissentito dal modello cognitivo di cui si detto sinora, saremmo stati senza dubbio in grado di accertarlo, cos come abbiamo potuto verificare il loro dissenso circa il trattamento riservato ad altri gruppi. Durante la guerra gli stessi servizi di sicurezza del regime documentano notevoli espressioni di compassione della gente per gli stranieri ai lavori forzati e per i prigionieri, nonostante le gravi pene previste per chi intratteneva qualsiasi rapporto con loro; ma nulla o quasi riferiscono di una sensibilit analoga nei confronti degli ebrei, anche se lo sterminio in corso era ampiamente noto (175).

Le informazioni di cui disponiamo sulla Germania nel periodo nazista stanno tutte a indicare che il consenso di principio per l'antisemitismo e il progetto eliminazionista fu praticamente illimitato, mentre le espressioni di dissenso non furono che esempi isolati e atipici: voci che gridavano in un desolato deserto. Lasciando da parte le aggressioni fisiche, probabile che mai nella storia un gruppo minoritario abbia subito, da parte della societ in cui viveva, una violenza verbale pi concentrata, frequente e intensa (176). Tenendo conto degli orrori a venire, facile - per quanto sbagliato sottovalutare il peso di questa forma di violenza; i suoi effetti, il tributo che impose agli ebrei, ma anche ai tedeschi, furono immensi. Una violenza verbale di volume e intensit tali - basti pensare all'affissione ovunque di cartelli, esposti ogni giorno alla vista degli ebrei come dei tedeschi, che proibivano la presenza fisica e sociale dei perseguitati in determinate localit e strutture - deve essere considerata in s come un'aggressione a pieno titolo, in quanto intesa a infliggere un profondo danno emotivo, psicologico e sociale profondo alla dignit e all'onore degli ebrei. Le ferite sofferte da chi deve subire sotto gli occhi di tutti (specie se quelli dei figli) questo tipo di vituperio senza poter reagire possono essere dolorose quanto l'umiliazione di un pubblico pestaggio (177). I tedeschi dell'epoca lo sapevano bene, cos come se ne accorge oggi qualsiasi tedesco o americano quando si trova di fronte a una manifestazione anche minima del fenomeno. A quel tempo chiunque prendesse parte o assistesse a tali aggressioni senza provarne orrore affermava la propria convinzione che gli ebrei meritavano le umiliazioni pi abbiette. Come si vedr nel prossimo capitolo, la deportazione e la violenza fisica non furono un momento di rottura radicale, bens un corollario del danno monumentale costantemente e consapevolmente inflitto dai tedeschi agli ebrei attraverso il mezzo del linguaggio (178). In questo fuoco di sbarramento di violenza verbale e nelle opinioni espresse era insito un potenziale letale. Alcuni acuti osservatori predissero infatti gi negli anni Trenta che i tedeschi avrebbero tentato di sterminare gli ebrei. Nel 1932, prima ancora dell'ascesa dei nazisti al potere, quando nemmeno era certo che vi sarebbero riusciti, lo scrittore ebreo tedesco Theodor Lessing inquadr la logica eliminazionista che attanagliava gran parte della Germania: i tedeschi, prediceva, avrebbero risolto la "Judenfrage" con la violenza, perch cerchiamo sempre la via pi facile.

E' pi facile negare o eliminare ci che non ci fa comodo. La cosa pi facile sarebbe ammazzare quei dodici o quattordici milioni di ebrei (179). Non era, in alcun senso della parola, la soluzione pi facile, ma era certo quella finale, e forse Lessing intendeva proprio questo; nel 1932, l'unica osservazione oggettiva possibile era che l'animosit dei tedeschi verso gli ebrei fosse tale da poter motivare un genocidio. Il critico letterario ebreo americano Ludwig Lewisohn riusc a cogliere l'essenza del progetto nazista fin dai suoi primi passi. Defin il nazismo la ribellione contro la civilt, intitolando cos un articolo penetrante e profetico pubblicato nel 1934. Fra le altre cose, si riferiva al mito della pugnalata nella schiena, che incolpava gli ebrei per la sconfitta nella prima guerra mondiale: Per quanto possa sembrare incredibile alle persone sane di mente nel resto del mondo, c' chi "ci crede davvero". Se coltivano queste e altre fantasie, com' possibile - si domandava Lewisohn - che i tedeschi tollerino la convivenza con gli ebrei? Potrebbe sembrare un'orribile farsa se non costituisse un pericolo tanto grave per l'intera civilt, se non stesse corrompendo l'anima e manipolando il cervello di un'intera generazione in Germania. Oggi ormai chiaro che i tedeschi seguiranno i loro miti. E' cominciata. Stanno sacrificando il capro espiatorio; l'ebreo crocifisso (180). In un saggio pubblicato nello stesso volume la giornalista Dorothy Thompson, avendo colto la continuit dell'idea eliminazionista, ipotizzava che soltanto impedimenti materiali avrebbero potuto trattenere i nazisti dallo sterminio degli ebrei (181). Inoltre prevedeva che, nella prospettiva dei tedeschi, l'emigrazione forzata fosse soltanto la migliore operazione eliminazionista realisticamente pensabile nelle condizioni degli anni Trenta. Diversamente dall'opinione pi diffusa, che rifiutava di credere a ci che aveva davanti agli occhi, la Thompson e Lewisohn davano pieno credito ai pronunciamenti dei nazisti, riconoscendo l'impulso eliminazionista e genocida dell'antisemitismo razziale tedesco per quello che era. Lessing, pur non avendo ancora visto la persecuzione del dopo Weimar, aveva percepito il potenziale genocida presente nei tedeschi ancor prima che Hitler avesse avuto la possibilit di incanalarlo ai propri fini. Il potenziale genocida preesistente, intrinseco all'antisemitismo eliminazionista germanico, e dunque ai tedeschi stessi, non compare soltanto nei saggi di autori come Lessing, Lewisohn e la Thompson, o nelle

parole del giornalista americano Quentin Reynolds, che in una testimonianza resa al Congresso alla met del 1939 prediceva l'annientamento degli ebrei in un pogrom totale (182). Altre fonti confermano la diffusa e profonda marca letale della corrente ideale antisemita. Il primo giugno 1933 il maggior teologo protestante e studioso della Bibbia, Gerhard Kittel, tenne a Tubinga una lezione pubblica dal titolo "Die Judenfrage", che fu poi pubblicata. Kittel delinea con chiarezza gli elementi fondamentali del modello cognitivo culturale tedesco degli ebrei, sviluppato nel diciannovesimo secolo e ora pienamente realizzato con i nazisti. Gli ebrei, dichiara come se si trattasse una ben nota questione di buonsenso, sono un corpo razzialmente estraneo all'interno della Germania. Invece di renderli pi adatti alla societ tedesca, l'emancipazione e l'assimilazione hanno consentito loro di infettare nel sangue e nello spirito il popolo tedesco, con conseguenze disastrose. Quale potrebbe essere la soluzione alla "Judenfrage"? Kittel ne prende in considerazione quattro. Il Sionismo, la creazione di uno stato ebraico in Palestina, impraticabile. L'assimilazione deve essere rifiutata in quanto male in s, perch per definizione favorisce l'inquinamento del ceppo razziale. A questo punto lo sterminio viene esplicitamente, e significativamente, prospettato come potenziale soluzione: Si potrebbe tentare di sterminare ["auszurotten"] gli ebrei. Non potendo ancora concepire uno sterminio sistematico organizzato dallo stato, Kittel valuta questa soluzione riferendosi al modello del pogrom, il che lo induce a giudicarla impraticabile, una politica che non pu funzionare. La scelta cade quindi sulla soluzione eliminazionista dello statuto di estraneit ("Fremdlingschaft"), cio la separazione degli ebrei dai popoli che li ospitano (183). Che gi nel giugno 1933 un eminente teologo potesse ipotizzare pubblicamente lo sterminio degli ebrei - quasi di sfuggita, senza troppe elaborazioni e giustificazioni, un'opzione come altre, da discutere liberamente quando si trattava di escogitare una soluzione alla "Judenfrage" rivela tutta la marca letale dell'antisemitismo eliminazionista dominante e la sua banale normalit come argomento di conversazione per i tedeschi nei primi anni Trenta.

A quello stesso periodo iniziale dell'influenza nazista risalgono prese di posizione ancor pi agghiaccianti e istruttive delle meditazioni di Kittel sull'opzione genocida. Una lettera di protesta del presidente americano del Consiglio cristiano universale per la vita e il lavoro a un alto funzionario dell'ufficio esteri della chiesa protestante tedesca rivela che "l'estate scorsa a Berlino alcuni rappresentanti ufficiali delle chiese hanno assicurato a certi miei colleghi che la politica [tedesca] potrebbe essere definita di sterminio umanitario ... Per dirla francamente, i cristiani d'America non possono concepire come umanitario nessuno sterminio di esseri umani. E trovano ancor pi difficile capire come sia possibile, in qualsiasi terra e in qualsiasi tempo, che degli uomini di chiesa favoriscano deliberatamente, con la propria influenza, la realizzazione di una politica siffatta ... E invece abbiamo dovuto rilevare che anche prima della rivoluzione, quando la libert di parola era ancora una realt in Germania, non ci stato dato di udire alcuna protesta di ecclesiastici tedeschi contro il violento antisemitismo dei nazionalsocialisti. Da allora abbiamo ricevuto un gran numero di apologie della situazione, ma nessun comunicato ufficiale, e ben poche dichiarazioni personali, in cui si percepisca qualche sensibilit ai fattori morali in gioco" (184). Quegli innominati, antisemiti rappresentanti ufficiali delle chiese erano talmente fuori di s da non esitare a rivelare l'impulso allo sterminio che muoveva loro e la loro societ ad autorevoli visitatori cristiani americani. Parrebbe fossero convinti che i colleghi di oltreoceano avrebbero compreso e approvato lo sterminio umanitario come soluzione alla "Judenfrage", una politica che sapevano perfettamente in linea (quanto meno per la parte che riguardava lo sterminio) con il nocciolo eliminazionista del programma dei nazisti. Non ipotizzabile che queste dichiarazioni fossero metaforiche n che gli americani le avessero male intese: la lettera di protesta chiarissima, cos come chiara la risposta. Se l'idea che l'americano si era fatto della posizione dei tedeschi fosse stata il frutto di confusioni o malintesi, certo che le autorit ecclesiastiche tedesche avrebbero cercato di chiarirla, di convincere i colleghi americani che quegli uomini di Dio tedeschi non sanzionavano la politica dello sterminio umanitario.

Per chiunque non fosse un sostenitore di quella soluzione sarebbe stato motivo di vergogna, allarme e dolore pensare che le sue opinioni e intenzioni fossero state tanto travisate. Ma, anzich fornire questi chiarimenti, il rappresentante tedesco della Congregazione internazionale delle chiese che rispose alla lettera si limit a osservare, con evidente disprezzo per quegli incorreggibili americani, che ogni ulteriore scambio di corrispondenza con il presidente era da considerarsi inopportuno. Le rivelazioni contenute nella lettera dell'americano e nella risposta che ottenne sono ulteriori indicazioni del potenziale micidiale presente nell'antisemitismo eliminazionista tedesco prima dell'epoca nazista e nei suoi primi mesi, quando il regime era ancora ben lontano dall'avviare la politica di sterminio. L'ideologia eliminazionista, derivata dal modello cognitivo culturale degli ebrei, fu alla base della politica ebraica negli anni Trenta sostenuta da tutto il popolo tedesco. Il programma genocida degli anni di guerra poggiava sulla stessa ideologia, sullo stesso sistema cognitivo: era una soluzione pi estrema a un problema sulla cui diagnosi l'intera Germania concordava. In questa luce, il passaggio dall'adesione alla politica eliminazionista degli anni Trenta all'approvazione della soluzione genocida fu meno lungo di quanto lo si sia voluto, quasi unanimemente, considerare (185). Per alcuni superare le inibizioni etiche di fronte a una strage totale non fu cosa di poco conto, ma le fondamenta motivazionali di una soluzione cos radicale erano state gettate da tempo e pretendevano dai tedeschi il coraggio delle proprie convinzioni, confidando nella capacit di Hitler, il Fhrer, di risolvere la questione senza compromettere nel lungo periodo il bene della Germania. Non sorprende, quindi, che la diffusione in tutto il paese delle notizie degli eccidi suscitasse qualcosa di pi di un mero disagio, dovuto da un lato al timore residuo in gente allevata nel rispetto del comandamento non uccidere che un'iniziativa cos spaventosa non poteva non suscitare e, dall'altro, alla paura di ci che avrebbero fatto ai tedeschi quegli esseri considerati tanto potenti, gli ebrei, se l'impresa fosse fallita (186). L'alternativa alla vittoria sul campo di battaglia, nell'allucinata visione del mondo che l'ex giovane hitleriano Heck condivideva con i compatrioti, era la notte infinita della schiavit giudaico-bolscevica, troppo orribile per poter essere contemplata (187).

Per i tedeschi risultavano altrettanto spaventose da contemplare le conseguenze di un eventuale fallimento del programma di sterminio degli ebrei. Fatte queste riserve del tutto prevedibili, e comunque di poco conto, nel 1939 i tedeschi comuni erano pronti a lasciare che il loro antisemitismo razziale venisse incanalato verso il genocidio e ad attivarsi per il progetto genocida. L'antisemitismo e l'ideologia eliminazionista li avevano davvero preparati a portare quelle convinzioni al pi logico e radicale estremo? Sarebbero stati davvero disposti, trovandosi di fronte a quel male che molti di loro conoscevano soltanto da lontano, a sanarlo nell'unico modo veramente finale? La struttura teorica che abbiamo elaborato per interpretare l'antisemitismo ci induce a rispondere di s, perch i fondamenti ideali di quella soluzione stavano nella stessa idea demonizzata degli ebrei dalla quale erano nate le tante e popolarissime misure intraprese negli anni Trenta dal regime e dalla gente comune di ogni ceto e provenienza per degradare e immiserire gli ebrei, escludendoli dalla societ tedesca. Ma questa valutazione teorica non di per s sufficiente; occorre anche un'indagine empirica. Per questo, dopo l'analisi del modo in cui l'antisemitismo eliminazionista indirizz l'evoluzione della politica antiebraica del nazismo, passeremo ora a un esame dettagliato delle azioni compiute da quei tedeschi comuni quando si videro proiettati nell'impresa dello sterminio. Che i tedeschi fossero posseduti da un antisemitismo razziale, demonologico non pu essere messo in dubbio; ma quanta potenza motivante emanava da quel tratto comune? in che modo li avrebbe indotti ad agire quando sarebbero stati chiamati a trasformarsi in assassini genocidi volontari?

NOTE AL CAPITOLO 3 N. 1. Klemens Felden, "Die bernahme des antisemitischen Stereotyps" cit., p. 47.N. 2. Confronta Werner Jochmann, Die Ausbreitung des Antisemitismus in Deutschland, 1914-1923, in "Gesellschaftskrise und Judenfeindschaft in Deutschland" cit., p. 99. Alexander Bein ("Die Judenfrage.

Biographie eine Weltproblems", Stuttgart, 1980, p. 3) data intorno al 1880 l'aumento improvviso nell'uso del concetto di "Judenfrage": Ancora una volta, nei numerosi scritti usciti in quel periodo, il concetto di "Judenfrage" veniva usato soprattutto dai nemici degli ebrei, agli occhi dei quali la loro esistenza e la loro condotta apparivano quanto meno problematiche, e forse persino pericolose. N. 3. Anche il linguaggio degli ebrei era soggetto alle costrizioni dei modelli cognitivi e linguistici del momento, e dunque anch'essi si videro costretti a includere la parola "Judenfrage" nel loro lessico e nelle pubblicazioni. "Das Jdische Lexikon. Ein enzyklopdisches Handbuch des jdischen Wissens in vier Bnden" (Berlin, 1929) definiva il concetto di "Judenfrage" come la totalit dei problemi originati dalla coesistenza degli ebrei con altri popoli. Una definizione idiosincratica, neutra, che negava la responsabilit degli ebrei rispetto ai problemi loro imputati dal modello cognitivo del termine. Tuttavia, sebbene i curatori del lessico rifiutassero di riconoscerne e codificarne il vero significato, indubbio che quando gli ebrei - in quanto membri di questa societ - lo udivano o lo leggevano erano comunque in grado di coglierne tutte le implicazioni. Confronta Leonore Siegele-Wenschewitz, Aus ein ander setzungen mit einem Stereotyp: die "Judenfrage" im Leben Martin Niemllers, in "Die Deutschen und die Judenverfolgung im Dritten Reich", a cura di Ursula Bttner, Hamburg, Hans Christians Verlag, 1992, p. 293. Sull'uso del termine "Judenfrage" presso tedeschi ed ebrei, confronta Alexander Bein, "Die Judenfrage" cit., p. 3 N. 4. A partire dal tardo Ottocento i tedeschi presero a considerare gli ebrei dell'Europa orientale residenti in Germania come portatori dell'essenza stessa dell'ebraicit. Scrive Steven Aschheim in "Brothers and Strangers" cit., p. 76: Mentre l'ebreo in caffettano evocava un passato misterioso, quello in cravatta simboleggiava un presente spaventoso. Nella mentalit diffusa in Germania la razza accomunava gli ebrei orientali a quelli tedeschi, sicch i primi erano un monito costante della presenza misteriosa e incombente del ghetto, visti dagli antisemiti come incarnazioni di una cultura fondamentalmente estranea, e persino ostile (pagine 58-59), a conferma del loro modello cognitivo culturale degli ebrei. N. 5. Peter G.J. Pulzer, "The Rise of Political Anti-Semitism" cit., p. 288. N. 6.

Confronta la trattazione delle accuse tedesche contro i loro connazionali ebrei durante la guerra in Werner Jochmann, Die Ausbreitung des Antisemitismus in Deutschland cit., pagine 101-17. Confronta inoltre Saul Friedlander, Political Transformations during the War and their Effect on the Jewish Question, in "Hostages of Modernization" cit., pagine 150-64. Erano accuse velenose, e al tempo di Weimar erano talmente radicate a livello culturale che la comunit ebraica si ritenne obbligata a confutare con dati statistici le argomentazioni degli antisemiti. Confronta Jacob Segall, "Die deutschen Juden als Soldaten im Kriege, 1914-1918: Eine statistische Studie", Berlin, Philo-Verlag, 1921. N. 7. Citato da Werner Jochmann, Die Ausbreitung des Antisemitismus in Deutschland cit., p. 101. N. 8. Citato da Uwe Lohalm, Vlkisch Origins of Early Nazism: AntiSemitism in Culture and Politics, in "Hostages of Modernization" cit., pagine 178, 192. N. 9. Ibid., pagine 185-86. N. 10. Ibid., pagine 186-89, da cui tratto il materiale per questo paragrafo. N. 11. Heinrich August Winkler, Anti-Semitism in Weimar Society, in "Hostages of Modernization" cit., pagine 201-2. N. 12. Citato da Robert Craft, "Jews and Geniuses", in New York Review of Books, 36, n. 2 (16 febbraio 1989), p. 36. Nel 1929, riferisce Einstein, arrivato in Germania [da Zurigo] quindici anni fa, scoprii per la prima volta di essere ebreo. Devo questa scoperta pi ai gentili che agli ebrei. N. 13. Citato da Uwe Lohalm, Vlkisch Origins of Early Nazism cit., p. 142. N. 14. Werner Jochmann, Die Ausbreitung des Antisemitismus in Deutschland cit., p. 167. Il saggio fornisce una valutazione terrificante sull'ubiquit dell'antisemitismo nella societ tedesca nel periodo di Weimar. N. 15.

Michael Kater, "Everyday Anti-Semitism in Prewar Nazi Germany: the Popular Bases", Y.V.S., 16,1984, pagine 129-59, in particolare pagine 3334. N. 16. Confronta Heinrich August Winkler, Anti-Semitism in Weimar Society cit., pagine 196-98. L'eccezione, ancorch politicamente insignificante, era costituita dal Partito popolare. Persino la S.P.D. fece poco per combattere l'antisemitismo nazista: confronta Donna Harsch, "German Social Democracy and the Rise of Nazism", Chapel Hill, University of North Carolina Press, 1993, p. 70. N. 17. Franz Bhm, "Antisemitismus", conferenza del 12 marzo 1958, citata da Werner Jochmann, Antisemitismus und Untergang der Weimarer Republik, in "Gesellschaftskrise und Judenfeindschaft in Deutschland" cit., p. 193.N. 18. Lettera di Max Warburg a Heinrich von Gleichen del 28 maggio 1931, citata da Werner Jochmann, Antisemitismus und Untergang der Weimarer Republik cit., p. 192. N. 19. Il programma del Partito nazionalsocialista riportato in "Nazism" cit., pagine 14-16. N. 20. Adolf Hitler, "Mein Kampf" cit., p. 738. N. 21. Ibid., p. 772. N. 22. E' difficile stabilire, nella commistione dei molti fattori che attirarono tanti tedeschi verso il nazismo, quale fu l'apporto dell'antisemitismo al suo definitivo successo elettorale. La base elettorale del nazismo viene analizzata in Jrgen W. Falter, "Hitlers Whler", Mnchen, Verlag C.H. Beck, 1991; Thomas Childers, "The Nazi Voter: the Social Foundations of Fascism in Germany", 1919-1933, Chapel Hill, University of North Carolina Press, 1983; Richard F. Hamilton, "Who Voted for Hitler?", Princeton, Princeton University Press, 1982. Se indubbio che i motivi immediati del richiamo esercitato dal nazismo fossero le impellenti e drammatiche questioni del momento - la crisi economica, il caos politico, il collasso istituzionale di Weimar -, certo altres che, a dir poco, l'antisemitismo virulento e dichiaratamente mortifero di Hitler non imped a milioni di tedeschi di passare dalla sua parte.

N. 23. Sui risultati elettorali, confronta Jrgen W. Falter, "Hitlers Whler" cit., pagine 31, 36. N. 24. Ci sono numerose analisi generali dell'antisemitismo tedesco e degli atteggiamenti rispetto alla persecuzione degli ebrei. Ovviamente non tutte sono concordi, n coincidono con le mie conclusioni. La pi importante quella di David Bankier ("The Germans and the Final Solution: Public Opinion under Nazism", Oxford, Blackwell, 1992) che contiene una massa di dati concreti a supporto delle mie posizioni assai pi cospicua di quanto lo spazio qui disponibile non mi consenta di riportare; e, anzi, Bankier presenta persino alcuni aspetti della tesi che sto sostenendo, sebbene tra la sua interpretazione e la mia permangano importanti differenze. L'assenza nel suo libro, per esempio, di un'indagine teorica o analitica sull'antisemitismo, o di una discussione pi generale sulla natura delle conoscenze, delle convinzioni e delle ideologie, e del loro rapporto con l'azione pratica, induce Bankier a dare dell'evidenza dei fatti interpretazioni che possono essere contestate. Un campione della letteratura esistente pu essere offerto dalle molte pubblicazioni di Ian Kershaw, tra le quali Antisemitismus und Volksmeinung: Reaktionen auf die Judenverfolgung, in "Bayern in der N.S.-Zeit", a cura di Martin Broszat ed Elke Frlich, Mnchen, R. Oldenbourg Verlag, 1989, vol. 2, pagine 281-348; "Popular Opinion and Political Dissent in the Third Reich" cit., capitoli 6 e 9; German Popular Opinion and the "Jewish Question", 1939-1943: Some Further Reflections, in "Die Juden im nationalsozialistischen Deutschland. The Jews in Nazi Germany, 19331943", a cura di Arnold Paucker, New York, Leo Baeck Institute, 1986, pagine 365-86. Confronta inoltre Otto Dov Kulka e Aron Rodrigue, "The German Population and the Jews in the Third Reich: Recent Publications and Trends in Research on German Society and the Jewish Question", in Y.V.S., 16,1984, pagine 421-35; Michael "Kater, Everyday AntiSemitism in Prewar Nazi Germany" cit.; Robert Gellately, "The Gestapo and German Society: Enforcing Racial Policy, 1933-1945", Oxford, Clarendon Press, 1990. Due fonti a stampa cui si fa ripetutamente ricorso in molti degli studi qui citati sono "Deutschland-Berichte der Sozialdemokratischen Partei Deutschlands (Sopade), 1934-1940", 7 volumi, Salzhausen-Frankfurt am Main, Verlag Petra NettelbeckZweitausendeins, 1980, e "Meldungen aus

dem Reich, 1938-1945: die geheimen Lageberichte des Sicherheitsdienstes der S.S.", a cura di Heinz Boberach, 17 volumi, Herrsching, Pawlak Verlag, 1984. N. 25. Melita Maschmann, "Fazit. Kein Rechtfertigungsversuch", Stuttgart, 1963, pagine 45 e seguenti. N. 26. Un'indagine sulle attestazioni praticamente infinite della qualit e dell'ossessivit dell'antisemitismo razzista dei nazisti pu ben cominciare da Adolf Hitler, "Mein Kampf" cit.; confronta inoltre, dell'autorevole teorico nazista Alfred Rosenberg, "Der Mythus des zwanzigsten Jahrhunderts", Mnchen, Hohelichen Verlag, 1944 (trad. it. "Il mito del ventesimo secolo", Genova, Il Basilisco, 1981); pi divulgativa l'opera di Hans Gnther, "Die Rassenkunde des deutschen Volkes", Mnchen, Lehmann Verlag, 1935. Si noti anche il morboso antisemitismo razziale del giornale di Julius Streicher, Der Strmer, che nel momento della massima diffusione vantava una circolazione di ottocentomila copie, e un pubblico parecchie volte pi numeroso; anche il giornale ufficiale del Partito nazista, il Vlkischer Beobachter, grondava antisemitismo razziale. Per l'analisi critica confronta Eberhard Jckel, "Hitler's World View: A Blueprint for Power" cit., ed Erich Goldhagen, "Obsession and Realpolitik in the Final Solution" cit., pagine 1-16. William L. Combs, "The Voice of the S.S.: A History of the S.S. Journal Das Schwarze Korps", New York, Peter Lang, 1986, passa in rassegna l'antisemitismo virulento e implacabile dell'organo ufficiale della guardia pretoriana del movimento nazista. N. 27. Per una discussione del concetto di morte sociale, confronta Orlando Patterson, "Slavery and Social Death: A Comparative Study", Cambridge Mass., Harvard University Press, 1982, specie pagine 1-14. Della morte sociale degli ebrei nella Germania nazista si parla nel capitolo 5. N. 28. Per una rassegna delle aggressioni nei mesi iniziali, confronta Rudolf Diels, "Lucifer Ante Portas: Zwischen Severing und Heydrich", Zrich, Interverlag, s.d. N. 29. Questo boicottaggio nazionale fu preceduto all'inizio di marzo da boicottaggi locali in almeno dodici citt tedesche: confronta Robert Gellately, "The Gestapo and German Society" cit., p. 102.

N. 30. "Why I Left Germany", di anonimo scienziato tedesco, London, M.M. Dent & Sons, 1934, pagine132-33. L'autore, che seppe cogliere l'aria che tirava, fugg dalla Germania nel 1933; il clima di odio pressoch universale per gli ebrei non gli lasciava speranze in un miglioramento, e neppure in una stabilizzazione, della loro posizione. Pi avanti, egli medita sulla reale diffusione della responsabilit morale ed effettiva di quel clima e dei provvedimenti antiebraici: "E' giusto considerare responsabile tutto il popolo per ogni delitto che viene commesso in suo nome?", mi chiedevo. E dentro di me una voce rispondeva: "In questo caso l'intera nazione responsabile del governo che ha portato al potere, e al quale la gente, pienamente consapevole di ci che avviene, inneggia a gran voce ogni qualvolta viene commesso un atto di violenza o un'ingiustizia" (p. 182). N. 31. Avraham Barkai, "Vom Boykott zur Entjudung" cit., p. 27. N. 32. Uno sguardo generale in Raul Hilberg, "The Destruction of European Jews" cit., pagine 43-105, e in Reinhard Rrup, Das Ende der Emanzipation: die antijdische Politik in Deutschland von der "Machtergreifung" bis zum Zweiten Weltkrieg, in "Die Juden im nationalsozialistischen Deutschland", pagine 97-114. Sull'esclusione e lo strangolamento economico degli ebrei, confronta Avraham Barkai, "Vom Boykott zur Entjudung" cit. Sulla professione medica, confronta Michael Kater, "Doctors under Hitler", Chapel Hill, University of North Carolina Press, 1989, pagine 177221. N. 33. David Bankier, "The Germans and the Final Solution" cit., p. 68; Raul Hilberg, "The Destruction of European Jews" cit., pagine 5657. N. 34. Scrive David Bankier in "The Germans and the Final Solution" cit., p. 68: Sebbene l'opinione pubblica in generale riconoscesse la necessit di una qualche soluzione alla "Judenfrage", vasti settori aborrivano il ricorso alla persecuzione. N. 35. Ibid., pagine 69-70. N. 36. Ian Kershaw, "Popular Opinion and Political Dissent in the Third Reich" cit., pagine 142-43.

N. 37. Citato da Fritz Stern, "Dreams and Delusions: National Socialism in the Drama of the German Past", New York, Vintage Books, 1987, p. 180. N. 38. Per un repertorio delle molteplici proibizioni e restrizioni di legge imposte dai tedeschi alla vita degli ebrei di Germania, confronta "Das Sonderrecht fr die Juden im N.S.-Staat: eine Sammlung der gesetzlichen Massnahmen und Richtlinien - Inhalt und Bedeutung", a cura di Joseph Walk, Heidelberg, C.F. Mller Juristischer Verlag, 1981. N. 39. Robert Gellately, "The Gestapo and German Society" cit., p. 105. N. 40. Michael Kater, "Everyday Anti-Semitism in Prewar Nazi Germany" cit., p. 145. N. 41. Marvin Lowenthal, "The Jews of Germany: a Story of Sixteen Centuries", Philadelphia, The Jewish Publication Society of America, 1938, p. 411. N. 42. Questa espressione tratta da una lettera di protesta di un ebreo di Wrzbug datata 1934, riportata da Robert Gellately, "The Gestapo and German Society" cit., p. 105. N. 43. "Why I Left Germany" cit., p. 82. N. 44. Per una rassegna di molti avvenimenti descritti in questo paragrafo, confronta Michael Kater, "Everyday Anti-Semitism in Prewar Nazi Germany" cit., pagine 142-50. N. 45. Citato da ibid., pagine 144-45.N. 46. "Selbstbehauptung und Widerstand: deutsche Juden im Kampf um Existenz und Menschenwrde, 1933-1945", a cura di Konrad Kwiet e Helmut Eschwege, Hamburg, Hans Christians Verlag, 1984, p. 44. N. 47. Robert Gellately, "The Gestapo and German Society" cit., p. 103, descrive effetti analoghi di una simile violenza in Franconia, concludendo che gli ebrei in Germania abbandonarono questo paese, e in special modo le zone rurali, per timore che si facesse violenza alle loro persone e propriet. La notizia di un pestaggio, di un arresto o di un danno alle cose circola veloce nell'ambiente rurale o della piccola citt. N. 48.

L'episodio narrato nei dettagli in Herbert Schultheis, "Die Reichskristallnacht in Deutschland: nach Augenzeugenberichten", Bad Neustadt am der Saale, Rtter Druck und Verlag, 1986, pagine 158-59. Per vicende simili in un'altra citt, Ober-Seemen: confronta ibid., pagine 159-60. N. 49. Wolf-Arno Kropat, "Kristallnacht in Hessen: der Judenpogrom vom November 1938", Wiesbaden, Kommission fr die Geschichte der Juden in Hessen, 1988, p. 245. N. 50. Su questo punto, confronta Michael Kater, "Everyday AntiSemitism in Prewar Nazi Germany" cit., p. 148. N. 51. Gli impulsi alla violenza avevano comunque bersagli specifici, non scelti a caso. Una canzone delle S.A., che risuonava assai spesso, cos esprimeva i loro istinti omicidi nei confronti degli ebrei: Quando il sangue ebreo sprizza dalla lama / tutto va per il meglio. / Il sangue deve scorrere fitto come un acquazzone. E' forse possibile che chi apparteneva a tale istituzione, o anche soltanto chi aveva ascoltato questa e altre canzoni sanguinarie dei nazisti, potesse dubitare che quella gente, quel movimento, faceva sul serio? Com'era possibile sostenerlo senza condividere l'interpretazione nazista della natura degli ebrei? N. 52. Michael Kater, "Everyday Anti-Semitism in Prewar Nazi Germany" cit., p. 142. N. 53. Robert Gellately, "The Gestapo and German Society" cit., p. 109. N. 54. Sull'esclusione degli ebrei dai bagni pubblici, confronta Michael Kater, "Everyday Anti-Semitism in Prewar Nazi Germany" cit., pagine 156-58. Confronta pure "Nazism" cit., p. 531, per un rapporto della polizia bavarese circa una manifestazione spontanea nel 1935, in cui i tedeschi chiesero che gli ebrei fossero esclusi dalla loro piscina. N. 55. Questa la conclusione di Michael Kater, "Everyday Antisemitism in Prewar Nazi Germany" cit., p. 154. N. 56. Ibid., pagine 150-54; Id., "Doctors under Hitler" cit., pagine 177-221. N. 57.

Confronta, per esempio, Arye Carmon, "The Impact of Nazi Racial Decrees on the University of Heidelberg", in Y.V.S., 11,1976, pagine 13163. N. 58. Citato da "The Jews in Nazi Germany: a Handbook of Facts Regarding their Present Situation", New York, American Jewish Committee, 1935, pagine 52-53. N. 59. Confronta Ingo Mller, "Furchtbare Juristen. Die unbewltigte Vergangenheit unserer Justiz", Mnchen, 1987, p. 99. N. 60. Il libro di Ingo Mller, citato alla nota precedente, pagine 120-25, lo documenta ampiamente. E' inoltre evidente che molti giudici condividevano in generale la teoria biologica razziale cos diffusa in Germania, tanto da sostenere le micidiali politiche eugenetiche del nazismo (pagine 120-25). N. 61. Otto Dov Kulka, "Die Nrnberger Rassengesetze und die deutsche Bevlkerung im Lichtegeheimer N.S.-Lage- und Stimmunysberichte, in V.f.Z. 32, 1984, p. 623. N. 62. Per i testi di queste leggi, confronta "Nazism", pagine 535-37. Una disamina delle Leggi di Norimberga e dei tentativi di assegnare all'ebreo una definizione generale in Raul Hilberg, "The Destruction of European Jews" cit., pagine 43-53; confronta inoltre Lothar Gruchmann, "Blutschutzgesetz und Justiz: zur Entstehung und Auswirkung des Nrnberger Gesetzes vom 15. September 1935", in V.f.Z., 31,1983, pagine 418-42. N. 63. Citato da Robert Gellately, "The Gestapo and German Society" cit., pagine 109-10 e 108-11. Gellately fa notare che sebbene vi fosse nei ceti medi qualcuno che considerava troppo estreme quelle leggi, in linea di massima esse furono accolte con favore. Per una disamina pi completa delle reazioni tedesche, confronta Otto Dov Kulka, "Die Nrnberger Rassengesetze" cit., pagine 582-624. N. 64. "Gestapo Hannover meldet..: Polizei- Und Regierungsberichte fr das mittlere und sudliche Niedersachsen zwischen 1933 und 1937", a cura di Klaus Mlynek, Hildesheim, Verlag August Lax, 1986, p. 524.

Questo rapporto fu provocato da un'esplosione di rabbia popolare seguita all'uccisione di un leader nazista svizzero per mano di un ebreo. N. 65. "Sopade", luglio 1938, A76. N. 66. Ibid., luglio 1938, A78. N. 67. David Bankier, "The Germans and the Final Solution" cit., pagine 83-85. N. 68. Confronta Der Judenpogrom 1938. Von der Reichskristallnacht zum Vlkermord", a cura di Walter H. Pehle, Frankfurt/M., 1988, soprattutto i saggi di Wolfgang Benz, Trude Maurer e Uwe Dietrich Adam; uno studio su base regionale Wolf-Arno Kropat, "Kristallnacht in Hessen" cit. N. 69. Avraham Barkai, The Fateful Year 1938: the Continuation and Acceleration of Plunder, in "Der Judenpogrom 1938" cit., pagine 11617. N. 70. Wolf-Arno Kropat, "Kristallnacht in Hessen" cit., p. 187. N. 71. Ibid., pagine 66-74, 243-44. N. 72. David Bankier, "The Germans and the Final Solution" cit., p. 86. Spiegava un volantino comunista clandestino: I cattolici erano inorriditi nel constatare come l'incendio delle sinagoghe fosse spaventosamente simile alle aggressioni delle squadracce di Hitler contro le sedi vescovili di Rothenburg, Vienna e Monaco. N. 73. Wolf-Arno Kropat, "Kristallnacht in Hessen" cit., p. 243. N. 74. Bernt Engelmann, "Im Gleichschritt marsch. Wie wir die Nazizeit erlebtell, 1933-1939", Kln, Kiepenheuer & Witsch, 1982, p. 300 e seguenti. N. 75. Ian Kershaw, "Popular Opinion and Political Dissent in the Third Reich" cit., pagine 267-71; David Bankier, "The Germans and the Final Solution" cit., pagine 85-88; Robert Gellately, "The Gestapo and German Society" cit., p. 122. N. 76. Scrive Ian Kershaw ("Popular Opinion and Political Dissent in the Third Reich" cit., p. 269): Una diffusa ostilit verso gli ebrei, un'approvazione acritica dei decreti antisemiti del governo, ma una netta condanna del

pogrom per i danni materiali che ne derivavano e per il volgare carattere teppistico dell'"azione" intrapresa dalla "feccia", caratterizzarono la reazione di ampi settori della popolazione Anche molti antisemiti, compresi iscritti al partito, consideravano disdicevole il pogrom, pur approvandone le cause di fondo e le conseguenze. N. 77. Confronta Avraham Barkai, "Vom Boykott zur Entjudung" cit., p. 151. N. 78. David Bankier, "The Germans and the Final Solution" cit., p. 87. N. 79. Hermann Glaser, Die Mehrheit htte ohne Gefahr von Repressionen fernbleiben knnen, in "Niemand war dabei und keiner hat's gewusst die deutsche ffentlichkeit und die Judenverfolgung 1933-1945", a cura di Jrg Wollenberg, Mnchen, Piper, 1989, pagine 26-27. N. 80. Alfons Heck, "The Burden of Hitler's Legacy", Frederick Colorado, Renaissance House, 1988, p. 62. N. 81. Ian Kershaw, "Popular Opinion and Political Dissent in the Third Reich" cit., p. N. 82. Melita Maschmann, "Fazit. Kein Rechtfertigungsversuch", cit., p. 61. N. 83. Il paragone di Erich Goldhagen. N. 84. Confronta David Bankier, "The Germans and the Final Solution" cit., pagine 77-78. Sulla persecuzione legalizzata del disonore della razza in una regione tedesca confronta Hans Robinsohn, "Justiz als politische Verfolgung: die Rechtsprechung in Rassen schandefllen beim Landgericht Hamburg, 19361943", Stuttgart, Deutsche VerlagsAnstalt, 1977. N. 85. La vicenda narrata in questo paragrafo tratta da David Bankier, "The Germans and the Final Solution" cit., pagine 122-23. N. 86. Sebbene alcuni potessero abiurare formalmente il razzismo in quanto contrario all'universalismo insegnato dalla chiesa, accettavano per il dogma centrale dell'opinione razzista (di cui le implicazioni eliminazioniste erano parte integrante) circa l'impossibilit della redenzione per gli ebrei. N. 87. David Bankier, "The Germans and the Final Solution" cit., p. 122.

Confronta inoltre Gnter Lewy, "The Catholic Church and Nazi Germany", New York McGraw-Hill 1964, pagine 285-86 (trad. it. "I nazisti e la Chiesa", Milano, Il Saggiatore, 1965) e Richard Gutteridge, "The German Evangelical Church and the Jews, 1879-1950", New York, Harper & Row, 1976, p. 233. N. 88. David Bankier, "The Germans and the Final Solution" cit., p. 122. N. 89. Ci vale per tutti, facendo eccezione, naturalmente, per gli ebrei esentati per aver contratto matrimoni misti, o perch figli di genitori misti, per quelli rinchiusi nei campi di concentramento entro i confini della Germania, e per il ritorno di decine di migliaia di ebrei alla fine della guerra con le marce della morte (di cui si parla nei capitoli 13 e 14). N. 90. Anne Haag, "Das Glck zu Leben", Stuttgart, Bonz, 1967 (alla data del 5 ottobre 1942). E' difficile capire perch David Bankier che riporta anch'egli l'episodio in "The Germans and the Final Solution" cit., p. 130 - arrivi a concludere che incidenti di questa sorta convalidano l'idea che il contatto quotidiano con un clima violento e antisemita and progressivamente ottundendo la sensibilit della gente di fronte alla sorte del suo prossimo ebreo. Come molti altri, questo incidente non evidenzia una sensibilit ottusa bens le convinzioni profonde dei tedeschi e la loro disponibilit a manifestarl. Che ci fosse mai stata nella Germania nazista, se non in pochissimi, una sensibilit della gente di fronte alla sorte del suo prossimo ebreo un presupposto che non trova conferma alcuna nella realt, e che anzi, per come la vedo io, viene inficiato dai fatti concreti che Bankier espone in tutto il suo libro. N. 91. "Wir haben es gesehen: Augenzeugenberichte ber Terror und Judenverfolgung im Dritten Reich", a cura di Gerhard Schoenberner, Hamburg, Rtten & Loening Verlag, 1962, p. 300. N. 92. David Bankier, "The Germans and the Final Solution" cit., p. 135. N. 93. Karl Ley, "Wir glauben ihnen: Tagesbuchaufzeichnungen und Erinnerungen eines Lehrers aus dunkler Zeit", Siegen-Volnsberg, Rebenhain Verlag, 1973, p. 115. N. 94.

Ruth Andreas-Friedrich, "A Berlin sous les Nazis", Paris, Flammarion, 1966. Scrive Ian Kershaw (German Popular Opinion and the "Jewish Question" cit., p. 380) che quanto sappiamo circa la conoscenza della sorte riservata agli ebrei dimostra quindi in modo schiacciante che le informazioni in proposito erano largamente disponibili. Su un rapporto interno alla cancelleria del Partito nazista, nel novembre 1942, circa le notizie che circolavano ampiamente in Germama sul massacro degli ebrei, confronta "Die Ermordung der Europischen Juden: Eine umfassende Dokumentation des Holocaust, 1941-1945", Mnchen, Piper, 1989, pagine 433-34. L'idea che pochi in Germania sapessero del sistematico eccidio degli ebrei perpetrato dal loro paese viene chiaramente confutata dai documenti, e ci rende ancor pi sorprendente il fatto che questo mito venga ancora coltivato e propagato. Confronta in proposito Hans-Heinrich Wilhelm, "The Holocaust in National-Socialist Rhetoric and Writings" cit., pagine 95-127, e Wolfgang Benz, The Persecution and Extermination of the Jews in the German Consciousness cit., pagine 91-104 e soprattutto pagine 97-98; un'opinione contraria di Hans Mommsen, Was haben die Deutschen vom Vlkermord an den Juden gewusst, in "Der Judenpogrom 1938", a cura di Walter H. Pehle cit., pagine 176-200. N. 95. Marlis Steinert, "Hitlers Krieg und die Deutschen: Stimmung und Haltung der deutschen Bevlkerung im Zweiten Weltkrieg", Dsseldorf, Econ Verlag, 1970, pagine 238-39. David Bankier ("The Germans and the Final Solution" cit., pagine 13337) esamina anche i casi di alcuni tedeschi che manifestarono compassione per gli ebrei. Secondo Bankier molti tedeschi furono indifferenti - deliberatamente indifferenti, sottolinea - di fronte a un'azione criminale (p. 137). Come sostengo dettagliatamente nel capitolo 16, il concetto di indifferenza non ha adeguato supporto teorico e non corretto applicarlo ai tedeschi nel periodo nazista, che non potevano evitare di avere opinioni e di prendere posizione in merito agli infiniti aspetti della persecuzione degli ebrei, compresa la deportazione. N. 96. Mentre i cattolici in genere tendevano ad abbandonare a loro stessi gli ebrei convertiti al cattolicesimo, le pi alte gerarchie della chiesa tennero fede invece alla dottrina del battesimo.

Confronta Gnther Lewy, "The Catholic Church and Nazi Germany" cit., pagine 284-87. N. 97. Citato da ibid., p. 163; confronta pagine 162-66 per ulteriori attestazioni di come la chiesa cattolica adottasse e predicasse la retorica della razza (pur continuando a rivendicare il primato della legge divina sulle leggi razziali dell'umanit). N. 98. "Sopade", gennaio 1936, A18. N. 99. Ihid., A17. N. 100. Scrive lan Kershaw (German Popular Opinion and the "Jewish Question" cit., p. 370): La sensazione che esistesse davvero una "Judenfrage", che gli ebrei fossero davvero un'altra razza, che si fossero meritati tutti i provvedimenti presi per contrastarne l'illecita influenza, e che dovessero essere del tutto esclusi dalla Germania, si era ormai [1938-1939] minacciosamente diffusa. Sull'antisemitismo degli operai tedeschi, confronta David Bankier, "The Germans and the Final Solution" cit., pagine 89-95. La sua analisi degli operai pi circostanziata della nostra breve disamina, ma le sue conclusioni coincidono con quelle qui esposte: Non stupisce che gli operai reagissero ai provvedimenti antisemiti allo stesso modo di altri settori della societ tedesca. Sorprende invece l'altro aspetto che si evidenzia ... nelle ricerche di "Sopade": che il regime nazista riuscisse a indurre parti significative della classe operaia a condividere l'odio antiebraico e persino ad appoggiare la sua politica antisemita (p. 94). N. 101. Richard Gutteridge, "The German Evangelical Church and the Jews" cit., pagine 35, 39. Anche nel momento della contrizione, dopo la guerra, non sempre si riusc a soffocare quel profondo antisemitismo. Il vescovo August Marahrens dichiar: Per quanto in fatto di fede fossimo forse assai lontani dagli ebrei, e bench una parte di loro abbia forse provocato gravi danni al nostro popolo, non si sarebbe comunque dovuto aggredirli in quel modo disumano (p. 300. La struttura logica della frase merita un commento: gli ebrei provocano danni ai tedeschi, ma i realizzatori del genocidio, noi, o i tedeschi, cedono all'impersonale quando si tratta della disumana aggressione agli ebrei). Il modello cognitivo culturale dell'ebreo fatica a sparire.

Alcuni estratti dalle antisemitiche "Parole sulla Judenfrage" del Consiglio dei Confratelli della chiesa evangelica di Germania del 1948 (Crocefiggendo il Messia, Israele ha rigettato la sua elezione e la sua vocazione [di popolo eletto]) sono in Julius H. Schoeps, "Leiden an Deutschland: Vom antisemitischen Wahn und der Last der Erinnerung", Mnchen, Piper, 1990, p. 62. N. 102. Wolfgang Gerlach, "Als die Zeugen schwiegen: Bekennende Kirche und die Juden", Berlin, Institut Kirche und Judentum, 19932, pagine 30 e seguenti. N. 103. "Die Katholiken und das Dritte Reich", a cura di Klaus Gotto e Konrad Repgen Mainz, Matthias-Grunewald-Verlag, 1990, p. 199. N. 104. Citato da Wolfgang Gerlach, "Als die Zeugen schwiegen" cit., pagine 3233. N. 105. Werner Jochmann, Antijudische Tradition im deutschen Protestantismus und nationalsozialistische Judenvervolgung, in "Gesellschaftskrise und Judenkindschaft in Deutschland" cit., p. 272. Secondo Jochmann, negli anni precedenti l'ascesa al potere di Hitler l'antisemitismo protestante era talmente forte che tutti gli appelli degli ebrei alla coscienza dei cristiani caddero nel vuoto. Un rabbino di Kiel, per esempio, invi nel maggio 1932 un appello al locale Ufficio ecclesiale chiedendo collaborazione nella lotta contro un antisemitismo sempre pi intenso e potente: non ebbe nemmeno risposta (pagine 272-73). N. 106. Citato da Wolfgang Gerlach, "Als die Zeugen schwiegen" cit., p. 42. N. 107. Wolfgang Gerlach, Zwischen Kreuz und Davidstern: Bekennende Kirche in ihrer Stellung zum Judentum im Dritten Reich, tesi di dottorato, Facolt Evangelica-Teologica dell'Universit di Amburgo, 1970, p. 11 nota. N. 108. Wolfgang Gerlach, "Als die Zeugen schwiegen" cit., p. 43. N. 109. Citato da Julius H. Schoeps, "Leiden an Deutschland" cit. p. 58. N. 110. Friedrich Heer, "God's First Love", Worcester, Trinity Press, 1967, p. 324 (ed. orig. "Gttes erste Liebe. 2000 Jahre Judentum u. Christentum", Mnchen, Bechtle, 1967).

N. 111. Bernd Nellessen, Die schweigende Kirche: Katholiken und Judenverfolgung in "Die Deutschen und die Judenverfolgung im Drittem Reich", a cura di Ursula Bttner, cit., p. 265. N. 112. Citato da Gnther Lewy, "The Catholic Church and Nazi Germany" cit., p. 294. N. 113. Bernd Nellessen, Die schweigende Kirche cit., p. 261. N. 114. Gnther Lewy, "The Catholic Church and Nazi Germany" cit., pagine 29192; Richard Gutteridge, "The German Evangelical Church and the Jews" cit., in particolare pagine 153, 267-313; J.S. Conway, "The Nazi Persecution of the Churches, 1933-1945", New York, Basic Books, 1968, pagine 261-67. N. 115. Saul Friedlnder, "Pius XII and the Third Reich: A Documentation", New York, Alfred A. Knopf, 1966, p. 115 (trad. it. "Pio Dodicesimo e il Terzo Reich - documenti", Milano, Feltrinelli, 1965, ed. orig. "Pie Douze et le Troisime Reich - documents", Paris, Editions du Seuil, 1964). N. 116. Gnther Lewy, "The Catholic Church and Nazi Germany" cit., p. 282. La chiesa protest soltanto perch la legge sovraccaricava di lavoro i preti senza remunerarli. N. 117. Friedrich Heer, "God's First Love" cit., p. 323.N. 118. Sui protestanti, confronta Johan M. Snoek, "The Grey Book: A Collection ot Protest Against Anti-Semites and the Persecution of Jews Issued by NonRoman Catholic Churches and Church Leaders During Hitler's Rule", Assen, Van Gorcum, 1969; sui cattolici, confronta Gnther Lewy, The "Catholic Church and Nazi Germany" cit., p. 293; sulla Francia, Michael R. Marrus e Robert O. Paxton, "Vichy France and the Jews", New York, Schocken Books, 1983, pagine 262, 270-75. N. 119. Non un solo cattolico tedesco fu scomunicato mentre commetteva, o per aver commesso, alcuni dei crimini pi gravi nella storia. Confronta Friedrich Heer, "God's First Love" cit., p. 323. N. 120. Confronta Julius H. Schoeps, "Leiden an Deutschland" cit., p. 60. N. 121.

Stewart.W. Herman, "It's Your Souls We Want", New York, Harper and Brothers, 1943, p. 234. Herman parla esplicitamente anche dell'eccidio degli ebrei lituani e lettoni. N. 122. "Landesbischof d. Wurm und der Nationalsozialistiche Staat, 1940-1945: Eine Dokumentation", a cura di Gerhard Schfer, Stuttgart, Calwer Verlag, 1968, p. 15 N. 123. "Kirkliches Jahrbuch fr die Evangelische Kirche in Deutschland 1933-1944", Gtersloh, Bertelsmann Verlag, 1948, p. 481. Il loro razzismo era esplicito: Dalla crocefissione di Cristo a oggi, gli ebrei hanno combattuto, insultato o falsificato il cristianesimo per conseguire i loro egoistici scopi. Il battesimo cristiano non modifica in alcun modo il carattere razziale dell'ebreo, la sua appartenenza a quel popolo o il suo essere biologico. Ci non significa che tutti i membri della gerarchia ecclesiastica concepissero gli ebrei in termini razziali; a questo proposito esistevano divergenze all'interno delle chiese, e senza dubbio c'era molta confusione e vaghezza di fronte all'erosione dell'antico tipo di antisemitismo predominante da parte del nuovo modello culturale. In merito, confronta Richard Gutteridge, "The German Evangelical Church and the Jews" cit., pagine 35-90. Se pure tra le due visioni del mondo esistevano fondamentali momenti di congruenza e identit - a ci si doveva la grande attrazione esercitata dal nazismo sul clero e sul laicato cristiano -, si davano anche divergenze altrettanto fondamentali, divergenze che venivano represse, negate, evitate o ricomposte nei modi pi disparati. N. 124. Senza dubbio qualcuno sosterr che queste persone non sapevano dello sterminio e sottolineer che l'invito a bandire gli ebrei dai territori tedeschi non rappresenta un loro cenno di consenso al genocidio. L'idea che gli ecclesiastici non fossero al corrente delle stragi in corso difficile da accettare, data l'ormai enorme diffusione delle notizie sugli stermini in massa e i molteplici canali di informazione di cui disponevano le autorit della chiesa, per molti versi il gruppo meglio informato del paese. Al momento del proclama, la notizia del massacro sistematico degli ebrei era sulla bocca di tutti; i tedeschi avevano gi ammazzato centinaia di migliaia di ebrei in Unione Sovietica (e verso quella direzione gli alti gradi della chiesa, ricorrendo all'eufemismo nazista allora corrente, volevano bandirli).

Milioni di soldati tedeschi in Unione Sovietica sapevano del genocidio, perch molte stragi si erano svolte all'aperto, in mezzo ai reparti dell'esercito e perch l'esercito stesso aveva preso pienamente parte alle operazioni. Dello sterminio erano al corrente anche i preti e i pastori inquadrati nell'esercito, che sicuramente ne avevano riferito ai loro superiori. Il vescovo Wurm, in contatto costante con altri vescovi, d per indiscutibile il fatto che la notizia degli eccidi fosse giunta ai vertici della gerarchia. Perci, tenendo conto delle ripetute ed esplicite dichiarazioni che Hitler aveva reso delle proprie intenzioni di sterminio, estremamente improbabile che ecclesiastici di questa levatura, in un proclama collettivo accuratamente calibrato, potessero usare l'espressione misure pi severe senza intendere sterminio. Le parole successive, la loro cacciata da tutti i territori tedeschi, in questo contesto non sono che un eufemismo per un'eliminazione del tipo ormai comune ovunque, di chiara interpretazione per ogni tedesco coinvolto nel genocidio. Il linguaggio velato imposto dal regime vietava di chiamare il genocidio con il suo vero nome in pubblico e anche nella corrispondenza ufficiale. Espressioni come trasferimento, o spostamento all'Est divennero quindi codici e sinonimi di sterminio. Poich allora la Germania era in guerra e non c'era posto in cui potesse bandire gli ebrei - e quegli ecclesiastici lo sapevano bene -, l'unico modo per bandirli era ucciderli. N. 125. Martin Niemller, "Alles und in allem Christus. 15 Dahlemer Predigten", Berlin, 1935, p. 87. In questo sermone Niemller attacca persino i nazisti (senza nominarli) paragonandoli agli ebrei! Quanto malvagi sono gli ebrei? Sono i responsabili, secondo Niemller, non soltanto del sangue di Ges e del sangue di tutti i suoi messaggeri, ma di ben altro, del sangue di tutti gli uomini giusti che furono assassinati per aver testimoniato la santa volont di Dio contro la tirannica volont dell'uomo (p. 89). Niemller un esempio perfetto di militante antinazista che fu anche militante antisemita. N. 126. Diversamente dalla maggioranza degli antisemiti tedeschi, Niemller assumeva una posizione etica che lo induceva a non cercare la vendetta sugli ebrei, che spettava soltanto, nella sua opinione, a Dio.

Detto questo, comunque, proseguiva la sua inviperita condanna di quegli ebrei che, fra le altre cose, erano maledetti per l'eternit per aver crocifisso Ges. Sull'antisemitismo di Niemller confronta Richard Gutteridge, "The German Evangelical Church and the Jews" cit., pagine 100-4. N. 127. Citato da Hartmut Ludwig, "Die Opfer unter dem Rad Verbinden: Vorund Entstehungsgeschichte, Arbeit und Mitarbeiter des Bro Pfarrer Grber", Berlin, Tesi di abilitazione, 1988, pagine 73-74. N. 128. Citato da Julius H. Schoeps, "Leiden an Deutschland" cit., p. 58. In una lettera del 1967 Barth confessava che nei miei incontri diretti con ebrei viventi (persino con ebrei cristiani!) ho sempre dovuto, per quanto mi ricordi, reprimere un senso di avversione del tutto irrazionale (Karl Barth, "Briefe 1961-1968", a cura di Jrgen Faugmeier e Heinrich Stoevesandt, Zrich, Karl Kupisch, 1975, vol. 5, pagine 420 e seguente). N. 129. Johan M. Snoek, "The Grey Book" cit., p. 113. N. 130. Werner Jochmann, Antijudische Tradition im deutschen Protestantismus und nationalsozialistische Judenverfolgung cit., pagine 273-74. N. 131. Julius H. Schoeps, "Leiden an Deutschland" cit., p. 61. N. 132. Citato da Richard Gutteridge, "The German Evangelical Church and the Jews" cit., p. 304. In un sermone del 1945 Niemller espresse una condanna analoga per l'antisemitismo che pervadeva la chiesa. Se i quattordicimila pastori evangelici della Germania, dichiar, avessero riconosciuto dall'inizio delle persecuzioni contro gli ebrei ... che era Ges Cristo Signore il perseguitato ... pu ben darsi che il numero delle vittime non avrebbe superato le diecimila (pagine 3034). Secondo Niemller, il rifiuto delle autorit cristiane di pronunciarsi e di agire in favore degli ebrei non fu dovuto soprattutto alla paura del regime, bens a un motivo pi profondo: gli uomini di tonaca non condannavano i provvedimenti eliminazionisti che venivano applicati anche in loro nome.N. 133. Rapporto del 7 agosto 1944, citato da Christof Dipper, "The German Resistance and the Jews", Y.V.S., 16,1984, p. 79. N. 134.

Citato da ibid., p. 78. N. 135. Citato da ibid., p. 79. N. 136. "In der Stunde Null: Die Denkschrift des Freihurger BonhoefferKreises", a cura di Helmut Thielicke, Tbingen, Mohr, 1979, pagine 147-51. Un'analisi del livello di questa proposta in Christof Dipper, "The German Resistance and the Jews" cit., p. 77. N. 137. La descrizione della resistenza qui abbozzata trova conferma ibid., soprattutto alle pagine 60, 71-72, 75-76, 81, 83-84, 91-92. N. 138. Konrad Kwiet e Helmut Eschwege, "Selbstbehauptung und Widerstand" cit., p. 48. Sulla diffusione dell'antisemitismo e dell'adesione al programma eliminazionista nella classe operaia, confronta David Bankier, "The Germans and the Final Solution" cit., pagine 89-95. N. 139. David Bankier ("The Germans and the Final Solution" cit., p. 94) rileva questo fenomeno nella classe operaia, sostenendo che molti sedicenti non nazisti concordavano nondimeno con la drastica riduzione dei diritti degli ebrei e con la loro esclusione dalla nazione tedesca. Anche parecchi socialisti, contrari ai metodi brutali del Terzo Reich, erano convinti per che "non tanto terribile trattare gli ebrei a questo modo" . N. 140. Confronta il capitolo 11 per una discussione pi approfondita in merito. N. 141. Robert Gellately, "The Gestapo and German Society" cit., p. 251. N. 142. Ibid., pagine 216-52. N. 143. Ibid., pagine 226-27. N. 144. Ibid., p. 252. N. 145. Citato da ibid., pagine 248-49. N. 146. Ibid., pagine 242-43. Robert Gellately sostiene che queste critiche vennero soprattutto dai tedeschi religiosi.

N. 147. Citato da ibid., p. 226. N. 148. Ian Kershaw, "Popular Opinion and Political Dissent in the Third Reich" cit., pagine 205-208. Confronta anche Jeremy Noakes, The Oldenburg Crucifix Struggle of November 1936: a Case Study of Opposition in the Third Reich, in "The Shaping of the Nazi State", a cura di Peter D. Stachura, London, Croom Helm, 1978, pagine 210-33. Un conflitto ancor pi aspro intorno ai crocefissi avvenne in Baviera tra l'aprile e il settembre 1941, in coincidenza con l'inizio dei massacri genocidi di ebrei. Il conflitto si concluse con una sonora sconfitta del regime. Confronta Ian Kershaw, "Popular Opinion and Political Dissent in the Third Reich" cit., pagine 340-57. Nonostante la violenta opposizione alla politica religiosa del regime, l'"adesione ideologica" dei protestatari ai suoi obiettivi pi generali era chiarissima, con frequenti espressioni di appassionato anticomunismo e, meno frequenti, di razzismo. Una cartolina anonima inviata al presidente della Regione bavarese riecheggia l'assiomatica attribuzione della colpa del bolscevismo agli ebrei, esprimendo nel contempo sostegno al regime: La campagna contro il giudeo-bolscevismo ci appare come una crociata. Era firmata: I cattolici di Baviera (ibid., p. 356). N. 149. David Bankier, "The Germans and the Final Solution" cit., p. 17. N. 150. Confronta Ian Kershaw, "Popular Opinion and Political Dissent in the Third Reich" cit., pagine 66-110. N. 151. Ibid., p. 90. N. 152. David Bankier, "The Germans and the Final Solution" cit., pagine 20-26. N. 153. "Popular Opinion and Political Dissent in the Third Reich" cit., di Ian Kershaw, si basa molto su questi rapporti. Pubblicati nei 17 volumi delle "Meldungen aus dem Reich, 1938-1945" cit., contengono un diluvio di espressioni di dissenso sulle iniziative politiche del governo, e di malcontento sulla pi ampia gamma di argomenti. N. 154.

Ian Kershaw, "Popular Opinion and Political Dissent in the Third Reich" cit., p. 8. Questa e molte altre testimonianze documentano che la misura dell'intimidazione cui erano sottoposti i tedeschi comuni nel periodo nazista stata in genere esagerata. N. 155. Confronta Henry Friedlander, "The Origins of Nazi Genocide: From Euthanasia to the Final Solution", Chapel Hill, University of North Carolina Press, 1995, pagine 111 e seguenti; Michael Burleigh, "Death and Deliverance: Euthanasia in Germany c. 1900-1945", Cambridge, Cambridge University Press, 1994, pagine 162-80; Ian Kershaw, "Popular Opinion and Political Dissent in the Third Reich" cit., pagine 334-40; Gnther Lewy, "The Catholic Church and Nazi Germany" cit., pagine 263-67; ed Ernst Klee, "Euthanasie im N.SStaat: Die Vernichtung lebensunwertes Lebens", Frankfurt am Main, Fischer Verlag, 1983, pagine 294-345. Nonostante la sospensione formale, il regime continu a eliminare le vite indegne di essere vissuteo in modo pi discreto, con il programma noto come Aktion 14f13. Comunque sia, l'opposizione morale e la protesta politica dei tedeschi contro questi assassini serv a salvare molte vite. N. 156. Ovviamente l'opposizione all'eliminazione dei malati mentali e degli handicappati fu una conseguenza del rifiuto di taluni aspetti importanti del razzismo biologico nazista. Queste vittime erano tedeschi come gli altri, e in quanto tali godevano del diritto alla vita e a un'assistenza decente. Si tratta di un esempio particolarmente efficace dell'incapacit del regime nazista di trasformare le convinzioni e i valori pi radicati nei tedeschi, inducendo la gente ad accettare in silenzio qualsiasi decisione politica soltanto perch lo stato la considerava opportuna o necessaria. E basta questo esempio per smentire la tesi del lavaggio del cervello relativamente all'antisemitismo, cos diffusa tra gli studiosi. N. 157. Confronta Nathan Stoltzfus, "Dissent in Nazi Germany", The Atlantic Monthly, 270, 3, settembre 1992, pagine 86-94. N. 158.Per la consistente influenza dell'opinione pubblica sulle scelte del regime, confronta David Bankier, "The Germans and the Final Solution" cit., pagine 10-13. N. 159. Lo sostiene anche David Bankier, ibid., p. 27.

N. 160. Confronta Ian Kershaw, "Der Hitler Mythos. Volksmeinung und Propaganda", Stuttgart, 1980, in particolare p. 112. N. 161. Ian Kershaw, "Popular Opinion and Political Dissent in the Third Reich" cit., pagine 176-77. Kershaw ne conclude che, se pure tra i protestanti era diffuso il rifiuto dell'indirizzo anticristiano del nazismo, a esso si accompagnava un entusiastico sostegno per molti obiettivi politici nazionali condivisi con i nazisti (p. 184). L'insoddisfazione esplicita nel ceto medio per talune scelte del regime era del tutto compatibile con la pi entusiastica adesione al nazismo, e infatti spesso la accompagnava (pagine 131, 139) N. 162. Tra le fonti principali, se non la pi importante, per queste dichiarazioni di malcontento ci sono i rapporti del Partito socialdemocratico sulla Germania ("Sopade"), che bisogna trattare con circospezione per due ordini di motivi correlati. E' ovvio che gli agenti del partito avevano tutto l'interesse e la predisposizione ideologica a cogliere nel popolo tedesco - e specialmente nella classe operaia - i segni del dissenso. Ed ancor pi probabile che gli autori dei rapporti fossero portati a commettere gli stessi errori interpretativi - di cui ora si dir nel testo - in cui cadono gli storici quando tentano di capire le critiche mosse dai tedeschi all'impresa eliminazionista. Erano portati a interpretare le critiche ad alcune iniziative politiche specifiche come segnali di un generale rifiuto dell'antisemitismo e dei progetti eliminazionisti. Se anche gli storici, addestrati all'analisi e all'interpretazione, commettono questo errore, non sorprende certo che sbagliassero quei cronisti motivati dalle speranze della socialdemocrazia. Le valutazioni e i giudizi generali che compaiono nei rapporti sono quindi assai meno attendibili degli episodi particolari che vi vengono riferiti e sui quali dobbiamo presumere si basassero appunto le valutazioni. Sono giudizi positivi gi filtrati attraverso la lente deformante della convinzione che la dittatura terroristica del nazismo esercitasse una draconiana repressione sulla maggioranza del popolo tedesco. I singoli episodi riferiti dagli agenti - i dati meno toccati dall'interpretazione - corrispondono in genere a una delle categorie di cui ora diremo e dunque non confermano le interpretazioni generali

esageratamente positive proposte dai socialdemocratici, tendenti a mettere in dubbio l'antisemitismo dei tedeschi. Occorre inoltre rilevare che i rapporti contengono molte esplicite indicazioni e dichiarazioni sulla diffusione dell'antisemitismo nel popolo tedesco; ne abbiamo riportate alcune in questo stesso capitolo. N. 163. Ne portano alcuni esempi Hans Mommsen e Dieter Obst, Die Reaktion der deutschen Bevlkerung auf die Verfolgung der Juden, 19331945, in "Herrschaftsalltag im Dritten Reich: Studien und Texte", a cura di Hans Mommsen e Susanne Willems, Dsseldorf, Schwann, 1988, pagine 378-81. N. 164. "Gestapo Hannover meldet...", a cura di Klaus Mlynek cit., p. 411. N. 165. Critiche analoghe venivano mosse al tipo di antisemitismo propugnato costantemente da Der Strmer. Il taglio quasi pornografico, morboso dei suoi aneddoti e delle caricature suscit le proteste degli antisemiti pi accaniti e di nazisti di ogni rango, che lo trovavano osceno e dannoso per la salute morale dei tedeschi e in particolare della giovent. Das Schwarze Korps, l'organo ufficiale delle S.S., il giornale nazista pi ideologicamente radicale - e antisemita, naturalmente -, nel giugno 1935 richiamava all'ordine Der Strmer con un articolo dal titolo "L'antisemitismo che ci danneggia". Persino il comandante di Auschwitz, Rudolf Hss, che presiedeva all'eccidio in massa di centinaia di migliaia di ebrei, era disgustato da quel tipo di antisemitismo. E' evidente che da un'obiezione contro certi aspetti di carattere formale o politico non derivava necessariamente, n tanto meno frequentemente, un rifiuto generale dell'antisemitismo eliminazionista. Confronta "Kommandant in Auschzwitz: Autobiographische Aufzeichnungen des Rudolf Hss", a cura di Martin Broszat, Mnchen, Deutscher Taschenbuch Verlag, 51963, p. 112 (trad. it. "Comandante ad Auschwitz. Memoriale autobiografico di Rudolf Hss", Torino, Einaudi, 1960). N. 166. Heinz Boberach, Quellen fr die Einstellung der deutschen Bevlkerung und die Judenverfolgung, 1933-1945, in "Die Deutschen und die Judenverfolgung im Dritten Reich", a cura di Ursula Bttner cit., p. 38. N. 167.

Accadde anche che, dopo un bombardamento, i tedeschi aggredissero gli ebrei in cui si imbattevano per caso. Confronta Ursula Bttner, Die deutsche Bevlkerung und die Juden Verfolgung, 1933-1945, in Ursula Bttner, "Die Deutschen und die Judenverfolgung im Dritten Reich" cit., p. 78. N. 168. "Sopade", febbraio 1938, A67N. 169. Qualche generica dichiarazione di carattere etico da parte delle autorit cattoliche tedesche contro gli eccidi si trova in Burkhard van Schewick, Katholische Kirche und nationalsozialistische Rassenpolitik, in "Die Katholiken und das Dritte Reich", a cura di Klaus Gotto e Konrad Repgen cit., p. 168; e in Gnter Lewy, "The Catholic Church and Nazi Germany" cit., pagine 291-92. N. 170. "Landesbischof D. Wurm und der Nazionalsozialistische Staat", a cura di Gerhard Schfer, cit., p. 162. N. 171. Ibid., p. 312. Bisogna dire che, sul piano confessionale, le dichiarazioni di Wurm non erano meri costrutti artificiosi, escogitati per solleticare la sensibilit del pubblico: rappresentavano invece le sue vere convinzioni. Confronta Richard Gutteridge, "The German Evangelical Church and the Jews" cit., pagine 186-87, 246. N. 172. Nur. Doc. 1816-P.S., I.M.G., vol. 28, p. 518; confronta anche pagine 499500. N. 173. Una rassegna, un inventario e molti esempi delle fonti e dei dati esistenti sull'atteggiamento dei tedeschi verso gli ebrei e la loro persecuzione sono in Heinz Boberach, Quellen fr die Einstellung der deutschen Bevlkerung und die Judenverfolgung cit., pagine 31-49. In questa sede non vi lo spazio per analizzare pi dettagliatamente le dichiarazioni di tedeschi interpretate da molti come indicazioni di un loro rifiuto dell'antisemitismo o del programma eliminazionista. Nella maggioranza dei casi non difficile dimostrare che quelle critiche non muovevano da prese di posizione di principio, allo stesso modo degli esempi che ho gi presentato in questo capitolo (parlando della Notte dei cristalli, delle chiese o della resistenza antihitleriana). Come ho gi messo in evidenza quei pochi scrupoli manifestati dai tedeschi tradiscono quasi sempre il loro antisemitismo eliminazionista. N. 174.

Di alcuni di questi personaggi si parla in Wolfgang Benz, berleben im Untergrund, 1943-1945, in "Die Juden in Deutschland, 1933-1945: Leben unter nationalsozialistischer Herrschaft", a cura dello stesso, Mnchen, Verlag C.H. Beck, 1988, pagine 660-700. Karl Ley, un insegnante, che raccont nel diario della sua opposizione alla persecuzione eliminazionista degli ebrei, sapeva che quelle opinioni erano tanto rare da annotare, il 15 dicembre 1941, di aver finalmente scoperto di non essere del tutto solo: una collega si era dichiarata contraria alla persecuzione. Confronta Karl Ley, "Wirglauben Ihnen" cit., p. 116. N. 175. Secondo Heinz Boberach, i dati sui sentimenti del pubblico tedesco indicherebbero una diffusione dell'antisemitismo minore rispetto a quella che io ho ipotizzato, ma a contraddirlo basta questa impressionante differenza nei commenti dei tedeschi sugli stranieri non ebrei e sugli ebrei, che lui stesso rileva nel paragrafo conclusivo del suo saggio (Quellen fr die Einstellung der deutschen Bevlkerung und die Judenverfolgung cit., p. 44). Qualche esempio di tedeschi che espressero la loro solidariet in Konrad Kwiet, Nach dem Pogrom: Stufen der Ausgrenzung, in "Die Juden in Deutschland", a cura di Wolfgang Benz cit., pagine 619-25. N. 176. Un compendio illustrativo in C.C. Aronsfeld, "The Text of the Holocaust" cit. N. 177. Un'analisi dei danni inflitti alla dignit delle persone in James C. Scott, "Domination and the Art of Resistance: Hidden Transcripts", New Haven, Yale University Press, 1990, pagine 112-15. N. 178. Dopo l'analisi degli atti di parola elaborata da John L. Austin in "How to Do Things with Words", Cambridge Mass., Harvard University Press, 1962 (trad. it. "Come fare con le parole. Le William James Lectures tenute alla Harvard University nel 1955", Genova, Marietti, 1987), la netta distinzione tra parlare e agire crollata. La parola, specie quando intesa a persuadere o a fare del male, azione almeno quanto lo alzare le mani in un momento d'ira. La violenza verbale, con la sua riconosciuta capacit di ferire, va dunque giudicata come una continuazione dell'atto di violenza fisica.

E, anzi, ci sono promesse violente (un noto omicida che minaccia di uccidere qualcuno, per esempio) che vanno indubbiamente considerate pi dannose di certi atti di violenza fisica. N. 179. "Die Unlsbarkeit der Judenfrage", citato in Ludger Heid, Die Juden sind unser Unglck!: Der moderne Antisemitismus in Kaiserreich und Weimarer Republik, in "Der ewige Judenhass: christlicher Antijudaismus, deutschnationale Judenfeindlichkeit, rassistischer Antisemitismus", a cura di Christine von Braun e Ludger Heid, Stuttgart, Barg Verlag, 1990, p. 128. N. 180. Ludwig Lewisohn, The Assault on Civilization, in "Nazism: An Assault on Civilization", a cura di Pierre van Paassen e James Waterman Wise, New York, Harrison Smith and Robert Haas, 1934, pagine l56- 17. N. 181. Dorothy Thompson, "The Record of Persecution", cit., p. 12. Nel novembre 1935 il quotidiano britannico The Times proponeva un'osservazione analoga: Se non si far qualcosa, in alto loco, per tentare di controllare la ferocia dei fanatici antisemiti, gli ebrei saranno condannati, per cos dire, a correre alla cieca fino alla morte. E' questa la situazione per la quale stato coniato il termine "pogrom a freddo" (citato da Robert Gellately, "The Gestapo and German Society" cit., pagine 108-109). Un'altra predizione dello sterminio degli ebrei in Friedrich Heer, "God's First Love" cit., p. 323. N. 182. Citato in "Hunter and Hunted: Human History of the Holocaust", a cura di Gerd Korman, New York, Viking, 1973, p. 89. N. 183. Un'analisi della lezione di Kittel in Robert P. Ericksen, "Theologians Under Hitler: Gerhard Kittel, Paul Althaus and Emmanuel Hirsch", New Haven, Yale University Press, 1985, pagine 55-58; e in Ino Arndt, Machtbernahme und Judenboykott in der Sicht evangelischer Sonntagsbltter, in "Miscellanea: Festschrift fr Helmut Krausnick zum 75. Gekurtstag", Stuttgart, Deutsche Verlags-Anstalt, 1980, pagine 27-29. N. 184. Citato da Wolfgang Gerlach, "Als die Zeugen schwiegen" cit., p. 112. N. 185. Persino David Bankier ("The Germans and the Final Solution" cit., p. 156) che riconosce la diffusione dell'antisemitismo razzista in Germania e le sue conclusioni eliminazioniste, scrive: L'esortazione nazista ad appoggiare la soluzione della "Judenfrage" non fu dunque raccolta.

N. 186. Ian Kershaw, "Popular Opinion and Political Dissent in the Third Reich" cit., p. 370. N. 187. Alfons Heck, "The Burden of Hitler's Legacy" cit., p. 87.

Parte seconda IL PROGRAMMA ELIMINAZIONISTA E LE STRUTTURE "Questa gente deve sparire dalla faccia della terra". Heinrich Himmler, da un discorso ai capi del Partito nazista, Posen, 6 ottobre 1943.

Capitolo 4 L'AGGRESSIONE NAZISTA AGLI EBREI: CARATTERE ED EVOLUZIONE

L'aspirazione eliminazionista di Hitler e dei nazisti fu sempre chiara e costante, anche prima dell'ascesa al potere, ma l'evoluzione delle loro intenzioni immediate e delle misure pratiche contro gli ebrei non fu lineare ne coerente. La cosa non deve sorprendere: era salito al potere un regime determinato a compiere un'impresa - l'eliminazione degli ebrei da ogni aspetto della vita sociale tedesca, ma anche l'annullamento della loro presunta capacit di danneggiare la Germania - enormemente complessa e senza precedenti in epoca moderna. La sua realizzabilit era condizionata da tutta una serie di limitazioni, e si trovava a competere, o persino a entrare in conflitto, con altri obiettivi importanti. I nazisti avevano preso il potere in circostanze difficili, nel pieno di una depressione, assediati dall'ostilit di potenze straniere e con il pensiero rivolto a un insieme di obiettivi revanscisti e rivoluzionari. Ritenere che qualsiasi regime, specie in un contesto siffatto, potesse perseguire l'eliminazione degli ebrei dalla Germania, dall'Europa, dal mondo, senza le abituali contorsioni della politica, senza compromessi tattici, senza adattamenti pragmatici, senza differire gli obiettivi a lungo termine in favore del conseguimento di vantaggi a breve o a medio in altri settori, significa farsi un'idea decisamente non realistica della natura del governo; significa attribuire ai nazisti una capacit prodigiosa di tradurre nella pratica i loro ideali, di dare sbocco politico alle loro aspirazioni.

Com'era inevitabile, la persecuzione nazista degli ebrei non si conform a questa concezione idealizzata, caricaturale dell'andamento della politica. La strategia antiebraica fu caratterizzata da apparenti incoerenze e da conflitti tra le diverse sedi concorrenziali del potere decisionale. C' stato per chi ha concluso, attenendosi ai provvedimenti presi di volta in volta, che l'evoluzione della politica nazista fu disarticolata, che di fatto nessuno ne aveva il controllo, che la decisione di annientare gli ebrei fu la mera conseguenza di esigenze contingenti e indesiderate, che ebbe ben poco a che fare con le intenzioni dei capi del partito o di Hitler, che non era organica alla visione nazista del mondo. E' un'idea del tutto sbagliata: la politica ebraica dei nazisti fu coerente e tesa al conseguimento di obiettivi precisi. Le intenzioni e le decisioni furono sempre fondate su una concezione degli ebrei articolata e condivisa: l'antisemitismo razziale eliminazionista. E' sufficiente riconoscere la presenza di questa ideologia - dalla quale derivavano la diagnosi del presunto problema e le diverse soluzioni pratiche possibili alla base del pensiero e dell'azione dei nazisti - perch i contorni della loro politica antiebraica divengano subito assai meno enigmatici, assai pi intenzionali, assai pi facili da comprendere per ci che di fatto erano: "il tentativo concertato, ma flessibile e necessariamente sperimentale, nato da un'intenzione consapevole di eliminare il presunto potere e l'influenza degli ebrei nel modo pi radicale e definitivo possibile". Fu consapevole in quanto scopertamente, e frequentemente, enunciato; concertato perch furono in molti a perseguirlo con coerenza e dedizione; sperimentale e flessibile perch i tedeschi si videro costretti a concepire, impostare e applicare la loro politica muovendosi in un territorio inesplorato e soggetto a un gran numero di condizionamenti empirici. Se anzi si tiene conto di tutte le limitazioni e le incertezze che condizionano l'attivit politica, quella nazista appare "estremamente coerente", pi di quanto ammettano gli studi recenti, pi di quanto si sarebbe potuto ragionevolmente immaginare. Per dimostrare questa tesi, e "insieme" per cogliere il senso della politica antiebraica dei nazisti, occorre reimpostare alcuni problemi, ricorrendo a una nuova struttura interpretativa (1). Prima di affrontare l'evoluzione di tale politica, dobbiamo delineare rapidamente alcune questioni concettuali e analitiche. La nozione di intenzionalit, il rapporto di Hitler con i suoi seguaci e il metodo per valutare il grado di coerenza interna di un insieme di azioni questioni tutte della massima importanza - sono stati esplicitamente o

implicitamente oggetto, e con ogni probabilit continueranno a esserlo, di discussioni, e dunque vale la pena di soffermarvisi per chiarirle. Il sistema politico della Germania nazista era insieme dittatoriale e consensuale: dittatoriale in quanto non esistevano meccanismi formali - le elezioni, per esempio - per controllare il potere di Hitler o per rimuoverlo dal suo incarico; consensuale in quanto il ceto dirigente, cos come a grandi linee l'intera opinione pubblica tedesca, accettavano il sistema e l'autorit hitleriana come fatti positivi e legittimi (2). All'interno di questo vasto consenso sussistevano tuttavia divergenze e conflitti in molti ambiti, compresa la politica antiebraica, dovuti a tre motivi principali. In primo luogo esistevano dei condizionamenti reali, che imponevano compromessi e il rinvio degli obiettivi politici al momento in cui si fossero presentate, o fossero state create, le circostanze favorevoli. In secondo luogo lo stile di comando di Hitler, sovente non interventista, lasciava ampio potere decisionale ai sottoposti, spesso appartenenti a strutture diverse, e mossi da idee non sempre coincidenti (3). Il terzo motivo era dato dalle naturali tensioni e disarticolazioni che si presentano ogniqualvolta si intraprende una nuova e difficile iniziativa su scala nazionale, alla quale prendono parte istituzioni concorrenti (nel caso specifico, con giurisdizioni confuse e sovrapposte) in assenza di un forte organismo centrale di controllo (4). E infine, quanto alla politica ebraica dei nazisti, come se gi questi tre aspetti del sistema politico non fossero sufficienti per produrre incoerenze e contraddizioni, l'ideologia eliminazionista era in grado di contemplare un'ampia variet di soluzioni, ognuna delle quali senza precedenti e di difficile realizzazione. In conseguenza di tutto ci, coloro che impostavano e mettevano in pratica la politica antiebraica, pur concordando sui principi generali, avevano idee diverse sui dettagli, sul modo migliore per applicarla alla luce di altri obiettivi generali, su quali fossero i suoi obiettivi a breve, medio e lungo termine e sui tempi di attuazione di ciascuno di essi. Non stupisce dunque che i nazisti avanzassero verso la soluzione della loro "Judenfrage" procedendo a tentoni. Questi aspetti del sistema rendono pi complesso il tentativo di comprendere quali fossero davvero le intenzioni dei nazisti nei confronti degli ebrei in Germania e in Europa e, indipendentemente dalle intenzioni, quali considerazioni li abbiano indotti a adottare le decisioni e i provvedimenti che di fatto finirono per scegliere.

Il metodo analitico oggi prevalente consiste nella costruzione di una concatenazione plausibile, non soltanto dei provvedimenti effettivi ma anche delle intenzioni, fondata su quanto veniva fatto "in ogni singolo momento", e su ci che parevano sapere i diversi protagonisti circa le intenzioni sottostanti a ciascun provvedimento. Ogni fase di tale svolgimento viene quindi spiegata con riferimento alle configurazioni politiche, istituzionali, territoriali e militari del momento, alle quali le intenzioni e le azioni dei rispettivi agenti materiali si sarebbero informate. Si tratta di un metodo funzionale per comprendere le concettualizzazioni e gli atti dei realizzatori a un livello minimale e medio. Tuttavia, se non viene integrato da uno schema interpretativo di pi ampio respiro, esso finisce per accentuare i fattori materiali e contingenti, sopravvalutando le deviazioni secondarie rispetto alla linea principale, e perdendo di vista il carattere complessivo del nazismo e della sua politica eliminazionista. La prospettiva dal basso estremamente istruttiva nonch necessaria - ma pu solo integrare, non sostituire, la visione panoramica dall'alto. Tenendo conto di questi problemi interpretativi, la mia impostazione si fonda sulle considerazioni che seguono. Ogni valutazione degli eventi deve partire da Hitler. Vorremmo sapere molto di pi circa il suo ruolo nel processo decisionale, ma risulta comunque chiaro che Hitler fu il primo motore della persecuzione che culmin nel genocidio, in quanto fu lui a compiere personalmente le scelte cruciali in quella direzione (5). Detto questo, possiamo far seguire due affermazioni ulteriori. In primo luogo, le massime e le intenzioni eliminazioniste di Hitler non vacillarono mai; gi il 13 agosto 1920, in un discorso dal titolo "Perch siamo antisemiti", le aveva formulate in pubblico, proclamando che il primo passo sarebbe consistito nel riconoscimento della natura dell'ebreo, al quale sarebbe dovuta seguire la nascita di un'organizzazione che un giorno proceder al fatto; la nostra determinazione a compiere quel fatto irremovibile. Esso si chiama allontanamento degli ebrei dal nostro "Volk" (6). In secondo luogo, fu l'irremovibile determinazione di Hitler a fornire il modello della politica ebraica in Germania (egli non pens mai, n propose seriamente, che i tedeschi potessero vivere in pace e in armonia con gli ebrei); una determinazione che non pu certo stupire, considerata la sua antica e immutabile valutazione della gravit della minaccia ebraica.

Il pericolo era tale - come dichiar pubblicamente nel 1920 di fronte a milleduecento persone che non sarebbe arretrato di fronte a nulla pur di sbarazzarsi degli ebrei. E proclamava sinistramente: Siamo animati dall'inesorabile risoluzione di estirpare il Male [gli ebrei] alla radice, per sterminarlo ["auszurotten"] fino all'ultimo. Per ottenere questo scopo non dobbiamo fermarci di fronte a nulla, anche se dovessimo allearci con il diavolo (7). Proclamandosi disposto ad allearsi con il diavolo, Hitler affermava che avrebbe fatto tutto ci che era necessario, ricorrendo anche ai mezzi pi inusitati ed esecrandi, per arrivare all'eliminazione degli ebrei; il linguaggio dello sterminio totale non gli era certo sfuggito per errore. La questione di fondo quindi questa: in che modo Hitler riusc a trasformare le sue intenzioni nei presupposti concreti dell'azione, alla luce non solo del mutare delle circostanze e dei condizionamenti esterni, ma anche dei suoi stessi obiettivi e valori che potevano entrare in conflitto con la politica eliminazionista? Per valutare la portata delle questioni in gioco, occorre operare e tenere a mente una serie di distinzioni concettuali. Gli ideali sono le immagini ottimali che ciascuno si fa di ci che auspicabile in un mondo non gravato dai condizionamenti dell'esistenza fisica e sociale. Le intenzioni sono i progetti che si formulano per intervenire sul mondo reale a fronte di determinate situazioni e condizionamenti effettivi o potenziali. Le scelte sono le direttrici di azione decise in una situazione contingente determinata e storicamente condizionata. Nessuno dei tre concetti riflette per forza perfettamente gli altri due. In assenza di barriere insormontabili, le intenzioni seguono in genere gli ideali, e le azioni, cio le scelte, vengono in genere formulate per realizzare le intenzioni. Ci non toglie che gli ideali siano spesso in palese contraddizione con quanto conseguibile nella realt; le intenzioni si approssimano quindi assai poco agli ideali, perch si costretti a fare ragionevoli concessioni alla realt; e spesso le scelte sono un pallido riflesso delle intenzioni, per non dire degli ideali, perch le decisioni sulle azioni da intraprendere devono concedere alla realt ancor pi di quanto non conceda persino la pi prudente delle intenzioni. Le scelte naturalmente possono essere articolate tenendo conto di una serie di ideali e intenzioni alternativi, nel qual caso pu anche sembrare che

la persona non nutra determinate intenzioni, che invece sussistono e possono essere ben risolute. E' dunque possibile coltivare l'ideale di un mondo libero dall'influenza degli ebrei e avere la ferma intenzione di realizzarlo non appena si verifichino le condizioni propizie. Tuttavia, temporaneamente si possono seguire linee politiche non orientate in quella direzione, soltanto perch si ritiene che in quel particolare momento l'ideale non sia praticabile. Prendere tempo adottando scelte intermedie o non pienamente soddisfacenti una risposta razionale e prudente di fronte a un ostacolo insormontabile; e non incompatibile con quell'ideale, con quell'intenzione ultima. E pertanto non vale come dimostrazione della loro assenza. Alla luce di quanto detto, possiamo senz'altro sostenere che Hitler fu il motore della politica antiebraica che port alle persecuzioni e allo sterminio degli ebrei. Nei primi anni di governo egli dovette adattarsi a soluzioni di compromesso per l'evidente impossibilit immediata, e persino a lungo termine, di risolvere la "Judenfrage" come avrebbe desiderato. Tutte le soluzioni perseguite da lui e dai suoi sottoposti derivavano in modo diretto e immediato dalla medesima diagnosi del problema, l'antisemitismo razziale eliminazionista espresso in uno degli slogan pi frequenti dell'intero periodo nazista: Ebreo perirai!. Le scelte politiche dei tedeschi nei confronti degli ebrei non furono che variazioni sul comune tema eliminazionista, variazioni che pur comportando conseguenze enormemente diverse per le vittime, dal punto di vista funzionale dei realizzatori erano fondamentalmente equivalenti. Avevano il medesimo significato e, cos come veniva espresso dall'antisemitismo razziale eliminazionista hitleriano in uno degli slogan pi diffusi in epoca nazista, scaturivano da un medesimo intento: questo l'elemento chiave per spiegare l'andamento della persecuzione. I realizzatori avevano tutti lo stesso modello cognitivo culturale degli ebrei, da cui derivavano la logica, la spaventosa energia e le direttrici essenziali di tutti i provvedimenti concreti. L'insieme delle misure intraprese dai tedeschi contro gli ebrei in Germania e in Europa rivela la presenza di due obiettivi comuni che furono componenti costanti della politica ebraica, indipendentemente dal contenuto concreto dei provvedimenti: 1) trasformare gli ebrei in esseri morti per la societ - esseri da dominare con la violenza, alienati per nascita, disonorati da tutti -, e quindi trattarli come tali (8); 2) allontanarli nel modo pi

radicale e permanente possibile dal contatto fisico con il popolo tedesco, e dunque annullarli come fattore della vita della Germania. La convinzione della validit di questi obiettivi costituiva l'assioma di quella politica, il suo modello cognitivo di base. Il conseguimento degli obiettivi comport scelte e provvedimenti diversi, talora in concomitanza con altri: 1) aggressione verbale; 2) aggressione fisica; 3) provvedimenti giuridici e amministrativi per isolare gli ebrei dai non ebrei; 4) emigrazione forzata; 5) deportazione e trasferimento forzato; 6) separazione fisica nei ghetti; 7) morte per fame, debilitazione e malattia (prima della formalizzazione del programma genocida); 8) lavoro in condizione di schiavit fino alla morte; 9) genocidio, soprattutto fucilazioni in massa, denutrizione calcolata e camere a gas; 10) marce della morte.Nessuna di queste misure e di altre ancora si discostava dai due obiettivi centrali: la morte civile degli ebrei e l'eliminazione della loro presenza dai territori dominati dai tedeschi. Nondimeno, le prime tre - l'aggressione verbale e fisica e le restrizioni giuridiche e amministrative - sono di particolare rilievo perch contribuirono in modo simbiotico e simultaneo al conseguimento di entrambi gli obiettivi. Non v' dubbio che nel 1939 la Germania fosse ormai riuscita a conseguire la morte civile degli ebrei. L'aggressione verbale, ovvero la misura pi coerente, reiterata e pervasiva applicata dal governo tedesco, viene riconosciuta e discussa, ma di rado analizzata come parte integrante della politica antiebraica. Da tutti i mezzi di comunicazione tedeschi, dai discorsi di Hitler, dalle trasmissioni radiofoniche, dai giornali, dalle riviste, dai film, dai libri scolastici, dai manifesti, scaturiva un fiume costante, onnipresente, di contumelie antisemite. Dell'effetto di questo fuoco di sbarramento sull'immagine che i tedeschi avevano degli ebrei si gi detto nel capitolo precedente; qui analizzeremo i suoi scopi politici e sociali. Esso era soprattutto l'espressione, la dichiarazione delle convinzioni pi profonde di Hitler e dei suoi seguaci, che proclamavano l'intenzione di liberare la Germania dal presunto giogo ebraico. Una violenza verbale rivolta al pubblico tedesco, ma anche agli ebrei, tesa com'era a confermare il primo nelle sue convinzioni e insieme a infondere spavento nei secondi; queste misure terroristiche avevano lo scopo emotivamente gratificante di far precipitare gli ebrei nella paura, e quello programmatico di indurli ad abbandonare la Germania e, si sperava, a lasciarla in pace per il futuro.

L'aggressione verbale contribu alla medesima stregua delle altre misure a trasformare gli ebrei in esseri socialmente morti, completamente privi di dignit e onore, e nei confronti dei quali i tedeschi non avevano alcun obbligo morale. Un sopravvissuto cos ricorda questo aspetto della politica nazista nel periodo successivo al boicottaggio del primo aprile: Il fuoco di sbarramento della propaganda si riversava sugli ebrei con immutata violenza e intensit. Incessante, ripetitiva, l'idea che gli ebrei fossero creature subumane, fonti di ogni male, veniva conficcata a forza nella mente dei lettori e degli ascoltatori (9). La violenza verbale faceva parte integrante di due degli obiettivi prioritari di Hitler: la morte civile degli ebrei (che preparava i tedeschi alle pi drastiche misure eliminazioniste) e la riduzione della loro influenza sulla Germania, inducendoli a emigrare. L'aggressione fisica perdur per tutto il periodo nazista, compresi gli anni Trenta, bench in modo pi saltuario. Il regime pratic, incoraggi e toller la violenza contro gli ebrei, che negli anni Quaranta divenne parte della loro esistenza quotidiana, ma che gi nel decennio precedente poteva esplodere in qualsiasi momento. A volte assumeva la forma di proditori pestaggi e umiliazioni ritualizzate per iniziativa di qualche funzionario locale; altre volte si trattava di violente campagne terroristiche, seguite dall'internamento nei campi di concentramento, organizzate dalle autorit centrali. Come si gi detto, le aggressioni fisiche, al pari della violenza verbale, dimostravano a tutti che gli ebrei erano al di fuori della comunit morale e che avrebbero fatto bene a togliersi di mezzo. Non solo: preannunciavano la dura sorte che poteva attenderli. Fra tutte le misure intraprese, la separazione giuridica e amministrativa degli ebrei dalla comunit tedesca poteva considerarsi l'equivalente non verbale dell'aggressione verbale. Diversamente da quanto fecero per tanti altri provvedimenti antiebraici, i tedeschi passarono all'azione in questo campo quasi nell'istante stesso in cui i nazisti presero il potere, portando avanti senza sosta un programma che and assumendo fra gli anni Trenta e Quaranta un ritmo sempre pi implacabile. L'esclusione graduale e sistematica degli ebrei dalla sfera pubblica politica, sociale, economica, culturale ebbe su di essi un effetto di logoramento grave quanto la sofferenza provocata dalle difficolt economiche che ne derivavano (10).

Una settimana dopo il boicottaggio del primo aprile 1933, i tedeschi cominciarono con l'escluderli dalla pubblica amministrazione attraverso la Legge per il ripristino dell'ordine professionale nel pubblico impiego del 7 aprile, cui fece seguito, nelle settimane successive, il bando da molte attivit professionali (11). L'esclusione dalla sfera economica progred durante i primi anni del regime nella misura consentita dalle esigenze generali del paese, per poi prendere nuovo slancio nel 1938 (12). Il 22 settembre 1933 i tedeschi cacciarono gli ebrei dagli ambienti della cultura e della stampa, che molti ritenevano particolarmente infettati dalla loro presenza. Sotto il nazismo i tedeschi proscrissero di fatto ogni tipo di relazione fra ebrei e tedeschi, cos come le pi significative pratiche religiose dell'ebraismo, attraverso una pioggia di leggi restrittive che regolavano puntigliosamente cosa fosse consentito e cosa vietato. Il 21 aprile 1933, a poche settimane dalla presa del potere da parte dei nazisti, i tedeschi proibirono la macellazione rituale, e poich essa era un elemento caratterizzante dell'identit ebraica, vietarla equivaleva a dichiarare che l'essere ebrei costituiva di per s una violazione dell'ordine e delle norme morali della societ. A conti fatti, i tedeschi furono testimoni della promulgazione di quasi duemila leggi e provvedimenti amministrativi diretti a degradare e immiserire gli ebrei: norme senza precedenti, per qualit e quantit, in secoli e secoli di storia delle minoranze in Europa (13). L'anello pi significativo di questa catena sempre pi soffocante di limitazioni fu l'annuncio delle Leggi di Norimberga nel settembre 1935 che, insieme con altri decreti successivi, definirono giuridicamente l'essere ebreo, fornendo per la prima volta un'indicazione chiara, a livello nazionale, su quali fossero le persone soggette alle leggi e ai decreti relativi. Fedeli ai fondamenti razziali della concezione del mondo e degli ebrei predominante, i criteri adottati poggiavano essenzialmente sulle linee ereditarie, non sull'identit religiosa: quando la quota dell'ascendenza ebraica di un determinato individuo corrispondeva ai criteri fissati, la legge tedesca considerava ebreo anche chi (grazie alla conversione dei genitori) era invece cristiano, indipendentemente dall'assenza di qualsiasi identificazione psicologica o sociale con il mondo ebraico (14). Le Leggi di Norimberga privavano inoltre gli ebrei della cittadinanza e proibivano - fatto questo di enorme rilevanza simbolica oltre che pratica - i nuovi matrimoni e i rapporti sessuali extraconiugali tra ebrei e non ebrei.

Le leggi, i regolamenti e le misure degli anni Trenta miravano a privare gli ebrei di ogni mezzo di sostentamento, a precipitarli nella disperazione, a isolarli dalla societ nella quale si erano mossi liberamente fino a pochi anni prima. Gli ebrei erano socialmente morti. A partire dal primo settembre 1941, la politica che mirava a isolare gli ebrei tedeschi, e a farne degli esseri socialmente morti, fu intensificata con il decreto del governo che imponeva loro di portare in pubblico una grande stella di Davide gialla sulla quale spiccava, in nero, la parola "Jude". Gli effetti erano ovvi. Il marchio aggravava l'umiliazione, gi pesantissima, e nel bel mezzo di un popolo cos ostile li trasformava in veri e propri bersagli, accrescendo ulteriormente la loro insicurezza: i passanti tedeschi potevano ora identificarli senza difficolt, e per questo gli ebrei, soprattutto i bambini, subivano aggressioni verbali e fisiche ancor pi frequenti. Una donna ebrea di Stoccarda ricorda che portare la stella gialla, con la quale fummo marchiati dopo il 1941, era una forma di tortura. Ogni giorno, quando uscivo per strada, dovevo lottare per conservare la mia dignit (15). La stella gialla consentiva ai tedeschi di riconoscere, controllare ed evitare chi recava il marchio della morte civile; non sorprende che la sua degradante imposizione divenisse uno dei tratti caratteristici dell'occupazione tedesca in Europa (16). La segregazione sociale, con tutte le sue componenti, e la violenza verbale (e fisica) interagivano accrescendo gli effetti globali. Mentre la violenza verbale proclamava tanto ai tedeschi quanto agli ebrei la cesura morale che li separava, i provvedimenti giuridici enunciavano e imponevano una divaricazione fisica e sociale. Insieme, concorrevano a trasformare gli ebrei in esseri socialmente morti, in una comunit di lebbrosi contro la quale era lecita qualsiasi azione. E rendevano tanto dura, difficile e degradante l'esistenza quotidiana degli ebrei da indurli a fuggire dal paese: dei 525 mila che vivevano in Germania nel gennaio 1933, 130 mila emigrarono nei cinque anni successivi. Nel 1938 anche i pi illusi dovettero convincersi che vivere in Germania non era pi possibile: l'esodo si intensific nel 1938-39, con l'emigrazione di altri 118 mila ebrei, che ormai accettavano di trasferirsi in qualsiasi paese disposto ad accoglierli; dopo l'inizio della guerra riuscirono a fuggire dalla Germania altre 30 mila persone circa (17).

I tedeschi erano riusciti ad allontanare con la forza pi di met della popolazione ebraica - che in genere se ne andava rinunciando a beni, propriet e ricchezze - da quella che un tempo era stata una patria diletta. Bench l'"ideale" di Hitler nel corso degli anni Trenta rimanesse sempre l'eliminazione di qualsiasi forma di potere ebraico, le sue intenzioni immediate, cos come si riflettevano nelle scelte dei tedeschi, si riducevano al pi modesto obiettivo di una Germania "judenrein". Era questa la politica pi efficace, per quanto non soddisfacente in ultima istanza, nel contesto internazionale degli anni Trenta. La Germania assediata, debole, di quel periodo non avrebbe potuto intraprendere misure pi radicali senza rischiare una guerra che non aveva alcuna speranza di vincere. Negli anni Trenta il paese stava faticosamente riprendendosi dalla depressione economica, si riarmava, e nella seconda parte del decennio, con la diplomazia e la forza delle armi, conseguiva i primi successi territoriali e in politica estera: l'abrogazione di fatto delle condizioni imposte dal trattato di Versailles, la rimilitarizzazione della Renania nel 1936, l'annessione dell'Austria nel marzo 1938, lo smembramento della Cecoslovacchia nel 1938 e nel 1939. Un'aggressione sistematica, totale, contro gli ebrei tedeschi avrebbe minacciato di impedire alla Germania di ricostruire tutta la sua potenza, requisito essenziale perch Hitler potesse conseguire i suoi numerosi obiettivi apocalittici, compreso l'annientamento dell'ebraismo mondiale. Se anche Hitler e i suoi compatrioti avessero deciso di non tener conto di alcuna limitazione, procedendo all'eliminazione degli ebrei tedeschi, sarebbe stata soltanto una vittoria di Pirro, non la soluzione finale della "Judenfrage", perch l'ebraismo nel mondo ne sarebbe stato a malapena toccato. Cos Paul Zapp, futuro comandante del "Sonderkommando" 11a che massacr gli ebrei nell'Ucraina meridionale e in Crimea, esprimeva questa verit lapalissiana: Si potr cominciare a pensare in assoluto alla soluzione della "Judenfrage" quando avremo inferto un colpo decisivo al giudaismo mondiale. La direzione politica e diplomatica di Adolf Hitler ha costruito le basi per la soluzione della "Judenfrage" in Europa. Da questo punto di partenza potr essere contemplata la soluzione mondiale (18). Era prevedibile che il giudaismo internazionale, che si riteneva controllasse sia l'Unione Sovietica sia le democrazie occidentali, e gli Stati

Uniti in particolare, mobilitasse il resto del mondo per sconfiggere e distruggere la Germania (19). Hitler si aspettava una resa dei conti finale con gli ebrei, ma i tempi e i modi sarebbero dovuti essere stabiliti dai tedeschi. L'eccidio degli ebrei in Germania negli anni Trenta, se anche fosse stato possibile, avrebbe limitato gli obiettivi di Hitler, sarebbe stato un atto prematuro e in definitiva controproducente. Hitler e i nazisti erano completamente preda di un'ideologia allucinata, ma non erano certo pazzi. Puntavano con straordinaria determinazione all'obiettivo principale, la ricostruzione della societ tedesca e del contesto internazionale in conformit ai loro ideali. Se anche Hitler e i suoi compatrioti avessero desiderato con tutto il cuore di ammazzare fino all'ultimo ebreo fin dal momento dell'ascesa al potere dei nazisti, tutto quanto sappiamo del modo calcolatissimo in cui si mossero negli anni Trenta, e anche durante la guerra, in altri contesti che non riguardavano gli ebrei, ci induce a ritenere che non lo avrebbero fatto, preferendo invece rinviare l'azione al momento pi propizio. Il governo tedesco si adatt quindi temporaneamente a misure eliminazioniste complementari come l'isolamento giuridico e amministrativo degli ebrei e le pressioni per indurli a emigrare. Queste misure, coordinate dall'alto, procedevano con rapidit, frenate soltanto da considerazioni interne quali il mantenimento di un'apparenza di legalit e l'esigenza di limitare al massimo i danni dovuti all'esclusione degli ebrei dall'attivit economica, nonch dal peso esercitato dall'opinione pubblica mondiale sulla situazione e le prospettive internazionali della Germania (20). La Notte dei cristalli ("Kristallnacht"), il pogrom su scala nazionale del 910 novembre 1938, fu un evento di straordinaria rilevanza. Le misure intraprese fino ad allora non erano riuscite a scacciare del tutto gli ebrei dal paese; era dunque giunto il momento di essere pi duri, di inviare un messaggio, un avvertimento inequivocabile: andatevene, o sar peggio per voi. In questo senso la Notte dei cristalli - un'aggressione su scala nazionale contro gli ebrei, i loro mezzi di sostentamento e i simboli e le strutture fondamentali della loro comunit - fu per il regime nazista un prevedibile passo avanti (21); e fu anche un sinistro presagio del futuro. Con la Notte dei cristalli i tedeschi chiarirono in modo definitivo due questioni che peraltro erano sotto gli occhi di tutti: in Germania non c'era pi posto per gli ebrei, e i nazisti anelavano allo spargimento di sangue.

Dal punto di vista psicologico, distruggere le istituzioni di una comunit equivale quasi a distruggere la sua gente, ed quasi altrettanto appagante. Come atto di pulizia generale delle sinagoghe tedesche, la Notte dei cristalli fu un'aggressione protogenocida. Dopo quella notte la politica eliminazionista dei tedeschi cominci a sviluppare in modo costante intenzioni immediate pi vaste e micidiali, e misure a esse corrispondenti. Ma furono molte le fasi del percorso in cui Hitler e i suoi compatrioti dimostrarono delle incertezze sul modo migliore di realizzare quelle intenzioni e di elaborare decisioni e piani adeguati. Il mutare della situazione strategica sul campo di battaglia tradizionale e su quello della guerra agli ebrei e la difficolt di concretizzare quello che stava trasformandosi in un programma eliminazionista su scala continentale quale mai prima di allora era stato seriamente concepito o tentato, rendevano ardua la pianificazione. Come interpretare, dunque, nel modo pi corretto il corso della politica antiebraica dopo la Notte dei cristalli? Le scelte che i tedeschi avrebbero adottato furono formulate da Das Schwarze Korps due settimane dopo quell'orgia di violenza nazionale, dopo quell'equivalente psicologico del genocidio (22). Un editoriale del foglio ufficiale delle S.S., la struttura che pi di ogni altra organizzava e portava avanti la politica di eliminazione e di sterminio, proclamava minacciosamente: Gli ebrei devono essere cacciati dai nostri quartieri residenziali e segregati in luoghi dove vivranno soltanto loro, con il minimo contatto possibile con i tedeschi ... Lasciati a loro stessi, questi parassiti si ridurranno in miseria.... Secondo l'organo delle S.S., per, era necessario compiere un passo ulteriore; l'editoriale proseguiva: "Nessuno si illuda, tuttavia, che rimarremo imbelli, limitandoci a guardare. Il popolo tedesco non ha alcuna intenzione di tollerare la presenza nel proprio paese di centinaia di migliaia di delinquenti, che non solo si assicurano di che vivere con il delitto, ma pretendono anche di farsi vendetta ... Centinaia di migliaia di ebrei impoveriti diventerebbero un fertile terreno per il bolscevismo, e per tutta la cricca subumana dei criminali politici ... In una situazione siffatta ci troveremmo di fronte alla dura necessit di sterminare la malavita ebraica allo stesso modo in cui, governati come

siamo dalla legge e dall'ordine, siamo abituati a sterminare ogni tipo di criminale: col ferro e col fuoco. L'esito sarebbe l'effettiva e definitiva scomparsa del giudaismo in Germania, il suo annientamento totale" (23). Non sappiamo se fosse questa, all'epoca, la politica di lungo termine decisa dai tedeschi, anche se la prima parte dell'editoriale riecheggiava chiaramente il contenuto di una riunione ai vertici tenuta il 12 novembre 1938 per esaminare la sorte degli ebrei tedeschi. Fu Gring stesso, che aveva convocato la riunione per ordine di Hitler, affidando a Reinhard Heydrich un ruolo di primo piano, a indicare che la guerra avrebbe avuto conseguenze disastrose per gli ebrei: Se in un futuro prevedibile il Reich tedesco dovesse vedersi coinvolto in un conflitto internazionale, fuori questione che per prima cosa noi tedeschi procederemmo a una grande resa dei conti con gli ebrei (24). Das Schwarze Korps enunciava e auspicava per il futuro una linea d'azione che estrapolava da intenzioni note e da provvedimenti gi in atto; delineava il crescendo concepibile, misurato, graduale di un programma eliminazionista indiscutibile, in cui ogni passo non sarebbe stato che il superamento di un nuovo limite in perfetta consonanza con l'antisemitismo eliminazionista imperante (25). Che queste fossero le intenzioni di fondo dei nazisti confermato dal console britannico in Germania. Pochi giorni prima dell'editoriale, un autorevole esponente della Cancelleria di Hitler gli aveva dichiarato senza possibilit di equivoci che la Germania intendeva sbarazzarsi dei suoi ebrei, inducendoli a emigrare o, se necessario, affamandoli e uccidendoli, poich non poteva rischiare l'eventualit di una guerra avendo all'interno del paese una minoranza tanto ostile. Il funzionario aveva aggiunto che la Germania intendeva espellere o eliminare gli ebrei in Polonia, in Ungheria e nell'Ucraina una volta assunto il controllo di quei paesi (26). Pochi giorni dopo la Notte dei cristalli Hitler comunic al ministro dell'Economia e della Difesa sudafricano che, in caso di guerra, gli ebrei sarebbero stati uccisi (27). Meno di tre mesi dopo, nell'anniversario della sua ascesa al potere, avrebbe tradotto questi concreti ammonimenti in una solenne profezia. Nel discorso al Reichstag del 30 gennaio 1939, pubblicato dal maggiore quotidiano del partito, il Vlkischer Beobachter, e in uno speciale opuscolo, Hitler spiegava che gi in passato gli ebrei avevano riso delle sue precedenti profezie, per poi vederle avverarsi di fronte ai loro occhi.

Oggi sar profeta ancora una volta: se i finanzieri internazionali ebrei in Europa e altrove dovessero riuscire a precipitare le nazioni in un'altra guerra mondiale, il risultato non sar la bolscevizzazione della terra, e dunque la vittoria del giudaismo, bens l'annientamento della razza ebraica in Europa! (28). Va sottolineato che, come nel caso dell'editoriale di Das Schwarze Korps, questo non era l'annuncio di un programma da rendere immediatamente operativo. Era piuttosto l'esplicita dichiarazione di un ideale e, presentandosene l'occasione, di un'intenzione; una dichiarazione che Hitler era pronto a rendere non soltanto alla cerchia ristretta dei suoi collaboratori ma anche in un discorso rivolto a tutta la nazione tedesca, o nel contesto di una seria discussione con i rappresentanti dei governi stranieri: il nesso tra la guerra totale e lo sterminio degli ebrei si era gi cristallizzato nella sua mente (29). Con lo scoppio della guerra dovevano verificarsi altri sviluppi (e circostanze) perch la sua ferma risoluzione potesse concretizzarsi, cionondimeno era ovvio che il conflitto militare avrebbe indotto Hitler a adottare nei confronti degli ebrei una linea politica ancora pi drastica di quella messa in atto negli anni Trenta. Che gi a quell'epoca Hitler e altri nazisti stessero contemplando l'idea di una soluzione finale genocida risulta inequivocabile dalle loro stesse parole. E che lo sterminio in massa di chi era considerato inadatto alla convivenza umana rientrasse gi, o sarebbe rientrato di l a poco, nel repertorio delle scelte praticabili, divenne evidente con l'avvio, nell'ottobre 1939, del cosiddetto programma di eutanasia (30). E' assai poco plausibile che Hitler e i realizzatori di quel programma si accingessero a uccidere decine di migliaia di tedeschi non ebrei affetti da malattie mentali senza pensare, o meglio senza credere con certezza quasi religiosa, che gli ebrei - considerati ben pi maligni e pericolosi - dovessero condividere quella sorte. I prescelti per il macello nel programma di eutanasia (a parte una piccola percentuale di ebrei che ne furono vittime) conducevano forse una vita indegna di essere vissuta, ma erano considerati assai meno pericolosi per la Germania che non gli ebrei. I portatori di malattie congenite e i pazzi mettevano a repentaglio l'igiene della nazione in due modi: perch potenzialmente potevano trasmettere l'infermit alle nuove generazioni, e in secondo luogo perch consumavano cibo e altre risorse utili (31). Acqua fresca, questa, rispetto alla presunta minaccia costituita dagli ebrei che - a differenza delle vittime dell'eutanasia - erano intenzionalmente

perfidi, potenti, e propensi, o forse anche pronti, a distruggere il popolo tedesco nella sua totalit. Fino a quando gli ebrei non fossero stati schiacciati, la Germania sarebbe stata afflitta dalla loro peste. Per citare Hitler, innumerevoli malattie sono causate da un solo bacillo: gli ebrei!, e dunque diverremo sani quando li avremo eliminati (32). Credere che Hitler e altri capi nazisti potessero intraprendere il programma di eutanasia senza avere le stesse intenzioni nei confronti degli ebrei equivale a credere che la stessa persona che capace di schiacciare un pidocchio preferisca non uccidere la vedova nera che sa nascosta in casa sua (33). A dispetto delle audaci profezie di Hitler e di altri tedeschi, nel settembre del 1939 non era ancora giunto il momento propizio per intraprendere un programma di sterminio; e pertanto si cercavano, procedendo anche a tentoni, le migliori soluzioni intermedie consone alle mutevoli condizioni geostrategiche. Fino all'avvio del programma di sterminio sistematico nell'estate del 1941 si tratt di una politica incerta, portata avanti contemporaneamente da strutture prive di coordinamento e spesso concorrenziali (34), una politica che produsse in linea di massima una serie di misure e provvedimenti tesi a isolare, ghettizzare, trasferire gli ebrei, decimandoli con la denutrizione e le malattie a essa connesse: in sostanza, fu l'attuazione delle prime due fasi cos autorevolmente delineate da Das Schwarze Korps dopo la riunione con Gring. Se l'isolamento giuridico in Germania e l'emigrazione all'estero furono a un tempo le massime strategie eliminazioniste praticabili negli anni Trenta, e quelle effettivamente praticate, la conquista della Polonia offr nuove e migliori occasioni, delle quali Hitler e i suoi seguaci furono pronti a trarre profitto. Ora si poteva dare l'avvio a soluzioni ben pi finali, in due sensi diversi: da un lato i tedeschi controllavano, o prevedevano di conquistare in tempi brevissimi vasti territori nei quali far confluire un gran numero di ebrei; dall'altro tenevano in pugno non pi centinaia di migliaia, bens milioni di ebrei. Non per tutto il ceto politico e militare tedesco il controllo su cos tanti ebrei si presentava nei termini esclusivi di una buona occasione, in quanto la loro gestione poneva enormi problemi pratici e creava difficolt quotidiane agli incaricati della "Judenfrage" (35). Ma la prospettiva di sbarazzare l'Europa dei milioni di ebrei ora in mano ai tedeschi non era vissuta come un onere sgradito, bens come

un'opportunit di redenzione da non lasciar cadere, un'opportunit che scaten l'immaginazione di chi elaborava le proposte di soluzione verso misure pi estreme e definitive, di fatto assai pi consone agli ideali eliminazionisti. I deliri di onnipotenza, l'idea di spostare interi popoli da un lato all'altro del continente europeo, trasformandoli in masse di iloti, la prospettiva di decimare quelli pi pericolosi o indesiderati: nulla di tutto ci era pi consono alla mentalit nazificata (36). Gli ebrei, figure demoniache centrali nell'escatologia nazista, si trovarono inevitabilmente a mal partito quando i tedeschi diedero libero sfogo ai loro sentimenti eliminazionisti, ai sogni di ricostituzione del paesaggio sociale e della sostanza umana d'Europa, a tutta la loro fantasia nell'escogitare soluzioni ai problemi. Ma come fare per eliminare i quasi due milioni di ebrei della parte occupata della Polonia e l'altro milione e pi che viveva sotto l'autorit tedesca? (37). Esistevano due sole possibilit: deportarli tutti in qualche regione deputata, o ucciderli. Nel 1939 e nel 1940 il genocidio non era praticabile. Uccidere gli ebrei tedeschi e polacchi non avrebbe risolto il problema, cos come i nazisti lo concepivano, ma anche se Hitler fosse stato disposto a correre il rischio di quella soluzione parziale, altre considerazioni imprescindibili lo avrebbero dissuaso dal metterla in pratica. C'era lo scomodo patto di non aggressione, basato sul vivi e lascia vivere, con l'Unione Sovietica: le truppe sovietiche di stanza nel cuore della Polonia sarebbero state immediatamente informate di un'aggressione genocida contro gli ebrei polacchi, e poich Hitler era convinto dell'onnipotenza degli ebrei in Unione Sovietica - il bolscevismo era meglio definito come giudeo-bolscevismo, in quanto mostruoso prodotto degli ebrei (38), e docile strumento nelle loro mani - era anche convinto, data la sua visione del mondo, che quell'aggressione avrebbe probabilmente scatenato una guerra con l'Unione Sovietica prima che lui fosse pronto per affrontarla. Inoltre, poich Hitler stava ancora pensando a una pace separata con l'Inghilterra, era prevedibile che il piano sarebbe naufragato se la Germania avesse intrapreso lo sterminio in massa di civili ebrei (39). Fino a quando la Germania avesse dovuto continuare a tener conto delle reazioni delle altre potenze, il genocidio non sarebbe stata una politica praticabile.

Immediatamente dopo la capitolazione della Polonia, il 21 settembre 1939 Heydrich emise l'ordinanza che autorizzava la ghettizzazione degli ebrei polacchi. Il documento esordiva con una distinzione tra obiettivi a lungo termine e misure intermedie: "Occorre una precisa distinzione tra 1. l'obiettivo finale (che richieder un tempo prolungato), e 2. le fasi che porteranno a conseguire l'obiettivo stesso (che possono essere espletate a breve scadenza). Le misure previste esigono la massima preparazione sia in senso tecnico sia in senso economico". Heydrich continuava: "1. La prima misura preliminare per il conseguimento dell'obiettivo finale il concentramento degli ebrei dalla campagna nelle grandi citt. La sua realizzazione dovr essere immediata" (40). Non fu tanto immediata; ma la ghettizzazione avvenne comunque, in tutta la Polonia, tra il 1940 e la primavera del 1941 (41). Qualunque fosse il suo non dichiarato obiettivo finale, l'ordinanza, insieme con la selva di restrizioni giuridiche imposte dalle autorit di occupazione, segnalava la risoluzione dei tedeschi a impedire che gli ebrei continuassero a vivere all'interno della societ nella Polonia occupata (42). Qualunque fosse l'obiettivo finale - e non poteva essere altro che la deportazione in massa o lo sterminio - il concentramento degli ebrei veniva inteso come misura preliminare che avrebbe facilitato la realizzazione di ogni futura politica eliminazionista. Il responsabile dell'amministrazione civile del distretto di Lodz, Friedrich belhr, discutendo nel dicembre 1939 il piano per la costituzione del ghetto locale, cos articolava la comune interpretazione del rapporto tra obiettivi di breve e di lungo termine, nonch del carattere pregenocida dell'ordinanza di Heydrich: Ovviamente la creazione del ghetto non che una misura transitoria. Sar io a stabilire in quale momento e con quali mezzi il ghetto dovr essere ripulito dagli ebrei. L'obiettivo finale, comunque, deve essere la completa cauterizzazione di questo bubbone pestilenziale (43). Poich nel 1939-40 il genocidio ancora non era praticabile (e poteva continuare a non esserlo, in un futuro prevedibile, data la situazione geostrategica), Hitler e i suoi sottoposti ripiegarono sulla migliore soluzione

provvisoriamente alternativa: la pianificazione di una deportazione in massa. Qualche progetto per il trasferimento degli ebrei, in particolare dal Warthegau, il territorio polacco annesso al Reich, fu proposto, preso in considerazione e persino impostato operativamente, per poi essere abbandonato. I due piani pi organici che riscossero maggiore interesse riguardavano la creazione di una riserva, una discarica, per gli ebrei nella regione di Lublino, in Polonia orientale, o alternativamente l'organizzazione di un trasferimento generale in Madagascar. Ma nessuna delle proposte di deportazione in massa, comprese queste, fu mai qualcos'altro, per citare Leni Yahil, che un fantasma di soluzione, un passo intermedio sulla via del genocidio; in altre parole, una forma di genocidio incruento. Chi ideava i progetti non concepiva i possibili luoghi di discarica come ambienti abitabili in cui gli ebrei si sarebbero potuti fare una nuova vita: lo rivela l'allora governatore del distretto di Lublino, comunicando nel novembre 1939 che il distretto, con il suo territorio assai paludoso, potrebbe ben servire come riserva per gli ebrei ["Judenreservat"], producendo con ogni probabilit una drastica decimazione ["starke Dezimierung"] (44). Nella migliore delle ipotesi, le riserve sarebbero state immense prigioni come i ghetti murati in cui i tedeschi avrebbero rinchiuso gli ebrei polacchi -, territori privi di risorse economiche in cui i reclusi, isolati dal resto del mondo, si sarebbero gradualmente estinti. Chi concepiva i piani sapeva bene che i luoghi di destinazione proposti non avrebbero certo potuto mantenere le folle di ebrei che si prevedeva di ammassarvi. E inoltre, specie nel caso di Lublino, non c' nulla che dimostri che quelle destinazioni dovessero essere qualcosa di pi che stazioni di transito, in attesa che i tedeschi fossero pronti a disfarsi definitivamente degli ebrei. I mesi tra il settembre 1939 e l'inizio del 1941 non furono un intermezzo nel programma eliminazionista (45), bens un periodo di sperimentazione che produsse una serie di misure considerate in definitiva insoddisfacenti: per i tedeschi, quelle non erano soluzioni finali praticabili. I momenti eliminazionisti centrali del periodo furono i primi eccidi sistematici dell'autunno del '39, la creazione dei ghetti, in particolare dei due pi grandi, a Varsavia nel novembre 1940 e a Ldz' nella primavera dello stesso anno, la decimazione degli ebrei con la politica della denutrizione calcolata (46), e qualche impacciato tentativo di trasferimento generale in

qualche luogo lontano, un enorme ghetto che a tempo debito si potesse trasformare in un enorme cimitero. Gi nel 1939-41 i tedeschi non avevano alcuna intenzione, nel lungo periodo, di concedere agli ebrei di vivere in Germania o nei territori annessi al Reich - si trattasse in quel momento del loro luogo di residenza abituale, o meno - e per molti versi avevano preso a trattare quei morti sociali in modo ancora pi apocalittico, come se gi fosse stata emessa una sentenza di morte collettiva. In questo periodo fu decisa la sorte degli ebrei, perch fu allora che i sottoposti di Hitler iniziarono a elaborare piani concreti per la soluzione finale, una soluzione che non avrebbe lasciato scampo agli ebrei non soltanto nei confini del Reich, ma nemmeno nelle sempre pi vaste aree di occupazione tedesca. Fino a quel momento, l'eliminazione degli ebrei dal continente europeo era stata un ideale, un'aspirazione programmatica; di fronte alle nuove opportunit che ora si presentavano, i tedeschi avviarono subito una pianificazione pi concreta. E, in quel momento, la soluzione "migliore" consisteva nel rinchiudere le vittime in lebbrosari ermeticamente sigillati e privi di risorse economiche, che non avrebbero ricevuto rifornimenti alimentari adeguati alle necessit: era, sul piano psicologico e ideologico, l'equivalente funzionale, se non ancora effettivo, del genocidio. Mentre procedevano i piani per la guerra contro l'Unione Sovietica, nella prima met del 1941, i progetti di Hitler sui provvedimenti immediati nei confronti degli ebrei presero una nuova piega. A differenza dei dodici-quindici mesi precedenti, nei quali erano state prese in considerazione le pi disparate proposte per la soluzione della "Judenfrage", la fantasia eliminazionista si trov imbrigliata: ogni rimuginazione di ipotesi meno drastiche fu cancellata quando Hitler si rivolse alla soluzione pi finale che si potesse immaginare (47). Ormai aveva rinunciato a ogni idea di invadere la Gran Bretagna, o di concludere una pace separata, e guardava verso est, alla resa dei conti con l'Unione Sovietica e con il giudaismo. Dopo tanto tempo, si apriva la possibilit di realizzare la sua profezia, di mantenere la promessa di far coincidere la guerra con l'annientamento degli ebrei. Tra la fine del 1940 e l'inizio del 1941 Hitler prese la definitiva risoluzione di trasformare il suo ideale in realt, giunse alla decisione di uccidere tutti gli ebrei d'Europa (48).

Alla fine di gennaio Heydrich, incaricato di elaborare un piano adeguato, gli present il suo progetto di soluzione finale ("Endlsungsprojekt") (49). Non fu un caso che proprio in quel periodo Hitler riprendesse in pubblico la sua profezia del 30 gennaio 1939; ma per la prima volta non la present come una predizione riferita a un futuro indefinito, bens come una ferma intenzione che si sarebbe realizzata al pi presto. Il 30 gennaio 1941, in occasione dell'ottavo anniversario della presa del potere, e a due anni esatti dall'enunciazione di quella profezia apocalittica, Hitler ricord alla nazione tedesca di aver a suo tempo predetto che se l'altro [sic] mondo fosse stato trascinato in guerra dal giudaismo, non ci sarebbe stato pi nulla da fare per gli ebrei in Europa. Potranno ancora riderne, cos come hanno riso a suo tempo delle mie profezie; ma "i mesi e gli anni" a venire dimostreranno che avevo ragione (50). Poco meno di tre mesi prima, l'8 novembre 1940, Hitler parlava ancora della sua profezia come di una prospettiva lontana all'orizzonte (51); ora, invece, poteva dichiarare che avrebbe cominciato a realizzarla nei mesi a venire (52). E questa volta afferm chiaramente un concetto su cui non aveva insistito in passato, ma che divenne uno dei suoi "leit-motiv" ogniqualvolta accennava alla profezia, mentre i tedeschi avevano avviato lo sterminio degli ebrei in Europa. Ora che aveva deciso di realizzare il suo sogno genocida, poteva anche schernire gli ebrei, cos come avrebbe continuato a fare mentre i suoi seguaci li stavano massacrando in massa. Ridessero pure, dichiar in pubblico, cos come avevano riso delle sue profezie precedenti: lui aveva deciso, ed era certo di sapere chi avrebbe riso per ultimo. Una volta che Hitler prese l'unica decisione veramente consona al proprio ideale eliminazionista, nuovi organismi assunsero un ruolo di primo piano. Se non cessarono le aggressioni verbali, le restrizioni giuridiche e i ghetti, strutture portanti della politica antiebraica fino al 1941, ora essi passavano in second'ordine rispetto ai plotoni d'esecuzione, ai campi di concentramento e di lavoro, alle camere a gas. Nella primavera del 1941 i tedeschi pianificarono e prepararono una duplice aggressione contro l'Unione Sovietica: assai diverse quanto a portata, complessit e numero di uomini e risorse da impiegare, nella mente di Hitler la vastissima campagna militare e quella pi limitata dello sterminio erano operazioni parallele e interconnesse.

Le strutture rispettivamente incaricate di metterle in atto - le forze armate per la prima, le S.S. per la seconda - siglarono prima dell'invasione un accordo che definiva le reciproche giurisdizioni e i campi operativi, e che comport una piena cooperazione (53). Alle quattro aree geografiche in cui i tedeschi avevano ripartito, da nord a sud, il territorio sovietico conquistato, furono assegnati reparti di entrambe le forze. L'esercito, le "Einsatzgruppen" (si veda pi avanti) e le altre forze di sicurezza erano consapevoli che questa non sarebbe stata una guerra come le altre. Lo scopo non era la semplice conquista militare bens l'annientamento totale, la distruzione, la cancellazione dell'avversario: per le forze armate si trattava dell'esercito e dello stato sovietico; per le "Einsatzgruppen" degli ebrei. Per procedere nella campagna contro gli ebrei, Himmler, capo di stato maggiore delle coorti genocide, costitu quattro "Einsatzgruppen" mobili, che avrebbero guidato lo sterminio. Ognuna era suddivisa in unit minori, chiamate "Einsatzkommandos" e "Sonderkommandos". Gli eccidi in massa degli ebrei, inizialmente eseguiti con la partecipazione di altre unit di sicurezza e di polizia, cominciarono nei primissimi giorni dell'Operazione Barbarossa (il nome in codice per l'attacco all'Unione Sovietica). Sebbene non risulti chiaro quali fossero gli ordini iniziali delle "Einsatzgruppen", n in quale modo fossero stati successivamente modificati, l'interpretazione pi attendibile suggerisce la seguente ricostruzione degli eventi. Pochi giorni prima dell'attacco, Heydrich e i suoi immediati sottoposti arringarono gli ufficiali delle "Einsatzgruppen" in due diverse occasioni, la prima a Berlino, la seconda a Pretzsch, dove i reparti si addestravano per la campagna imminente (54). Gli ufficiali furono informati dei loro compiti, che consistevano a grandi linee nel garantire la sicurezza delle retrovie occupate da un esercito in perenne avanzata: per questo avrebbero dovuto identificare ed eliminare i principali rappresentanti del regime comunista, e chiunque potesse fomentare oppure organizzare la resistenza all'occupazione (55). In quel momento gli ufficiali seppero anche della decisione di Hitler di sterminare gli ebrei sovietici (56). Walter Blume, comandante del "Sonderkommando" 7a, cos descrive quella scena solenne: Heydrich in persona spieg che la campagna di Russia

era imminente, che era prevedibile una guerra partigiana, e che in quella regione vivevano molti ebrei che bisognava liquidare. Quando uno dei presenti grid: "Ma come faremo?", lui rispose: "Lo scoprirete presto". Continu dicendo che il giudaismo dell'Est, in quanto "incubatrice" ["Keimzelle"] del giudaismo mondiale, doveva essere annientato. Non c'era possibilit di equivoco: tutti gli ebrei andavano sterminati, senza riguardi per l'et o il sesso (57). Era una decisione strategica con un piano di battaglia ancora da definire, i cui dettagli tecnici sarebbero stati comunicati alle "Einsatzgruppen" in base a quanto imposto dall'evolversi della situazione (58). Come indicano le riserve avanzate da Otto Ohlendorf, comandante dell'"Einsatzgruppe" D, in merito alle previste fucilazioni in massa, lui e altri ufficiali non erano certi che i loro uomini avessero sufficiente pelo sullo stomaco per eseguire ordini cos spaventosi, e temevano che ne sarebbero stati abbrutiti loro stessi, diventando inadatti alla convivenza umana (59). Per questo era ragionevole, nella fase iniziale, lasciare un certo margine discrezionale a chi comandava gli "Einsatzkommandos" quanto alle modalit di esecuzione dell'ordine genocida. Come primo passo, per esempio, potevano tentare di scaricare il lavoro sporco sui lituani, sui lettoni, sugli ucraini, risparmiando ai tedeschi un compito tanto ingrato, ma rafforzando anche la loro determinazione a uccidere quella gente inerme facendola assistere alla giusta vendetta dei locali per le presunte malefatte degli ebrei. Heydrich incoraggi il ricorso a scherani locali nei suoi ordini scritti ai comandanti delle "Einsatzgruppen" (60) perch, anche agli occhi dei realizzatori del genocidio, scopo di questa misura era la tutela dell'equilibrio psicologico dei nostri... (61). Gli ufficiali potevano inoltre condurre per gradi i loro uomini verso la nuova professione di assassini genocidi. In primo luogo, se avessero cominciato fucilando solo ebrei maschi, giovani o adulti, si sarebbero assuefatti alle esecuzioni di massa senza subire lo shock provocato dall'eccidio di bambini, donne e ammalati. Secondo Alfred Filbert, comandante dell'"Einsatzkommando" 9, l'ordine di Heydrich comprendeva con assoluta chiarezza ... anche le donne e i bambini, ma non v' dubbio che in un primo momento le esecuzioni fossero in genere limitate agli ebrei maschi (62). Mantenendo inizialmente piuttosto basso (rispetto ai criteri tedeschi) il numero delle vittime dei massacri - qualche centinaio, o magari un migliaio

- era meno probabile che i realizzatori si lasciassero travolgere emotivamente dall'enormit degli infernali bagni di sangue a venire. Potevano convincersi che stavano uccidendo solo gli ebrei pi pericolosi, una misura che in quella guerra apocalittica poteva anche apparire ragionevole. E, una volta che gli ufficiali avessero abituato i loro uomini ad ammazzare gli ebrei maschi e in piccole quantit, avrebbero avuto meno difficolt nell'allargare la portata e l'entit delle operazioni (63). La gradualit con la quale fu eseguito l'ordine genocida era dovuta anche, e in misura probabilmente maggiore, a due considerazioni interconnesse. I tedeschi prevedevano di sbaragliare l'Unione Sovietica in poco tempo, e la distruzione degli ebrei non rientrava fra le priorit immediate. Per questo Himmler si content di affidare la fase d'avvio della campagna, su scala ridotta, a un contingente abbastanza forte per farvi fronte, ma non certo per attuare una pi vasta impresa genocida. All'inizio le "Einsatzgruppen" erano costituite da circa tremila uomini: Himmler, Heydrich e gli stessi comandanti dei reparti mobili sapevano bene che erano troppo pochi per provvedere all'eccidio totale e immediato degli ebrei sovietici (64). All'inizio di luglio, in occasione del primo eccidio compiuto dall'"Einsatzkommando" 8 a Bialystok, il comandante Otto Bradfisch spieg a uno dei suoi sottoposti che sebbene il "Kommando" avesse il compito di pacificare i territori conquistati, non occorreva farlo troppo a fondo, perch arriveranno reparti pi numerosi per occuparsi di quel che resta (65). In secondo luogo, il programma di annientamento totale era un'impresa tanto nuova che i tedeschi dovevano prima tastare il terreno imparando con l'esperienza la migliore organizzazione logistica degli eccidi e le tecniche pi efficaci. Dopo tutto, non esistevano modelli per questa impresa senza precedenti. Non stupisce quindi che essi avviassero l'operazione con forze inferiori rispetto a quelle prevedibilmente necessarie, e che avrebbero aperto la strada a una rapida espansione delle coorti genocide con l'arrivo di nuove unit di S.S. e di polizia. Nelle prime settimane gli "Einsatzkommandos" rivestirono la funzione di pattuglie di esploratori del genocidio, quelli che sperimentavano le tecniche, addestravano i realizzatori alla loro nuova professione e, pi in generale, verificavano la fattibilit complessiva dell'impresa (66). Il primo eccidio per mano di un "Einsatzkommando" avvenne nel terzo giorno dell'Operazione Barbarossa, quando un "Kommando"

dell'"Einsatzgruppe" A fucil duecentouno persone, in maggioranza ebrei, nella citt di Garsden (Gargzai), sulla frontiera con la Lituania. Nei giorni e nelle settimane successive i "Kommandos" orchestrarono una serie ininterrotta di eccidi in massa di ebrei: alcuni li commisero autonomamente, altri con la collaborazione di ausiliari organizzati sul posto; altri ancora, soprattutto in Lituania e in Ucraina, lasciando che gli abitanti locali (sorvegliati dai tedeschi) si scatenassero in devastazioni e massacri nello stile dei pogrom, in cui gli ebrei venivano macellati a centinaia, o a migliaia (67). I tedeschi, aiutati dai loro scherani lituani, massacrarono migliaia di ebrei a Kovno (Kaunas) tra la fine di giugno e i primi giorni di luglio; a Leopoli, insieme con gli ucraini, ne uccisero qualche altro migliaio (68). E' probabile che la prima grande fucilazione in massa eseguita direttamente dagli "Einsatzkommandos" fosse quella avvenuta il 2 luglio nella citt ucraina di Lutsk, dove gli uomini del "Sonderkommando" 4a uccisero millecento ebrei; essa era stata comunque preceduta dall'orgia omicida perpetrata dal Battaglione di Polizia 309 a Bialystok il 27 giugno (69). Le tecniche adottate per questi primi eccidi erano alquanto varie, perch si trattava di esperimenti alla ricerca della formula perfetta dello sterminio. Da buon comandante generale, Himmler passava in rassegna le sue truppe sulla scena delle stragi, consultandosi con gli ufficiali e assistendo persino, a Minsk, all'intero svolgimento di un'operazione (70). I rapporti che riceveva dalle "Einsatzgruppen" e le sue ispezioni sul posto furono sufficienti a dimostrare che le prime sortite genocide avevano ottenuto risultati positivi: gli uomini erano disposti ad ammazzare gli ebrei in massa, e le tecniche impiegate erano per il momento adeguate alla bisogna. Himmler ordin quindi di passare dalla fase embrionale del genocidio al massacro senza limiti (71). Un aspetto significativo di questa fase di transizione verso il massacro indiscriminato la sua normalit agli occhi degli uomini che appartenevano agli "Einsatzkommandos" e agli altri reparti che partecipavano al genocidio. Nelle testimonianze rese dopo la guerra, gli assassini non sembrano dare rilievo alcuno al fatto che ora i massacri comprendevano anche donne, bambini e vecchi, n all'aumento delle dimensioni e della rapidit degli eccidi. E' evidente che per i realizzatori questi cambiamenti, di dimensione e di velocit, non modificavano in modo sostanziale la qualit del compito loro assegnato.

Nessuno di essi dice: All'inizio uccidevamo solo "ebrei bolscevichi", "sabotatori", o "partigiani"; poi, d'un tratto, ci ordinarono di annientare intere comunit, compresi le donne e i bambini. Sebbene alcuni accennino al disagio provato ricevendo per la prima volta l'ordine di uccidere e rendendosi conto di che cosa significasse, o al turbamento di fronte alla prima strage, generalmente i tedeschi parlano quando lo fanno - dell'escalation e dell'espansione del massacro in termini del tutto neutri; e la cosa non sorprende giacch, pur essendo un compito nuovo e in qualche modo diverso, in fondo non modificava la loro percezione di quanto stavano facendo. Per questo, di norma, i realizzatori non parlano mai di cambiamento (72). Himmler, pragmatico come sempre, aveva cominciato impegnando gli "Einsatzkommandos" in spedizioni di prova, per verificarne la determinazione e mettere a punto le tattiche; concluso il battesimo del fuoco, li lanci all'assalto frontale, senza quartiere, un assalto le cui linee essenziali e i cui obiettivi ognuno di loro sapeva imminenti. Il mutamento in atto non meritava attenzione o commenti maggiori di quelli riservati da qualsiasi soldato all'ordine di una nuova azione offensiva in una guerra in cui gi si trovava impegnato. Della nuova portata degli eccidi parla invece esplicitamente l'intendente dell'"Einsatzkommando" 9. In un primo momento, dichiara, si uccidevano soltanto gli ebrei maschi, poi, dalla seconda met di luglio, si cominci anche con le donne e i bambini; e non ha dubbi sul fatto che Filbert, il comandante, li avesse informati degli ordini riguardanti le esecuzioni "prima" dell'attacco all'Unione Sovietica. Non certo, invece, se Filbert avesse parlato di "tutti gli ebrei" o solo degli "ebrei maschi" (73). La successiva inclusione negli eccidi delle donne e dei bambini fu ovviamente un semplice sviluppo operativo, non una modifica radicale nella percezione degli uomini dell'"Einsatzkommando" 9 di quanto stessero facendo. Se fosse stato altrimenti, quest'uomo e i suoi camerati ricorderebbero senza alcun dubbio se l'ordine iniziale avesse imposto loro di partecipare allo sterminio di tutti gli ebrei sovietici, o soltanto dei maschi. La sua testimonianza e quella di altri membri degli "Einsatzkommandos" e dei battaglioni di polizia che uccisero gli ebrei nell'Unione Sovietica confermano che i comandanti avevano comunicato loro l'ordine di sterminio "prima dell'attacco all'Unione Sovietica o nei giorni immediatamente successivi"; quindi inconfutabile che l'ordine generale fu diramato, e che

Hitler aveva preso la decisione genocida, prima dell'avvio dell'Operazione Barbarossa (74). Ma anche se questa interpretazione dell'ordine iniziale alle "Einsatzgruppen" fosse sbagliata, anche se avesse ragione chi dubita che fin dall'inizio fosse stato ordinato lo sterminio totale degli ebrei sovietici, ritenendo che l'ordine iniziale si limitasse ai maschi adulti, si tratt comunque di un ordine genocida, percepito come tale dai realizzatori. Gi nella prima met di luglio, per esempio, gli uomini del Battaglione di Polizia 307 ebbero l'ordine di rastrellare gli ebrei maschi di Brest-Litovsk in et compresa tra i sei e i sessant'anni; ne radunarono da sei a diecimila e li fucilarono a causa della loro razza (75). Uccidere i maschi adulti di una comunit equivale a distruggerla, specie se alle donne viene proibita la gravidanza (nell'ipotesi affatto improbabile che i tedeschi avessero esitato a massacrare al pi presto anche loro). Preparando l'attacco militare all'Unione Sovietica, Hitler e i suoi sottoposti avevano varcato il Rubicone morale del genocidio, e per tutti gli ebrei d'Europa il dado era tratto. Per i tedeschi si trattava soltanto di elaborare i piani operativi, organizzare le risorse logistiche e procedere al genocidio a pieno ritmo (76). La seconda fase operativa del piano richiedeva un rafforzamento del personale assegnato da Himmler ai diversi comandi superiori delle S.S. e della polizia (H.S.S.P.F.) in Unione Sovietica, sotto la cui giurisdizione operavano gli "Einsatzkommandos". Con le modifiche apportate da Himmler agli ordini operativi, gli "Einsatzkommandos", le S.S., la polizia e persino alcuni reparti dell'esercito iniziarono una serie di massacri di proporzioni mostruose, decimando sistematicamente intere comunit ebraiche. Le foto numeri 11-12 del nostro inserto mostrano due scene dello sterminio degli ebrei del ghetto di Mizoc, il 14 ottobre 1942. Nella prima un gruppo di donne e bambini si stringono le une agli altri in attesa dell'esecuzione; nella seconda due tedeschi si fanno strada tra i cadaveri per dare il colpo di grazia a chi fosse sopravvissuto alla prima salva, come la donna sulla sinistra, che solleva la testa e il busto.Ecco qualche esempio dei massacri compiuti dai tedeschi: 23.600 ebrei a Kamenec-Podol'skij il 27-28 agosto 1941; 14 mila a Minsk, in due diverse operazioni, nel novembre 1941; 21 mila a Rovno il 7-8 novembre 1941; 25 mila nei pressi di Riga il 30 novembre e l'8-9 dicembre 1941; da 10 a 20 mila a Charkov nel gennaio 1942; e, nella pi grande delle fucilazioni in massa, pi di 33 mila nell'arco di due giorni a BabiYar, alla periferia di Kiev, alla fine del settembre 1941.

Hitler fece il passo definitivo verso la variante genocida dell'ideologia eliminazionista, una decisione che da tempo si annidava nella sua mente, nel momento in cui concep l'attacco all'Unione Sovietica, o nel periodo della sua preparazione. Una volta lanciato l'attacco, fu chiaro a tutti i tedeschi in esso impegnati, dagli ufficiali alle reclute, che l'ideologia eliminazionista doveva essere infine realizzata nella sua forma pi assoluta e pi logica. Non certo, ma estremamente improbabile che Hitler avesse deciso di annientare gli ebrei sovietici senza decidere, allo stesso tempo, che era giunto il momento di sterminare tutti gli ebrei d'Europa. Considerando la sua idea della "Judenfrage", non avrebbe avuto alcun senso fermarsi a met dell'opera. Era giunto il momento di mantenere la promessa, di avverare la profezia di distruggere gli ebrei d'Europa; lo sterminio come soluzione per gli ebrei sovietici comportava la medesima soluzione per tutti gli ebrei (77). Non quindi affatto sorprendente che l'elaborazione dei piani operativi per l'estensione su scala europea del programma di sterminio incominciasse al pi tardi nel periodo compreso fra la met e la fine di luglio, in cui Himmler modific gli ordini alle "Einsatzgruppen" per intensificare l'uccisione degli ebrei in Unione Sovietica (78). Dopo qualche settimana di operazioni genocide, dopo che le "Einsatzgruppen" avevano dimostrato la fattibilit degli eccidi sistematici, e dopo aver completato i piani per l'attacco contro gli ebrei sovietici, Himmler, gli altri capi nazisti e le S.S. potevano ora rivolgersi alla realizzazione del genocidio nell'intero continente, alla creazione di una realt nazista pi vicina ai loro ideali. Fino a quel momento avevano dedicato attenzione ed energie a progettare, organizzare ed eseguire l'impresa nell'area operativa pi importante, ma una volta avviato l'eccidio in Unione Sovietica si poteva pensare al resto d'Europa: l'estensione del genocidio ad altre regioni era ormai soltanto questione di dettagli operativi, di logistica e di organizzazione dei tempi. I tedeschi dovevano preoccuparsi solo delle questioni pratiche, e di far s che il genocidio si svolgesse senza ostacolare gli altri obiettivi strategici ed economici che avrebbero condotto alla trasformazione nazista del mondo (bench non sempre la cosa fosse facile). Sulla scorta dell'esperienza che andavano accumulando in Unione Sovietica, si resero conto della necessit di intervenire sulle modalit operative.

Himmler aveva visto bene: uomini e strutture si stavano rivelando all'altezza dell'impresa genocida, sterminando gli ebrei sovietici e cancellando le loro comunit a un ritmo frenetico. Tuttavia, sia gli ufficiali sul campo sia i comandi superiori non erano pi troppo soddisfatti del metodo di massacro; per quanto dediti alla causa, su parecchi tedeschi appartenenti ai plotoni di esecuzione quell'eccidio apparentemente infinito di uomini, donne e bambini disarmati cominciava ad avere pesanti effetti psicologici. La preoccupazione espressa da Ohlendorf quando aveva saputo della decisione genocida, che un macello di quelle dimensioni potesse avere conseguenze negative per i tedeschi che vi prendevano parte, trovava parziale conferma (79). Himmler, attento come sempre al benessere di chi era impegnato a trasformare in realt le visioni apocalittiche sue e di Hitler, cominci a cercare un modo per uccidere che risultasse meno gravoso per i realizzatori. Coerentemente con i tentativi iniziali - poi abbandonati - di uccidere gli ebrei sovietici architettando dei pogrom, e con la progressiva escalation del massacro degli ebrei sovietici, i capi nazisti si dimostrarono, ancora una volta, disposti alla massima flessibilit tattica nel perseguire il loro obiettivo strategico. Dopo qualche esperimento con altri metodi omicidi, dopo l'invenzione dei furgoni a gas, con i quali gli "Einsatzkommandos" e altri reparti uccisero decine di migliaia di ebrei, i tedeschi decisero di costruire impianti a gas permanenti (80). Diversamente da quanto in genere si ritiene, la decisione di usare il gas, in impianti mobili o permanenti, non fu dettata da considerazioni di efficienza, ma dalla ricerca di un metodo che sollevasse i tedeschi di una parte del peso psicologico degli eccidi (81). Gli impianti permanenti erano preferibili a quelli mobili perch pi efficaci, perch consentivano ai tedeschi di uccidere lontano dalla vista degli immancabili e indesiderati osservatori che assistevano ai massacri degli "Einsatzkommandos" in Unione Sovietica, e perch potevano essere affiancati da impianti per l'eliminazione dei cadaveri, un problema che si era rivelato di difficile soluzione per le due strutture mobili del genocidio, i plotoni di esecuzione e i furgoni a gas. La preparazione della seconda fase operativa del programma avvenne tra l'estate del 1941 e i primi mesi del 1942 (82). La novit pi significativa fu la costruzione dei campi della morte. I tedeschi fecero il primo esperimento con la piccola camera a gas di Auschwitz, il 3 settembre 1941, utilizzando il Zyklon B (cianuro di

idrogeno) per uccidere circa ottocentocinquanta persone, di cui seicento prigionieri di guerra russi. L'uccisione sistematica degli ebrei con il gas inizi ad AuschwitzBirkenau nel marzo 1942. La prima camera a gas permanente cominci a operare su base non sperimentale a Chelmno, dove i tedeschi avevano iniziato a uccidere gli ebrei di Ldz' nei furgoni a gas l'8 dicembre 1941. Nei campi della morte dell'"Aktion Reinhard" il gas fu usato per la prima volta nel 1942, a Belzec il 17 marzo, a Sobibr agli inizi di maggio, a Treblinka il 23 luglio. I tedeschi collocarono i campi della morte in Polonia soprattutto perch quello era il centro demografico dell'ebraismo europeo, e dunque il luogo logisticamente pi indicato per gli impianti dello sterminio (83). La collocazione di ognuno dei campi della morte aveva precise ragioni strategiche, in quanto ognuno era destinato a eliminare gli ebrei di una data regione: quelli del Warthegau a Chelmno, i due milioni di ebrei del Governatorato generale nei tre campi dell'"Aktion Reinhard", Belzec, Sobibr e Treblinka, e quelli dell'Europa occidentale, meridionale e sudorientale ad Auschwitz. Una volta avviati i piani e la costruzione degli impianti, e dopo una serie di incontri e provvedimenti preparatori, Heydrich convoc finalmente a Berlino tutti i rappresentanti delle amministrazioni interessate. Alla conferenza di Wannsee, il 20 gennaio 1942, essi vennero informati dei loro compiti nello sterminio degli ebrei d'Europa, che avrebbe dovuto provocare un totale di undici milioni di vittime. Per la stessa ragione per cui a Hitler non era bastato limitare il genocidio all'Unione Sovietica, le apocalittiche intenzioni rivelate da Heydrich non riguardavano soltanto gli ebrei soggetti al dominio nazista in quel momento. La lista dettagliata delle future vittime dei tedeschi comprendeva gli ebrei turchi, svizzeri, inglesi e irlandesi: una volta verificata la realizzabilit dell'impresa non si davano mezze misure (84). Nell'arco di un anno dall'inizio dell'attivit dell'"Aktion Reinhard" contro gli ebrei polacchi residenti nel Governatorato generale, i tedeschi avevano gi ucciso il 75-80 per cento di tutte le vittime che sarebbero riusciti a eliminare. Da sola l'"Aktion Reinhard" fu responsabile del massacro di circa due milioni di ebrei polacchi, utilizzando le fucilazioni in massa delle "Einsatzgruppen", ma soprattutto le camere a gas di Belzec, Sobibr e Treblinka, destinazione quest'ultima degli abitanti del ghetto di Varsavia.

Nel frattempo Auschwitz aveva fatto centinaia di migliaia di vittime tra gli ebrei rastrellati nell'Europa occupata. In tutto, i tedeschi massacrarono, con le fucilazioni e il gas (nei furgoni), pi di due milioni di ebrei nei territori strappati all'Unione Sovietica. In questo periodo l'opzione di sterminio del programma antiebraico ebbe la precedenza sugli altri obiettivi della Germania: i tedeschi, negli alti comandi come a livello esecutivo, perseguivano la distruzione degli ebrei con una determinazione che, di regola, metteva da parte qualsiasi altra considerazione. Ora che il fine prioritario di una Germania libera dalla presunta minaccia ebraica appariva davvero raggiungibile, i compromessi tattici imposti in precedenza da altri obiettivi decisivi non erano pi considerati necessari, e divenivano sempre pi rari. L'annientamento dell'ebraismo in Europa era divenuto, insieme con la guerra e in certi casi ancor pi della guerra, la missione fondamentale del Moloch tedesco. All'intensificazione dello sterminio corrispose una forte espansione del sistema dei campi, e del numero di ebrei e non ebrei condannati a subirne gli orrori. Per far fronte alla sempre pi grave penuria di manodopera provocata dall'economia di guerra, i tedeschi fecero ricorso allo schiavismo; ma ne erano vittime soprattutto non ebrei, perch l'impiego degli ebrei nella produzione - che non aveva mai avuto grande peso nei piani dei tedeschi nei loro confronti - era sempre pi raro, sebbene la carenza di manodopera lo rendesse "economicamente" sempre pi necessario. E' un dato significativo, questo, in quanto dimostra al di l di ogni dubbio che agli occhi di Hitler e dei capi nazisti, come a quelli di chi comandava e gestiva il sistema dei campi di concentramento e di lavoro, la priorit attribuita allo sterminio degli ebrei era tale da indurre i tedeschi a distruggere una forza lavoro produttiva insostituibile, di cui avevano bisogno disperato, mettendo a serio repentaglio la possibilit della vittoria militare. Una volta divenuta praticabile, l'eliminazione degli ebrei ebbe priorit persino rispetto alla tutela stessa della sopravvivenza del nazismo (85). La priorit dello sterminio era tale da essere perseguita fino agli ultimi rantoli di agonia del regime. La sua adeguatezza e la sua necessit come la soluzione alla "Judenfrage" erano talmente accettate e interiorizzate dai tedeschi che a ogni livello presero parte al massacro, da indurli a perseguire il loro obiettivo anche mentre assistevano al crollo del mondo nazificato.

L'ultima grande comunit nazionale ebraica decimata dai tedeschi fu quella ungherese, in buona parte deportata ad Auschwitz nell'estate del 1944. La guerra era gi perduta, eppure tra il 15 maggio e il 9 luglio i tedeschi ammassarono 437 mila ebrei ungheresi in 147 convogli di materiale rotabile distolto da ben pi essenziali impieghi bellici. Poi li uccisero quasi tutti nelle camere a gas, nelle pi grande e concentrata orgia omicida mai avvenuta ad Auschwitz; molti altri sarebbero scomparsi in diversi campi, o nelle marce della morte (86). Queste ultime, che tratteremo a fondo nei prossimi capitoli, sono un attestato ancor pi terribile della determinazione genocida dei tedeschi che operavano a tutti i livelli nelle istituzioni pi disparate. Nate dalla necessit di evacuare le aree minacciate dall'avanzata sovietica negli ultimi mesi del 1944, aree che nelle settimane finali della guerra erano ormai il cuore della Germania stessa, quelle marce forzate in condizioni brutali e senza cibo uccisero migliaia di ebrei, e di non ebrei, caduti sotto i colpi e le percosse dei tedeschi, o morti di fame o di fatica. Forse nulla meglio delle marce della morte illustra la fanatica dedizione di Hitler e dei tedeschi impegnati a realizzare la soluzione dello sterminio alla "Judenfrage" (87). Cos come aveva inaugurato la sua tirannia con le invettive verbali e con l'aggressione simbolicamente eliminazionista alla comunit ebraico-tedesca di Germania nel boicottaggio del primo aprile 1933, Hitler poneva termine al suo potere e alla sua vita - mentre ancora, fino all'ultimo, i suoi fedeli seguaci massacravano gli ebrei comunicando il 29 aprile 1945 al popolo tedesco il suo testamento, che si chiudeva con un richiamo alla preoccupazione da sempre al centro della sua visione del mondo, e del suo progetto dominante: "Il vero responsabile di questo conflitto omicida: il giudaismo! Non ho nascosto a nessuno il fatto che questa volta non si sarebbe consentito che milioni di figli delle nazioni ariane d'Europa morissero di fame, che milioni di uomini adulti subissero la morte, che centinaia di migliaia di donne e bambini venissero arsi vivi nelle citt o morissero sotto i bombardamenti, senza che il vero colpevole pagasse il fio del suo delitto, sia pure con metodi pi umani. Prima di ogni altra cosa chiedo ai capi della nazione e ai loro seguaci di osservare scrupolosamente le leggi razziali, e di opporsi implacabilmente al veleno universale di tutti i popoli, il giudaismo internazionale" (88).

Qualunque impressione ci facciano, sarebbe un errore considerarle come le ultime parole di un pazzo disperato di fronte alla morte. Esse rivelano invece i pi saldi ideali di Hitler, le sue intenzioni, e i fondamenti di ogni aspetto del suo programma eliminazionista, indipendentemente dalle scelte politiche contingenti. Sono parole che esprimono le convinzioni che avevano trasfuso in un paese e in un popolo la guida e le energie necessarie a perseguire per dodici anni l'annientamento di ogni influenza ebraica in Germania. Sono le parole pi significative del lascito che Hitler riteneva di dover trasmettere al popolo tedesco, perch, come avevano fatto in passato, potessero indirizzarlo, guidarlo e ispirarlo nell'azione futura. - Conclusione. Nel momento in cui si profil la praticabilit dell'unica soluzione davvero finale, Hitler non si lasci sfuggire l'occasione di realizzare il suo "ideale" di un mondo per sempre libero dall'ebraismo, e decise di compiere il salto verso il genocidio. Il momento venne quando si present la possibilit di conquistare quella che, insieme con la Polonia, i tedeschi consideravano la sorgente stessa dell'ebraismo, l'Unione Sovietica. Una volta istituite le opportune correlazioni fra i provvedimenti antiebraici dei tedeschi (basati sulle loro intenzioni presunte o desunte), gli stati psicologici e mentali di Hitler, e le fortune militari della Germania, il nesso che emerge con maggiore chiarezza rispetto agli altri (rispetto a" tutti" gli altri) ci porta ad affermare che Hitler decise il genocidio non appena quella scelta divenne praticabile. Che fino a quel momento i tedeschi avessero praticato o considerato altre soluzioni non significa in alcun modo che le ritenessero preferibili o migliori: erano decisioni imposte da condizioni che non si prestavano alla resa dei conti genocida con l'ebraismo mondiale. Anche prima del 1941 Hitler e i capi nazisti elaborarono e imposero le misure eliminazioniste pi radicali ed estreme, approfittando sistematicamente di ogni occasione per concepire piani esaustivi e finali. Il modo migliore per spiegare la politica antiebraica hitleriana non consiste nell'esclusiva analisi strutturale del sistema, o nell'attribuire soverchia importanza ai presunti mutamenti di umore di Hitler e degli altri nazisti dovuti al successo o al fallimento dei loro tentativi di conquistare e ricostruire l'Europa, bens nel prendere sul serio gli ideali dichiarati e le intenzioni ultime di Hitler (89). L'evolversi dell'impresa eliminazionista - in cui ogni provvedimento tedesco contro gli ebrei si andava conformando ai presupposti e agli

obiettivi ideologici - si spiega nel modo pi ovvio, come prodotto delle convinzioni e degli ideali antisemiti di Hitler, condivisi dalla societ e in essa profondamente radicati, e resi operativi nel mutevole contesto delle opportunit e delle considerazioni strategiche. L'essenza del programma e la sua evoluzione si possono sintetizzare nel mero enunciato della relazione causale tra i quattro aspetti fondamentali della politica antiebraica di Hitler, e dunque della Germania. 1) Hitler espresse un ossessivo antisemitismo razziale eliminazionista fin dagli esordi della sua vita pubblica. Il suo primo scritto politico pubblicato era dedicato all'antisemitismo (90), e cos il suo ultimo testamento al popolo tedesco. L'antisemitismo eliminazionista, ed egli lo afferm in "Mein Kampf" e in mille altre occasioni, era il perno della sua visione del mondo, l'aspetto pi coerente e appassionato del suo pensiero politico. 2) Assumendo il potere, Hitler e il suo regime tennero fede alle precedenti dichiarazioni, traducendo l'antisemitismo eliminazionista in radicali provvedimenti perseguiti con inflessibile vigore. 3) Prima dello scoppio della guerra, e poi pi volte nel corso del conflitto, Hitler enunci la sua profezia, o meglio la sua promessa: la guerra gli avrebbe offerto l'occasione per sterminare l'ebraismo europeo (91). 4) Quando i tempi furono maturi, quando l'occasione si present, Hitler realizz le sue intenzioni, riuscendo a trucidare circa sei milioni di ebrei. Il genocidio non fu generato dagli umori di Hitler, n da iniziative locali, n dall'apporto impersonale di ostacoli strutturali, bens dall'ideale hitleriano dell'eliminazione del potere ebraico, un ideale ampiamente condiviso in Germania. Di rado il capo di una nazione ha avuto modo di annunciare in maniera tanto aperta, frequente ed enfatica un'intenzione apocalittica, e poi di mantenere la promessa. E' degno di nota, e per la verit quasi inspiegabile, che oggi ci siano studiosi disposti a cavillare sulla sua profezia, sulla dichiarata intenzione di distruggere gli ebrei, interpretandola come una semplice metafora, o come una sparata priva di significato. E' evidente che Hitler stesso considerava la sua profezia del 30 gennaio 1939 come una precisa dichiarazione di intenti, che pi volte reiter, come per assicurarsi di non essere frainteso. A dispetto di chi vorrebbe non tener conto di quelle parole, tutto ci induce a privilegiare l'interpretazione che Hitler stesso forniva alle proprie intenzioni, a dare cio per assodata l'evidente congruenza tra le sue

dichiarate intenzioni di annientamento e la realt dei fatti che seguirono (92). Prima della guerra, Hitler aveva gi indicato i due gruppi che avrebbe eliminato in caso di conflitto: gli ebrei e gli affetti da malattie congenite. Gi nel 1935 aveva comunicato al "Reichsrtzefhrer", l'archiatra del Reich, che il problema dell'eutanasia sarebbe stato ripreso e risolto sotto la copertura della guerra (93). Una dichiarazione di intenti seguita da un'azione fedele all'enunciato: in entrambi i contesti, dimostrazione convincente dell'intenzione omicida di Hitler e insieme della sua capacit di attendere con pazienza il momento opportuno per realizzare una volont preesistente. Quale altra prova di premeditazione dovremmo ragionevolmente aspettarci? La volont di uccidere gli ebrei non fu trasmessa a Hitler e ai suoi seguaci da condizioni esterne: profondamente radicata nella loro concezione degli ebrei, sgorg spontaneamente dal loro intimo, spingendoli all'azione non appena se ne present l'opportunit. L'antisemitismo razziale demonologico fu la forza motrice del programma eliminazionista, che lo indirizz alle sue logiche conclusioni genocide non appena la potenza militare dei tedeschi riusc a creare le condizioni adeguate. Nell'esaminare l'andamento della politica antiebraica dei tedeschi, non dobbiamo mai perdere di vista questa verit di fondo. Il senso comune nazista - gli ebrei devono sparire per sempre se vogliamo l'avvento del millennio - fu alla radice dell'impulso genocida, forn l'energia necessaria per il tentativo, durato dodici anni, di realizzare la delirante visione di una Germania e di un mondo liberi da ogni influenza ebraica. E non fu soltanto l'origine dell'impulso allo sterminio, ma anche il fattore che indusse a considerare il genocidio l'opzione preferibile tra tutte le soluzioni eliminazioniste.

NOTE AL CAPITOLO 4 N. 1. Poich questo capitolo propone una nuova interpretazione di vicende note e di dati esistenti, non citer in modo dettagliato le fonti primarie, le diverse posizioni di altri studiosi, e nemmeno gli argomenti (e i dati) che potrebbero essere addotti contro la mia linea interpretativa: per questo, baster rifarsi alla bibliografia esistente.

Le note che seguono forniscono quindi i riferimenti indispensabili alle opere che contengono informazioni sulle vicende prese in esame, anche quando, come accade spesso, l'interpretazione offerta in conflitto con la mia. N. 2. Sull'immensa popolarit di Hitler, e sulla legittimazione che ne deriv per il regime, confronta Ian Kershaw, "Der Hitler Mythos" cit., in particolare p. 132. N. 3. Una rassegna, e una saggia valutazione, delle diverse posizioni su questo tema sono in Ian Kershaw, "The Nazi Dictatorship" cit., pagine 59-79. N. 4. Su questo tema, confronta Edward N. Peterson, "The Limits of Hitler's Power", Princeton, Princeton University Press, 1969, e Dieter Rebentisch, "Fhrerstaat und Verwaltung im Zweiten Weltkrieg", Wiesbaden, F. Steiner Verlag, 1989. N. 5. Confronta, a ulteriore conferma di questa tesi, David Bankier, "Hitler and the Policy-Making Process in the Jewish Question", H.G.S., 3, n. 1, 1988, pagine 1-20; confronta inoltre Avraham Barkai, "Vom Boykott zur Entjudung" cit., sull'evoluzione della politica ebraica negli anni Trenta, e Christopher R. Browning, Beyond "Intentionalism" and "Functionalism": The Decision for the Final Solution Reconsidered, in "The Path to Genocide: Essays on Launching the Final Solution", Cambridge, Cambridge University Press, 1992, in particolare le pagine 120-21 sul periodo tra il 1939 e il 1942. N. 6. Reginald H. Phelps, "Hitlers Gundlegende Rede ber den Antisemitismus", V.f.Z., 16, n. 4,1968, p. 417. Vale la pena osservare che per allontanamento" Hitler us la parola "Entfernung", che significa anche, eufemisticamente, liquidazione, nel senso di eliminazione. Hitler disse con sarcasmo che avrebbe concesso agli ebrei il diritto di vivere (come se occorresse concederlo), e sarebbe stato felice che continuassero a esistere in altri paesi. N. 7. Confronta "Hitler: Smtliche Aufzeichnungen 1905-1924", a cura di Eberhard Jackel, Stuttgart, Deutsche Verlags-Anstalt, 1980, pagine 119-20. Le parole di Hitler sono conservate negli appunti presi alla riunione da un agente del servizio informazioni della polizia.

N. 8. Il concetto di morte civile ripreso da Orlando Patterson, "Slavery and Social Death: A Comparative Study" cit., in particolare pagine 1-14. Sul carattere della morte civile degli ebrei ci soffermeremo nel capitolo successivo. N. 9. Avraham Barkai, "Vom Boykott zur Entjudung" cit., p. 35. N. 10. Avraham Barkai, "Vom Boykott zur Entiudung" cit., pagine 57 e seguenti, 125-33, dimostra in modo convincente l'insostenibilit delle tesi secondo cui il processo dei provvedimenti antiebraici fu discontinuo, e spesso indotto da pressioni nate a livello locale. Gli elementi principali dei provvedimenti giuridici, sociali, culturali ed economici contro gli ebrei furono decisi a Berlino, e furono applicati in modo sempre pi rigido per tutti gli anni Trenta, a un ritmo costante, se non sempre omogeneo. Sul ruolo di Hitler in tutto questo, confronta David Bankier, "Hitler and the Policy-Making Process in the Jewish Question" cit. N. 11. Avraham Barkai, "Vom Boykott zur Entjudung" cit., pagine 35 e seguente. N. 12. Ibid., pagine 54-108, 116-33. N. 13. Un elenco in "Das Sonderrecht fr die Juden im N.S.-Staat" cit.N. 14. Una discussione in proposito in Raul Hilberg, "The Destruction of European Jews" cit., pagine 43-53; e Lothar Gruchmann, "Blutschutzgesetz und Justiz" cit., pagine 418-42. N. 15. "Nazism" cit., p. 1109. N. 16. Confronta Philip Friedman, The Jewish Badge and the Yellow Star in the Nazi Era, in "Roads to Extinction: Essays on the Holocaust", Philadelphia, Jewish Publication Society, 1980, pagine 1133. N. 17. Avraham Barkai, "Vom Boykott zur Entiudung" cit., p. 156. N. 18. Citato in Richard Breitman, "The Architect of Genocide" cit., p. 154. N. 19. Confronta Adolf Hitler, "Mein Kampf" cit., pagine 700-705 per le sue idee su come gli ebrei mobilitino le altre grandi potenze contro la Germania.

N. 20. Di diverso avviso sono Karl A. Schleunes, "The Twisted Road to Auschwitz: Nazi Policy Toward German Jews, 1933-1939", Urbana, University of Illinois, 1990; Uwe Dietrich Adam, "Judenpolitik im Dritten Reich", Dsseldorf, Droste Verlag, 1972; Hans Mommsen, The Realization of the Unthinkable cit. N. 21. Sulla Notte dei cristalli confronta Walter H. Pehle (a cura di), "Der Judenpogrom 1938" cit.; e Herbert Schultheis, "Die Reichskristallnacht in Deutschland" cit. N. 22. Considerando l'annuncio immediato di quelle intenzioni e il discorso di Hitler del 30 gennaio 1939 (di cui si parla pi avanti), senz'altro possibile che la Notte dei cristalli venisse interpretata come l'esordio di una nuova, pi micidiale fase eliminazionista. N. 23. Das Schwarze Korps, 24 novembre 1938, citato in Richard Breitman, "The Architect of Genocide" cit., p. 58. N. 24. Nur. Doc. 1816, I.M.T., vol. 28, pagine 538-39. N. 25. Le idee genocide erano certo nell'aria, specie in quella respirata dalle S.S. Richard Breitman ha dimostrato che all'interno dell'organizzazione si parlava esplicitamente dello sterminio come soluzione della "Judenfrage" gi prima dell'inizio della guerra ("The Architect of Genocide" cit., pagine 55-65). N. 26. Mister Ogilvie-Forbes a Lord Halifax, segretario agli Esteri, 17 novembre 1938, in C.C. Aronsfeld, "The Text of the Holocaust" cit., p. 78, nota 280. N. 27. Il 21 gennaio 1939 Hitler disse la stessa cosa al ministro degli Esteri ceco. Confronta Werner Jochmann, Zum Gedenken an die Deportation der deutschen Juden, in "Gesellschaftskrise und Judenkindschaft in Deutschland" cit., p. 256. N. 28. "Nazism" cit., p. 1a49. N. 29. Werner Jochmann, Zum Gedenken an die Deportation der deutschen Juden cit., p. 256. N. 30.

Sul programma cosiddetto di eutanasia confronta Ernst Klee, "Euthanasie im N.S.-Staat" cit. N. 31. Robert N. Proctor, "Racial Hygiene: Medicine under the Nazis", Cambridge Mass., Harvard University Press, 1988, pagine 177-85; confronta le pagine 95-117 sulla sterilizzazione di circa quattrocentomila persone considerate inadatte a riprodursi. N. 32. Werner Jochmann (a cura di), "Adolf Hitler: Mollologe im FhrerHauptquartier, 1941-1944", Hamburg, Albrecht Knaus Verlag, 1980, p. 293. N. 33. Eppure, per quanto implausibile, sembrerebbero convinti di questa tesi tutti coloro che sostengono che Hitler concep per la prima volta il desiderio di sterminare gli ebrei d'Europa nel 1941. N. 34. Su quegli anni confronta Christopher R. Browning, Nazi Resettlement Policy and the Search for a Solution to the Jewish Question, 1939-194 in "The Path to Genocide" cit., pagine 3-27; Richard Breitman, "The Architect of Genocide" cit., pagine 116-44; e Philippe Burrin, "Hitler and the Jews: The Genesis of the Holocaust", London, Edward Arnold, 1994, pagine 6592 (trad. it. "Hitler e gli ebrei. Genesi di un genocidio", Genova, Marietti, 1994; ed. orig. "Hitler et les Juifs. Gense d'un gnocide", Paris, Editions du Seuil, 1989). N. 35. Confronta Ian Kershaw, "Improvised Genocide? The Emergence of the Final Solution in the Warthegau", Transactions of the Royal Historical Society, 6, n. 2, 1992, pagine 56 e seguenti; e Christopher R. Browning, Nazi Resettlement Policy cit. N. 36. Confronta "Der Generalplan Ost", V.f.Z., 6,1958, pagine 281325; e Christopher R. Browning, Nazi Resettlement Policy cit. N. 37. "Nazism" cit., p. 1050; e Christopher R. Browning, "The Final Solution and the German Foreign Office: A Study of Rekrat D IlI of Abteilung Deutschland, 1940-1943", New York, Holmes & Meier, 1978, p. 38. N. 38. "Adolf Hitler", a cura di Werner Jochmann, cit., p. 41. N. 39. Sulle idee geostrategiche di Hitler in questo periodo, confronta Klaus Hildebrand, "The Foreign Policy of the Third Reich", Berkeley, University

of California Press, 1973, pagine 91-104; Norman Rich, "Hitler's War Aims: Ideology, the Nazi State, and the Course of Expansion", New York, Norton, 1973, 1, pagine 157-164; di opinione contraria Gerhard L. Weinberg, "Hitler and England, 1933-1945; Pretense and Reality", German Studies Review, 8,1985, pagine 299309. N. 40. Nur. Doc. 3363-P.S. cit. in "Nazism" p. 1051. N. 41. Confronta Raul Hilberg, "The Destruction of the European Jews" cit., pagine 144-56; Helge Grabitz e Wolfgang Scheffler, "Letzte Spuren: Ghetto Warschau, S.S.-Arbeitslager Trawniki, Aktion Erntefest", Berlin, Edition Hentrich, 1988, pagine 283-84; e la voce Ghetto, in "Encyclopaedia of the Holocaust" cit., pagine 579-82. Dissente Christopher R. Browning, Nazi Ghettoization Policy in Poland, 1939-1941, in "The Path to Genocide" cit., pagine 28-56. N. 42. Confronta Raul Hilberg, "The Destruction of the European Jews" cit., pagine 125-74; Czeslaw Madajczyk, "Die Okkupationspolitik Nazideutschlands in Polen, 1939-1945", Berlin, Akademie-Verlag, 1987, pagine 356-71; Christopher R. Browning, Nazi Resettlement Policy cit., pagine 8 e seguenti; e Id., "Denkschrift Himmlers ber die Behandlung der Fremdrblkischen im Osten (Mai 1940)", V.f.Z., 5, n. 2,1957, p. 197. N. 43. Raul Hilberg, "The Destruction of the European Jews" cit., p. 149. N. 44. Rapporto di Seyss-Inquart, 20 novembre 1939, Nur. Doc. 2278P.S., in I.M.T., vol. 30, p. 95. La citazione dal rapporto una parafrasi delle parole del governatore distrettuale. A questo proposito confronta Philip Friedman, The Lublin Reservation and the Madagascar Plam, in "Roads to Extinction" cit., pagine 34-58; Jonny Moser, "Niskop: The First Experiment in Deportation", in Simon Wiesenthal Center Annual, 2,1985, pagine 1-30; Leni Yahil, Madagascar Phantom of a Solution for the Jewish Question, in Bela Vago e George L. Mosse (a cura di), "Jews and Non-Jews in Eastern Europe, 1918-1945", New York, John Wiley & Sons, 1974, pagine 315-34. N. 45. Christopher R. Browning, in Nazi Resettlement Policy cit., ha indubbiamente ragione di sostenere che questo periodo non vada

considerato come un intermezzo (pagine 26-27), ma la sua interpretazione globale del periodo suscita nondimeno qualche perplessit. N. 46. Isaiah Trunk ("Judenrat: The Jewish Councils in Eastern Europe under Nazi Occupation", New York, Stein & Day, 1977, p. 104) scrive: In nessuno dei ghetti era possibile sostentarsi con le razioni assegnate. Non solo le razioni normali erano infinitesimali, ma molti ghetti furono lasciati del tutto privi di rifornimenti alimentari per lunghi periodi, o furono riforniti con grossi quantitativi di derrate inadatte al consumo umano. Sulle condizioni generali nei ghetti, gi micidiali a quell'epoca, confronta pagine 149-55. N. 47. Non fu probabilmente una coincidenza nemmeno il fatto che nel marzo e nell'aprile del 1941 si assistesse alla ghettizzazione degli ebrei nel Governatorato generale, intesa come fase preparatoria per l'Operazione Barbarossa e per la sistematica aggressione contro gli ebrei che era destinata ad accompagnarla. Sull'andamento della ghettizzazione confronta Helge Grabitz e Wolfgang Scheffler, "Letzte Spuren" cit., pagine 283-84. N. 48. Richard Breitman fa risalire la decisione hitleriana di massacrare gli ebrei in Unione Sovietica e in tutta l'Europa a questo periodo: confronta "The Architect of Genocide" cit., pagine 153-66, 247-48, e Id., "Plans for the Final Solution in Early 1941", German Studies Review, 17, n. 3, ottobre 1994, pagine 483-93, per ulteriori conferme di come la decisione di sterminare gli ebrei d'Europa fosse gi stata presa nei primi mesi del 1941. Su posizioni diverse Christopher R. Browning, che riproduce parte dell'ormai estesa controversia in "The Path to Genocide" cit., in particolare Beyond "Intentionalism" and "Functionalism", e in The Decision Concerning the Final Solution, in "Fateful Months: Essays on the Emergence of the Final Solution", New York, Holmes & Meier, 1985, pagine 8-83; confronta inoltre Id., "The Euphoria of Victory and the Final Solution: Summer-Fall 1941", German Studies Review, 17, n. 3, ottobre 1994, pagine 473-81; e Philippe Burrin, "Hitler and the Jews" cit., in particolare pagine 115-31. N. 49. Richard 13reitman, "Plans for the Final Solution in Early 1941" cit., pagine 11-12.

L'autore sostiene persuasivamente che quel progetto di soluzione finale non poteva essere altro che il programma di sterminio sistematico che fu poi avviato nell'estate e nell'autunno (pagine 11-17).N. 50. Max Domarus, "Hitler: Reden und Proklamationen, 1932-1945", Mnchen, Suddeutscher Verlag, 1965, vol. 4, p. 1663 (il corsivo mio). N. 51. Durante la celebrazione dell'anniversario del Putsch della birreria, Hitler ricord ai suoi ascoltatori che ho affermato ... pi e pi volte la mia convinzione che verr l'ora in cui cacceremo quella gente [gli ebrei] dai ranghi della nostra nazione (in Eberhard Jackel, "Hitler's World View: a Blueprint for Power" cit., 1981, p. 62). N. 52. Non mi risulta che nessuno abbia rilevato la locuzione diversa usata da Hitler nel riprendere la sua profezia del 30 gennaio 1939, n il suo significato. In un riferimento ancora successivo al primo discorso, ripet che sarebbe stato lui a ridere per ultimo; pareva particolarmente piccato del fatto che non gli avessero creduto quando aveva proclamato l'intenzione di annientare gli ebrei nel caso fosse scoppiata la guerra. Per il discorso dell'8 novembre confronta C.C. Aronsfeld, "The Text of the Holocaust" cit., p. 36. N. 53. Sull'accordo, confronta Direttiva Brauchitsch, 28 aprile 1941, Nur. Doc. NoKw-2080; Walter Schellenberg, 11/26/45, 3710-P.S.; Otto Ohlendorf, 4/24/47, NO-2890; sulla attiva complicit dell'esercito nel massacro degli ebrei sovietici confronta Helmut Krausnick e HansHeinrich Wilhelm, "Die Truppe des Weltanschauungskrieges: Die 'Einsatzgruppen' der Sicherheitspolizei und des S.D., 1938-1942", Stuttgart, Deutsche-Verlag Anstalt, 1981, pagine 205-78; e le numerose pubblicazioni di Jrgen Frster, tra le quali "The Wehrmacht and the War of Extermination Against the Soviet Union", Y.V.S., 14, 1981, pagine 7-34. N. 54. Esistono molte testimonianze contraddittorie sui partecipanti e sulle notizie trapelate nelle diverse occasioni. Per una sintesi parziale, confronta il Procedimento contro Streckenbach, Z.S.t.L., 201 A.R.-Z 76/59 (d'ora in avanti Streckenbach), pagine 178-91; per le posizioni dei due maggiori protagonisti del dibattito, confronta Helmut Krausnick e Hans-Heinrich Wilhelm, "Die Truppe des Weltanschauungskrieges" cit., pagine 150-72, e Hitler und die Befehle an die "Einsatzgruppen" im Sommer 1941 in "Der Mord an den Juden im

Zweiten Weltkrieg" cit., pagine 88-106; e Alfred Streim, "Die Behandlung sowjetischer Kriegsgefangener im Fall Barbarossa. Eine Dokumentation", Heidelberg, C.F. Mller Juristischer Verlag, 1981, pagine 74-93; Zr Erffnung des allgemeinen Judenvernichtungsbefehls gegenber den "Einsatzgruppen", in "Der Mord an den Juden im Zweiten Weltkrieg" cit., pagine 107-19, e "The Tasks of the S.S. Einsatzgruppen", in Simon Wiesenthal Center Annual 6,1989, pagine 311-47; un tentativo diverso di sintetizzare questo materiale poco consistente in Christopher R. Browning, Beyond "Intentionalism" and "Functionalism" cit., pagine 99111; per l'interpretazione di Philippe Burrin, "Hitler and the Jews" cit., pagine 90-113. N. 55. Tali compiti furono codificati nell'ordine scritto di Heydrich del 2 luglio 1941 allo H.S.S.P.F. Confronta "Nazism" cit., pagine 1091-92. Seguendo la prassi in uso, in base alla quale gli ordini per lo sterminio degli ebrei non venivano messi per iscritto, ma trasmessi a voce, l'ordine parla solo delle uccisioni in qualche modo collegabili a presunte necessit militari. N. 56. Quali ordini ricevessero le "Einsatzgruppen", da chi e quando sono interrogativi che suscitano controversie tra gli studiosi. Non possibile presentare qui tutti i dati e le argomentazioni necessari per una discussione esauriente delle diverse interpretazioni sulle fonti a disposizione. Confronta la nota 54 per i riferimenti bibliografici, e la nota 74 per indicazioni sulle fonti a disposizione. N. 57. Streckenbach, p. 261. N. 58. Confronta Walter Blume, Z.S.t.L., 207 A.R.-Z 15/58, vol. 4, p. 981. Egli sostiene che all'epoca non avevano ricevuto istruzioni sui dettagli operativi, e quindi non sapevano come eseguire gli ordini. Prevedevano di ricevere le istruzioni in un momento successivo. N. 59. "Official Transcript of the American Militan/ Tribunal No. 2-A in the Matter of the United States of America Against Otto Ohlendorf et a, defendants sitting at Nuernberg Germany on 15 September 1947", pagine 633, 526. N. 60. "Einsatzbefehl" n. 1, 29 giugno 1941; Heydrich riproponeva lo stesso provvedimento nel suo ordine del 2 luglio agli H.S.S.P.F. in Unione Sovietica.

N. 61. Un membro dell'"Einsatzgruppe" A, in "Schne Zeiten Judenmord aus denr Sicht der Tter und Gaffer", a cura di Ernst Klee, Willi Dressen, Volker Riess, Frankfurt am Main, S. Fischer Verlag, 1988, p. 82 (trad. it. "Bei tempi. Lo sterminio degli ebrei raccontato da chi l'ha eseguito e da chi stava a guardare", Firenze, Giuntina, 1990). N. 62. Alfred Filbert, Streckenbach, vol. 2, pagine 7571-7572; confronta anche la sua dichiarazione in Streckenbach, vol. 6, pagine 1580-1585. N. 63. Nelle prime settimane l'andamento degli eccidi delle "Einsatzgruppen" appare casuale. Alcune eseguirono massacri notevolmente maggiori di altre, e persino il medesimo "Einsatzkommando" si comportava in modo alquanto diverso con gli ebrei dell'una o dell'altra citt. Variava anche il metodo usato per uccidere: in alcuni casi venivano impiegati ausiliari locali, in altri si agiva direttamente; e da un "Kommando" all'altro variavano la logistica e le tecniche. E infine diversa fu l'escalation verso eccidi sempre pi massicci, e verso l'inclusione indiscriminata delle donne e dei bambini. L'unica ragione che mi pare spieghi tanta variet che i comandanti delle "Einsatzgruppen" o gli H.S.S.P.F. sotto la cui giurisdizione esse operavano potessero decidere discrezionalmente il modo in cui avrebbero applicato un ordine di sterminio gi annunciato. Che godessero di tale capacit discrezionale rende ancora pi plausibile l'ipotesi che gli uomini si dovessero abituare gradatamente agli eccidi, per passare, una volta superata questa fase, a massacri di maggiori dimensioni. Poich questo modo di procedere per gradi venne applicato anche altrove, come in Galizia nel novembre 1941, quando non poteva esserci dubbio che l'ordine dello sterminio totale fosse gi stato impartito, il fatto che gli "Einsatzkommandos" non uccidessero subito tutti gli ebrei non dimostra che Hitler non avesse ancora emanato quell'ordine generale. Anche dopo l'avvio del programma di sterminio su scala europea, i tedeschi non uccisero immediatamente tutti gli ebrei di ogni paese, regione e comunit, cos come non uccisero immediatamente tutti gli ebrei dell'Unione Sovietica. Pensare che lo potessero fare, in Europa come in Unione Sovietica, irrealistico.

Sull'eccidio di Nadvornaija, Galizia, confronta Sentenza contro Hans Krger e a., Schwurgericht Mnster 5 K.s. 4/65, pagine 137-94, in particolare p. 143. Rassegne degli eccidi delle "Einsatzgruppen" in Helmut Krausnick e Hans-Heinrich Wilhelm, "Die Truppe des Weltanschauungskrieges" cit., pagine 173-205, 533-39; e "The Einsatzgruppen Reports: Selections from the Dispatches ot the Nazi Death Squads' Campaign Against the Jews in Occupied Territories of the Soviet Union, July 1941-January 1943", a cura di Yitzhak Arad, Shmuel Krakowski e Shmuel Spector, New York, Holocaust Library, 1989. N. 64. Sul problema del personale confronta Christopher R. Browning, Beyond "Intentionalism" and "Functionalism" cit., pagine 101-106; e Yehoshua Bchler, "Kommandostab Reichsfhrer S.S.: Himmler's Persorlal Murder Brigades in 1941", H.G.S. 1, n. 1, 1986, pagine 11-25. N. 65. Accusa contro A.H., S.t.A. Frankfurt/M 4 Js 1928/60, p. 15. N. 66. Scoprirono tra l'altro che la fucilazione non era in definitiva il metodo migliore, perch troppo raccapricciante e psicologicamente onerosa per gli uomini; per questo si pass al gas. Confronta Sentenza contro Friedrich Pradel e Harry Wentritt, Hannover, 2 K.s. 2/65, p. 33; e Mathias Beer, "Die Entwicklung der Gaswagen beim Mord and den Juden", V.f.Z. 35, n. 3, 1987, pagine 403-17. N. 67. Il resoconto di un pogrom organizzato allo stesso modo a Grzymalow, in Ucraina, dove le S.S. armarono gli ucraini e li scatenarono per le strade della citt, si trova in Sentenza contro Daniel Nerling, Stuttgart 2 K.s. 1/67, p. 17. Sui grandi pogrom coordinati dai tedeschi in Lettonia, confronta Sentenza contro Viktor Arajs, Hamburg (37) 5/76, pagine 16-26, 72-107,145; e Accusa contro Viktor Arajs, Hamburg 141 Js 534/60, pagine 22-25, 73-89. N. 68. Una rassegna degli eccidi delle "Einsatzgruppen" in Helmut Krausnick e Hans-Heinrich Wilhelm, "Die Truppe des Weltanschauungskrieges" cit., pagine 173-205, 533-39 (su Kovno, pagine 205-209; su Leopoli, pagine 186-87). N. 69. Dell'eccidio di Bialystok si dir pi avanti, nel capitolo 6.

Su Lutsk, confronta Alfred Streim, "Das Sonderkommando 4a der Einsatzgruppe C und die mit diesem Kommando eingesetzten Einheiten whrend des Russland-Feldzuges in der Zeit von 22. 6 1941 bis zum Sommer 1943", Z.S.t.L. 11, 4 A.R.-Z 269/60, Abschlulssbericht, pagine 153-58. Il Rapporto situazione operativa URSS n. 24 delle "Einsatzgruppen", del 16 luglio 1941, afferma "erroneamente" che furono gli ucraini a sparare ("Einsatzgruppen Reports" cit., p. 32). Le informazioni contenute in questi rapporti sono spesso fuorvianti o incomplete. Sono comunque una fonte preziosa, ma Philippe Burrin, "Hitler and the Jews" cit., p. 105, sbaglia a sostenere che in genere questi rapporti sono completi e precisi. I tedeschi che li redigevano erano spesso guidati da scopi diversi dalla verit. Paul Zapp, comandante dell'"Einsatzkommando" 12a, depose al suo processo che tutti i comandanti avevano avuto l'ordine di mascherare le operazioni genocide nei loro rapporti, nel caso che questi fossero caduti in mano al nemico (dagli appunti di Erich Goldhagen sulla deposizione di Zapp, 17 febbraio 1970, al processo contro di lui e altri membri dell'"Einsatzkommando" 11a). I tedeschi volevano presentare l'eccidio di Lutsk come una vendetta degli ucraini per i presunti crimini subiti per mano degli ebrei, sicch mistificarono la verit dicendo che furono gli ucraini a sparare. Chi si affida a questi rapporti, come Philippe Burrin e Christopher R. Browning (Beyond "Intentionalism" and "Functionalism"), senza immergersi nei matenali assai pi completi delle indagini giudiziarie del dopoguerra, interpreta gli eventi sulla base della versione intenzionalmente e pesantemente distorta presentata dai tedeschi. N. 70. Richard Breitman, "The Architect of Genocide" cit., pagine 19096.N. 71. Sull'aspetto logistico, confronta Christopher R. Browning, Beyond "Intentionalism" and "Functionalism" cit., pagine 106-111. N. 72. Questa conclusione si basa su una vasta (sia pure non esauriente) lettura dei materiali delle indagini e dei processi in Z.S.t.L. relativi a "tutte" le "Einsatzgruppen", compresa la voluminosa indagine del processo a Kuno Callsen e ad altri membri del "Sonderkommando" 4a, Z.S.t.L., 204 A.R.-Z 269/60, costituita da cinquanta volumi e diecimila pagine. Solo per problemi di spazio, non ho inserito in questo volume un capitolo dedicato alle "Einsatzgruppen".

Un'eccezione alla conclusione generale qui formulata costituita dall'"Einsatzkommando" 8. Dopo la guerra alcuni dei suoi uomini riferirono di essersi infuriati quando, a met luglio, vennero a sapere che avrebbero dovuto uccidere anche donne e bambini: li disturbava l'aspetto inedito della nuova fase operativa. Anche a loro, comunque, era chiaro fin dall'inizio che uccidendo i maschi avevano eseguito un ordine esplicitamente genocida. Confronta Sentenza contro Karl Strohhammer, Landgericht Frankfurt 4 K.s. 1/65, p. 10. N. 73. W.G., Streckenbach, vol. 11, p. 7578. La sua deposizione e quella di Filbert, di cui si detto sopra, si confermano a vicenda. N. 74. E' sorprendente che nessuno abbia sinora citato questa testimonianza fondamentale, per certi versi assai pi significativa delle deposizioni degli ufficiali delle "Einsatzgruppen", alle quali altri si sono affidati in modo esclusivo. Per un minuscolo campione delle altre testimonianze in proposito, confronta per l'"Einsatzgruppe" A, W.M., Streckenbach, vol. 7, p. 7088; per l'"Einsatzkommando" 8, C. R., Streckenbach, vol. 7, p. 7064, e Sentenza contro Strohhammer, Landgericht Frankfurt 4 K.s. 1/65, p. 9; per l'"Einsatzgruppe" C, K.H., Streckenbach, vol. 8, p. 7135; per il "Sonderkommando" 4b, H.S., Streckenbach, vol. 18, pagine 8659-8660; sul "Sonderkommando" 11a, K.N., Streckenbach, vol. 12, p. 7775. E' particolarmente significativo che il comandante del Battaglione di Polizia 309 (ne parleremo nel capitolo 6) annunciasse agli ufficiali di compagnia, "prima dell'attacco all'Unione Sovietica", che Hitler aveva dato l'ordine ("Fhrerbefehl") di sterminare tutti gli ebrei, uomini, donne e bambini. Poco tempo dopo almeno uno dei comandanti di compagnia comunic l'ordine ai suoi uomini. Confronta Sentenza contro Buchs e a., Wuppertal, 12 K.s. 1/67, pagine 29-30; H. G., Z.S.t.L. 205 A.R.-Z 20/60 (d'ora in avanti Buchs), pagine 36364; A.A., Buchs, p. 1339R; e E.M., Buchs, p. 1813R. Ancora prima dell'attacco, quindi, la notizia della decisione genocida era stata comunicata al di fuori della cerchia ristretta delle "Einsatzgruppen". Plausibili o non plausibili che siano (non plausibili, a mio vedere) le motivazioni che avrebbero indotto dopo la guerra i comandanti delle

"Einsatzgruppen" a inventare un ordine generale di sterminio iniziale, impossibile attribuire le stesse motivazioni ai loro subordinati, mossi soprattutto dal desiderio di negare di essere stati a conoscenza del carattere genocida della loro attivit. Molti uomini degli "Einsatzkommandos", e persino alcuni comandanti, negano incredibilmente, e di fronte alla pi patente evidenza - di aver mai saputo delle intenzioni genocide, e di aver ucciso degli ebrei. N. 75. Abschlulssbericht, Z.S.t.L. 202 A.R.-Z 82/61, vol. 5, pagine 769-843. Sia pure con diverse argomentazioni, Christopher R. Browning (Beyond "Intentionalism" and "Functionalism" cit., p. 102) e Philippe Burrin ("Hitler and the Jews" cit., pagine 105-106, 113) sostengono entrambi che nelle prime settimane - per citare Browning la stragrande maggioranza delle vittime degli "Einsatzkommandos" furono i maggiorenti e gli intellettuali maschi, il che, a loro modo di vedere, corrispondeva all'ordine di Heydrich del 2 luglio. Si tratta di una tesi insostenibile, smaccatamente smentita sia dalle azioni degli "Einsatzkommandos" (e dei battaglioni di polizia) sia dalle deposizioni dettagliate rese dai realizzatori su chi e su come uccidessero, nonch sull'interpretazione che essi davano a ci che facevano. I tedeschi spesso radunavano e uccidevano tutti gli uomini ebrei, non i maggiorenti e gli intellettuali (una categoria elastica e virtualmente priva di significato che pu aiutare a comprendere la realt alla stessa stregua di tante altre espressioni ingannevoli usate dai tedeschi a proposito dell'annientamento degli ebrei d'Europa). Che in qualche caso iniziale essi si siano limitati a uccidere l'lite non ha importanza (poich comunque non tutti gli eccidi erano totali). Che invece uccidessero abitualmente uomini ebrei non appartenenti all'lite fondamentale, perch rivela la portata genocida dei loro ordini. Browning e Burrin si sono lasciati ingannare, prendendo alla lettera le espressioni ingannevoli dei rapporti delle "Einsatzgruppen". Confronta, per esempio, sull'"Einsatzkommando" 8, la deposizione di K.K., Z.S.t.L., 202 A.R.-Z 81/59, che riferisce in dettaglio il rastrellamento degli ebrei di Bialystok ai primi di luglio (vol. 6, pagine 1228-1229). Un esempio riferito al "Sonderkommando" 4a in Sentenza contro Kuno Callsen et al., Z.S.t.L., 204 A.R.-Z 269/60, pagine 161-62. Anche il primissimo eccidio degli "Einsatzkommandos", a Garsden, riguard tutti gli uomini ebrei che riuscirono a scovare. Confronta F.M., Z.S.t.L., 207 A.R.-Z, 15/58, vol. 2, p. 457.

Questi primi massacri genocidi indiscriminati di ebrei furono perpetrati non soltanto dagli "Einsatzkommandos" ma anche dai battaglioni di polizia. Il 13 luglio, a Bialystok, pochi giorni dopo il massacro effettuato dall'"Einsatzkommando" 8, i Battaglioni di Polizia 316 e 322 eseguirono l'ordine permanente emesso due giorni prima dal comandante di reggimento, di radunare e fucilare tutti gli ebrei maschi della regione compresi tra i diciassette e i quarantacinque anni: a Bialystok finirono nella rete in pi di tremila. Philippe Burrin ("Hitler and the Jews" cit., p. 111), senza tener conto del carattere di questi e altri eccidi macroscopici, accetta i mascheramenti verbali dei tedeschi - l'ordine avrebbe imposto di uccidere tutti gli ebrei in quella fascia di et "che si fossero resi colpevoli di sciacallaggio" - come se questo fosse stato il vero significato di quell'ordine. Il tribunale tedesco che discuteva il caso giudic l'idea che l'ordine riguardasse solo gli sciacalli un'evidente giustificazione pretestuosa, una trasparente mascheratura del vero scopo dell'ordine omicida. Confronta Sentenza contro Hermann Kraiker et al., Schwurgericht Bochum 15 K.s 1/66, pagine 144-178, e specialmente 153-155; e Sentenza contro Hermann Kraiker e a., Dortmund 45 Js 2/61, pagine 106-108. L'ordine non dimostra ci che Burrin vorrebbe fargli dimostrare, ma l'esatto contrario, cio l'esistenza di un piano di sterminio. Il massacro di sei-diecimila ebrei perpetrato a Brest-Litovsk dal Battaglione di Polizia 307 nella prima met di luglio un altro caso di genocidio indiscriminato. L'argomentazione di Browning e Burrin non tiene inoltre conto degli eccidi, compresi donne e bambini, compiuti dai tedeschi (in qualche caso con l'aiuto dei locali) nelle regioni baltiche e in Ucraina. Molti di questi eccidi, anche quelli di grande portata come a Krottingen, non meritarono di essere menzionati nei rapporti di situazione operativi delle "Einsatzgruppen". Browning e Burrin li presentano come pogrom, e li trattano sbrigativamente nelle loro analisi, anche se i tedeschi organizzarono, sostennero e coordinarono i massacri, intervenendovi anche direttamente. Un lituano, P.L., per esempio, riferisce che i tedeschi annunciarono l'ordine di uccidere gli ebrei, donne e bambini compresi, e poi descrive l'eccidio di Krottingen, perpetrato sotto il controllo dei tedeschi (Z.S.t.L. 207 A.R.-ZS 15/58, pagine 2744-2745). La portata degli eccidi organizzati dai tedeschi nel Baltico indica l'avvio gi nelle primissime settimane dell'attacco all' Unione Sovietica della politica genocida precedentemente decisa da Hitler.

Per una conferma confronta Z.S.t.L. A.R.-Z 15/58. N. 76. L'idea che Hitler iniziasse il massacro sistematico su vasta scala degli ebrei, per poi bloccarlo, va contro tutto quanto sappiamo circa la sua psicologia, il suo modo di condurre la guerra (e in questi termini concepiva il suo conflitto con gli ebrei), per non dire delle sue convinzioni sul modo di neutralizzare la presunta minaccia ebraica. Il momento storico cruciale fu dunque quello in cui Hitler decise di sterminare gli ebrei sovietici. N. 77. Richard Breitman, "Plans for the Final Solution in Early 1941" cit., dimostra che gi a quel punto era stato ordinato, ed era in corso di preparazione, un programma di sterminio per tutti gli ebrei europei, e non soltanto sovietici. Anche Christopher R. Browning ritiene che le due decisioni fossero contemporanee, ma le fa cadere alla met di luglio (Beyond "Intentionalism" and "Functionalism" cit., p.113). N. 78. Una ricostruzione di quegli eventi in Christopher R. Browning, Beyond "Intentionalism" and "Functionalism" cit., pagine 111-20. Secondo Browning il cambiamento non fu operativo bens strategico. N. 79. Otto Ohlendorf temeva pi che altro che gli uomini si abbrutissero e divenissero inadatti alla convivenza nella societ civile. Ci non avvenne nella stragrande maggioranza dei casi, ma a qualcuno tutto quel sangue versato fece effettivamente saltare i nervi. Un esempio in Daniel Jonah Goldhagen, "The Cowardly Executioner: On Disobedience in the S.S.", Patterns of Prejudice, 12, n. 1, 1978, pagine 1-16. N. 80. Sull'impiego dei furgoni sul campo confronta "Nationalsozialistische Massettungen durch Giftgas. Eine Dokumentation", a cura di Eugen Kogon, Hermann Langbein e Adalbert Rckerl, Frankfurt, 1983 pagine 81-109. N. 81. Di fatto i tedeschi continuarono le fucilazioni in massa degli ebrei per tutto il corso della guerra. Non affatto scontato che il gas fosse un mezzo pi efficiente della fucilazione; in molti casi risulta evidente il contrario. I tedeschi preferivano il gas per motivi estranei a un qualsiasi calcolo economico genocida, il che induce a pensare - contrariamente sia

all'interpretazione storiografico-scientifica sia a quella comune dell'Olocausto - che le camere a gas fossero in realt un epifenomeno nel massacro degli ebrei. Erano uno strumento pi pratico, ma non uno sviluppo essenziale. Se i tedeschi non le avessero inventate, avrebbero probabilmente ammazzato lo stesso numero di ebrei: conta prima di tutto la volont, poi il mezzo. N. 82. Confronta Christopher R. Browning, Beyond "Intentionalism" and "Functionalism" cit., pagine 111-20. N. 83. Su questa questione confronta Czeslaw Madalczyk, Concentration Camp as Tool of Oppression in Nazi-Occupied Europe, in "The Nazi Concentration Camps: Structure and Aims. The Image of the Prisoner, The Jews in the Camps", Jerusalem, Yad Vashem, 1984, pagine 55-57. N. 84. Le minute della riunione sono in "Nazism" cit., pagine 11271135. Chi pu dubitare che se i tedeschi avessero vinto la guerra e fossero riusciti a sterminare gli ebrei d'Europa, Hitler avrebbe incaricato Himmler di preparare i piani per l'annientamento di tutti gli ebrei del mondo, e soprattutto di quelli statunitensi? Secondo la logica di chi scrive come se le intenzioni non esistessero fino a quando non vengono documentati piani e preparativi concreti, dovremmo "presumere" che Hitler non avesse alcun desiderio di sterminare ci che restava dell'ebraismo mondiale, anche se la Conferenza di Wannsee codificava i suoi piani di annientamento degli ebrei europei. N. 85. Sui temi di questo paragrafo ritorneremo nella Parte quarta di questo libro. N. 86. Randolf L. Braham, "The Politics of Genocide: The Holocaust in Hungury", New York, Columbia University Press, 1981, vol. 2, pagine 79293. N. 87. Confronta la Parte quinta di questo libro. N. 88. Citato in Eberhard Jackel, "Hitler's World View: a Blueprint for Power" cit., pagine 65-66. N. 89.

Interpretazioni diverse, che si soffermano sugli umori ondivaghi di Hitler, sono in Christopher R. Browning, (Beyond "Intentionalism" and "Functionalism" cit., pagine 120-21 e Philippe Burrin, "Hitler and the Jews" cit., pagine 133-47. N. 90. Lettera a Adolf Gremlich del 16 settembre 1919, cit. in Ernst Deurlein, "Hitlers Eintritt in die N.S.D.A.P. und die Reichswehr", V.f.Z., 7,1959, pagine 203-205. N. 91. E' degno di nota che Hitler usasse la parola profezia. Una profezia non e un semplice desiderio: la divinazione di un futuro probabile. Anche Goebbels e altri la consideravano una "profezia", e non una spacconata. Dopo un incontro con Hitler il 19 agosto 1941, Goebbels si richiam esplicitamente alla profezia, annotando nel suo diario che si sta realizzando in queste settimane, in questi mesi, con una precisione che appare quasi arcana. A Est, gli ebrei stanno per pagare, in Germania hanno gi pagato in parte, e pagheranno ancora nel futuro (in Martin Broszat, "Hitler und die Genesis der Endlsung: Aus Anlass der Thesen von David Irving", V.f.Z., 25, n. 4,1977, pagine 749-50). N. 92. Non riesco a pensare a un altro caso nella storia in cui il capo di una nazione abbia dichiarato le sue intenzioni su una materia di tale portata con una convinzione tanto evidente e poi, fedele alla parola, le abbia messe in pratica, di fronte al quale gli storici abbiano asserito che le sue parole non vanno prese alla lettera, che Hitler non aveva alcuna intenzione di fare ci che aveva annunciato al mondo intero (un annuncio che avrebbe poi enfaticamente reiterato). Questa distorsione interpretativa davvero bizzarra: forse la curiosa posizione avrebbe un minimo di giustificazione se l'azione non fosse corrisposta al personaggio. Ma Hitler era uomo dalle spaventose capacit omicide, nel pensiero, nelle parole e nei fatti: il suo era il carattere di un uomo che sogna di uccidere i nemici, e poi tenta di trasformare i sogni in realt. N. 93. Lothar Gruchmann, "Euthanasie und Justiz im Dritten Reich", V.f.Z. 20, n. 3, 1972, p. 238.

Hitler aveva affermato chiaramente, gi nel 1931, che la guerra sarebbe stata l'occasione della resa dei conti finale, dichiarando che se gli ebrei avessero provocato un'altra guerra sarebbero andati incontro a una brutta sorpresa: lui avrebbe frantumato l'ebraismo mondiale. Confronta Edouard Calic, "Ohne Maske: Hitler-Breiting Geheimgesprache 1931", Frankfurt, Societats Verlag, 1968, pagine 94-95 (trad. it. "Hitler senza maschera. Le interviste segrete Hitler-Breiting del 1931", Firenze, Sansoni, 1959).

Capitolo 5 GLI AGENTI E I MECCANISMI DELLA DISTRUZIONE

Come si definisce una struttura del genocidio? E come un realizzatore del genocidio? Strutture del genocidio sono tutte quelle strutture che fecero parte del sistema della distruzione. Realizzatori sono tutti coloro che contribuirono scientemente all'uccisione di massa degli ebrei (1) e in generale coloro che lavorarono in una struttura genocida. Sono realizzatori dunque tutti coloro che uccisero materialmente, e tutti coloro che allestirono lo scenario dell'ultimo atto letale, o il cui operato fu funzionale a determinare la morte degli ebrei. Realizzatori sono tutti coloro che fucilarono gli ebrei in un plotone di esecuzione; coloro che li rastrellarono, che li deportarono (conoscendone la sorte) verso un luogo di morte, o che, pur non partecipando direttamente agli eccidi, lavorarono per isolare le zone all'interno delle quali i loro compatrioti sparavano. Furono realizzatori i macchinisti e gli amministratori delle ferrovie che sapevano di portare gli ebrei alla morte. Furono realizzatori tutti i funzionari ecclesiastici i quali sapevano che contribuendo all'identificazione degli ebrei come non cristiani li avrebbero mandati alla morte. E fu realizzatore l'ormai proverbiale assassino da tavolino ("Schreibtischtter"), che forse non vide nemmeno una delle vittime, ma lubrific col suo lavoro burocratico gli ingranaggi della deportazione e dell'eliminazione. In molti casi non difficile stabilire se determinati individui o categorie vadano o no considerati come realizzatori del genocidio.

Chiunque lavorasse in un campo della morte, o appartenesse a un "Einsatzkommando", a un battaglione di polizia o a qualche altra forza di sicurezza che massacr gli ebrei o li deport nei campi della morte, o a un reparto dell'esercito che effettu operazioni genocide, e chiunque uccidesse un ebreo di propria iniziativa, sapendo che la Germania aveva optato per il genocidio, fu un realizzatore. Ma che dire dei tedeschi, poliziotti o civili, che sorvegliavano o amministravano i ghetti, le discariche per gli ebrei destinati all'estinzione? In molti ghetti le condizioni erano di per s micidiali, ma formalmente non si trattava di strutture genocide. E che dire ancora dei tedeschi che sfruttavano gli ebrei come schiavi, sapendo bene (e dopo il 1941 dovevano saperlo praticamente tutti) che quel lavoro era solo una tregua in attesa della morte, e che li trattavano con estrema brutalit? Persino le guardie di certi campi, alcuni dei quali erano campi di lavoro, per quanto violente possono non aver contribuito in modo diretto alla morte degli ebrei. Come classificarli, dunque? E' evidente che la questione si presta al dibattito. La nostra definizione parte dal presupposto che chiunque lavor all'interno di una struttura che faceva parte di quel sistema di coercizione brutale e micidiale, sistema il cui vertice era costituito dalle strutture direttamente coinvolte nell'eccidio, vada considerato un realizzatore del genocidio, perch sapeva che la sua azione era funzionale a quel risultato (2). Perch fu disposto a partecipare a iniziative che rientravano nel programma genocida e ad agire in modo da accelerare la morte di quegli ebrei? Come riusc a fare ci che fece, sapendo che le sue azioni avrebbero favorito l'obiettivo tedesco dell'eliminazione del popolo ebraico? Sono interrogativi, questi, che valgono tanto per i tirannelli dei ghetti quanto per i boia di Treblinka. Per grandi che siano le differenze psicologiche tra i rispettivi ruoli, non per questo l'uno pu essere considerato meno responsabile dell'altro. Sono differenze di cui tener conto solo quando si tratta di spiegare i motivi delle azioni individuali (3). I realizzatori del genocidio operavano nell'ambito di un numero impressionante di strutture diverse, e contribuirono nei pi svariati modi all'impresa. Se l'attenzione generale, dell'opinione pubblica e degli studiosi, si concentrata sulle camere a gas nei campi della morte (4), dal punto di vista analitico tale prospettiva, salvo restando l'orrore dei mattatoi concepiti per

l'omicidio in catena di montaggio, ha avuto due effetti deleteri: ha fatto passare in secondo piano le altre strutture genocide, studiando le quali si sarebbe scoperto molto di pi intorno alle questioni fondamentali del periodo, e ha contribuito a ridurre la rilevanza dei realizzatori. Le mostruose camere a gas e i crematori, e i mostri Hitler, Himmler, Eichmann e pochi altri sono diventati cos i protagonisti negativi di questo orrore novecentesco, mentre sfumavano dalla scena le figure che operavano nell'immensa rete dei campi non attrezzati con impianti per lo sterminio in massa, e ancor pi quelle impegnate nelle strutture genocide meno famigerate. Questo libro non si concentra sui tedeschi che operarono nei campi della morte, n sugli assassini da tavolino, n su chi stava ai margini della categoria dei realizzatori del genocidio perch, come chiariremo, non sono queste le persone pi importanti dal punto di vista analitico, nonostante la loro enorme rilevanza storica. I campi di concentramento - non tanto, per, il personale che li gestiva sono stati oggetto di una vasta letteratura (5); le altre strutture, invece, fino a tempi recenti hanno purtroppo ricevuto scarsa attenzione analitica (6): solo nel 1981 uscita una buona monografia sulle "Einsatzgruppen" (7), che pure dice ben poco sugli uomini che vi prestarono servizio. Uno studio sistematico sui tedeschi che controllavano i ghetti continua a mancare, e i ghetti stessi rimangono territorio esclusivo dei memorialisti e di chi si occupa della vita dei loro abitanti ebrei (8). Fino a tempi recentissimi la "Ordnungspolizei" (ORPO, Polizia d'ordine) stata a malapena menzionata nella letteratura, sebbene i suoi uomini abbiano contribuito alla morte di milioni di ebrei; la prima monografia su uno dei rami in cui era ripartita, i battaglioni di polizia, uscita da poco, ma in buona parte limitata alle vicende di un unico reparto (9); del secondo ramo, la "Gendarmerie", che fu anch'essa tra i protagonisti del genocidio, la letteratura esistente ci dice ben poco. Un contributo importante al massacro stato dato da uomini e donne appartenenti alle varie amministrazioni e istituzioni civili tedesche che operavano in diversi paesi, soprattutto in Polonia, ma anche di loro ci si dimenticati; e le grandi aziende tedesche e il relativo personale meritano a loro volta uno studio ben pi approfondito di quanto abbiano ricevuto fino a oggi (10). Solo negli ultimi anni abbiamo cominciato a sapere di pi delle imprese genocide dell'esercito tedesco, ma siamo ancora a un livello troppo generico (11).

Gli uomini e le donne che tiranneggiavano gli ebrei nei campi di lavoro sono rimasti senza volto, e persino il personale delle S.S. e dei loro diversi corpi di sicurezza richiede uno studio pi vasto e approfondito (12). Questa breve rassegna delle strutture che impongono ricerche ulteriori non indica soltanto quanto poco sappiamo dei realizzatori dell'Olocausto, ma anche il gran numero di strutture e persone che furono coinvolte nel genocidio. Con qualche esagerazione, si potrebbe sostenere che in pratica tutte le strutture tedesche nell'Europa orientale occupata, e soprattutto in Polonia, si prestarono a favorire gli eccidi. Contando anche i membri dell'esercito che se ne resero complici, il numero delle persone impiegate da queste strutture era nell'ordine dei milioni: fu un'operazione di dimensioni spropositate. Anche il numero dei realizzatori diretti fu altissimo (13): i tedeschi che parteciparono all'immenso sistema di sottomissione violenta in cui vissero e morirono ebrei e non ebrei furono centinaia di migliaia. Se includiamo coloro che utilizzavano e reclutavano la manodopera degli schiavi (pi di 7,6 milioni nel Reich, nell'agosto 1944) (14), i tedeschi che si resero colpevoli di gravi delitti si potrebbero contare a milioni. Di questi i realizzatori diretti dell'Olocausto (nell'accezione che abbiamo scelto di utilizzare) furono certamente pi di centomila, ma non sorprenderebbe scoprire che superavano il mezzo milione. Qualche cifra sulle strutture del genocidio e il personale che vi era impiegato pu bastare, per quanto incompleta, a far capire le dimensioni del sistema di distruzione allestito dai tedeschi. Un recente studio su tutti i diversi campi (compresi i ghetti) ne ha identificati con certezza 10005, ma si sa bene che ne esistevano molti altri, ancora non scoperti (15). Di quei diecimila, entro i confini odierni della sola Polonia c'erano 941 campi di lavoro forzato destinati specificamente agli ebrei. Altri 230 campi speciali per gli ebrei ungheresi furono allestiti sul confine austriaco. I tedeschi crearono 399 ghetti in Polonia, 34 nella Galizia orientale e 16 nella piccola Lituania. Da soli, quindi, i campi di lavoro e i ghetti riservati agli ebrei di cui siamo a conoscenza erano pi di 1600. A questi si devono aggiungere i 52 grandi campi di concentramento, con un totale di 1202 sottocampi ("Aussenlager") (16).

Non conosciamo il numero dei tedeschi che costituivano il personale di ognuno di questi campi e ghetti: la sola Auschwitz, con i suoi 50 sottocampi, impieg in diversi momenti 7000 guardie (17). Nell'aprile 1945 Dachau impiegava 4100 tra guardie e amministratori, e nello stesso periodo il personale tedesco di Mauthausen e dei suoi sottocampi contava pi di 5700 persone (18). Secondo una stima, in un sottocampo occorrevano 50 guardie per 500 prigionieri, un rapporto di uno a dieci (19). Se vogliamo applicare questo rapporto ai pi di diecimila campi tedeschi, coi loro milioni di internati, o anche al numero pi esiguo dei campi in cui erano rinchiusi gli ebrei, evidente che il personale addetto alla gestione del sistema di distruzione raggiunge cifre sbalorditive. Passiamo ora alle strutture mobili: le "Einsatzgruppen" cominciarono con 3000 uomini (20), con una certa rotazione del personale. L'inventario dei ruoli dei reparti conservato alla Zentrale Stelle der Landesjustizverwaltungen zur Aufklrung nationalsozialistischer Verbrechen in Ludwigsburg (Z.S.t.L., Ufficio centrale amministrativo della giustizia regionale per l'indagine sui crimini del nazionalsocialismo di Ludwigsburg) assegna loro pi di 6000 effettivi. I 38 battaglioni di polizia dei quali ho accertato la partecipazione al genocidio degli ebrei d'Europa contavano 19 mila uomini, ma ne utilizzarono probabilmente di pi, tenendo conto delle rotazioni di personale (21). Nell'Unione Sovietica dal 1941 al 1943 furono impiegate nel massacro degli ebrei tre brigate S.S., in tutto 25 mila effettivi al comando diretto di Himmler (22). Al genocidio contribuirono, nelle loro diverse funzioni amministrative, migliaia di altri tedeschi ignoti: funzionari delle ferrovie, soldati dell'esercito, uomini della polizia e di altri corpi di sicurezza che deportarono gli ebrei dalla Germania e dall'Europa occidentale, e i tanti che fecero quanto poterono per liquidare gli schiavi ebrei che lavoravano ai loro ordini negli impianti produttivi. Lo schedario ("Einheitskartei") del Z.S.t.L. che cataloga gli appartenenti alle diverse strutture genocide conta 330 mila voci individuali e contiene informazioni su 4105 strutture coinvolte, o sospettate di coinvolgimento, nei crimini nazisti (non soltanto nei confronti degli ebrei). Se si tiene conto delle persone al corrente dell'impresa genocida che costituivano quelle strutture e svolgevano quelle funzioni, nonch della gente impegnata nel pi generale sistema di coercizione - delle cui enormi dimensioni i diecimila campi sinora identificati non sono che un indizio -

impossibile evitare di concludere che il numero dei tedeschi che si resero complici della natura fondamentalmente criminale del regime, o pi genericamente che ne erano al corrente, fu sbalorditivo. Eppure di loro sappiamo pochissimo. Le strutture della morte erano organizzate in modi diversi e perseguivano i loro obiettivi con differenti procedure; altrettanto diversificati erano dunque gli ambienti in cui operavano i realizzatori, i contatti con le vittime, la routine di lavoro. A dispetto di tante distinzioni, le accomunava comunque un elemento cruciale: il fatto di essere organismi che gestivano, e talvolta ospitavano, degli esseri considerati dai tedeschi come morti alla societ, e insieme malvagi, potenti, pericolosi. Questi due (per i tedeschi) dati di fatto concernenti gli ebrei - il primo dei quali sanciva uno status formale, il secondo rimandava a una teoria sociale che proponeva anche la soluzione al problema - diedero forma alle strutture della morte allo stesso modo in cui la progettazione architettonica organizz le loro sedi fisiche.La morte sociale uno status formale. Secondo Orlando Patterson, consiste nel sottomettere con la violenza persone aliene per nascita e indegne agli occhi di tutti. Si tratta a un tempo di una concezione del socialmente morto condivisa a livello culturale, e di un insieme di azioni pratiche nei suoi confronti. I due aspetti sono inseparabili e interdipendenti. Coloro che sono morti per la societ vengono considerati privi di alcuni attributi sostanziali dell'essere umano e immeritevoli delle essenziali tutele sociali, civili e giuridiche. I socialmente morti sarebbero incapaci di dignit, e dunque la societ gliela nega, trattandoli in modo tale da escludere persino la possibilit che la dignit civile venga loro riconosciuta, possibilit che condizione dell'appartenenza a pieno titolo a una comunit sociale. Poich si tratta di esseri socialmente indegni, gli oppressori non riconoscono loro molti diritti comunitari elementari, compreso soprattutto il diritto al rispetto dei legami familiari costituiti: questa violazione si fonda sull'alienazione per nascita. Quei legami non vengono quindi riconosciuti come tali, sicch gli oppressori si ritengono in diritto di separare in modo definitivo le famiglie con la medesima indifferenza con cui separerebbero degli aspiranti a un posto di lavoro capitati per caso ad attendere sullo stesso marciapiede. Perch coloro che sono morti per la societ rimangano tali, gente indegna agli occhi di tutti e aliena per nascita, gli oppressori devono sottometterli con la massima violenza o con la minaccia di farvi ricorso.

La morte sociale dunque uno status formale che denota chiunque subisca quelle tre forme estreme di privazione di diritti sociali. La categoria pi nota, per la quale stato coniato il termine, quella degli schiavi, ma tanti altri nella storia sono entrati a far parte dell'universo della morte sociale (23). Gli schiavi sono persone socialmente morte che per, nella maggioranza delle societ schiaviste, vengono concepite come esseri umani, e che hanno un preciso, e cospicuo, valore materiale. Nella Germania nazista gli ebrei erano persone socialmente morte soggette a dominazione violenta, aliene per nascita e ritenute incapaci di dignit - che non facevano parte del genere umano e alle quali non veniva attribuito il bench minimo valore materiale. Nella storia gli schiavi non sono stati necessariamente considerati malvagi, o moralmente depravati; anzi, in genere avvenuto il contrario. Per la maggioranza dei tedeschi, invece, gli ebrei erano entrambe le cose. Agli schiavi, concepiti in genere come persone utili e moralmente neutre, si chiedeva di obbedire e lavorare; agli ebrei, concepiti dai tedeschi come malvagi distruttori dell'ordine morale e sociale, si chiedeva di soffrire e morire. Gli schiavi dovevano essere nutriti in modo adeguato e tenuti in buona salute, perch potessero produrre; gli ebrei venivano affamati perch perdessero le forze fino a morire. La morte sociale riguardava entrambe le categorie, ma i rispettivi oppressori ne avevano una concezione ben diversa, e ben diverso era dunque il trattamento che a esse riservavano. Per un aspetto (di importanza decisiva), gli schiavi non subivano una morte sociale assoluta - per quanto tale concetto sia stato creato per definire lo schiavismo -, perch da loro dipendeva il livello produttivo, e persino la dignit, delle societ schiaviste. Inoltre spesso accaduto che gli schiavi vivessero all'interno di quelle societ, e che alcuni, se non molti, avessero rapporti e legami sociali con gli oppressori, non escluse le relazioni pi intime, di amore. Gli ebrei, invece, erano davvero morti per la societ. A loro i tedeschi non chiedevano nulla, se non di soffrire e morire; non ammettevano di dover dipendere dalla loro produzione, non accettavano la convivenza con loro, tentavano in ogni modo di evitare di avere rapporti sociali con loro (e cercavano persino di separarli dalla maggioranza degli altri popoli inferiori, come i polacchi). La differenza tra gli schiavi in qualsiasi epoca storica e gli ebrei in epoca nazista non data dallo status formale della morte sociale, che

condividevano, bens dalla concezione che di loro avevano i rispettivi oppressori: era la cognizione dell'oppressore a determinare la qualit della persona morta per la societ. Che vi siano persone che altre considerano morti per la societ ci dice quindi molto, ma ancora troppo poco circa il trattamento che esse ricevono dagli oppressori. I modelli cognitivi culturali che gli oppressori applicano ai socialmente morti improntano in misura decisiva le misure concrete che prenderanno. E dato il modello cognitivo culturale degli ebrei prevalente fra i tedeschi, era praticamente inevitabile che le strutture destinate a rinchiuderli e controllarli sarebbero divenute luoghi di disperazione senza fine e, a tempo debito, di morte. La gamma di quelle strutture era vasta, e dunque non sar possibile esaminarle tutte in dettaglio. Una di esse comunque, il "Lager", il campo, merita di essere trattata in termini generali perch per molti versi fu la struttura paradigmatica del genocidio. E fu anche, non certo per caso, la struttura paradigmatica della Germania nel periodo nazista: in ci il campo, spesso chiamato genericamente, e non del tutto correttamente, campo di concentramento, non ebbe rivali degni di nota. Fu emblematico perch tanti suoi elementi caratteristici erano simboli e rappresentazioni dei tratti salienti della Germania di allora, e perch proprio nei campi si realizzavano taluni aspetti fondamentali della rivoluzione nazista. Il campo era il luogo in cui pi chiaramente si esprimeva il carattere della futura Europa nazificata. Che cos'era un campo, e quali erano gli elementi costitutivi dell'universo del "Lager"? Un campo (che era altra cosa rispetto a una prigione) era un reclusorio che ospitava in forma permanente o semipermanente ebrei e non ebrei, e che in sostanza non era sottoposto al controllo della legge. Come ben sapeva la popolazione tedesca, i campi erano le nuove strutture speciali del regime, destinate al conseguimento degli speciali obiettivi di cui ora diremo, obiettivi diversi da quelli di una prigione, cos come le S.S. erano diverse dall'esercito guglielmino. Questa particolarit era comune a tutti i tipi di campi creati dai tedeschi, per quanto diversi fossero i loro obiettivi e l'identit di chi li occupava: campi attrezzati per lo sterminio, campi di concentramento, campi di lavoro, campi di transito, ghetti... per fare solo qualche esempio (24).

Il campo fu la prima grande innovazione strutturale caratterizzante dopo l'ascesa al potere di Hitler: fu l'atto creativo simbolico del nazismo, il primo segnale della sua enorme potenzialit distruttiva. Nel marzo 1933 il regime apr una serie di campi provvisori per rinchiudere le 25 mila persone rastrellate in seguito all'incendio che aveva distrutto il Reichstag, soprattutto comunisti, socialdemocratici e sindacalisti. Il 20 marzo Himmler convoc una conferenza stampa per annunciare l'istituzione, a Dachau, del primo campo di concentramento ufficiale, destinato a contenere 5000 prigionieri. Il regime, tutt'altro che propenso a dissimulare le sue violenze, non faceva nulla per nascondere la nascita della nuova struttura (25). Anche sul piano delle dimensioni - ed fatto ancor pi significativo - il campo fu la pi importante innovazione strutturale del periodo nazista. Basta il numero dei "Lager" costruiti, controllati e gestiti dai tedeschi e disseminati in tutto il continente europeo, ma soprattutto nell'Europa orientale (pi di diecimila), per lasciarci interdetti. La sola Polonia, sede principale del genocidio degli ebrei, e regione che i tedeschi stavano trasformando in un'immensa azienda a conduzione schiavistica, ne comprendeva pi di 5800. Diversamente da quanto peraltro induce a pensare buona parte della letteratura, il regime non fece alcun serio tentativo per risparmiare al popolo tedesco la vista di quelle strutture di violenza, oppressione e morte. Nella stessa Germania, davanti agli occhi del suo popolo, cre una gigantesca rete di campi che copriva l'intera nazione: un'infrastruttura criminale della sofferenza che fu componente altrettanto intrinseca alla natura della Germania negli anni Quaranta quanto ogni altro aspetto strutturale del paese; e che pure non bast per delegittimare il regime. Non sappiamo quanti fossero i "Lager" in Germania, perch non esistono ricerche che lo stabiliscono. Si sa che nella piccola Assia ben 606 campi - uno per ogni 90 chilometri quadrati dell'intero territorio - attribuivano un'aura apocalittica a tutto il panorama fisico e sociale (26).La stessa Berlino, capitale e vetrina del paese, ne ospitava 645, contando soltanto quelli di lavoro forzato (27). Sarebbe interessante calcolare quale fosse la distanza fisica media che separava ogni tedesco dal campo pi vicino, e quale fosse il punto della Germania pi distante da uno qualsiasi di essi. Questo allucinante sistema detentivo - che rinchiudeva, controllava, tormentava, sfruttava e uccideva milioni di persone innocenti, del tutto incapaci di costituire una minaccia fisica o militare - fu la maggiore creazione istituzionale della Germania nel periodo nazista.

La maggiore non soltanto per l'enorme numero degli impianti, per i milioni di persone che soffrirono in quell'universo, dei tedeschi e dei loro scherani che lavoravano nei e per i campi, ma anche perch costituiva un sottosistema sociale completamente nuovo. Secondo varie interpretazioni, le societ industriali moderne sono composte da pi sistemi diversi (28). In genere si ritiene che si tratti di sistemi politici, sociali, economici e culturali, i cui confini sono talvolta difficili da determinare con precisione, e ognuno dei quali interagisce con gli altri pur conservando proprie organizzazioni, modalit organizzative generali, norme direttrici (formali e informali) e modelli di comportamento. Da ognuno di questi sistemi dipendono altri sottosistemi. Nel periodo nazista, per la prima volta in Europa occidentale (l'Unione Sovietica aveva il Gulag), la Germania cre un nuovo sistema sociale a s stante: quello dei campi, distinto dagli altri in quanto dotato di strutture proprie, di una propria particolare organizzazione, di proprie norme direttrici altamente caratterizzate e di altrettanto caratteristici modelli di comportamento. Il sistema dei campi non poteva essere sussunto in alcun altro sistema sociale, e non ha senso considerarlo se non come dimensione a s stante. Negli anni Quaranta fu a un tempo parte integrante della vita tedesca e dimensione nettamente separata dagli altri sistemi sociali, in buona misura perch ospitava e sottoponeva a oppressione violenta una popolazione che in essi non aveva alcun posto (se non, in qualche caso, come manodopera servile economicamente produttiva). Il sistema dei campi era tanto diverso dalle strutture di tutte le altre dimensioni della societ tedesca, i presupposti sui quali si fondava e che indirizzavano la sua azione erano in cos forte contrasto con quello che in Germania passava allora per normale, che pur essendo parte integrante della natura della Germania nazista esso rimase un universo a s. Il mondo dei campi fu la creazione istituzionale pi vasta, pi originale e pi significativa della Germania negli anni del nazismo; la sua diversit rispetto a ci che lo circondava era tanto pronunciata e profonda che chi vi abitava avrebbe ben potuto pensare di vivere su un altro pianeta. Era un mondo in continua espansione, sempre pi importante, sempre pi organico ai meccanismi della nuova Germania, sempre pi caratterizzante dell'identit del paese. Se il fattore che definisce una democrazia spesso il sistema politico con le istituzioni della rappresentanza e le garanzie di certe libert fondamentali - e non, diciamo, quello culturale, il sistema dei campi fu

senza dubbio, e in misura crescente, uno almeno dei tratti caratteristici della Germania nel periodo nazista. Un sistema che definiva la Germania perch in esso si svolgevano alcune delle sue attivit pi tipiche ed essenziali, perch in esso veniva forgiata e si manifestava chiaramente la vera natura dell'evoluzione di quel regime e di quella societ. La letteratura sui campi ha affrontato in genere l'argomento in termini restrittivi, concentrandosi sui loro aspetti strumentali, in particolare sulla loro funzione di macchine di violenza e di luoghi di produzione economica (29). Se invece consideriamo il mondo dei campi come un "sistema" della societ tedesca, diviene evidente la necessit di una concettualizzazione pi sfaccettata. Occorre prendere in esame la vera natura di quel mondo, insieme con tutti i diversi scopi strumentali ai quali fu destinato, e con i comportamenti di libero sfogo degli istinti che si verificavano al suo interno. Il sistema dei campi presentava quattro caratteristiche principali: 1) era un mondo in cui i tedeschi portavano a termine determinati compiti violenti e perseguivano una serie di obiettivi concreti; 2) era il luogo della pi libera espressione di s, dove i tedeschi non erano impastoiati dalle restrizioni borghesi che il nazismo stava rapidamente superando con la sua morale anticristiana; 3) era un mondo in cui i tedeschi rimodellavano le vittime sull'immagine che avevano di loro, confermando cos la propria visione del mondo; 4) era un mondo rivoluzionario, in cui si realizzavano con il massimo zelo la trasformazione sociale e la trasmutazione di valori che stavano al centro del programma nazista. Dei primi tre tratteremo ora; del quarto nell'Epilogo. La prima caratteristica del sistema dei campi era data dagli evidenti obiettivi strumentali ai quali era destinato, obiettivi di cui erano al corrente tutti i tedeschi che vi prendevano parte (e milioni di altri che ne erano estranei), e che sono l'aspetto pi spesso trattato dalla letteratura sull'argomento: l'eccidio sistematico dei nemici designati, soprattutto gli ebrei, la riduzione in schiavit di persone, prevalentemente subumane, per profitto economico, e l'incarcerazione e la punizione dei nemici della nuova Germania. Al vertice del sistema c'erano i campi di sterminio di Auschwitz, Belzec, Chelmno, Sobibr e Treblinka. Qui i tedeschi costruirono strumenti di sterminio per annientare gli ebrei d'Europa, la stragrande maggioranza delle vittime, e li ammazzarono a centinaia di migliaia.

Come funzionassero le camere a gas e i forni crematori cosa ben nota, e non occorre soffermarvisi ancora (30). Ma i tedeschi operarono massacri in massa anche in altri "Lager", diversi da quelli che poi divennero noti come campi della morte. Dopo l'inizio del 1942 l'intero sistema dei campi divenne letale per gli ebrei: che li ammazzassero subito nelle camere a gas di un campo di sterminio, o che li facessero morire di fatica e di fame in campi non costruiti espressamente per lo sterminio (quelli di concentramento o di lavoro), il loro tasso di mortalit fu sempre a livelli genocidi, e sempre di gran lunga superiore a quello di altri gruppi che stavano rinchiusi al loro fianco. Una volta avviato il programma genocida, la distinzione tra i campi di sterminio (allestiti dai tedeschi espressamente per uccidere "gli ebrei") e agli altri campi divenne per gli ebrei - bench non per altri popoli puramente accademica. A Mauthausen tra la fine del 1942 e il 1943 il tasso mensile di mortalit degli ebrei fu del cento per cento. Formalmente Mauthausen non era un campo di sterminio e di fatto non lo fu per i non ebrei, il cui tasso di mortalit alla fine del 1943 era al di sotto del due per cento (31). I campi che ospitavano ebrei lo facevano in via temporanea, perch i tedeschi avevano destinato tutti gli ebrei alla morte. Poteva variare il tasso relativo dello sterminio, non l'obiettivo. Se l'uccisione di gruppi predestinati il pi impressionante dei compiti che spettavano ai campi, non fu certo l'unico e nemmeno il principale obiettivo del sistema. In un'economia di guerra bisognosa di braccia, il sistema dei campi divenne soprattutto il mondo dello sfruttamento economico di milioni di schiavi. La schiavit era in perfetta armonia con la cosmologia e il modello di umanit dominanti in Germania, fondati sulla diseguaglianza nel valore morale e nelle capacit dei popoli. Quasi tutti gli schiavi erano slavi, popoli che nell'ideologia nazista, e secondo una teoria diffusissima in Germania, erano esseri inferiori, subumani, destinati appunto allo sfruttamento. Per lo pi i tedeschi li detenevano nel sistema dei campi (molti furono anche assegnati alle aziende agricole nella campagna tedesca), anche se il settore formalmente denominato di concentramento ne assorb soltanto una percentuale ridotta - 750 mila persone nel momento culminante - dei milioni che furono rapiti, imprigionati e costretti a lavorare in condizioni che nella migliore delle ipotesi erano difficili, nella peggiore micidiali (32).

Se l'annientamento e l'asservimento per la produzione economica erano gli scopi prioritari del sistema, non erano certo gli unici. I campi venivano usati per incarcerare gli oppositori tedeschi del nazismo e i non tedeschi che si battevano contro l'occupazione. In Germania come nei paesi occupati, il sistema serviva come struttura del terrore: tutti conoscevano l'orrenda sorte che attendeva chi, per le sue azioni o per la sua identit, vi fosse precipitato. Lo spettro del campo di concentramento instill un timore paralizzante in molti esponenti di quella piccola minoranza di tedeschi che si sarebbero potuti opporre attivamente all'oppressione nazista. Indipendentemente dagli aspetti del genocidio e dello sfruttamento, il sistema dei campi era dunque un'istituzione carceraria, di pena e di terrore, utilizzata per garantire il predominio della Germania sui popoli assoggettati e sull'esigua minoranza di tedeschi che, dopo i primissimi anni, aspiravano ad abbattere il regime nazista. Per i tedeschi che lo dirigevano, il sistema dei campi non fu per soltanto uno strumento per conseguire questi dichiarati obiettivi: fu anche - ed questo la sua seconda caratteristica, anche se non fu mai esplicitata e per molti, forse per la maggioranza, nemmeno concettualizzata in questi termini - un mondo senza freni, un mondo in cui chi comandava poteva esprimere con le parole e con i fatti le sue pulsioni pi barbare, assaporando fino in fondo il piacere e la soddisfazione psicologica del dominio sugli altri. Ognuna delle guardie tedesche era padrona indiscussa, incontrollata, assoluta degli internati. Poteva dar libero sfogo a qualsiasi impulso, degradando, torturando o uccidendo i prigionieri a proprio piacimento, senza timore di subirne le conseguenze. Poteva concedersi orgiastiche manifestazioni di crudelt, gratificando le sue pi basse pulsioni aggressive e sadiche. I campi divennero quindi strutture nelle quali i tedeschi potevano dare libera espressione a ogni comportamento dettato dall'ideologia o dall'impulso psicologico, usando il corpo e la mente degli internati come strumenti di lavoro e come oggetti di gratificazione. Era un mondo senza legge, in cui i tedeschi potevano sfogare il loro odio profondo, esercitando una signoria assoluta sugli inferiori e sui nemici e applicando liberamente la morale nazista della violenza spietata sui subumani. Ma l'annullamento di ogni restrizione al libero sfogo degli impulsi e la gratificazione che i tedeschi ne ricavavano non erano soltanto espressione dei pi bassi istinti che possano albergare nella mente di un uomo. Certo, il

sistema dei campi non soltanto autorizzava, ma promuoveva quel genere di tendenze; il trattamento riservato agli internati era per determinato dalla diversa concezione che i tedeschi avevano delle varie categorie di vittime, che costituiva per loro il criterio di misura dello sfogo degli istinti aggressivi o sadici. All'interno del sistema dei campi il trattamento degli internati fu alquanto differenziato, variando in durezza e brutalit sulla base delle teorie, ufficiali o informali, circa il valore relativo delle diverse razze. Gli europei occidentali ricevevano il trattamento migliore, seguiti nell'ordine da quelli del Sud, poi - con un notevole distacco - dai polacchi, dai russi e dagli altri slavi dell'Est e infine dagli zingari, che tra i non ebrei subivano la sorte pi crudele (33). Quanto agli ebrei - considerati come incarnazioni del diavolo -, venivano trattati in modo tanto orrendo da non consentire paragoni con gli altri. Indipendentemente dallo scopo, dall'organizzazione e dalle attivit di un dato campo, gli ebrei, se pure si trovavano strutturalmente nelle medesime condizioni degli altri internati, soffrivano immancabilmente pi di tutti: un fatto sempre rilevato dai sopravvissuti, ebrei e non ebrei (34). Il sistema dei campi era un mondo in cui non valevano le regole e i costumi morali che reggevano la normale societ tedesca. In quel nuovo mondo il tedesco e la tedesca nazisti potevano trattare i non tedeschi cos come pareva loro giusto, in base alla concezione ideologica che avevano delle vittime, e ai pi bassi e profondi impulsi personali. Il nazismo, nel mondo dei campi, lasciava loro mano libera. La terza caratteristica fondamentale del sistema era data dalla sua trasformazione delle vittime in conformit all'immagine che i nazisti avevano di loro. Poich i tedeschi miravano a trasformare gli internati dei campi in un popolo di iloti, non sorprende che facessero di tutto per disumanizzarli. Privavano i prigionieri della loro individualit, sia perch cos diventava pi facile trattarli con brutalit, sia perch lo ritenevano giusto, conforme all'ordine morale del mondo: per i tedeschi i prigionieri non meritavano quel rispetto elementare che comporta il riconoscimento della personalit individuale. Rasavano loro i capelli, per trasformarli ancor pi in una massa indistinta; senza capelli, e in condizioni di estrema denutrizione, diventa infatti quasi impossibile distinguere una persona dall'altra. Quasi mai si presero la briga di conoscere i nomi degli internati; ad Auschwitz si negava persino l'esistenza di quei nomi - segno di umanit - e

si tatuava su ognuno un numero che, con l'eccezione di pochi privilegiati, diventava l'unico elemento di identificazione usato dal personale del campo. Ad Auschwitz non c'erano Mos, Ivan o Lech, ma solo internati con numeri come 10431o 69771. Disumanizzare le persone privandole della loro individualit, facendo di ciascuna, agli occhi degli aguzzini, soltanto uno dei tanti corpi in una massa indistinta, costituiva per i tedeschi il primo passo nella costruzione della categoria dei subumani. Gli internati del sistema dei campi venivano precipitati in condizioni fisiche, mentali ed emotive di disperata miseria, assai peggiori di quanto non si fosse visto in Europa da secoli. Negando alla popolazione dei campi un'alimentazione adeguata, e anzi riducendo molti alla fame, costringendoli a fatiche sfiancanti con orari impossibili, fornendo loro abiti e alloggi del tutto insufficienti, per non parlare dell'assistenza medica, e infliggendo loro violenze costanti nel corpo e nella mente, i tedeschi riuscirono a far s che molti internati assumessero l'aspetto - compresi le ferite infette e i segni delle malattie - e i comportamenti confacenti alla subumanit che veniva loro attribuita (35). La violenza sfrenata del sistema dei campi aveva due obiettivi principali. Il primo, di cui si detto, consisteva nella sua natura di sfogo espressivo, di mezzo di gratificazione per il nuovo tedesco. Il secondo consisteva nel contributo che essa doveva dare alla ricostruzione dell'immagine dei prigionieri. La violenza che questi subivano confermava per molti versi nei tedeschi la convinzione della loro subumanit. In quanto li feriva, la violenza marchiava i corpi degli internati con un richiamo costante alla loro abiezione e li indeboliva ancor di pi, aggiungendosi agli effetti disumanizzanti della denutrizione, dell'esposizione alle intemperie e della fatica. E da quella violenza derivava anche una pletora di conseguenze psicologiche. Generava terrore, inducendo i prigionieri a umiliarsi alla presenza dei loro signori tedeschi, a umiliarsi come nessuno farebbe mai di fronte a un suo pari. La vista - frequente, nei campi di un uomo che subisce un brutale pestaggio senza nemmeno alzare una mano per difendersi (era espressamente vietato) non poteva che confermare nei tedeschi la convinzione che quelle creature fossero del tutto prive di dignit, che non fossero esseri umani degni di rispetto e di considerazione morale.

I tedeschi modificarono quindi i nomi, i corpi, lo spirito, il comportamento sociale, le condizioni stesse di vita di chi stava nel mondo dei campi, trasformando costoro in esseri che dovevano soltanto faticare, soffrire e, per alcuni gruppi, morire. In un processo di autogratificazione, crearono degli esseri che a loro sembravano davvero subumani, in quanto privi di una serie di attributi essenziali dell'uomo. In quel mondo, quindi, si potevano vedere non soltanto i nuovi tedeschi, ma anche i nuovi subumani del futuro, in cui i tedeschi, se avessero vinto la guerra, avrebbero trasformato i popoli dell'Est europeo. - Conclusione. La trasformazione del sistema dei campi, dalle origini modeste ma di sinistro auspicio al traguardo di vero e proprio nuovo sistema della societ tedesca, rispecchi nel suo evolversi la messa in opera dei dogmi ideologici fondamentali del nazismo, e in particolare dell'antisemitismo eliminazionista. In un primo momento i campi furono luoghi di tortura e di assassinio episodico, secondo l'estro e il piacere delle guardie: le loro dimensioni erano ancora insignificanti (meno di 25 mila internati in tutto il sistema nel 1939), e cos il loro effetto complessivo, eccezion fatta per la paura che ispiravano agli oppositori del regime e agli ebrei. Inizialmente anche la realizzazione dell'ideologia antisemita eliminazionista fu altrettanto modesta, con provvedimenti in genere non micidiali, che diedero spazio di tanto in tanto a gratificanti esplosioni di violenza omicida, il cui scopo principale stava nel rendere la vita abbastanza difficile agli ebrei da indurli ad andarsene dalla Germania. I campi furono uno strumento importante di questo progetto. Come i provvedimenti eliminazionisti, all'inizio anche le uccisioni nei campi furono episodiche. E come per l'ideologia eliminazionista, quando i tempi maturarono i tedeschi resero operativi i campi di sterminio. Il sistema dei campi crebbe parallelamente all'attuazione delle parti pi apocalittiche del credo nazista: l'evoluzione della politica eliminazionista e l'affermazione dei campi procedettero per logiche coerenti; anche in questo senso il campo fu l'istituzione emblematica della Germania nazista, cos come lo sterminio degli ebrei ne fu l'emblematico progetto nazionale. In quanto tale, e in quanto struttura paradigmatica dell'Olocausto, il campo serve come sfondo per lo studio pi dettagliato di altre strutture della morte.

I battaglioni di polizia, i campi di lavoro e le marce della morte evidenziano in modo diverso gli stessi "aspetti generali" dell'Olocausto che si riscontrano anche nel mondo dei campi. Che i campi fossero tanto numerosi, per esempio, significa che il personale tedesco addetto alla loro gestione era ancor pi numeroso; e ci vale soprattutto per i campi sorti nel territorio della Germania. Una quantit enorme di gente comune, tedeschi che non avevano alcuna affiliazione particolare con le strutture naziste come il partito o le S.S., and a costituirne il personale. Insieme con gli altri tedeschi delle S.S. e del partito, essi uccisero, torturarono e avvilirono gli abitanti involontari dei campi. Ma per quanto rivelatore possa essere il mondo dei campi, il ruolo del popolo tedesco nell'Olocausto e la rilevanza della sua partecipazione si comprendono assai meglio studiando altre strutture del genocidio: quelle costituite in larghissima maggioranza appunto da tedeschi comuni, come i battaglioni di polizia.

NOTE AL CAPITOLO 5 N. 1. Questa definizione dei realizzatori corrisponde approssimativamente a quella usata dai tribunali della Repubblica federale di Germania per stabilire chi fosse perseguibile per complicit nell'eccidio degli ebrei. Una sintetica discussione in proposito in Sentenza contro Wolfgang Hoffmann et al., Landgericht Hamburg (50), 20/66, p. 243. Ci che ci interessa qui la persecuzione, la tortura e il massacro perpetrati dai tedeschi sugli ebrei, non i maltrattamenti e le uccisioni da loro commessi ai danni di altri popoli. La decisione deriva da pi ordini di motivi. Al di l di tutti gli altri atti di brutalit, dei crimini e degli assassinii, gli ebrei occupavano un posto centrale nella visione del mondo dei tedeschi, nell'evoluzione delle loro politiche, nella costruzione delle fabbriche della morte ad Auschwitz, a Treblinka, a Belzec, a Sobibr, a Chelmno; lo stesso non si pu dire per qualsiasi altro gruppo di vittime. Nessun altro popolo, di fatto, occupava tanto spazio nell'immaginario pubblico e privato dei tedeschi, n nelle loro imprese omicide su scala continentale.

Un secondo motivo che induce a considerare separatamente gli ebrei il trattamento sistematicamente peggiore, di cui ora si dir, al quale furono sottoposti. Agli occhi dei tedeschi gli ebrei erano "sui generis", ed dunque opportuno a fini analitici considerarli anche qui allo stesso modo, anche se di tanto in tanto presenteremo qualche confronto esplicativo con altri gruppi di vittime. N. 2. Occorre fare eccezione per quegli individui all'interno delle strutture tedesche di reclusione degli ebrei che si astennero dalla generale brutalit che le caratterizzava, come le guardie capaci di una certa gentilezza, o altri che in realt con gli ebrei non avevano alcun contatto, come qualche cuoco. Confronta Schne Zeiten cit., pagine 8 e seguenti per una diversa concezione dei realizzatori.N. 3. Abbiamo gi motivato la definizione pi estesa; uno dei suoi vantaggi collaterali comunque dato dal fatto che essa coglie un elemento essenziale tanto della Germania che dell'Olocausto: che tante persone ne fossero implicate, collegate e informate. Un'accezione pi ristretta creerebbe differenze eccessive tra, per esempio, i membri dei plotoni di esecuzione degli "Einsatzkommandos" e le guardie che sorvegliavano i ghetti o i treni delle deportazioni. Dopo tutto, i tedeschi non faticavano a passare da un ruolo all'altro; nella stragrande maggioranza dei casi fu la sorte, non un atto di volont, a stabilire chi, nell'ambito di un gruppo socialmente omogeneo di tedeschi, sarebbe entrato o meno a far parte di una delle strutture della morte. E' inevitabile che le definizioni siano persuasive, e occorre quindi garantirsi che quella prescelta lo sia nel modo pi auspicabile e difendibile. N. 4. Non conosco una sola trattazione seria dell'Olocausto che non dedichi attenzione alle camere a gas, ma molte affrontano le fucilazioni in massa degli ebrei e altri aspetti importanti della sua esecuzione in modo approssimativo (con l'eccezione degli eccidi delle "Einsatzgruppen" in Unione Sovietica), o li trascurano del tutto. Anche Raul Hilberg, "The destruction of the European Jews" cit., minimizza quegli eccidi (confronta, per esempio, il suo capitolo sulle deportazioni dalla Polonia). I tedeschi uccisero qualcosa come il 4050 per cento delle loro vittime con mezzi diversi dalla camera a gas, e i realizzatori implicati nei pi diversi contesti in questi eccidi furono assai pi numerosi di quelli che si occupavano delle camere a gas.

Alcune stime in proposito sono in "Encyclopedia of the Holocaust" cit., pagine 461-63, 1799, e Wolfgang Benz, "Dimension des Vlkermords: die Zahl der jdischen Opfer des Nationalsozialismus", Mnchen, R. Oldenbourg Verlag, 1991, p. 17. L'eccessiva attenzione dedicata alle camere a gas va compensata. N. 5. Confronta, rappresentative della vasta letteratura sui campi, le oltre settecento pagine di atti del convegno su "The Nazi Concentration Camps" cit., che dicono ben poco sui realizzatori (fatta eccezione per l'articolo di Robert Jay Lifton sui medici ad Auschwitz). Il recente volume "Anatomy of the Auschwitz Death Camp", a cura di Israel Gutman e Michael Berenbaum, Bloomington, Indiana University Press, 1994, dedica una sezione all'argomento, costituita per soltanto da un profilo sociologico del personale del campo, da un altro saggio sui medici, e da due interventi distinti sul comandante Rudolf Hss e su Josef Mengele. A parte i dati demografici e quelli sul personale, il volume contiene scarse informazioni sui realizzatori, per non dire di un'analisi sistematica delle loro azioni e motivazioni. Esiste qualche importante eccezione all'indifferenza generale sull'argomento: confronta, tra gli altri Adalbert Ruckerl, "Nntionalsozialistische Vernichtungslager im Spiegel deutscher Strafprozesse: Belzec, Sobibr, Treblinka, Chelmno", Mnchen, Deutscher Taschenbuch Verlag, 1977, e Hermann Langbein, "Menschen in Auschwitz" cit., pagine 311-522. N. 6. Per un'esame delle strutture della morte, confronta Heinz Artzt, "Mrder in Uniform: Nazi-Verbrecher-Organisationen", Rastatt, Verlag Arthur Moewig, 1987: confronta anche Richard Henkys, "Die Nationalsozialistischen Gewaltverbrechen: Geschichte und Gericht", Stuttgart, Kreuz Verlag, 1964. Su coloro che lavoravano nell'ufficio di Eichmann e presso il ministero degli Esteri, confronta rispettivamente Hans Safrian, "Die EichmannManner" cit., e Christopher R. Browning, "The Final Solution and the German Foreign Office" cit. N. 7. Helmut Krausnick e Hans-Heinrich Wilhelm, "Die Truppe des Weltanschauungskrieges" cit. Una breve trattazione preliminare in Alfred Streim, Zum Beispiel: die Verbrechen der "Einsatzgruppen" in der Sowjet-union, in "N.S.-Prozesse:

Nach 25 Jahrtin Strafoerfolgung", a cura di Adalbert Rckerl, Karlsruhe, Verlag C.F. Mller, 1971, pagine 65-106. N. 8. Confronta, ad esempio, Israel Gutman, "The Jews of Warsaw, 19391943: Ghetto, Underground, Revolt", Bloomington, Indiana University Press, 1989. Un ottimo studio sul ghetto di Varsavia, che per dice ben poco dei tedeschi che lo sorvegliavano. N. 9. Pubblicata di recente (1990), l'"Encyclopedia of the Holocaust" cit. non contiene una voce sui battaglioni di polizia, e ne ha una brevissima e scarsamente utile sulla "Ordnungspolizei". Vi accennano appena opere fondamentali sull'Olocausto quali Raul Hilberg, "The destruction of the European Jews" cit., Lucy Dawidowicz, "The War against the Jews" cit., o il recente e monumentale lavoro di Leni Yahil, "The Holocaust: the Fate of Europenn Jewry, 1932-1945", Oxford University Press, New York, 1990. Yitzhak Arad, "Belzec, Sobibor, Treblinka: the Operation Reinhard Death Camps", Bloomington, Indiana University Press, 1987, tratta dei battaglioni di polizia solo sporadicamente, sebbene i successi dell'"Aktion Reinhard" fossero in buona parte dovuti alla loro partecipazione. Christopher R. Browning, "Ordinary Men" cit., ha dato un grande contribuito alla nostra conoscenza delle attivit genocide dei battaglioni di polizia, ma poich si concentra soprattutto su un unico battaglione non ne fornisce un resoconto sistematico o esauriente. Qualche altro dato, meno interessante, stato pubblicato di recente. N. 10. Negli ultimi anni sono apparse diverse buone pubblicazioni, fra cui Ulrich Herbert, "Fremdarbeiter: Politik und Praxis des AuslnderEinsatzes in der Kriegswirtschaft des Dritten Reiches", Berlin, Verlag J.H.W. Dietz Nachf., 1985; "Europa und der Reichseinsatz: Auslndische Zivilarbeiter, Kriegsgefangene und K.Z.-Hftlinge in Deutschland, 1938-1945", a cura di Ulrich Herbert, Essen, Klartext Verlag, 1991; "Das Daimler-Benz Buch: ein Rstungskonzern im Tausenjahrigen Reich und Danach", Norlingen, ECHO, 1988 (edizioni della Hamburger Stiftung fr Sozialgeschichte des 20. Jahrhunderts); Klaus-Jorg Siegfried, "Das Leben der Zwangsarbeiter im Volkswagenwerk, 1939-1945", Frankfurt am Main, Campus Verlag,1988. N. 11. Confronta Helmut Krausnick e Hans-Heinrich Wilhelm, "Die Truppe des Weltanschauungskrieges" cit.; Omer Bartov, "The Eastern Front, 1941-

1945: German Troops and the Barbarization of Warfare", London, Macmillan, 1985; "Gott mit uns: der deutsche Vernichtungskrieg im Osten, 1939-1945", a cura di Ernst Klee e Willi Dressen, Frankfurt am Main, S. Fischer Verlag, 1989; Theo J. Schulte, "The German Army and Nazi Policies in Occupied Russia", Oxford, Berg Publishers, 1989; Jrgen Frster, Das Unternehmen "Barbarossa" als Eroberungs- und Vernichtungskrieg, in "Militargeschichtlichen Forschungsamt, Das Deutsche Reich und der Zweite Weltkrieg", Stuttgart, Deutsche VerlagsAnstalt, 1983, pagine 413447; Alfred Streim, "Sowjetische Gefangene in Hitlers Vernichtungskrieg: Berichte und Dokumente, 1941-1945", Heidelberg, C.F. Mller Juristischer Verlag; Christian Streit, "Keine Kameraden: die Wehrmacht und die sowjetischer Kriegsgefangenen, 19411945", Stuttgart, Deutsche VerlagsAnstalt, 1978. N. 12. Occorre sapere di pi sulla gente che ader alle S.S., sulla vita nei diversi settori che le componevano, sul loro modo di vedere il mondo, e via dicendo: di loro ci serve una descrizione spessa. Su questo argomento, le due principali opere esistenti sono: Bernd Wegner," The Waffen-S.S.: Organization, Ideology, and Function", Oxford, Basil Blackwell, 1990, e Herbert F. Ziegler, "Nazi Germany's New Aristocracy: the S.S. Leadership, 1925-1939", Princeton, Princeton University Press, 1989. N. 13. Fin dall'inizio della mia ricerca ho deciso che l'elaborazione di una stima attendibile del numero dei realizzatori avrebbe preso pi tempo di quanto potessi dedicarle, alla luce degli altri obiettivi che mi ero posto. Mi sento comunque di poter affermare tranquillamente che fu enorme. La sede di gran lunga migliore per lavorare a questa stima la Z.S.t.L. di Ludwigsburg, che ha coordinato e smistato le indagini e i procedimenti per i crimini nazisti fin dalla sua fondazione, nel 1958. Lo schedario nominativo ("Namenskartei") dello schedario centrale ("Zentralkartei") contiene 640.903 schede (al 2 dicembre 1994) riferite a persone citate o convocate a testimoniare nel corso delle indagini. Lo schedario ("Einheitskartei"), contenente i nomi delle persone la cui appartenenza a una struttura della morte accertata o sospettata, conta 333.082 schede riferite alle 4105 unit e organizzazioni individuate dalle autorit giudiziarie. La tabulazione numerica delle persone effettivamente riferibili alle diverse strutture sarebbe un compito difficile, perch il numero delle schede

dello schedario per unit non pu essere considerato completo n all'interno di ciascuna struttura, n come indicazione generale. Molti elenchi sono lacunosi (spesso in modo grave), e sono numerosi i doppioni, i nomi di realizzatori non tedeschi e quelli di persone che non appartenevano ad alcuna struttura (per la compilazione di una scheda basta che il nome sia stato fatto in una testimonianza). Oltre a questo, occorre considerare che alcune di quelle strutture, e delle persone che ne facevano parte, erano implicate, o sospettate di esserlo, in crimini diversi dalla strage degli ebrei (il cosiddetto programma di eutanasia, per esempio). Anche se non sussistessero i difficili problemi legati alla classificazione degli individui e dei gruppi di individui (dovuti a diversi tipi di carenza di informazione), il semplice calcolo del numero delle persone che appartennero a ciascuna struttura genocida sarebbe un compito assai laborioso e dispersivo. E non si dimentichi che un buon numero di strutture non mai stato sottoposto ad alcuna indagine. N. 14. Ulrich Herbert, "Fremdarbeiter" cit., p. 271. N. 15. Gudrun Schwarz, "Die nationalsozialictischen Lager", Frankfurt am Main, Campus Verlag, 1990, p. 221. Non sappiamo per esempio quanti fossero i ghetti in Bielorussia o in Ucraina (p. 132). Va osservato che le dimensioni dei campi erano assai varie, dall'immenso complesso di Auschwitz a quelli in cui i tedeschi rinchiudevano poche decine di persone. N. 16. Ibid, pagine 221-22, per uno schema di sintesi dei campi appartenenti alle diverse categorie. N. 17. Aleksander Lasik, Historical-Sociological Profile of the Auschwitz S.S., in "Anatomy of the Auschwitz Death Camp" cit., p. 274. Lasik dimostra che una cospicua minoranza era costituita da tedeschi non nati in Germania (pagine 279-81), che si erano votati al nazismo. N. 18. Wolfgang Sofsky, "Die Ordnung des Terrors: Das Konzentrationslager", Frankfurt am Main, Fischer Verlag, 1993, pagine 341-42, note 20,18 (trad. it. "L'ordine del terrore. Il campo di concentramento", Roma-Bari, Laterza, 1995).

19 Ibid., p. 121. N. 20. Confronta Helmut Krausnick e Hans-Heinrich Wilhelm, "Die Truppe des Weltanschauungskrieges" cit., p. 147, per una disamina della loro composizione iniziale. N. 21. Si tratta di una stima prudenziale, perch estremamente probabile che un numero ancora maggiore di battaglioni di polizia partecipasse agli eccidi, e perch i 500 effettivi individuati come la forza media di ogni battaglione sono forse pochi (molti avevano pi uomini, e si deve tener conto delle rotazioni di personale). Di questo, e delle fonti utili a una stima, si discuter nel capitolo 9. N. 22. Yehoshua Bchler, Kommandostab Reichsfhrer-S.S. cit., p. 20, n. 1. Bchler stima in almeno 100 mila gli ebrei uccisi da costoro: possiamo considerarlo un calcolo prudenziale. N. 23. Confronta Orlando Patterson, "Slavery and Social Death" cit., specie pagine 1-14. Il termine morte sociale qui distinto da morte civile, cio il rifiuto o la revoca di determinati diritti civili, come quello di votare. La morte sociale un fenomeno qualitativamente diverso. N. 24. Su due tipologie di campi, confronta Gudrun Schwarz, "Die nationalsozialistischen Lager" cit., pagine 70-73, e Aharon Weiss, Categories of Camps - Their Character and Role in the Execution of the "Final Solution of the Jewish Question", in "The Nazi Concentration Camps" cit., pagine 121-27. N. 25. Confronta Falk Pingel, "Haftlinge unter S.S.-Herrschaft: Widerstand, Selbsthehauptung und Vernichtung im Konzentrationslager", Hamburg, Hoffmann und Campe, 1978, pagine 30-35, sulla fase iniziale dei campi. N. 26. "Die nationalsozialistischen Lager" cit., p. 72. N. 27. Ibid., p. 222. Senza dubbio alcuni di essi erano piuttosto piccoli, e relativamente poco appariscenti. N. 28. Si discute di questo in Daniel Bell, "Die Zukunft der zoestlichen Welt. Kultur und Technologie im Widerstreit", Frankfurt, 1976.

N. 29. Esempi rappresentativi in Konnilyn G. Feig, "Hitler's Death Camps", New York, Holmes & Meier, 1981, e nei saggi contenuti in "The Nazi Concentration Camps" cit. Wolfgang Sofsky ("Die Ordnung des Terrors" cit.) non considera i campi in questa prospettiva troppo strumentale, ma il suo tentativo di analisi ha il grave difetto di estrapolarli dal loro reale contesto, la societ tedesca, trattandoli in genere come episodi da essa isolati. N. 30. Per un esame generale confronta "Nationalsozialistische Massettungen durch Giftgas" cit., pagine 73-204. I ricordi di un ebreo sopravvissuto che lavor nelle strutture di sterminio ad Auschwitz si trovano in Filip Mller, "Sonderbehandlung. 3 Jahre in den Krematorien und Gaskammern von Auschwitz", Mnchen, 1979. N. 31. Falk Pingel, "Hftlinge unter S.S.-Herrschaft" cit., p. 186. N. 32. Per questo fuorviante utilizzare campi di concentramento come termine generico, a meno di non dichiarare esplicitamente il riferimento agli altri tipi di campi. I temi qui accennati saranno trattati nei capitoli 10 e 11. N. 33. Wolfgang Sofsky ("Die Ordnung des Terrors" cit., p. 135) lo rappresenta in una tabella, che per crea a sua volta dei problemi sia per la collocazione degli ebrei (come dir nel capitolo 15 essi non erano infatti meri subumani), sia per l'individuazione di un "continuum" vita-morte che invece non tale, bens una serie di valori discreti e mutevoli. N. 34. Di questo si discute in Falk Pingel, "Hftlinge unter S.S.Herrschaft" cit., pagine 91-96, 133-34. N. 35. Per una analisi generale, confronta "Survivors, Victims, and Perpetrators: Essays on the Nazi Holocaust", a cura di Joel E. Dimsdale, Washington, Hemisphere, 1980, capitoli 4-10. Una indagine sulle condizioni e la vita sociale dei prigionieri ad Auschwitz in Hermann Langbein, "Menschen in Auschwitz" cit., pagine 83-128.

Parte terza I BATTAGLIONI DI VOLONTEROSI ASSASSINI

POLIZIA:

TEDESCHI

COMUNI,

"Vorrei anche spiegare che non mi venne mai in mente che quegli ordini potessero essere ingiusti. So bene che tra i doveri della polizia c' anche la protezione degli innocenti, ma allora ero convinto che gli ebrei non fossero innocenti, ma colpevoli. Credevo che, come diceva la propaganda, tutti gli ebrei fossero criminali e subumani, e che fossero loro la causa del declino della Germania dopo la prima guerra mondiale. Il pensiero che ci si dovesse sottrarre o si dovesse disobbedire all'ordine di prender parte allo sterminio degli ebrei non mi pass mai nemmeno per la mente". Testimonianza resa l'8 novembre 1961 da Kurt Mbius, gi membro di un battaglione di polizia in servizio a Chelmno.

Capitolo 6 I BATTAGLIONI DI POLIZIA: AGENTI DEL GENOCIDIO

La "Ordnungspolizei" (Polizia d'ordine) prese parte all'esecuzione dell'Olocausto al medesimo titolo delle "Einsatzgruppen" e delle S.S. Era costituita dalla "Schutzpolizei", dalla quale dipendevano i battaglioni, e dalla "Gendarmerie" (1). I battaglioni furono i reparti della "Ordnungspolizei" pi direttamente coinvolti nel genocidio: diversamente da altri settori del corpo, la loro mobilit ne faceva uno strumento flessibile, adattissimo ai pi diversi impieghi. Il carattere di queste unit e le azioni da loro compiute gettano una luce eccezionalmente chiarificatrice su alcuni aspetti centrali dell'Olocausto. Per valutare la rilevanza dell'apporto dei battaglioni di polizia all'eccidio degli ebrei non occorre conoscere a fondo l'evoluzione strutturale della "Ordnungspolizei" e dei battaglioni stessi nel periodo nazista.

Baster tenere presenti tre aspetti di quei reparti: 1) Un'alta percentuale dei tedeschi che vi appartenevano era costituita da gente di scarse doti, non selezionata per la sua affidabilit militare o ideologica, bens destinata ai reparti in modo spesso del tutto casuale, attingendo al settore meno qualificato della riserva; a volte era persino inabile al servizio militare. E per di pi non veniva sottoposta ad alcun genere di selezione ideologica. 2) Arrivati ai reparti, questi improbabili soldati ricevevano un addestramento inadeguato nell'uso delle armi, nella logistica e nelle procedure, mentre l'addestramento, o indottrinamento, ideologico fu sempre scarsissimo, toccando a volte livelli di superficialit e inefficacia vicini al ridicolo. 3) I battaglioni di polizia non erano strutture naziste. I loro uomini non potevano dirsi nazificati in alcun senso, se non in quanto rappresentanti, nei termini pi generici, della societ tedesca nazificata. La "Ordnungspolizei" pass da un totale di 131 mila uomini alla vigilia della guerra (2) a 310 mila all'inizio del 1943, dei quali 132 mila (42 per cento) riservisti (3). una struttura di sicurezza di tutto rispetto quanto a dimensioni e rilevanza. Al rafforzamento numerico e alle nuove esigenze di sorveglianza dei territori popolati da razze inferiori corrisposero compiti aggiuntivi, come la guerra ai partigiani, la deportazione delle popolazioni e, sebbene i rapporti organizzativi non ne parlino, l'uccisione di civili, nella stragrande maggioranza ebrei; compiti che produssero una struttura radicalmente diversa, nel 1942, rispetto a ci che era stata prima della guerra. Nella organizzazione essa rimase essenzialmente immutata, ma rispetto al 1938 quadruplicarono gli effettivi, e quella che era stata una forza di polizia effettiva, relativamente decentrata, stanziata soprattutto nelle rispettive citt e regioni d'origine, si trasform in una struttura sempre meno professionale, dedita alla dominazione coloniale, i cui reparti erano sparsi nell'intera Europa continentale in mezzo a popoli ostili, con lingue, costumi e aspirazioni diversi. Rispetto a ci che era stata nel 1938, nel 1942 la "Ordnungspolizei", quanto a dimensioni, composizione, attivit e spirito di corpo, era ormai irriconoscibile. I battaglioni di polizia, effettivi e di riserva, rappresentarono il riferimento organizzativo per un gran numero di tedeschi (4) Le unit contavano in media pi di 500 uomini, addetti a un'ampia gamma di compiti nelle regioni occupate e in Germania.

Inizialmente erano costituiti da quattro compagnie pi lo stato maggiore di battaglione, comandato da un capitano o da un maggiore (poi le compagnie furono ridotte a tre). Ogni compagnia era divisa in tre plotoni, a loro volta suddivisi in gruppi di 10-15 uomini. Nel 1939 svolgevano compiti di polizia e di guarnigione, regolavano il traffico, sorvegliavano gli impianti e partecipavano alla deportazione dei civili nelle zone occupate, come in Polonia nel 1940 (5). Inoltre, a seguito di un accordo con l'esercito, in caso di necessit dovevano prender parte alle operazioni militari (e combattere i partigiani dietro le linee). I battaglioni parteciparono alla campagna di Polonia nel 1939, a quella del 1940 in Europa occidentale, e a tutte le battaglie dell'offensiva tedesca contro l'Unione Sovietica. Con l'eccezione forse dell'azione militare vera e propria, questi erano i normali compiti di un corpo di polizia in tempo di guerra. La scarsa attenzione attribuita alle loro esigenze di effettivi, l'armamento leggero, e soprattutto l'addestramento spesso inadeguato stanno a indicare la modesta normalit poliziesca che si pretendeva da loro. Nulla induce a ritenere, a giudicare dai documenti, dalle dichiarazioni e dai comportamenti, che nel 1939 si stesse in qualche modo preparando l'intervento dei battaglioni di polizia nel genocidio. Gli uomini venivano reclutati e addestrati alla meno peggio, a conferma della scarsa considerazione attribuita alla "Ordnungspolizei" nella gerarchia delle forze militari e di sicurezza tedesche (6), nonch dei problemi di personale che la afflissero per tutto il corso della guerra. Nel novembre 1941 il comando della polizia calcolava una carenza di quasi 100 mila uomini (all'epoca il totale degli effettivi non raggiungeva i 300 mila), e un fabbisogno immediato di 43 mila (7). Non potendo attingere alla riserva di uomini pi abili, per far fronte a quelle esigenze che si facevano pressanti la polizia doveva rassegnarsi sempre pi spesso a reclutare gente dal profilo assai meno militaresco (8), accettando anche uomini che avevano superato l'et per prestare servizio, e altri che non erano riusciti ad arruolarsi perch non possedevano i requisiti fisici. Questi compromessi venivano giustificati adducendo le attuali carenze di personale della "Ordnungspolizei" (9). Si raschiava davvero il fondo del barile, esaurendo le ultime riserve disponibili: il Battaglione 83, per esempio, non trovando pi nessuno da

arruolare nella sua citt, Gleiwitz, nella Germania orientale, fu costretto a rinunciare alla ricostituzione completa dei ranghi di una delle sue unit (10). Il regime dunque fece ben poco per fornire alla "Ordnungspolizei" e ai suoi battaglioni uomini particolarmente abili, o che gli avessero dato una prova di fedelt maggiore di quella che poteva venire da un qualsiasi gruppo di tedeschi scelto a caso; e anche l'addestramento di quella gente dimostra che da loro ci si aspettava ben poco. Non erano reclute promettenti: nella maggioranza dei casi non avevano alcuna esperienza militare; molti, come si visto, non corrispondevano ai requisiti fisici e, data l'et, avevano gi una vita familiare e professionale consolidata. Erano perci assai meno manovrabili dei ragazzotti tanto ricercati dalle strutture militari e di polizia: un'esperienza millenaria insegna che i giovani sono pi malleabili, pi facili da trasformare in portatori dello spirito e delle pratiche di un'istituzione. Ci nonostante, bench sul piano operativo le aspettative fossero scarse, nell'addestramento la "Ordnungspolizei" doveva far fronte a un compito immane, reso ancor pi arduo dalla scarsit di tempo, per la pressante esigenza di avviare al pi presto gli uomini al servizio attivo. L'addestramento delle nuove reclute era peraltro affrettato e superficiale al limite della negligenza. Anche quando veniva completato (ma spesso cos non fu) durava solo tre mesi circa, un tempo insufficiente per unit di questo tipo, per le quali prima della guerra era previsto un anno (11). La sua inadeguatezza complessiva viene attestata da un ispettore, secondo il quale sei mesi dopo l'arruolamento un terzo dei riservisti dei Battaglioni di Polizia 65 e 67 ancora non poteva dirsi addestrato (12). Il fatto viene peraltro confermato dalle dichiarazioni rese da molti membri dei battaglioni stessi. Durante il periodo di addestramento, alla preparazione ideologica venivano in genere dedicate due misere ore alla settimana. Le lezioni riguardavano diversi argomenti (pi di uno per volta), elencati nelle direttive per gli istruttori. C'erano molti dei temi ideologici portanti del nazismo (Versailles, la protezione del sangue, l'egemonia del Reich), ma scarseggiava il tempo per poterli trattare a fondo (13). E' improbabile che un'istruzione cos superficiale, che di fatto serviva appena a far conoscere ai nuovi proseliti le leggi che codificavano i principi ideologici, potesse avere effetti maggiori dell'ascolto di un paio di comizi di Hitler, un'esperienza attraverso la quale tutti erano indubbiamente gi passati.

In quelle settimane di addestramento intensivo e spossante, possibile che le misere sedute di enunciazione ideologica servissero pi come momenti di riposo che di indottrinamento (14). L'addestramento ideologico sarebbe continuato per tutta la guerra: per gli uomini dei battaglioni di polizia erano previste sessioni di indottrinamento quotidiane, settimanali e mensili. Quelle quotidiane, da tenersi quanto meno a giorni alterni, servivano per comunicare le notizie politiche e militari; quelle settimanali dovevano dar forma alle opinioni ideologiche e rafforzare il carattere degli uomini; una volta al mese, poi, veniva trattato in modo approfondito un tema specifico di grande attualit ideologica, indicato dall'ufficio di Himmler. A prima vista tutto questo parrebbe costituire una dose massiccia di ideologia, ma nell'arco della settimana prendeva ben poco tempo, ed probabile che, quand'anche fosse stata ammannita nei modi prescritti dagli ordini, i suoi effetti fossero scarsi. L'istruzione quotidiana si limitava a comunicare e interpretare le notizie, e probabilmente riguardava soltanto le vicende militari. Quella settimanale doveva essere articolata in modo da presentare con chiarezza gli obiettivi educativi del nazionalsocialismo. Si suggerivano tre tipi di impostazione: una breve lezione su un'esperienza di guerra, o sulle imprese della "Ordnungspolizei"; la lettura di passi da un libro edificante come "Pflichten des deutschen Soldaten" (I doveri del soldato tedesco); oppure la discussione dei materiali contenuti negli opuscoli didattici delle S.S. Sono istruzioni piuttosto malfatte, che non potevano certo produrre sessioni di indottrinamento particolarmente efficaci. Un'impressione, questa, confermata quando si scopre che a chi doveva tenerle non era richiesta alcuna preparazione particolare: tutte le sessioni non venivano organizzate da insegnanti professionisti ma dagli ufficiali dei battaglioni, digiuni di preparazione didattica. Le sessioni settimanali, momento fondamentale del costante impegno di educazione ideologica, duravano soltanto dai trenta ai quarantacinque minuti e, nei casi in cui disturbassero o ostacolassero la concentrazione e la ricettivit spirituale, potevano essere sospese (15). La "Ordnungspolizei" nel suo insieme, e in particolare la sua riserva, il serbatoio di uomini per i battaglioni, non era un corpo scelto. L'et media degli uomini aveva ben poco di marziale - troppo vecchi, in genere, per una struttura militare - e l'addestramento era inadeguato. Una buona parte delle reclute era riuscita a evitare il servizio militare vero e proprio (nelle S.S. o nell'esercito), il che non era certo indice di una

particolare predisposizione alla disciplina e alle imprese marziali, eccidi compresi. Nei ranghi c'erano molti padri di famiglia, quanto di pi diverso possa esistere, in un'organizzazione militare, dai diciottenni senza alcuna esperienza di vita che si adattano cos facilmente alle esigenze di un esercito. Passato il tempo delle spacconate giovanili, erano uomini abituati a pensare per s: per et, situazione familiare e predisposizione, probabile che i componenti della "Ordnungspolizei", e della riserva in particolare, fossero gente con un'autonomia personale superiore alla norma della Germania nazista. Il corpo, inoltre, non era una struttura "nazista", cio forgiata dal regime a propria immagine. Gli ufficiali non erano nazisti particolarmente accesi, rispetto ai canoni tedeschi dell'epoca, e ancor meno lo era la truppa, n si faceva alcunch per colmare i ranghi con persone particolarmente devote al nazismo. Il fattore ideologico era praticamente assente nel funzionamento quotidiano della "Ordnungspolizei", salvo che, in minima parte, per gli ufficiali in odore di promozione (16). L'organizzazione non discriminava le reclute in base alle loro opinioni, ed improbabile che le scarne istruzioni ideologiche che impartiva potessero intensificare in modo percettibile le convinzioni naziste in chi gi le aveva; quanto poi a convertire chi non era convinto... A confronto con la dieta ideologica quotidianamente ammannita all'intera societ tedesca, quella della "Ordnungspolizei" lasciava alquanto a desiderare. Nei suoi ranghi era accolto chiunque si lasciasse accalappiare: gente che, dati i processi di selezione e la qualit degli aspiranti disponibili, era tutt'altro che ideale per il mestiere del poliziotto e che, messa in gruppo, era sicuramente meno nazificata della media nella societ. La "Ordnungspolizei" non allevava spiriti marziali, n superuomini nazionalsocialisti. L'immagine degli uomini dei battaglioni non era dunque particolarmente indicativa di fede nazista, e la struttura che li inquadrava non li indirizzava volutamente in quella direzione, n tanto meno li preparava al genocidio. Eppure il regime li avrebbe ben presto destinati a quell'incarico scoprendo che, come previsto, i tedeschi della "Ordnungspolizei", gente comune, dotata di un bagaglio culturale che era per lo pi quello allora corrente in Germania, potevano trasformarsi senza fatica in assassini genocidi.

La nostra conoscenza dell'azione dei battaglioni di polizia durante la guerra frammentaria e parziale. Non stata pubblicata alcuna indagine, n sistematica n di altro genere, del loro contributo agli eccidi. E' comunque possibile tracciare uno schema generale delle loro operazioni nelle zone occupate (17). Sul piano amministrativo i battaglioni erano sottoposti all'Alto Comando S.S. e polizia (H.S.S.P.F.) della regione in cui operavano, comando dal quale dipendevano tutte le S.S., la polizia e le forze di sicurezza (eccetto i reparti dell'esercito) presenti nella sua giurisdizione (18). Gli ordini relativi alle operazioni di messa a morte venivano trasmessi quasi sempre a voce (direttamente o per telefono); a seconda della natura dell'operazione e dell'identit delle altre strutture eventualmente coinvolte, gli ufficiali e i soldati dei battaglioni di polizia disponevano poi di diversi gradi di autonomia nella scelta delle modalit di esecuzione. Le operazioni potevano richiedere l'intero battaglione, o una sola compagnia, o anche semplicemente pochi uomini. Poich il suo compito principale era la tutela dell'ordine nella zona assegnata (spesso ostile), il battaglione era in genere di stanza in una citt, o distribuiva le sue compagnie a guarnigione di diverse citt e paesi di una regione, che servivano come basi per le sortite nelle zone circostanti. I battaglioni operavano per proprio conto, ma spesso anche in appoggio ad altre forze - l'esercito, gli "Einsatzkommandos", il Servizio di Sicurezza (S.D.) delle S.S., il personale dei campi di concentramento, la "Gendarmerie", l'amministrazione civile tedesca -, in poche parole di tutti gli organi governativi e di sicurezza presenti nelle zone occupate. Poteva capitare che un battaglione rimanesse di stanza nello stesso luogo per parecchio tempo, ma la sua era comunque un'esistenza errabonda, perch le forze di polizia tedesche erano sempre a corto di uomini, e quando occorrevano rinforzi in una data localit accadeva spesso che il vuoto venisse colmato trasferendovi uomini del battaglione di polizia pi vicino. I battaglioni si dedicavano alle pi disparate attivit ma, nella maggior parte dei casi, e per la maggior parte del tempo, non di carattere genocida: normali servizi di polizia, sorveglianza a impianti e edifici, guerra ai partigiani, talvolta persino servizio al fronte a fianco dell'esercito. Ma provvedevano anche ai rastrellamenti, deportavano i civili per trasferirli altrove, li avviavano ai lavori forzati in Germania, o verso uno dei tanti campi, spesso di sterminio. E ammazzavano la gente a sangue freddo, sovente con esecuzioni in massa.

Una volta eseguiti gli ordini della giornata, agli uomini dei battaglioni rimaneva parecchio tempo libero: questo un aspetto della loro vita che non dobbiamo trascurare, pur non sapendo molto in proposito. Per capirli, e per capire le loro azioni, dobbiamo studiare la vita che conducevano in tutti i suoi aspetti, evitando di isolarli dai loro rapporti sociali e di ridurli cos a mere caricature. I tedeschi inquadrati nei battaglioni di polizia non erano individui solitari o oppressi: nei periodi di servizio attivo andavano in chiesa e al cinema, e anche in licenza, praticavano sport, scrivevano a casa. Frequentavano bar e locali notturni, bevevano, cantavano e avevano rapporti sessuali; e parlavano. Come tutti, avevano opinioni sulla vita che conducevano e sul proprio operato; come tutti i dipendenti di un'istituzione militare o di polizia, discorrevano tra loro - in gruppi, in cerchie ristrette, a quattr'occhi - di tutti gli argomenti del giorno, e tra questi naturalmente della guerra, ma anche di quelle azioni omicide che, lo sapevano bene, vinto o perduto che fosse il conflitto, sarebbero divenute il tratto distintivo di quel periodo storico, del loro paese, di quel regime, delle loro vite. Di fatto, mentre si rendevano colpevoli di genocidio, i tedeschi dei battaglioni di polizia conducevano un'esistenza relativamente facile, se non allegra, tranne forse nei brevi intervalli in cui erano impegnati nei massacri. La partecipazione dei battaglioni agli eccidi su vasta scala, al genocidio inizi con l'attacco tedesco all'Unione Sovietica. Le stragi compiute in precedenza da alcuni battaglioni in Polonia non ebbero carattere sistematico, e non rientravano in un formale programma genocida. Gli uomini del Battaglione 9 andarono a colmare, con una compagnia per ciascuno, i ranghi di tre delle quattro "Einsatzgruppen", gli squadroni della morte tedeschi che furono gli agenti principali del genocidio in Unione Sovietica. Le compagnie furono ulteriormente ripartite tra i diversi "Einsatzkommandos" e "Sonderkommandos", sicch tra i 100-150 uomini di ogni "Kommando" il contingente di polizia era costituito da un plotone di 30-40 uomini. Nel dicembre 1941 il Battaglione 9 fu sostituito nelle "Einsatzgruppen" dal Battaglione 3. Gli uomini dei battaglioni erano alle dipendenze operative degli squadroni della morte, e svolgevano i loro stessi compiti e le loro stesse operazioni (19).

Nei territori conquistati dell'Unione Sovietica, le "Einsatzgruppen" ammazzarono pi di un milione di ebrei; e gli uomini dei battaglioni di polizia, quasi tutti riservisti, che stavano al loro fianco, contribuirono a pieno titolo alla strage. I due battaglioni assegnati alle "Einsatzgruppen" non furono gli unici che massacrarono gli ebrei nell'Unione Sovietica. Altri parteciparono all'uccisione di decine di migliaia di persone, a volte in collaborazione con gli squadroni della morte, altre volte per proprio conto. I battaglioni dei Reggimenti di Polizia 10 (45, 303 e 314) e 11 (304, 315 e 320), tutti al comando dell'H.S.S.P.F. della Russia meridionale, parteciparono alla decimazione degli ebrei ucraini (20), mentre i tre battaglioni del Reggimento di Polizia della Russia centrale (307, 316 e 322) lasciarono una scia di morte e distruzione attraverso tutta la Bielorussia (21). Uno dei primi eccidi della campagna genocida scatenata contro gli ebrei sovietici fu perpetrato da un altro battaglione, il 309: pochi giorni dopo l'inizio dell'Operazione Barbarossa, i tedeschi di quel battaglione accesero un immane e simbolico rogo infernale nella citt di Bialystok. Ufficiali e soldati di una almeno delle compagnie del battaglione sapevano, fin dal momento in cui posero piede sul territorio strappato all'Unione Sovietica, della parte che avrebbero dovuto sostenere nella distruzione pianificata degli ebrei (22). Entrato a Bialystok il 27 giugno - la citt, come tante altre, fu presa senza colpo ferire - il comandante del battaglione, maggiore Ernst Weis, ordin il rastrellamento di tutti i maschi ebrei della citt. Bench lo scopo per cui gli ebrei venivano radunati fosse quello di ucciderli, al momento i tedeschi non avevano ordini specifici sulle modalit dell'eccidio. L'intero battaglione prese parte al rastrellamento, che fu effettuato con grande brutalit e gratuita violenza. I tedeschi potevano finalmente scatenarsi senza freni contro gli ebrei. Racconta un sopravvissuto che il reparto era appena entrato in citt che gi i soldati sciamavano ovunque, sparando all'impazzata, forse anche per terrorizzare la gente. Gli spari incessanti erano spaventosi. Tiravano alla cieca, alle case e alle finestre, senza curarsi di colpire qualcuno in particolare. La sparatoria ["Schiesserei"] dur per l'intera giornata (23).

I tedeschi di questo battaglione irrompevano nelle case di persone che non avevano mosso un dito contro di loro, le trascinavano fuori colpendole con gli stivali e i calci dei fucili, poi le uccidevano. Le strade erano disseminate di cadaveri (24). Da ogni punto di vista queste brutalit, questi assassinii per autonoma iniziativa individuale erano del tutto inutili. Perch avvennero, allora? Gli stessi tedeschi, nelle testimonianze rese dopo la guerra, non dicono nulla in proposito. Ma conosciamo episodi rivelatori. Durante il rastrellamento, un ebreo apr di uno spiraglio la porta di casa per veder meglio quella scena gravida di minaccia. Un tenente si accorse della fessura e ne approfitt per sparargli, colpendolo in pieno (25). Gli ordini gli chiedevano soltanto di portare quell'ebreo al punto di raccolta; lui invece prefer sparargli. E' difficile immaginare che questo tedesco fosse in preda a rimorsi morali, mentre con un colpo da maestro colpiva il bersaglio. Un altro gruppo di tedeschi del battaglione costrinse dei vecchi ebrei a ballare: al divertimento che parevano trarre dalla coreografia, i tedeschi aggiungevano il piacere di sbeffeggiare, umiliare e tiranneggiare quegli ebrei, tanto maggiore in quanto si trattava di vecchi, persone anziane che di regola vanno trattate con rispetto e riguardo. Per loro grande malasorte, gli ebrei non riuscirono a ballare a un ritmo abbastanza vivace, e per questo i tedeschi bruciarono loro la barba (26). Nei pressi del quartiere ebraico, due ebrei disperati caddero in ginocchio di fronte a un generale tedesco, implorandolo di proteggerli. Un soldato del Battaglione 309, che aveva assistito alle suppliche, decise di intervenire con quello che considerava il commento pi adatto alla situazione: si apr i calzoni e orin loro addosso. A tal punto erano arrivati tra i tedeschi lo spirito e la prassi dell'antisemitismo che quest'uomo poteva sfacciatamente esibirsi di fronte a un generale per compiere un gesto pubblico di disprezzo praticamente insuperabile. E infatti nulla doveva temere, per quella violazione della disciplina militare e della decenza: nessuno, nemmeno il generale, fece nulla per impedirglielo (27). Altri momenti del massacro di Bialystok furono altrettanto rivelatori. I tedeschi, per esempio, setacciarono un ospedale alla ricerca di pazienti ebrei da uccidere, gente che ovviamente non poteva costituire la bench minima minaccia fisica.

E d'altra parte, a dimostrare che il loro scopo non era l'eliminazione di tutti i nemici della Germania, ma solo del fittizio nemico ebreo, basta il fatto che non manifestarono alcun interesse per i feriti uzbeki dell'esercito sovietico, ricoverati in quell'ospedale (28). Gli uomini del Battaglione 309 ammassarono gli ebrei nella piazza del mercato, nei pressi del loro quartiere. Nel pomeriggio un ufficiale dell'esercito tedesco, indignato per quel selvaggio massacro di civili inermi, aggred con violenza il capitano comandante della Prima Compagnia del battaglione, ordinandogli di rilasciare i prigionieri. Il capitano rifiut di obbedire, sostenendo che l'ufficiale non aveva alcuna autorit su di lui e i suoi uomini, e disse di avere ordini precisi e di volerli eseguire (29). Centinaia di ebrei furono quindi trasferiti dalla piazza in altri luoghi vicini, dove cominciarono le fucilazioni (30). Ma l'eccidio procedeva troppo a rilento, a giudizio dei tedeschi: gli ebrei affluivano nei punti di raccolta nella piazza e di fronte alla sinagoga pi rapidamente di quanto si riuscisse a ucciderli. Cominciavano a essere troppi: occorreva improvvisare su due piedi un'altra soluzione. Privi di ordini precisi sui metodi da impiegare, i tedeschi agirono di propria iniziativa (come tanto spesso avrebbero fatto nel corso dell'Olocausto) escogitando un nuovo procedimento. La sinagoga principale di Bialystok, una struttura squadrata in pietra, sormontata da una cupola, era un simbolo imponente della vita ebraica, la pi grande sinagoga della Polonia. Alla ricerca di un modo per sbarazzarsi della massa di prigionieri radunata all'ombra di quella possente testimonianza della vita del nemico ebreo, i tedeschi adottarono una soluzione che avrebbe distrutto contemporaneamente entrambi, gli ebrei e la loro casa spirituale e simbolica: un'ovvia conclusione, per quelle menti infiammate dall'antisemitismo (31). Dal tempo della Notte dei cristalli i roghi delle sinagoghe erano un motivo ricorrente nell'azione antiebraica, e dunque non occorreva un grande sforzo di fantasia per trasformare quella casa di culto in un mattatoio; anzi, era un tocco di ironia nell'esordio della campagna che i tedeschi sapevano destinata a concludersi con l'estinzione dell'ebraismo. Gli uomini della prima e terza Compagnia del Battaglione 309 spinsero le loro vittime nella sinagoga, con generosi colpi di incoraggiamento ai pi recalcitranti, fino a riempire l'intero edificio.

Gli ebrei, tremanti, cominciarono a cantare e pregare ad alta voce. I tedeschi cosparsero di benzina l'esterno dell'edificio e appiccarono il fuoco; uno di loro gett dell'esplosivo attraverso una finestra, per innescare l'eccidio. Le preghiere degli ebrei si trasformarono in grida. Cos uno dei tedeschi avrebbe poi descritto la scena di cui fu testimone: "Ho visto il fumo che usciva dalla sinagoga; si sentiva la gente rinchiusa gridare chiedendo aiuto. Ero a circa settanta metri di distanza. Vedevo l'edificio, e la gente che cercava di scappare dalle finestre. Gli sparavano. La sinagoga era circondata da poliziotti, evidentemente un cordone per isolarla, e per essere certi che non ne uscisse nessuno" (32). La sinagoga in fiamme era circondata da cento, centocinquanta uomini del battaglione, che insieme fecero in modo che nessun ebreo sfuggisse all'inferno e rimasero a guardare mentre pi di settecento persone morivano in quel modo orribile, ascoltando le loro grida di agonia. Le vittime erano quasi tutti uomini, ma c'erano anche donne e bambini (33). Qualcuno evit di bruciare vivo impiccandosi o tagliandosi le vene. Almeno sei ebrei uscirono di corsa dalla sinagoga, con gli abiti in fiamme, e furono abbattuti a fucilate: torce umane che finirono di consumarsi sotto gli occhi dei tedeschi (34). Quali furono le emozioni degli uomini del Battaglione di Polizia 309 di fronte a questa pira sacrificale al credo dello sterminio? Uno esclam: Brucia, brucia, bel fuocherello ["schnes Feuerlein"]; che spasso!. E un altro: Magnifico! Dovrebbe bruciare cos tutta la citt (35). Gli uomini di questo battaglione, molti dei quali non erano nemmeno poliziotti di professione e avevano scelto il servizio in polizia per evitare la coscrizione nell'esercito (36), si trasformarono in un istante in combattenti della "Weltanschauung", sterminando in quella sola giornata 2000-2200 ebrei, uomini, donne e bambini (37). I metodi del rastrellamento, i pestaggi e gli omicidi gratuiti, le strade di Bialystok disseminate di cadaveri insanguinati, e la decisione, improvvisata su due piedi, della conflagrazione purificatrice furono davvero tipici da combattenti della "Weltanschauung", o meglio, da guerrieri dell'antisemitismo. Gli uomini eseguirono quell'ordine senza disgusto n esitazioni, ma anzi con evidente piacere dell'eccesso.

Il maggiore aveva ordinato di rastrellare gli ebrei maschi, pur sapendo bene che Hitler aveva destinato gli ebrei dell'Unione Sovietica allo sterminio totale, gli uomini di propria iniziativa ampliarono la portata dell'ordine inserendo nel mucchio anche parecchie donne e bambini. Questi tedeschi agivano di propria volont nell'uccidere e brutalizzare pi di quanto richiedessero gli ordini specifici; agivano nello spirito di un ordine pi generale, nello spirito dell'epoca. Gli uomini del Battaglione di Polizia 309 eseguirono quello che possiamo considerare l'esordio emblematico del genocidio formalizzato. Erano tedeschi comuni che, non appena ebbero carta bianca per agire contro gli ebrei, nemici mortali della Germania, non esitarono ad approfittarne fino in fondo, destinando molte vittime al supplizio, inutilmente atroce, del rogo. Un altro reparto mobile che partecip alla prima ondata genocida fu il Battaglione di Polizia 65. Arruolato a Recklinghausen, una citt di medie dimensioni nella Ruhr, cuore industriale della Germania, era composto in buona parte da riservisti (38). Inizialmente di stanza in Europa occidentale, il 26 maggio 1941, nel pieno dei preparativi per l'Operazione Barbarossa, il battaglione fu trasferito a Heilsberg, nella Prussia orientale, suo trampolino di lancio per l'imminente campagna. Il 22 giugno entr insieme con la 285a Divisione di sicurezza nella regione baltica, marciando su Tilsit, con l'incarico di rastrellare gli sbandati sovietici e garantire retrovie sicure all'avanzata tedesca. Il 26 giugno la prima e seconda Compagnia del battaglione si acquartierarono a Kovno, mentre la terza era di stanza a Siauliai (Schaulen). Prima di riprendere la marcia nel territorio sovietico, il Battaglione di Polizia 65 ebbe il suo battesimo del fuoco genocida. A Kovno, sotto gli occhi di tutti - tedeschi e lituani - avvenne una strage indescrivibile. L'aggressione contro una comunit ebraica ignara, inerme e del tutto innocua si scaten subito dopo l'ingresso in citt dell'esercito tedesco, che incalzava la ritirata sovietica. Incoraggiati e aiutati dai tedeschi, i lituani massacrarono 3800 ebrei in una frenetica orgia di spari, bastonate e coltellate per le strade della citt; tra i molti tedeschi testimoni del macello, due compagnie del Battaglione di Polizia 65. Nella prima settimana di luglio reparti lituani al comando di tedeschi fucilarono a Kovno altri 3000 ebrei.

Selvaggio o sistematico che fosse, il massacro ebbe qualcosa dello spettacolo da circo: i passanti si fermavano a contemplare gli ebrei che venivano sgozzati o bastonati a morte, un po' come un tempo le folle si divertivano a guardare i gladiatori che uccidevano le bestie feroci (39). Diversi uomini del Battaglione 65 ebbero poi a riferire quanto videro durante i massacri di Kovno; per esempio, il bel lavoro compiuto dai lituani una domenica mattina, quando noi stavamo su una collinetta, e gi in basso, vicino alla cittadella, un centinaio di persone (uomini e donne) venivano abbattute a colpi di mitragliatrice e di fucile (40). Se alcune unit della Prima e Seconda Compagnia dovettero attendere ancora qualche tempo prima di prender parte direttamente a operazioni come quelle che a Kovno avevano potuto soltanto osservare, altri elementi di quelle compagnie collaborarono al massacro isolando la zona intorno alla cittadella, dove i lituani fucilavano gli ebrei (41). Per gli uomini della Terza Compagnia, invece, l'iniziazione al genocidio non ebbe nulla di graduale. Siauliai era una citt di medie dimensioni, situate a un centinaio di chilometri a nord di Kovno; qui, e nell'area circostante, la Terza Compagnia esegu numerosi massacri, a cominciare gi dalla fine del giugno 1941, uccidendo a quanto pare anche delle donne. Non conosciamo molti dettagli, ma in linea generale le operazioni risultano chiare (42): sovente erano gli stessi uomini della compagnia a rastrellare gli ebrei, cercandoli casa per casa (43), per poi trasportarli sui camion nei boschi vicini, dove li fucilavano. Gi in questa fase iniziale del genocidio si verific un fenomeno fra i tedeschi che ricomparir di continuo, pur non costituendo una regola ferrea: allo sterminio dei nemici mortali della Germania, che pure era un imperativo, avrebbero provveduto soltanto i tedeschi disposti a farlo. Riferisce un riservista: Ricordo ancora con certezza che il sergente S. convoc due o tre volte (due volte di sicuro) i plotoni d'esecuzione ... Ci tengo a dire che i plotoni erano costituiti "esclusivamente" da volontari [il corsivo nell'originale] (44). L'orrore delle fucilazioni in massa a bruciapelo era tale che all'inizio persino alcuni volontari, indubbiamente ben disposti a uccidere, ne rimanevano disgustati. Di un riservista, esecutore volontario, si racconta che ritorn da un'operazione molto scosso: L'ho fatto una volta, ma mai pi! Non riuscir a mangiare per tre giorni (45). A parte le reazioni viscerali all'iniziazione, il genocidio procedeva senza intoppi: pochi giorni dopo l'arrivo della Terza Compagnia, Siauliai fu

coperta di manifesti che proclamavano: Questa citt libera dagli ebrei!! ("Diese Stadt ist judenfrei!!") (46). In seguito non sarebbero certo mancate altre occasioni per esporre dichiarazioni celebrative di questo genere, poco dopo l'arrivo dei tedeschi in una citt sovietica. Per tutta l'estate e l'autunno del 1941 le tre compagnie del Battaglione 65 parteciparono allo sterminio degli ebrei baltici, a volte uccidendoli direttamente, a volte lasciando ad altre unit la fase dell'esecuzione, mentre loro provvedevano a rastrellare, sorvegliare o trasportare le vittime. Le squadre della morte non erano sempre costituite da uomini che si erano offerti volontari per quel compito specifico, ma nulla sta a indicare che esitassero a uccidere, o che fossero necessarie forme di coercizione per costringerli a eseguire gli ordini (47). Durante l'avanzata a nord-est, verso l'Unione Sovietica, continuarono a uccidere: a Raseiniai, a Pskov, in molte altre localit per le quali non esistono resoconti dettagliati (48). Dopo aver riferito di un eccidio a Siauliai, un riservista riassumeva cos le loro imprese autunnali: Fucilazioni di questo genere sono avvenute pi volte durante la marcia verso Luga (49). La quantit stessa dei massacri offuscava i ricordi dei tedeschi sui singoli episodi. Arrivato in settembre a Luga, una citt 120 chilometri a sud di Leningrado, il Battaglione di Polizia 65 allest i quartieri invernali. Per quattro mesi dedic le sue energie alla sorveglianza di alcuni impianti e alla guerra ai partigiani, a Luga e nel circondario, e ai turni di guardia in un campo di prigionieri di guerra sovietici. Fedeli alla loro nuova vocazione, i suoi uomini presero parte ad almeno un massacro di uomini, donne e bambini ebrei, e all'uccisione dei prigionieri sovietici riconosciuti come ebrei (50). I tedeschi impiegavano i prigionieri di guerra sovietici come servitori, relegandoli nelle cucine e nei servizi degli acquartieramenti (51); i prigionieri ebrei venivano regolarmente maltrattati, e quando si scopriva che uno degli sguatteri era un ebreo, o un commissario sovietico, veniva immediatamente ucciso. Giunti a Luga, gli uomini del Battaglione 65, o quanto meno molti di loro, avevano ormai interiorizzato l'esigenza di ammazzare gli ebrei: li consideravano fondamentalmente diversi dagli altri cittadini sovietici, e la differenza non stava in una data azione o tratto caratteriale, bens nella razza, nel semplice fatto che una persona avesse genitori ebrei, sangue ebraico.

Accampati a Luga, uccisero degli ebrei che avrebbero potuto facilmente risparmiare. Uno degli assassini racconta persino di essere stato mandato da solo, in un bosco, con un ebreo; nessuno lo sorvegliava, e se fosse stato contrario alla guerra di pulizia razziale quella sarebbe stata un'occasione perfetta per lasciar fuggire una delle vittime designate. E invece gli spar (52). Non sarebbe stato difficile, per i tedeschi, evitare di scoprire che alcuni domestici erano ebrei; nella tranquillit dei quartieri invernali, nessuno imponeva loro di farlo; e invece lo facevano, immancabilmente. Anche i pestaggi che infliggevano alle vittime erano gratuiti: a un ebreo tocc non soltanto di essere malmenato ("misshandelt"), ma anche deriso e umiliato dagli uomini del battaglione, che lo costrinsero a ballare con un orso impagliato trovato nei loro alloggi; poi gli spararono (53). Quei tedeschi trattavano gli ebrei sulla base dei criteri che avevano interiorizzato, che potevano applicare a discrezione, poich era stata loro concessa piena autonomia nelle decisioni di vita o di morte. Per gli uomini del Battaglione di Polizia 65 era ormai un dato assiomatico che tutti gli ebrei (e tutti i commissari sovietici) dovessero sparire dalla faccia della terra. Non occorrevano sollecitazioni n permessi per indurli a uccidere ogni ebreo che riuscivano a scovare (54). E' sorprendente tanta autonomia, perch in genere le organizzazioni militari e di polizia si guardano bene dall'autorizzare le reclute a prendere le decisioni capitali, normalmente riservate agli ufficiali. Ma per gli ebrei le regole normali non avevano valore: per loro ogni tedesco era inquisitore, giudice e boia. Ancor pi che all'annientamento degli ebrei sovietici, l'intervento dei battaglioni di polizia contribu in modo decisivo al successo dell'"Aktion Reinhard", il nome in codice dell'operazione di eliminazione sistematica degli ebrei residenti nella regione polacca che i tedeschi chiamavano Generalgouvernement, o Governatorato generale (55). In meno di due anni, dal marzo 1942 al novembre 1943, furono uccisi circa due milioni di ebrei polacchi, la stragrande maggioranza dei quali trov la morte nelle camere a gas di Treblinka, Belzec e Sobibr, i campi istituiti appositamente per prosciugare quel vasto serbatoio dell'ebraismo. A migliaia non arrivarono nemmeno ai campi, per, perch i tedeschi non si presero la briga di deportarli, preferendo ucciderli nelle citt dove risiedevano o nelle immediate vicinanze.

Tanto il trasporto per ferrovia fino a un campo della morte, quanto le fucilazioni ai margini delle citt richiedevano vaste risorse di personale, per rastrellare gli ebrei e per garantire che arrivassero alla destinazione designata, che fosse una fossa comune o un forno crematorio. Il personale fu assai spesso fornito da diversi reparti della "Ordnungspolizei", e soprattutto dai battaglioni di polizia (56). Concentrando l'attenzione sull'azione della "Ordnungspolizei" in generale, e dei battaglioni in particolare, in uno dei cinque distretti del Governatorato generale, quello di Lublino, si delinea il ritratto collettivo di una struttura immersa sino al collo nel genocidio. Le unit che operavano nel distretto dipendevano dal comandante della "Ordnungspolizei" di Lublino (K.d.O. Lublin). Esse rientravano in tre categorie. La prima era composta dallo stato maggiore di reggimento e dalle unit che ne dipendevano direttamente. La seconda comprendeva sette battaglioni diversi: i tre che componevano il Reggimento di Polizia 25 - numeri 65, 67 e 101-, il Battaglione di Polizia 41, il Battaglione di Polizia 316, e inoltre altre due unit mobili, ciascuna equivalente a un battaglione, il Terzo Squadrone Polizia a cavallo e il Battaglione Gendarmerie motorizzato. Gli ultimi due erano adibiti a compiti analoghi a quelli dei battaglioni, ai quali corrispondevano per composizione e funzioni, e parteciparono all'eccidio di decine di migliaia di ebrei: ai fini di questa analisi li considereremo quindi alla stessa stregua dei battaglioni. C'erano infine formazioni ausiliarie mobili, i cosiddetti "Schutzmannschaftsbataillone", composti da volontari dei paesi occupati, anch'essi dipendenti dal K.d.O. di Lublino. La terza categoria era costituita dalla "Gendarmerie" e dalla "Schutzpolizei", reparti stanziali assegnati alla guarnigione e alla sorveglianza di citt o installazioni particolari (57). Come per tante organizzazioni tedesche nel periodo nazista, le unit della "Ordnungspolizei" di Lublino non erano dirette da un'unica struttura di comando (58). Tale irregolarit, insieme al fatto che gli ordini degli eccidi venivano trasmessi a voce e non per iscritto, rende spesso difficile accertare da chi e in quale modo quegli ordini arrivassero alle diverse unit. Due erano i tipi di ordini che la "Ordnungspolizei", e i battaglioni in particolare, ricevevano per attuare le stragi.

Il primo era l'ordine di eseguire una deportazione o una fucilazione di massa in una particolare citt, in un giorno specifico: a questo dovuta la maggior parte delle vittime. Posso dire quanto segue circa il contenuto di quegli ordini ricorda un ex impiegato dello stato maggiore del K.d.O. di Lublino. Veniva stabilito un giorno in cui la popolazione ebraica di una data localit doveva essere deportata. L'incarico veniva assegnato a un dato battaglione ... Gli ordini stabilivano inoltre che in caso di fuga o resistenza si doveva sparare senza preavviso (59). Oltre a tali operazioni organizzate su vasta scala, c'era poi un ordine generico permanente detto "Schiessbefehl" (ordine di fuoco), che prescriveva di sparare contro tutti gli ebrei scoperti fuori dai ghetti o dai "Lager" - sulle strade di campagna, nei boschi, nascosti in una casa o in una fattoria. Lo "Schiessbefehl" rendeva tutti gli ebrei, compresi i bambini, "vogelfrei", fuorilegge automaticamente soggetti alla pena di morte. L'ordine comunicava senza possibilit di equivoco alla polizia che a nessun ebreo era consentito di essere libero, che la pena per l'ebreo che tentasse di conquistare la libert era la morte, e che il paesaggio sociale andava mondato anche dalla pi infinitesimale presenza ebraica. Tale ordine, nonostante il suo grande peso simbolico, era tutt'altro che simbolico; e le unit al comando del K.d.O. si comportavano di conseguenza (60). Gli uomini della "Ordnungspolizei", e soprattutto i battaglioni, lo eseguivano anzi tanto spesso che l'uccisione di ebrei isolati divenne un aspetto costante della loro vita quotidiana. Dai reparti il K.d.O. riceveva regolari comunicazioni sulle loro azioni, comprese quelle genocide, rapporti settimanali e mensili cui si aggiungevano quelli particolari su circostanze eccezionali; l'ufficiale operativo provvedeva poi a collazionarli e sintetizzarli nel rapporto mensile ai superiori del K.d.O. (61). Le comunicazioni, che giungevano in varie forme, sono di per s rivelatrici. Le relazioni scritte comprendevano elenchi delle persone uccise, dove di regola si tenevano distinti gli ebrei, colpiti dallo "Schiessbefehl", dai non ebrei coinvolti nelle operazioni di repressione dell'azione partigiana e degli altri tentativi di resistenza.

Ovviamente i fatti venivano presentati sotto la copertura dei consueti espedienti linguistici: si comunicava spesso, per esempio, che gli ebrei erano stati trattati secondo gli ordini ("befehlsgemss behandelt"). In genere gli eccidi e le deportazioni non comparivano nei rapporti scritti: il K.d.O. ne veniva informato a voce, o in un linguaggio tanto velato che risulta difficile capire se i tedeschi avessero fucilato gli ebrei sul posto o li avessero deportati in un campo della morte (62). Non importava, comunque; tutti sapevano che all'atto pratico le due cose si equivalevano. Sono stati conservati i rapporti settimanali della Prima Compagnia del Battaglione 133 dal 25 luglio al 12 dicembre 1942. In quel periodo la compagnia disseminava di cadaveri i dintorni di Kolomyia, nella Galizia orientale. I rapporti, in tutto simili a quelli che i reparti inviavano al K.d.O. di Lublino (63), confermano che il numero degli ebrei uccisi per iniziativa degli uomini della compagnia nelle loro missioni di ricerca ed eliminazione fu impressionante: 780 persone scovate e ammazzate, grosso modo 6 per ogni soldato. Si riferiva che tra il primo novembre e il 12 dicembre gli uomini avevano ucciso 481 ebrei, in media 80 alla settimana, 11 al giorno. Gli ebrei venivano sempre elencati a parte, distinti dalle altre categorie di vittime: banditi e loro complici, mendicanti, ladri, vagabondi, malati di mente e asociali. E i motivi addotti per la loro uccisione erano sempre irrilevanti, altrettanto lontani dalla realt quanto lo erano le professioni di pacifismo di Hitler dai propositi tedeschi di spartizione della Cecoslovacchia. Sfaccendati, endemicamente pericolosi, circolava senza la fascia al braccio, tentata corruzione, saltato dal mezzo di trasporto, vagabondo, si allontanato senza autorizzazione dal luogo di residenza, deportato, sfuggito alla deportazione; in molti casi l'unica motivazione addotta era ebreo, evidentemente considerata di per s sufficiente (64). Se cos era, tutte le altre motivazioni risultavano superflue, perch gli uomini di questo battaglione uccidevano qualsiasi ebreo incontrassero, indipendentemente dalla sua presunta pericolosit endemica. Essere ebreo era motivo sufficiente; ogni altra ragione, per un verso o per l'altro, era puro pretesto. Quella struttura cos poco pretoriana, la "Ordnungspolizei", si era dunque immersa nell'azione genocida e nella sua gestione.

La catena di comando trasmetteva di continuo ordini per lo sterminio di una comunit dopo l'altra, e ogni operazione forniva il suo apporto al quadro generale dell'annientamento degli ebrei di intere regioni. Rapporti regolari risalivano poi quella stessa catena per riferire dei successi conseguiti dai reparti. La "Ordnungspolizei" intratteneva stretti rapporti di collaborazione con altre strutture come la "Sicherheitspolizei" (Polizia di sicurezza) e i Comandi S.S. e polizia (S.S.P.F.), i cui membri collaboravano tutti alla realizzazione di quel grande progetto nazionale. Il genocidio e le sue azioni collaterali (rapporti da compilare, munizioni da requisire, mezzi di trasporto da confiscare per il parco macchine) erano ormai parte integrante della "Ordnungspolizei" e della vita dei suoi uomini. I battaglioni del Reggimento di Polizia 25, che svolsero un ruolo di primo piano nel genocidio, ebbero storie diverse, fino al momento del rispettivo trasferimento nel Governatorato generale; su due di esse ci soffermeremo: quella del Battaglione 65 e quindi, ancora pi a fondo, quella del Battaglione 101 (nota 65). Il Battaglione di Polizia 65 faceva da ponte tra due degli epicentri dell'Olocausto, l'Unione Sovietica e il Governatorato generale. Dopo le stragi della sua avanzata, nel 1941, attraverso i territori sovietici del Nord, il nuovo anno riserv al battaglione un compito ben pi pericoloso che non portare al massacro della gente inerme. Nel gennaio 1942 buona parte degli effettivi fu distaccata al gruppo Scheerer, impegnato in duri combattimenti intorno a Cholm, a oltre 150 chilometri a sudest del quartier generale del battaglione, che si trovava a Luga. Rimasero al fronte per pi di tre mesi, combattendo a fianco dell'esercito in un feroce confronto con l'armata sovietica; l'intero battaglione, completamente circondato dai sovietici, rischi di essere annientato. All'inizio di maggio altre truppe tedesche sfondarono l'accerchiamento, e il battaglione, che aveva subito fortissime perdite, fu ritirato dal fronte (66). Per il suo valore in battaglia, la denominazione ufficiale fu modificata in Battaglione di Polizia 65 Cholm, e ai sopravvissuti fu consegnata la relativa decorazione, il "Cholm-Schild". Una partecipazione cos massiccia alle ostilit non era la norma per i battaglioni di polizia addetti al genocidio. All'inizio di giugno lo sparuto battaglione fu trasferito da Luga a Brunowice, presso Cracovia, e chi aveva preso parte alla battaglia fu mandato a casa in licenza; poi, per tutti, un periodo di svago e lezioni di sci

a Zakopane, al confine meridionale della Polonia: circa otto settimane di riposo (67). Mentre i veterani erano altrove, a Brunowice si addestravano i rimpiazzi freschi di arruolamento, che avrebbero riportato il battaglione alla sua forza normale. Dal giugno 1942 al maggio 1943 il Battaglione 65 fece il suo secondo, e ben pi significativo, turno di servizio come struttura genocida, partecipando alla decimazione degli ebrei polacchi prima nella regione di Cracovia, poi intorno a Lublino. In quel periodo i campi della morte facevano gli straordinari, consumando nei loro forni una comunit ebraica dopo l'altra: il Battaglione di Polizia 65 aliment sia i crematori di Auschwitz sia quelli di Belzec. Poco dopo l'arrivo a Brunowice, il comandante aveva fatto un annuncio al battaglione. Secondo quanto riferisce un soldato della Prima Compagnia, aveva detto: Qui a Cracovia ci stato assegnato un incarico speciale; la responsabilit ricade sulle autorit superiori. Un messaggio criptico, il cui significato per non poteva certo sfuggire agli incalliti assassini del battaglione. Il testimone ammette di aver pensato subito che si trattava di uccidere gli ebrei (68). Quei tedeschi sapevano che, dopo cinque mesi di intervallo, al fronte e in licenza, si doveva riprendere l'eccidio. Nella regione di Cracovia il Battaglione 65 partecip ripetutamente a stragi di vario tipo, di molte delle quali sappiamo poco o nulla: abbastanza, comunque, perch la qualit della sua permanenza in Polonia risulti ben chiara. Nell'ambito dell'"Aktion Reinhard", rastrellava gli ebrei dei ghetti, li caricava sui carri bestiame e li depositava ai cancelli di una fabbrica della morte; pi volte le sue compagnie si alternarono nel trasporto degli ebrei di Cracovia allo smistamento merci, o di quelli delle citt circostanti alle rispettive stazioni, dove li caricavano sui vagoni come sempre facevano i tedeschi in quegli anni, tanti da non lasciare nemmeno lo spazio per sedersi. Un distaccamento, una trentina di uomini circa, accompagnava poi il convoglio alla sua destinazione, Auschwitz o Belzec, un viaggio che in genere durava cinque ore (69). Un riservista, all'epoca trentaquattrenne, cos racconta uno di quei trasferimenti:

Nel novembre 1942 tutti gli uomini disponibili della compagnia furono assegnati a un trasporto di ebrei ['Judentransport']. Dovevamo presentarci per prendere in consegna una colonna di ebrei che stavano portando fuori dal ghetto [di Cracovia]. Li scortammo fino ai carri bestiame in attesa, dove c'era gi una gran folla. Gli ebrei (uomini, donne e bambini) furono ammucchiati nei vagoni nel modo pi disumano; noi stavamo di guardia sul treno. Non ricordo bene la destinazione; sono certo che non era Auschwitz. Qualcuno ha detto Belzec; mi pare pi probabile, un nome che ho gi sentito. Arrivati alla destinazione finale, scendemmo dal treno e salirono le S.S. Il treno si ferm davanti a un reticolato, o una grata, poi le S.S. lo portarono dentro con una locomotiva. In tutta la zona si sentiva distintamente un puzzo di cadaveri. Ci immaginavamo la sorte che aspettava quella gente; capivamo che era un campo di sterminio. Prima ci avevano detto che venivano trasferiti in nuovi territori" (70). Molti che ebbero occasione di stare nelle vicinanze di un campo della morte, con incarichi operativi o semplicemente come osservatori, parlano dell'inconfondibile puzza di morte che aleggiava nell'aria per un raggio di chilometri e chilometri. I poliziotti sapevano quale sarebbe stata la sorte degli ebrei ben prima di arrivare ai cancelli di quell'inferno: i diversi eufemismi usati per definire la strage erano noti a tutti coloro che vi erano coinvolti. Quanto agli uomini del Battaglione 65, essi sapevano meglio di altri che cosa significasse il trasferimento degli ebrei, essendo stati tra i primi tedeschi a perpetrare massacri in Unione Sovietica, pi di un anno prima di questa particolare deportazione (71). Alle porte di Auschwitz questi uomini scesero dal convoglio, affidandolo alle cure del personale del campo, poi ebbero qualche ora di riposo in attesa del viaggio di ritorno: erano in libera uscita davanti ai cancelli di una fabbrica della morte, una struttura che non aveva precedenti nella storia dell'umanit, costruita, messa a punto e continuamente rimodernata allo scopo esplicito di liquidare vite umane. Quell'intervallo di riposo offriva ai tedeschi un invito quasi irresistibile alla riflessione. Si erano appena sbarazzati di un carico umano destinato ai forni; voltando le spalle ad Auschwitz chiudevano l'ennesimo capitolo di sangue nelle cronache della loro nazione: avevano appena dato il loro contributo a una

piccola, ma percettibile, modificazione del mondo, con un atto di grande portata morale. Nessuno di loro, specie la prima volta che si trov davanti a quei cancelli, poteva non rendersene conto. Qual era la valutazione morale che attribuivano a ci che avevano fatto? Con quali emozioni rimanevano a guardare il convoglio che entrava nel campo della morte? Quali commenti facevano tra loro, guardando il fumo che saliva, i sensi aggrediti dall'odore inconfondibile della carne che brucia? Uno di loro, un riservista trentaquattrenne richiamato nel 1940, il sabato prima di Pentecoste, cos ricorda quel momento: "C'era una puzza terribile, dappertutto. Facemmo una pausa in un ristorante. Venne da noi un uomo delle S.S. ubriaco (parlava male il tedesco); e ci raccont che gli ebrei dovevano spogliarsi, poi gli dicevano che dovevano andare alla disinfestazione. In realt, li gasavano, e poi bruciavano i corpi. Chi non camminava abbastanza veloce veniva spinto avanti a frustate. Ricordo perfettamente questa conversazione. Da quel momento seppi che i campi di sterminio per gli ebrei ['Judensvernichtungslager'] esistevano veramente" (72). Quel riservista sapeva gi che i tedeschi ammazzavano gli ebrei in massa; e di fronte ai cancelli di Auschwitz aveva scoperto finalmente come funzionavano le fabbriche della morte, fino ai dettagli degli stratagemmi usati per trascinare le vittime nelle camere a gas. Per esperienza diretta, e nelle discussioni tra loro, gli agenti dell'Olocausto acquisivano informazioni continue sulla portata e i metodi del massacro degli ebrei, e di pari passo aumentava la consapevolezza del ruolo individuale di ciascuno nell'ambito della grande impresa nazionale. In quel ristorante gli assassini parlavano apertamente delle tecniche del loro mestiere: parlavano tra loro di lavoro, insomma, come fanno tutti. Non sorprende che quell'uomo, e tanti altri come lui, definisse Auschwitz un campo di sterminio per gli ebrei, anche se vi perirono molti non ebrei. Gli assassini sapevano che i tedeschi erano impegnati ad annientare gli ebrei, a ripulire il mondo da quella presunta minaccia, sicch nella loro mente le strutture della morte erano specificamente destinate all'eliminazione del popolo ebraico. Rispetto all'operazione principale, l'uccisione dei non ebrei era un fatto marginale, un mero aspetto tattico.

E questa immagine del "Lager" era del tutto corretta, anche perch Auschwitz era un campo di sterminio per gli ebrei nel senso pi pieno, non solo perch la stragrande maggioranza delle vittime erano ebree, ma anche perch il continuo perfezionamento delle sue strutture di sterminio non sarebbe nemmeno iniziato se i tedeschi non avessero intrapreso il genocidio degli ebrei. Non tutti gli ebrei che gli uomini del Battaglione 65 strapparono ai ghetti trovarono la morte nei campi di sterminio; capitava spesso che i poliziotti vi provvedessero direttamente. Sulla maggioranza di questi massacri disponiamo di poche informazioni, ma probabile che corrispondessero nelle linee generali a uno qualsiasi degli eccidi su cui esistono testimonianze: quanto meno dopo i primissimi esperimenti, i reparti finivano per operare secondo procedure codificate. Una mattina di quell'autunno, all'alba, gli uomini del Battaglione 65 rastrellarono gli ebrei di un ghetto nei pressi di Cracovia, dopo averlo circondato per evitare fughe. Poi li portarono nei boschi fuori citt e li fucilarono. Uomini, donne e bambini furono costretti a spogliarsi sul ciglio della buca che sarebbe divenuta la loro fossa comune; un plotone di dieci tedeschi li fucilava a gruppi, finch il lavoro non fu finito. Dopo che ogni gruppo era caduto nella fossa, uno dei tedeschi sparava in testa a chiunque desse ancora segni di vita. In quella giornata furono ammazzate 800 persone (73). A quanto risulta, l'operazione era stata organizzata dalle S.S. e dal S.D. Quasi sempre (ma non di regola) i battaglioni di polizia operavano in base ai piani, e talvolta con la supervisione, dei locali comandi S.S. e S.D. Cos fu per una serie di fucilazioni in massa nell'autunno 1942, quando gli uomini del Battaglione 65 ammazzarono i ricoverati di un ospedale israelitico. Uno dei partecipanti, che all'epoca aveva trentanove anni, racconta che gli eccidi si svolsero in cinque o sei ondate. Ogni volta, un distaccamento di circa venticinque uomini della Prima Compagnia si trasferiva nei boschi alla periferia di Cracovia; i tedeschi si dividevano poi in due gruppi, uno addetto alla sorveglianza della zona, l'altro all'uccisione dei ricoverati, che venivano portati sul posto da dieci uomini delle S.S. e del S.D. Nel corso di ognuna delle operazioni fucilarono fino a 150 ebrei, persone anziane o malate e anche alcuni bambini. L'assassino che rifer questa vicenda fu assegnato a tutte le missioni, anche se dichiar di aver sempre fatto parte del gruppo che non sparava.

Comunque, quest'uomo and per cinque volte consecutive con i suoi camerati a massacrare i ricoverati di un ospedale, gente che ovviamente non costituiva alcuna minaccia per i tedeschi, gente in condizioni che in altri avrebbero fatto scattare un istinto di protezione: ma non in questi uomini (74). Gli uomini del Battaglione 65 vennero a sapere di questa e altre missioni genocide dagli avvisi affissi su una bacheca nei loro acquartieramenti: tanto ordinaria, tanto naturale appariva la cosa a coloro che realizzarono gli eccidi. Di certo passavano davanti alla bacheca assieme agli amici, per informarsi sulle prossime azioni: che osservazioni si scambiavano, mentre venivano a sapere dell'imminenza dell'ennesima puntata nella distruzione degli ebrei, mentre leggevano i nomi di chi avrebbe dovuto prendervi parte? Borbottavano imprecazioni contro il destino che li trasformava in massacratori? Compiangevano la sorte degli ebrei? Non abbiamo alcuna testimonianza in proposito, nessuno riferisce di reazioni particolari di fronte alle odiose informazioni affisse sulla bacheca del genocidio. Eppure, se quello fosse stato concepito come il luogo in cui si annunciavano notizie catastrofiche, senza dubbio pensieri ed emozioni sarebbero rimasti fissi nella loro memoria (75). Oltre a rastrellare gli ebrei dei ghetti per il tiro al bersaglio immediato o per la deportazione nei campi della morte, gli uomini del Battaglione 65 intrapresero numerose missioni di ricerca ed eliminazione nelle campagne, sia nella zona di Cracovia sia, nei primi mesi del 1943, in quella di Lublino: si trattava di setacciare i boschi alla ricerca di ebrei in fuga, per ucciderli poi sul posto (76). Poich erano fuggiti in molti, dai ghetti del Governatorato generale, la caccia impegn - con grande successo - numerosi battaglioni di polizia e altri reparti di S.S. (77). Del numero spropositato di assassinii commessi dalla Prima Compagnia del Battaglione 133 durante queste missioni si gi detto. I tedeschi scovarono tanti ebrei grazie allo zelo che mettevano nel lavoro: quando si manda qualcuno a cercare in un pagliaio un ago che lui non desidera trovare, non trovarlo la cosa pi facile del mondo. Nel maggio 1943 il Battaglione 65 fu trasferito a Copenaghen, dove si occup di una serie di operazioni preliminari al genocidio: rastrellamenti, deportazioni, sorveglianza per impedire le fughe (78). Nel febbraio 1944 pass in Iugoslavia, dove rimase fino alla fine dell'anno, combattendo contro i partigiani e fucilando ostaggi; qui sub perdite consistenti.

Nella primavera del 1945 il battaglione ripieg verso la Germania, e alla fine della guerra si arrese alle forze britanniche nella zona di Klagenfurt, in Austria (79). I battaglioni e gli altri reparti della "Ordnungspolizei" avevano cominciato gli eccidi in massa in coincidenza con l'apertura delle ostilit a un tempo contro l'Unione Sovietica e contro i suoi ebrei, e vi si dedicarono fino all'ultimo, fino a quando continu l'eliminazione sistematica degli ebrei. E' impossibile stabilire con precisione di quante morti essi si resero complici: certamente pi di un milione, forse pi di tre (80).

NOTE AL CAPITOLO 6 N. 1. Non ancora stata scritta una storia generale della "Ordnungspolizei" durante il periodo nazista, e nemmeno una storia delle vicende di quell'organizzazione che prescinda dal suo contributo agli omicidi in massa. Karl-Heinz Heller (The Reshaping and Political Conditioning of the German Order Police, 1935-1945: a Study of Techniques Used in the Nazi State to Conform, dissertazione di dottorato, University of Cincinnati, 1970) focalizza l'attenzione sull'indottrinamento dei poliziotti. Quanto al volume "Zur Geschichte der Ordnungspolizei, 1936-1945", che contiene i saggi di Georg Tessin, Die Stabe und Truppeneinheiten der "Ordnungspolizei", e di HansJoachim Neufeldt, Entstehung und Organisation des Hauptamtes "Ordnungspolizei", inadeguato dal punto di vista storiografico. N. 2. BAK R19/395 (8/20/40), p. 171. N. 3. Z.S.t.L. 206 A.R.-Z 6/62 (d'ora innanzi "J.K."), p. 1949. N. 4. I battaglioni di polizia venivano designati in modo diverso sulla base della rispettiva composizione. Quelli costituiti per la maggior parte da poliziotti di carriera erano battaglioni di polizia; quelli in cui la maggioranza era di riservisti, battaglioni della riserva; le formazioni appena costituite erano battaglioni di addestramento. Esistevano anche distinzioni basate sull'et media degli uomini: quelli in cui inizialmente gli effettivi erano pi anziani andavano dal numero 301 al

325 ed erano "Wachtmeisterbattaillonen" (battaglioni di graduati). (I battaglioni con numeri inferiori al 200 erano in genere della riserva, ma appartenevano alla riserva anche alcuni di quelli nella categoria dei 300.) Va comunque rilevato che fin dall'inizio la composizione contraddiceva spesso le designazioni ufficiali; col procedere della guerra le distinzioni formali andarono perdendo ogni significato, dato il ricambio continuo degli effettivi. Ho quindi deciso di attenermi per tutti alla generica definizione di battaglioni di polizia. N. 5. BAK R19/395 (8/20/40), p. 175. N. 6. Il rapporto contenente i risultati di un'ispezione a tre battaglioni di polizia nel maggio del 1940 (BAK R19/265, pagine 16869) riflette questo stato di cose. Confronta pure BAK R19/265 (5/9/40), p. 153. N. 7. BAK R19/395 (11 /20/41), pagine 180-83. N. 8. Confronta, ad esempio, Georg Tessin, Die Stbe und Truppeneinheiten der "Ordnungspolizei" cit., pagine 14-15. N. 9. BAK R19/311 (6/26/40), p. 165. N. 10. BAK R19/265 (5/23/40), p. 168. Analogamente, nel maggio del 1940, cinque battaglioni di polizia compreso il 65 di Recklinghausen e il 67 di Essen - disponevano soltanto rispettivamente dei due terzi e dei quattro quinti delle riserve necessarie. Il rapporto spiegava che in generale la situazione del reclutamento per le riserve di polizia critica. Confronta BAK R19/265, p. 157. N. 11. Confronta BAK R19/265 (12/22/37), pagine 91 e seguenti N. 12. BAK R19/265 (5/9/40), pagine 150-51. N. 13. Confronta, per esempio, un corso di addestramento ideologico per gli uomini dell'"Einzeldienst", in BAK R19/308 (3/6/40), pagine 36-43. Come risulta da quell'ordine, l'addestramento per i battaglioni di polizia costituiti da non riservisti era in parte diverso.

Un ordine successivo, del 14 gennaio 1941, impartiva istruzioni pi dettagliate sull'addestramento ideologico, indicando anche i numeri di pagina degli opuscoli da utilizzare come riferimento nella discussione di ciascun argomento. Da questo ordine risulta l'approssimazione dell'indottrinamento, che ben difficilmente poteva avere effetti durevoli sugli uomini. Per l'intero corso di addestramento, venivano indicate in tutto 65 pagine (con l'aggiunta dei materiali contenuti in due opuscoli sul tema dei contadini). Diversi temi venivano trattati in meno di quattro pagine di materiale scritto; alla voce Il problema ebraico in Germania, corrispondevano due sole pagine (in due opuscoli diversi), non certo sufficienti per modificare le opinioni di chicchessia. Confronta BAK R19/38 (12/20/40), p. 100. N. 14. Dell'addestramento ideologico scrive Christopher R. Browning ("Ordinary Men" cit., pagine 176-84), che discute pi dettagliatamente il materiale riguardante gli ebrei. Per Browning quell'indottrinamento fu pi efficace di quanto non lo consideri io, ma anche lui giunge alla conclusione che non furono quei materiali a indurre gli uomini a prender parte al genocidio (p. 184). N. 15. Confronta BAK R19/308 (2/8/41), pagine 267-68. Non azzardato supporre, dato che gli uomini dei reparti erano spesso dispersi su estesi territori, e dati i problemi, le esigenze e le distrazioni della vita al campo, che le sedute di istruzione funzionassero ancor peggio di quanto si desume da questi ordini. Confronta inoltre BAK R19/308 (6/2/40), pagine 250-54; sulle direttive riguardo all'educazione ideologica degli uomini dell'"Einzeldienst", confronta ibid, pagine 252-53. N. 16. Sull'importanza dell'iscrizione al partito ai fini della carriera, confronta BAK R19/311 (6/18/40), pagine 145-47,149. N. 17. Il materiale esistente sui battaglioni di polizia disperso nelle sedi del sistema giudiziario tedesco. Il Bundesarchiv di Coblenza non contiene quasi nulla di qualche valore sui loro eccidi. Mi sono sforzato di raccogliere tutto il materiale sui battaglioni in Z.S.t.L., ma nonostante la sua mole esso tutt'altro che esauriente.

Non stato facile nemmeno compilare una lista delle indagini giudiziarie relative ai crimim da loro commessi. Non posso pretendere di essere riuscito a tener conto di tutto, perch mi sono trovato a partire da zero con una massa impressionante di materiale. Sarei anzi sorpreso se non mi fosse sfuggito qualcosa che pure esiste in Z.S.t.L.. Ho compulsato le indagini riguardanti pi di trentacinque battaglioni di polizia. Su alcuni, come il 101, ho letto migliaia di pagine; su altri, solo poche centinaia. Oltre alla quantit, anche la qualit di quelle pagine non omogenea. Su alcuni battaglioni le informazioni sono scarsissime (anche per quanto riguarda le linee generali delle loro attivit); su altri il materiale abbondante, ma i dettagli sulle azioni dei singoli tedeschi che li componevano mancano in genere anche per i battaglioni meglio documentati.La mia analisi non quindi esauriente, pur facendo riferimento a una vasta base empirica. La partecipazione dei battaglioni di polizia all'Olocausto merita un approfondito studio a s stante. N. 18. Confronta Ruth Bettina Birn, "Die hheren S.S.- und Polizeifhrer" cit. Confronta anche Z.S.t.L. 204 A.R.-Z 13/60, vol. 4, pagine 397-99. N. 19. Confronta Helmut Krausnick e Hans-Heinrich Wilhelm, "Die Truppe des Weltanschauungskrieges" cit., p. 46; Alfred Streim, Das Sonderkommando 4a der Einsatzgruppe C und die mit diesem Kommando eingesetgen Einheiten whrend des Russland-Feldzuges in der Zeit vom 22.6.1941 bis zum Sommer 1943" cit. p. 36; e Georg Tessin, Die Stbe und Truppeneinheiten der Ordnungspolizei cit., p. 96. N. 20. Z.S.t.L. 204 A.R.-Z 13/60, vol. 4, pagine 402-3. N. 21. Z.S.t.L. 202 A.R. 2484/67, pagine 2397-506. Questi undici battaglioni di polizia non furono gli unici a operare nelle zone occupate dell'Unione Sovietica: vi intervennero, per esempio, anche i Battaglioni 11 e 65 (dei quali si parla pi avanti) nonch il Battaglione 91. N. 22. Il comandante del battaglione, il maggiore Weis, convoc i suoi ufficiali prima dell'attacco per informarli che Hitler aveva ordinato di uccidere tutti i commissari sovietici e di annientare gli ebrei.

Il comandante della Prima Compagnia, capitano H.B., lo comunic ai suoi uomini prima che entrassero in azione. E' possibile che altrettanto facessero gli altri ufficiali, ma la testimonianza non lo rivela. Confronta Z.S.t.L. 205 A.R.-Z 20/60 (citato come Buchs); A.A., in Buchs, p. 1339r; J.B., in Buchs, p. 1416, e J.B., in Z.S.t.L. A.R. 2701/65, vol. 1, p. 101; K.H., in Buchs, p. 1565r; H.G., in Buchs, pagine 363-64, e H.G. in Z.S.t.L. 202 A.R. 2701/65, vol. 1, p. 96; R.H., in Buchs, p. 681. Confronta anche l'autocontraddittoria testimonianza di E.M., in Buchs, pagine 1813r, 2794-95, 764, e Sentenza contro Buchs et al., Wuppertal, 12 Ks 1/67 (in seguito Sentenza Buchs), pagine 29-30, 62. Vale la pena di osservare che Christopher R. Browning ("Ordinary Men" cit., pagine 11-12) non fa cenno nella sua trattazione del battaglione a questo fatto fondamentale, che smentisce seccamente la sua idea che ancora non fosse stato emanato alcun ordine esplicitamente genocida. N. 23. E.Z., in Buchs, p. 1749 N. 24. Confronta le dichiarazioni di due sopravvissuti, S.J. e J.S., in Buchs, rispettivamente p. 1823 e p. 1830. N. 25. Sentenza Buchs, p. 43. N. 26. Ibid., p. 42, e J.J., in Buchs, p. 1828r. N. 27. Sentenza Buchs, p. 44. N. 28. Confronta A.B. e T.C., in Buchs, rispettivamente pagine 2875 e 2877-78. N. 29. Sentenza Buchs, pagine 51-52. Christopher R. Browning sostiene che questo massacro fu opera individuale di un comandante che aveva correttamente intuito e anticipato i desideri del suo Fhrer ("Ordinary Men" cit., p. 12), ma la cosa risulta poco credibile. Significa forse che il maggiore Weis prese personalmente l'iniziativa di massacrare parecchie centinaia di ebrei? Sostenendo che intu e anticip il desiderio di Hitler, si d per implicito che Weis non avesse avuto l'ordine di massacrare gli ebrei sovietici, ordine di cui anche l'ultimo dei suoi uomini era al corrente, come risulta dalle testimonianze (confronta sopra, nota 22). L'eccidio, fra l'altro, si pot consumare nonostante la strenua opposizione dei militari, che avevano giurisdizione su quella zona, e non fu diverso dalle

stragi perpetrate dai tedeschi in molte altre citt nel territorio sovietico occupato: l'intuizione non ebbe nulla a che fare con tutto questo. Va inoltre o sservato che l'interpretazione di Browning di questo eccidio, di cui dice che inizi come un pogrom per poi trasformarsi rapidamente in un massacro sistematico (p. 12), potrebbe far pensare che l'uccisione di quegli ebrei non fosse stata gi pianificata fin dall'inizio dell'operazione. N. 30. Sentenza Buchs, pagine 52-54. N. 31. Che il rogo della sinagoga fosse stato un'iniziativa spontanea dimostrato da E.M., in Buchs, pagine 1814r-15. N. 32. H.S., in Buchs, p. 1764. N. 33. Secondo la corte, furono almeno 700 (Sentenza Buchs, p. 57). L'atto d'accusa parla di almeno 800 (Buchs, p. 113). Fonti ebraiche riportano circa 2000 morti; un sopravvissuto calcola che per il 90 per cento fossero uomini, e per il 10 per cento donne e bambini. Confronta J.S., in Buchs, p. 1830, nonch I.A., in Buchs, p. 1835. N. 34. Sentenza Buchs, pagine 56-58.I tedeschi spinsero a forza almeno due persone, un uomo e una donna, nell'edificio gi in preda alle fiamme (confronta L.L., in Buchs, p. 1775). N. 35. Sentenza Buchs, p. 59. Quel desiderio fu poi soddisfatto: dalla sinagoga il fuoco si diffuse agli edifici vicini, e i tedeschi lasciarono che bruciasse buona parte del quartiere ebraico, facendo altri morti tra gli ebrei. Impedirono inoltre ai volontari di spegnere le fiamme, che continuarono a diffondersi nel quartiere, ardendo vivi altri uomini, donne e bambini (ibid., ed E.Z., in Buchs, pagine 1748r44). N. 36. Confronta, per esempio, J.B., in Buchs, p. 1415. Quando Christopher R. Browning dichiara che questi e altri uomini dei battaglioni numerati oltre il 300 erano volontari, ("Ordinary Men" cit., p. l0), rischia di essere frainteso. In genere si trattava di richiamati, o di gente che aveva anticipato la coscrizione per potersi arruolare nella polizia e non nelle forze armate o di sicurezza: non si tratta quindi di volontari in senso pieno.

Su questo battaglione di polizia, confronta, per esempio, H.H., in J.K, p. 1041; e A.A., "J.K.", p. 1339r. Poich Browning tratta proprio del Battaglione di Polizia 101- del quale diremo nei prossimi due capitoli - curioso che i commenti sulle espressioni di gioia dei tedeschi di fronte al rogo genocida non compaiano nella sua ricostruzione dell'eccidio ("Ordinary Men" cit., pagine 11-12). N. 37. Sentenza Buchs, p. 60. N. 38. Per quanto ne so, il Battaglione di Polizia 65 non stato preso in esame dalla letteratura sull'Olocausto. La fonte al riguardo "J.K." N. 39. Molte testimonianze e fotografie documentano la scoperta brutalit di quegli omicidi. Qualche esempio in Schne Zeiten cit., pagine 31-44. N. 40. P.K., in "J.K.", pagine 945-46. N. 41. "Verfgung", in "J.K.", pagine 2120-24. N. 42. Un sunto della testimonianza, e di quasi tutto quanto sappiamo sugli eccidi a Siauliai, in Sachverhaltsdarstellung, in "J.K.", pagine 1212-14. G.T., in "J.K.", pagine 1487-88, descrive una delle esecuzioni, in cui lui fu tra quelli che condussero gli ebrei alle fosse. N. 43. E' probabile che fossero i lituani a identificare gli ebrei, dato che i tedeschi non li conoscevano. Il sergente maggiore della compagnia rifer a un riservista che i tedeschi avevano dovuto occuparsi personalmente delle esecuzioni perch i lituani uccidevano in modo troppo brutale ("grausam"). H.H., in "J.K.", p. 1152. N. 44. J.F.,in "J.K.", p. 849. N. 45. H.K., in "J.K.", p. 733. K. sostiene che gli eccidi di Siauliai, come la maggioranza dei massacri di quell'autunno, furono perpetrati dai poliziotti di carriera (pagine 732-33). Aggiunge che quell'uomo, W., mor poco tempo dopo in una delle battaglie intorno a Cholm; non sappiamo se fosse riuscito a uccidere ancora. N. 46. J.F., in "J.K.", p. 849.

I manifesti mentivano, comunque, perch a Siauliai ci furono ebrei ancora per qualche tempo; ma esprimevano tutta l'aspirazione al finale gi annunciato, l'eliminazione totale degli ebrei dalla citt. N. 47. Ovviamente i singoli componenti di questo battaglione dichiarano di essere stati costretti a uccidere, o di essersi rifiutati di farlo. Vale la pena di riferire la testimonianza di uno di loro, che avendo rifiutato di prender parte all'eccidio di Siauliai fu invitato dal suo sergente a ripensarci entro quella sera. Il sergente poi lo convoc e, quando lui conferm il rifiuto, gli disse che almeno poteva condurre gli ebrei al luogo dell'esecuzione. Il testimone dice di aver ritenuto di non poter disobbedire a quell'ordine. Diversamente da tante altre, questa deposizione potrebbe essere sincera, perch il testimone ha invitato a verificarla con il sergente in persona, che ha confermato la sua versione. Dopo la strage di Siauliai, quest'uomo dichiara di non aver pi preso parte ad alcun eccidio. Se dobbiamo credergli, la cosa assume un significato particolare, perch nella testimonianza non compare il minimo accenno ad altri del battaglione che condividessero quell'atteggiamento, o che tentassero di non prender parte agli eccidi. Materiale relativo alla questione della coercizione in G.T., "J.K.", pagine 1487-88; H.M., "J.K.", p. 773; e "Verfgung", "J.K.", pagine 2196, 2209-10, 2212-14, 2138-39. N. 48. Per un riassunto di ci che sappiamo di questi eccidi, confronta "Verfgung", in "J.K." pagine 2120-71. N. 49. H.K., in "J.K.", p. 733. N. 50. "Verfgung", in "J.K.", pagine 2168-70. H.H., in "J.K.", p. 1152, riferisce di aver visto su un cartello la scritta Luga Judenfrei!. N. 51. "Verfgung", in "J.K.", p. 2157. N. 52. Ibid ., pagine 2159-62. N. 53. Ibid ., pagine 2166-68. N. 54. Data la motivazione demoniaca attribuita alle loro azioni, pare che questi tedeschi fossero disposti a credere che gli ebrei fossero ovunque, e dunque non occorrevano troppe prove per convincerli che qualcuno era ebreo.

A volte bastava un sospetto, come illustra questo episodio narrato da un riservista: Posso riferire come testimone oculare che nella citt di Iwanowskaja il riservista S. picchi a morte un prigioniero di guerra, o un disertore, solo perch sui suoi documenti stava scritto il nome Abraham. Alla fine comparve sulla scena un ufficiale dell'esercito; ma arriv troppo tardi (E.L., "J.K.", p. 783). Ovviamente a quel brutale assassino, che per le sue ripetute imprese si sarebbe guadagnato la fama di sadico, non accadde nulla; era padre di nove figli, nati tra il 1924 e il 1940. N. 55. Nel mondo alla rovescia della Germania nazista, dare a un'operazione genocida il nome di qualcuno - in questo caso quello di Reinhard Heydrich, da poco assassinato - significava rendergli onore.N. 56. Per un resoconto sulla "Aktion Reinhard", confronta Yitzhak Arad, "Belzec, Sobibor, Treblinka" cit.; sul distretto di Lublino, Dieter Pohl, "Von der Judenpolitik zum Judenmord: der Distrikt Lublin des Generalgouvernements, 1939-1944", Frankfurt am Main, Peter Lang, 1993. N. 57. Atto di accusa contro K.R., in Z.S.t.L. 208 A.R. 967/69 (d'ora in poi "K.R."), pagine 53-55. N. 58. Per le due distinte catene di comando, confronta ibid., pagine 19-22. N. 59. R.E., in "K.R.", pagine 36-37. N. 60. Ibid., p. 37. N. 61. Atto di accusa, in "K.R.", pagine 85-86. N. 62. Ibid., p. 89. N. 63. Ibid., p.103 e R.E., in "K.R.", p.39. N. 64. Confronta l'atto di accusa, in "K.R.", pagine 104-5, e Christopher R. Browning, "Ordinary Men" cit., p. 132. N. 65. Le vicende, la composizione e gli aspetti principali del Terzo Battaglione del Reggimento di Polizia 25, il Battaglione 67, non si distinguono da quelli degli altri due in misura sufficiente da poter contraddire il senso dell'analisi. Confronta Z.S.t.L. 202 A.R.-Z 5/63.

N. 66. "J.K.", pagine 2075-76. N. 67. H.K.,in "J.K.", p. 732. N. 68. "Verfgung", in "J.K.", p. 2202. N. 69. Confronta, per esempio, ibid., p. 2240. N. 70. A.W., in "J.K.", p. 1089. N. 71. Per quanto diffusa, la pretesa dei realizzatori di non aver avuto idea del fatto che trasferimento, significava morte, n del destino che attendeva gli ebrei che deportavano (anche quando erano loro stessi ad accompagnarli nei campi della morte), del tutto falsa. Le dimostrazioni del contrario (a parte quelle dettate dal buonsenso) sono massicce. Una parola definitiva in materia nell'atto di accusa, in "K.R.", p. 90: l'ex scrivano del K.d.O. dello stato maggiore di Lublino dichiara: Per "evacuazione" si intendeva il trasferimento degli ebrei nei campi o nei ghetti. Per sentito dire, sapevo che gli ebrei che finivano in un campo venivano in qualche modo uccisi. Non ero per al corrente dei dettagli. Delle camere a gas, soprattutto, sentii parlare soltanto pi avanti (R.E., in "K.R.", p. 35). N. 72. J.F., in "J.K.", p. 1086. N. 73. "Verfgung", in "J.K.", pagine 2199-202. Uno dei partecipanti racconta che prima e durante l'eccidio gli assassini bevevano "Schnaps", grappa. L'uso dell'alcol durante le esecuzioni difficile da dimostrare come da smentire, perch le testimonianze dei realizzatori in proposito sono spesso contrastanti. Non v' dubbio comunque che vi furono occasioni in cui i tedeschi consumarono alcol prima e durante gli eccidi, per non dire di quel che bevevano una volta finito il lavoro. Tra loro parlavano spesso di quelle operazioni, anche se sappiamo poco di ci che si dicevano. Uno dei realizzatori, un riservista trentatreenne di Dortmund richiamato nell'agosto 1939, riferisce quanto segue a proposito degli eccidi nella zona di Cracovia:

"Tra noi, si diceva sempre che nelle operazioni contro il popolo ebraico la Terza Compagnia era cos suddivisa: Primo plotone: Scavare le buche ['Lcher schaufeln']. Secondo plotone: Falciarli ['Legt um']. Terzo plotone: Coprire tutto e piantare gli alberi ["Schaufelt zu und pflanzt Bume]." Si tratta ovviamente di una descrizione alquanto fantasiosa dei fatti. I diversi plotoni si davano il cambio, i tedeschi non scavavano quasi mai le fosse (lo facevano fare agli ausiliari locali, o agli stessi ebrei), e certamente non piantavano alberi sopra le tombe. Da questo episodio trapelano comunque tre questioni importanti: i tedeschi parlavano degli eccidi abbastanza spesso da farvi nascere intorno delle leggende; cercavano di attribuire agli eccidi (alquanto frequenti) una forma qualsiasi che consentisse di integrarli nell'ordinaria amministrazione del tempo in cui non uccidevano; quando parlavano degli eccidi, li abbellivano con fantasie di cose belle e vitali: piantare gli alberi, che inconsapevolmente tradisce un'assenza di disapprovazione per il genocidio, e la comune idea (si ricordi che questa era la leggenda della Terza Compagnia) dell'eccidio come impresa rigeneratrice, purificatrice, bella. Confronta H.K., in "J.K.", p. 734. N. 74. "Verfgung", in "J.K.", pagine 2207-09. Si osservi che questo assassino sostiene che tutti, lui e i suoi camerati, disapprovavano gli eccidi, e che il comandante del battaglione aveva minacciato severi provvedimenti se non avessero eseguito gli ordini. Sui motivi per cui non si deve tener conto alcuno di queste dichiarazioni, confronta l'Appendice 1. N. 75. "Verfgung", in "J.K.", p. 2207. Le testimonianze sull'affissione dei bollettini degli eccidi nelle bacheche dei reparti ne parlano come se si fosse trattato di un qualsiasi ruolo dei turni di guardia. N. 76. Ibid., pagine 2260-75. N. 77. Confronta Shmuel Krakowski, "The War of the Doomed: Jewish Armed Resistance in Poland, 1942-1944", New York, Holmes & Meier, 1984. N. 78. "Verfgung", in "J.K.", pagine 2277-87. N. 79 Ibid., pagine 2078-79, 2288-99. N. 80.

Gli uomini dei battaglioni di polizia contribuirono al massacro di una parte consistente degli ebrei sterminati dalle "Einsatzgruppen", in tutto pi di un milione. Parteciparono inoltre alla strage di molti degli ebrei del Governatorato generale, in tutto circa due milioni, e di ebrei provenienti da altre parti d'Europa. Confronta al capitolo 9 la tabella che elenca alcuni dei loro eccidi principali.

Capitolo 7 IL BATTAGLIONE DI POLIZIA 101: GLI UOMINI E LE LORO AZIONI

Come il Battaglione 65 e le altre unit del Reggimento di Polizia 25, il 101 si dedic anima e corpo allo sterminio degli ebrei d'Europa (1). Il battaglione ebbe due vite: la prima dur fino al maggio 1941, quando fu ricostituito rimpiazzando quasi completamente il personale di poliziotti regolari con reclute fresche di arruolamento. Prima che questa vita si concludesse, il 101 aveva preso parte ad azioni omicide ma, rispetto a quel che lo attendeva, soltanto in modo sporadico. La seconda vita dur da maggio fino allo scioglimento del reparto, un arco di tempo in cui si verific la stragrande maggioranza dei suoi eccidi. Poich le due vite del battaglione sono separate da una sostituzione quasi completa del personale, la prima fase non ha grande rilevanza per le azioni che diedero forma alla sua identit nella seconda, quando divenne una "Vlkermordkohorte", una coorte genocida. Prima del genocidio, la vita del Battaglione 101 fu priva di eventi di rilievo (2). Costituito nel settembre 1939, era allora composto esclusivamente da agenti di polizia in servizio ("Polizeibeamten"). Distaccato da subito in Polonia, vi oper fino al dicembre 1939, controllando le zone occupate e sorvegliando prigionieri di guerra e impianti. Rientrato ad Amburgo, fu impegnato nei normali compiti di polizia. Nel maggio 1940 il battaglione ritorn in Polonia, per il secondo turno di pacificazione e ristrutturazione dei territori assoggettati.

Qui si occup soprattutto dell'evacuazione forzata dei polacchi dalla regione di Posen, dove si sarebbero reinsediati i tedeschi del Baltico e dell'Unione Sovietica, e della sorveglianza del ghetto di Ldz' . Uomini del 101 parteciparono quindi alla spoliazione, al pestaggio e anche all'uccisione di ebrei. Durante questa permanenza in Polonia, fino all'aprile 1941, fucilarono anche un certo numero di ostaggi polacchi (3). Rientrato alla sua base di Amburgo, il Battaglione 101 fu smembrato e gli uomini furono distribuiti in tre nuovi battaglioni appena costituiti, i numeri 102,103 e 104. I suoi ranghi furono colmati con soldati di leva, e come gli altri tre battaglioni locali fu assegnato alla riserva. Di guarnigione ad Amburgo, esso fu impegnato nei compiti normali, ordinari, dei poliziotti, fatte salve tre distinte occasioni in cui i suoi uomini provvidero alla deportazione di ebrei amburghesi verso le zone occupate dell'Unione Sovietica. Qui gli ebrei furono massacrati, e in un caso almeno qualche uomo del battaglione prese parte all'eccidio. A quanto risulta da alcune testimonianze, non furono in molti a opporsi all'idea di deportare gli ebrei verso la morte; anzi, era un incarico ambito. In una dichiarazione si sostiene che era riservato a una piccola cerchia di camerati favoriti (4). Nel giugno 1942 cominci il terzo turno di servizio in Polonia, che dur fino all'inizio del 1944. Sempre di stanza nella regione di Lublino, il battaglione trasfer il suo quartier generale da Bilgoraj, nel giugno 1942, a Radzyn Podlaski il mese dopo, a Lukw in ottobre, per poi tornare a Radzyn nell'aprile 1943, e infine a Miedzyrzec Podlaski nel 1944. Qualche compagnia o plotone rimaneva nella citt sede del quartier generale, ma in genere i reparti venivano distaccati negli abitati circostanti (5). Nel febbraio 1943 i pi anziani del battaglione, quelli nati prima del 1900, furono rimandati a casa e sostituiti da gente pi giovane. Nello stesso periodo gli ufficiali e la truppa erano impegnati tutti, e intensamente, nell'"Aktion Reinhard", intraprendendo numerose operazioni omicide contro gli ebrei, sia uccidendoli immediatamente, anche a migliaia, sia deportandone altre migliaia verso le camere a gas. Il Battaglione 101 era costituito dallo stato maggiore e da tre compagnie per un totale, in graduale rotazione, di circa 500 uomini.

Lo comandava il maggiore Wilhelm Trapp. Due delle compagnie erano al comando di capitani, la terza di un tenente; oltre al piccolo stato maggiore di compagnia, comprendevano tre plotoni, in genere comandati da due tenenti e da un sottufficiale. I plotoni erano divisi in pattuglie di circa 10 uomini, guidate da sottufficiali. Erano armati alla leggera solo quattro mitragliatrici per compagnia a rinforzo delle carabine individuali. Il battaglione disponeva di mezzi di trasporto propri, camion e biciclette per i servizi di pattuglia (6). Chi erano i suoi uomini? I dati biografici sono scarsi, ed quindi possibile tratteggiare soltanto un ritratto parziale del battaglione (7); non un problema troppo grave, comunque, perch esistono elementi sufficienti a delinearne il disegno di base. Gli uomini non si erano offerti volontari per una struttura notoriamente dedita alle uccisioni di massa, e dunque non necessario andare alla ricerca di quegli aspetti della loro passata esperienza che potrebbero giustificare l'eventuale scelta; i dati servono invece per valutare la loro rappresentativit rispetto agli altri tedeschi, e per decidere se le conclusioni a essi riferite possano valere anche per tutti i compatrioti. Il Battaglione di Polizia 101 era costituito in larga maggioranza da riservisti, uomini chiamati alla leva tra il 1939 e il 1941, mai appartenuti ad alcun'altra struttura militare o di sicurezza, dai quali era ben difficile aspettarsi lo spirito e il temperamento del soldato. Conosciamo la data di nascita di 519 dei 550 uomini che sappiamo in servizio nel battaglione durante la sua permanenza e la sua azione genocida in Polonia (8): la loro fascia d'et risulta estremamente alta per una struttura militare o di polizia, poich la media, quando ebbe inizio il genocidio, era di 36,5 anni. Solo 42, un magro 8,1 per cento, avevano meno di trent'anni; 153, poco meno del 30 per cento, ne avevano pi di quaranta; in nove pi di cinquanta. Ben 382, quasi tre quarti (73,6 per cento), appartenevano alle classi comprese tra il 1900 e il 1909, considerate in genere troppo anziane per il servizio militare, e nelle quali rientravano appunto quasi tutti i riservisti dei battaglioni di polizia. Il fatto che fossero anziani importante: non erano i diciottenni impressionabili, malleabili, che gli eserciti sono bravissimi a plasmare secondo le esigenze specifiche della struttura. Erano uomini maturi, con esperienza della vita, con famiglie e figli.

Nella stragrande maggioranza erano gi adulti quando i nazisti salirono al potere: avevano conosciuto altre dottrine politiche, erano vissuti in altri climi ideologici. Non erano sempliciotti, pronti a credere a tutto ci che si sentivano raccontare. La categoria sociale, in base all'occupazione, pu essere accertata per 291 uomini (il 52,9 per cento) del Battaglione 101 (9). La gamma copriva quasi tutte le fasce della societ tedesca, escludendo quelle dell'lite. Sulla scorta di una variante del sistema di classificazione occupazionale pi consolidato per la Germania di questo periodo, la societ viene suddivisa secondo un modello tripartito: classe inferiore, classe mediobassa, lite. Quest'ultima rappresentava uno strato sottilissimo, meno del 3 per cento, mentre la stragrande maggioranza della popolazione apparteneva alle classi inferiore e medio-bassa. Ogni classe viene poi ripartita in sottogruppi in base alle professioni. La tabella che segue confronta lo spaccato delle fasce occupazionali della Germania con quello del Battaglione di Polizia 101 (i dati si basano in parte su informazioni tratte da M.H. Kater, "The Nazi Party" cit.) (10). TABELLA. [Per ogni classe indichiamo il sottogruppo per occupazione e le loro percentuali del totale rispetto alla Germania prima e al Battaglione di Polizia 101 poi] CLASSE INFERIORE 1. Operai non specializzati: in Germania 37,3%; nel Battaglione n. 64 pari al 22%. 2. Operai specializzati: in Germania 17,3%; nel Battaglione n. 38 pari al 31,1%. Subtotale: in Germania 54,6%; nel Battaglione n. 102 pari al 35,1%. CLASSE MEDIO-BASSA. 3. Artigiani (indipendenti): in Germania 9,6%; nel Battaglione n. 22 pari al 7,6%. 4. Professionisti non accademici: in Germania 1,8%; nel Battaglione n. 9 pari al 3,1%. 5.

Impiegati inferiori e intermedi: in Germania 12,4%; nel Battaglione n. 66 pari al 22,7%. 6. Impiegati statali inferiori e intermedi: in Germania 5,2%; nel Battaglione n. 59 pari al 20,3%. 7. Commercianti (indipendenti): in Germania 6,0%; nel Battaglione n. 22 pari al 7,6%. 8. Agricoltori (indipendenti): in Germania 7,7%; nel Battaglione n. 2 pari al 0,7%. Subtotale: in Germania 42,6%; nel Battaglione n. 180 pari al 61,9%. ELITE. 9. Dirigenti: in Germania 0,5%; nel Battaglione n. 1 pari al 0,3%. 10. Dirigenti statali: in Germania 0,%%; nel Battaglione n. 1 pari al 0,3%. 11. Professionisti accademici: in Germania 1,0%; nel Battaglione n. 1 pari al 0,3%. 12. Studenti (universit e scuole superiori): in Germania 0,5%; nel Battaglione n. 0 pari al 0%. 13. Imprenditori: in Germania 0,3%; nel Battaglione n. 6pari al 2,1%. Subtotale: in Germania 2,8%; nel Battaglione n. 9 pari al 3,1%. Totale: in Germania 100%; nel Battaglione n. 291 pari al 100%. Rispetto alla popolazione tedesca, tra gli uomini del Battaglione 101 era pi forte la presenza della classe medio-bassa, e minore quella inferiore, da un lato per la relativa scarsit nei suoi ranghi di operai non specializzati, dall'altro per la sovrabbondanza di dipendenti pubblici e privati di diverso rango. Nella fascia mediobassa, il battaglione presentava pochissimi agricoltori, il che non sorprende, trattandosi di un'unit che reclutava soprattutto in ambiente urbano. La rappresentanza dell'lite, 9 elementi, corrispondeva quasi esattamente (3,1 per cento) alla proporzione presente nella popolazione. A conti fatti, le differenze tra il profilo occupazionale del Battaglione 101 e quello della Germania intera non erano di grande rilievo (11).

Era pi bassa la percentuale di colletti blu e contadini, pi alta quella di colletti bianchi di livello inferiore; ma entrambe le categorie erano comunque rappresentate in modo significativo. La caratteristica individuale pi importante per la valutazione di ci che quegli uomini fecero, e della misura in cui, in quanto gruppo, furono rappresentativi della societ tedesca - cio tedeschi comuni data dal loro grado di nazificazione. Baster per questo accertare le affiliazioni istituzionali di ciascuno, che per quanto imprecise sono l'indice migliore di un grado di nazificazione superiore ai valori comuni della maggioranza dei tedeschi (specie quando si trattava della dimensione, a s stante, dell'antisemitismo). In poche parole, quanti uomini del Battaglione di Polizia 101 erano iscritti al Partito nazista o appartenevano alle S.S.? Su 550,179 erano iscritti al partito, un 32,5 per cento non troppo superiore alla media nazionale; 17 di questi appartenevano anche alle S.S.; altri 4 uomini delle S.S. non erano iscritti al partito. Tirando le somme, solo 22, un mero 3,8 per cento di questi uomini, per lo pi riservisti, erano S.S.: una percentuale infima, che pur essendo superiore alla media nazionale non riveste alcun significato per la comprensione delle azioni del battaglione. Il problema principale non comunque fissare la percentuale di uomini che possiamo considerare nazificati sulla base delle loro affiliazioni istituzionali, per poi confrontarla con la media nazionale e stabilirne la "rappresentativit" in questo contesto. Dal punto di vista analitico contano assai pi quanti non avevano alcuna affiliazione con i nazisti o le S.S., perch da loro (e dalle migliaia di altri come loro che militavano nei battaglioni di polizia) ci vengono indicazioni sulla probabile condotta degli altri tedeschi comuni ai quali fosse stato eventualmente richiesto di diventare genocida. In questo battaglione, "379 uomini non erano affiliati in alcun modo alle principali istituzioni naziste". Per di pi, non si pu nemmeno sostenere che l'appartenenza al partito indicasse in ogni singolo individuo una misura superiore di adesione ideologica al nazismo, perch molti erano stati indotti a iscriversi da ragioni tutt'altro che ideologiche. E' ovvio che l'appartenenza o meno al partito differenziava un tedesco dall'altro, ma i membri del partito nazificati al di l del livello comune in Germania costituivano comunque un sottoinsieme degli iscritti totali. All'epoca dei peggiori eccidi del Battaglione 101, oltre tutto, circa sette milioni di tedeschi potevano vantarsi di appartenere al partito, pi del 20 per

cento della popolazione maschile adulta: essere iscritto non era granch, come fattore di distinzione. Essere nazista era comune, in Germania. Il dato pi significativo rimane quindi che il 96 per cento di quegli uomini non faceva parte delle S.S., l'associazione dei duri e puri. Per la stragrande maggioranza, in quanto gruppo, gli uomini del Battaglione 101 erano tedeschi comuni, di entrambe le categorie: quelli del partito e, soprattutto, quelli che non erano nel partito. Il confronto delle fasce d'et e di occupazione tra iscritti e non iscritti al partito rivela notevoli coincidenze: gli iscritti avevano in media un anno di pi dei non iscritti (37,1 anni rispetto a 36,2), mentre lo spaccato occupazionale dei due gruppi presenta evidenti analogie. (La tabella si basa in parte su informazioni tratte da M. H. Kater, "The Nazi Party" cit.). TABELLA. CLASSE INFERIORE. 1.Operai non specializzati: iscritti 23,3%; non iscritti 20,6. 2. Operai specializzati: iscritti 10,2%; non iscritti 16,3%. Subtotale: iscritti 33,5%; non iscritti 36,9%. CLASSE MEDIO-BASSA. 3. Artigiani (indipendenti): iscritti 5,8%; non iscritti 9,2%. 4. Professionisti non accademici: iscritti 4,7%; non iscritti 1,4%. 5. Impiegati inferiori e intermedi: iscritti 19,3%; non iscritti 26,2%. 6. Impiegati statali inferiori e intermedi: iscritti 22,7%; non iscritti 17,7%. 7. Commercianti (indipendenti): iscritti 8,7%; non iscritti 6,4%. 8. Agricoltori (indipendenti): iscritti 0,7%; non iscritti 0,7%. Subtotale: iscritti 61,8%; non iscritti 61,7%. ELITE. 9. Dirigenti: iscritti 0,7%; non iscritti 0%. 10. Dirigenti statali: iscritti 0,7%; non iscritti 0%. 11. Professionisti accademici: iscritti 0,7%; non iscritti 0%.

12. Studenti (universit e scuole superiori): iscritti 0%; non iscritti 0%. 13. Imprenditori: iscritti 2,7%; non iscritti 1,4%. Subtotale: iscritti 4,7%; non iscritti 1,4%. Totale: 150 iscritti (100%); 141 non iscritti (100%). Gli uomini del Battaglione 101 provenivano prevalentemente da Amburgo e dintorni; un piccolo contingente, una dozzina, era lussemburghese (12). Poich la regione di Amburgo era in stragrande maggioranza di religione protestante evangelica, lo stesso doveva valere per la maggioranza del battaglione. Gli sparsi dati circa le affiliazioni religiose indicano che un certo numero di uomini aveva rinunciato alla chiesa, e si dichiarava "gottglubig" (credente in Dio), l'espressione promossa dai nazisti per chi nutriva un corretto sentimento religioso senza appartenere alle chiese tradizionali. Origini geografiche e affiliazioni religiose non ebbero quasi certamente nulla a che fare con la partecipazione di questi uomini al genocidio, poich i battaglioni di polizia e gli altri reparti della morte venivano arruolati in tutte le regioni della Germania, assorbendo senza distinzioni i protestanti, i cattolici e i "Gottglubige". L'et relativamente avanzata degli uomini riveste una certa importanza. Molti erano capifamiglia, avevano figli. Purtroppo i dati sugli stati di famiglia sono parziali e di difficile interpretazione. Conosciamo lo stato civile di 96 di loro: tutti tranne uno, cio il 99 per cento, erano sposati; tre quarti del totale, cio 72 uomini dei 98 di cui esistono i dati, avevano figli all'epoca degli eccidi. E' prudente ipotizzare che queste percentuali fossero pi alte rispetto alla media dell'intero battaglione: probabile che, in quella situazione poco favorevole alle notazioni autobiografiche, proprio chi aveva moglie, e soprattutto figli, fosse pi incline di altri a concedere qualche scarna informazione personale. E' impossibile dire in quale misura il campione esistente esageri la percentuale dei mariti e padri all'interno del battaglione, ma possiamo comunque supporre con certezza che molti fossero tali, cos come lo erano in maggioranza i tedeschi della loro et: nulla nelle loro storie personali indica qualcosa di anomalo in questo campo. Non possibile determinare le opinioni e le affiliazioni politiche precedenti, documentate in modo troppo vago nelle fonti disponibili.

Amburgo, la citt da dove in genere provenivano, era un tradizionale bastione della sinistra e il suo sostegno ai nazisti fu un po' meno entusiastico rispetto alla nazione nel suo insieme; possiamo quindi presumere che tra loro ci fosse una percentuale di ex socialdemocratici e comunisti superiore alla media in Germania. Che poi non fossero andati volontari in altre strutture militari forse indice di una certa freddezza verso il nazismo, anche se possibile che avessero preferito mantenersi liberi per far fronte alla responsabilit della famiglia. Comunque fosse, come gi si detto, quando il battaglione inizi le sue azioni genocide, l'impresa del grande riscatto nazionale godeva di enorme popolarit presso tutto il popolo tedesco, indipendentemente dalle convinzioni politiche precedenti. E' possibile che la percentuale minore di esponenti della classe inferiore, tradizionale serbatoio di consenso per la sinistra, servisse a controbilanciare la presunta freddezza verso il nazismo che le origini amburghesi avrebbero potuto lasciare nel battaglione. Si tratta comunque di mere congetture, per quanto credibili. Possiamo concludere con certezza soltanto che nel reparto alcuni uomini erano stati ed erano ancora sostenitori della politica del regime (come la maggioranza dei tedeschi), e altri no. A questo proposito, non c' molto altro da dire. Nella costituzione del battaglione, la "Ordnungspolizei" aveva attinto a un settore non anomalo della popolazione, che si distingueva pi che altro per l'et avanzata e per il mancato arruolamento nel servizio militare; qualcuno, anzi, era gi stato dichiarato inabile per motivi di et, o per un difetto fisico (13). Per i suoi battaglioni destinati a missioni di avanscoperta, il regime impiegava dunque uomini tra i meno adatti (fisicamente e per disposizione personale) che si potessero trovare. Data l'et avanzata, avevano vissuto pi a lungo da adulti indipendenti, conosciuto ordinamenti politici diversi, acquisito l'esperienza che deriva dal creare e mantenere una famiglia. Il numero degli iscritti al partito e alle S.S. era un po' superiore alla media nazionale, ma la grande maggioranza di loro non aveva affiliazioni naziste istituzionali. E' il contrario del ritratto del combattente della "Weltanschauung" selezionato tra mille che sarebbe emerso se si fossero davvero cercati gli uomini giusti per l'apocalittica missione di un eccidio di civili.

La "Ordnungspolizei" colm i ranghi del Battaglione 101 con un gruppo non molto promettente, eppure ben poco fu fatto per trasformarli, con l'addestramento fisico o ideologico, in uomini dal portamento fisico e morale di un vero soldato nazista: disponiamo di un coro di testimonianze sulla superficialit dell'addestramento. Qualcuno fu richiamato poche settimane, o pochi giorni, prima dell'avvio delle stragi, e fu precipitato direttamente nell'arena del genocidio. Uno di costoro aveva fatto fino all'aprile 1942 l'allevatore di bovini: fu richiamato, ebbe qualche giorno di addestramento, poi fu mandato al Battaglione 101, e prima ancora di accorgersene si trov nel pieno degli eccidi (14). Non esiste la bench minima indicazione del tentativo di verificare l'idoneit di questi uomini alle imminenti attivit genocide indagando sulle loro opinioni in merito ai temi ideologici fondamentali, e agli ebrei in particolare. Non abbiamo motivo di ritenere che la "Ordnungspolizei" ne fosse al corrente, ma alcuni dei membri di questo battaglione avevano in precedenza dimostrato ostilit verso il regime: uno era stato dichiarato inaffidabile dalla Gestapo, e altri avevano fatto opposizione attiva al nazismo nella S.P.D. e nei sindacati (15). Ma questo non contava pi: le carenze di personale imponevano alla "Ordnungspolizei" di arruolare chiunque, accontentandosi del fondo del barile. Il 20 giugno 1942 il Battaglione di Polizia 101 ricevette l'ordine di partenza per il terzo turno di servizio in Polonia; partirono 11 ufficiali, 5 amministrativi e 486 soldati (16). Percorsero in camion pi di 700 chilometri, arrivando qualche giorno dopo a Bilgoraj, una citt a sud di Lublino. Agli uomini non era stato ancora comunicato che sarebbero stati ben presto impiegati in attivit genocide, ma forse qualcuno, soprattutto tra gli ufficiali, cominciava a sospettare ci che lo attendeva. Dopotutto, il battaglione aveva gi scortato alla morte gli ebrei di Amburgo; gli ufficiali, durante il secondo turno in Polonia, avevano partecipato in prima linea all'applicazione della politica antiebraica dell'epoca; e molti, se non la maggioranza, erano certo al corrente degli eccidi di ebrei compiuti in Unione Sovietica e in Polonia dai loro camerati. Il comandante, maggiore Trapp, ricevette il primo ordine di eccidio con scarso preavviso rispetto alla data designata per l'operazione. Il giorno prima convoc gli ufficiali a rapporto e comunic loro gli ordini (17); possiamo presumere che i comandanti di compagnia non dovessero

informarne anticipatamente i soldati, ma evidentemente non tutti seppero tacere. Il capitano Julius Wohlauf, Prima Compagnia, presto destinato a diventare un entusiasta assassino di ebrei, non riusc a trattenere l'emozione dell'attesa: uno dei suoi riferisce di averlo sentito definire l'imminente operazione a Jzefw una missione estremamente interessante ("hochinteressante Aufgabe") (18). Senza specificare esplicitamente se fu allora che apprese del massacro imminente, un altro testimone racconta di aver sentito parlare di un aspetto dei preparativi che faceva presagire quale carattere avrebbe assunto la loro permanenza in Polonia: "Ricordo ancora chiaramente che la sera prima dell'azione ['Aktion'] a Jzefw furono distribuite delle fruste. Io non lo vidi di persona, perch ero in citt a fare acquisti. Venni a saperlo, comunque, dai camerati dopo essere tornato agli alloggi. Nel frattempo circolavano voci sul tipo di operazione che ci attendeva il giorno dopo. Le fruste dovevano servire per cacciare gli ebrei dalle loro case: erano di autentico cuoio di bue" (19). Chi aveva ricevuto quell'equipaggiamento sarebbe stato assegnato al compito di strappare gli ebrei dalle case per condurli fino al luogo di raccolta. Il testimone dice di non ricordare con precisione a quali compagnie appartenessero. Le compagnie partirono per Jzefw in camion, dopo la mezzanotte: una trentina di chilometri, due ore di viaggio. Chi gi conosceva la natura della missione ebbe tempo, sobbalzando nel camion lungo le strade sconnesse, per meditare sul suo significato, e sulla propria reazione. Gli altri avrebbero scoperto solo pochi istanti prima di entrare in quella bolgia dantesca di essere stati prescelti per portare a compimento il sogno del loro Fhrer, cos spesso enunciato da lui e da chi gli era pi vicino: il sogno dello sterminio degli ebrei. Il maggiore Trapp radun il battaglione; gli uomini gli si schierarono intorno su tre lati di una piazza, per ascoltare il suo discorso. "Nella localit che avevamo di fronte, annunci, avremmo eseguito una fucilazione in massa, e spieg chiaramente che quelli che dovevamo fucilare erano ebrei.

Ci invit a pensare alle donne e ai bambini rimasti in patria, costretti a subire i bombardamenti aerei; dovevamo tenere a mente soprattutto che durante quegli attacchi molte donne e bambini perdevano la vita. Pensando a questo sarebbe stato pi facile eseguire l'ordine durante l'azione imminente. Il maggiore Trapp osserv che l'azione non corrispondeva del tutto ai suoi sentimenti, ma che aveva ricevuto l'ordine dalle autorit superiori" (20). Questi tedeschi comuni ricevettero la richiesta esplicita di prendere parte a un eccidio di prima mattina, schierati nei pressi di una cittadina polacca addormentata, che si sarebbe risvegliata per assistere alle scene di un incubo superiore a qualsiasi immaginazione. Alcune testimonianze sostengono che Trapp giustific il massacro affermando che gli ebrei aiutassero i partigiani (21), un argomento palesemente pretestuoso: in quale modo le sorti dei partigiani, in quel momento fra l'altro nient'affatto rosee, potessero essere collegate all'ordine di ammazzare neonati, bambini, vecchi e malati non veniva spiegato. Il pretesto dell'attivit partigiana degli ebrei doveva rivestire quel massacro con una patina, per quanto sottile, di normalit militare, in quanto era prevedibile che la prima esperienza nell'eccidio di un'intera comunit ancora addormentata nei suoi letti potesse suscitare nei tedeschi qualche istante di esitazione. Anche il fatto di appellarsi agli ordini superiori aveva due serie di motivi. Innanzi tutto occorreva che gli uomini avessero ben chiaro che un ordine tanto grave proveniva dalle massime autorit, e aveva quindi la consacrazione dello stato e di Hitler. Ma parrebbe che Trapp esprimesse anche una sincera emozione personale: l'ordine l'aveva scosso. Pi avanti qualcuno lo ud esclamare, incontrando il medico del battaglione: Mio Dio, perch devo fare una cosa del genere? (22). Ma le riserve di Trapp non derivavano da un'opinione sugli ebrei divergente dal modello antisemitico dominante. Spiegando ai suoi uomini che gli ebrei, donne e bambini compresi, si dovevano ammazzare perch le citt tedesche venivano bombardate, egli dimostrava di ragionare da nazista. Come poteva avere un senso, per lui e per tutti quelli che lo ascoltavano, quell'affermazione? (23). La sua logica esatta non risulta chiara, ma sembra suggerire che il massacro degli ebrei fosse un giusto contrappasso per i bombardamenti, o forse invece un atto di rappresaglia che potesse avere qualche effetto positivo sui bombardamenti, o entrambe le cose insieme.

A quanto pare, per i tedeschi in procinto di spazzar via dalla faccia della terra quell'isolata e prostrata comunit, esisteva un nesso reale tra gli ebrei di una sonnolenta citt polacca e i bombardamenti alleati sulla Germania. Di fatto gli uomini del battaglione non fecero commenti sull'assurdit della giustificazione di Trapp, enunciata nel momento del loro battesimo di fuoco al genocidio. Le perversioni della mentalit tedesca plasmata dal nazismo erano tali che l'invito a pensare ai propri figli non era inteso n calcolato per suscitare in loro simpatia verso altri bambini ai quali era capitato di nascere ebrei, n sortiva - tranne qualche raro caso - questo effetto; il pensiero dei propri figli, al contrario, spronava i tedeschi ad ammazzare quelli degli ebrei (24). Il discorso di Trapp includeva istruzioni generali sulla condotta dell'operazione. I tedeschi - sia che fossero appena stati messi al corrente della nuova fase della loro vita in cui stavano entrando, sia che l'avessero saputo la sera prima - si rendevano perfettamente conto della portata di quanto stavano per fare: non si trattava di una normale operazione di polizia. Avevano ricevuto l'ordine esplicito di fucilare gli ebrei pi deboli vecchi, giovani, malati, donne e bambini - ma non gli uomini abili al lavoro, che andavano risparmiati (25). Erano disposti a farlo, quei tedeschi comuni? Ci fu qualcuno che brontol tra s che avrebbe preferito essere altrove, come fanno spesso gli uomini, anche se in uniforme, quando ricevono ordini gravosi o sgraditi? Per chi si sentiva cos, il proseguimento del discorso di Trapp venne come una benedizione dal cielo. Il loro amato comandante, pap Trapp, dava loro una via d'uscita, riservata quantomeno, in un primo momento, ai veterani del battaglione. "Concludendo il suo discorso, il maggiore chiese ai vecchi del battaglione se ci fosse qualcuno tra loro che non si sentiva all'altezza del compito. Dapprima nessuno ebbe il coraggio di farsi avanti; poi feci un passo io, per primo, e dichiarai di essere fra quelli non idonei. Solo allora se ne fecero avanti altri; rimanemmo in dieci o dodici, a disposizione del maggiore" (26). I protagonisti della scena erano certo in preda all'incertezza. Erano l per allestire l'eccidio totale di una comunit; stavano per accedere a un mondo morale nuovo. Chi di loro avrebbe mai immaginato, tre anni prima, di potersi trovare in quella localit della Polonia orientale, con l'incarico di ammazzare tutte le donne e i bambini che avesse trovato? Ma il Fhrer aveva ordinato l'eccidio, l'eccidio di quegli ebrei.

E adesso il comandante offriva, ad alcuni di loro almeno, la scelta di non uccidere; era un uomo sincero, che si prendeva cura dei suoi, da tutti i punti di vista (27). Qualcuno fece un passo avanti; quelli che esitavano, comunque, furono certo ulteriormente intimiditi dalla reazione del capitano Hoffmann. Colui che aveva raccolto per primo l'offerta di Trapp continua: A questo proposito, ricordo che il comandante della mia compagnia, Hoffmann, fu preso da una forte agitazione quando io mi feci avanti. Ricordo che disse qualcosa come "Quell'uomo andrebbe fucilato!". Ma il maggiore Trapp lo fece tacere... (28). Hoffmann, che avrebbe dato ottima prova di s come assassino zelante, se non coraggiosissimo, fu pubblicamente zittito e rimesso al suo posto da Trapp. Questi sapeva trattare il battaglione, non c'era dubbio. Tutti quelli che avevano fatto il passo avanti furono esentati dall'eccidio. Va rilevato comunque, e indubbiamente lo rilevarono anche i soldati, che con le sue aperte obiezioni contro chi aveva accettato l'offerta di Trapp, Hoffmann aveva messo pubblicamente in discussione un ordine superiore; non era certo un modello di obbedienza. Un altro testimone, Alois Weber, conferma che Trapp si offr di esentare dal servizio chi non voleva uccidere, ma sostiene che si rivolgeva non solo ai veterani bens all'intero battaglione: "La richiesta di Trapp non era un trabocchetto. Non occorreva tanto coraggio per farsi avanti. Uno della mia compagnia lo fece. Segu un diverbio violento tra Hoffmann e Papen ... Il passo avanti lo fecero in dodici, forse. A quanto ho sentito, non era consentito solo agli anziani. Anche qualcuno dei giovani lo fece. E come l'ho sentito io, che era lecito farsi avanti, devono averlo sentito tutti" (29). E' difficile stabilire quale delle due versioni sia vera. A mio vedere, pi probabile che l'offerta di rimpiazzo venisse fatta a tutti: non solo appare pi credibile, ma ci sono tre ulteriori elementi a conferma di questa conclusione. Nel corso delle operazioni genocide della giornata, a tutti gli uomini, e non solo ai veterani, si sarebbero presentate occasioni per evitare di uccidere.

In secondo luogo, Weber dichiara che anche i giovani si fecero avanti in risposta all'offerta di Trapp, un fatto improbabile se il maggiore non si fosse rivolto anche a loro. E infine, Weber si autoaccusa, ammettendo di non aver voluto evitare di diventare un assassino di ebrei pur sapendo di averne la possibilit, e pur avendo davanti agli occhi altri che decisero di non contribuire in quel modo al genocidio (30). Per un certo verso, non importa molto quale dei due testimoni dicesse la verit: se pure inizialmente l'offerta di Trapp fu rivolta solo ai veterani, anche agli altri divenne ben presto chiaro che la scelta di non uccidere non era riservata ai veterani. Una volta iniziato l'eccidio, peraltro, quando furono travolti da tutto l'orrore di quell'azione, l'incentivo emotivo alla scelta di non uccidere crebbe a dismisura, ma ebbe scarso effetto sulle decisioni dei tedeschi. L'adunata del battaglione fu seguita da una serie di incontri pi ristretti: Trapp assegn i compiti ai comandanti di compagnia, che li trasmisero agli uomini (la Prima Compagnia fu istruita da un sergente). Gli ordini prevedevano l'uccisione sul posto, cio nelle loro case, nei loro stessi letti, degli ebrei che avessero qualche difficolt a portarsi rapidamente al luogo di raccolta - i vecchi, i troppo giovani, i malati (31). Inizialmente la Prima Compagnia fu assegnata allo sgombero degli ebrei dal ghetto, poi alla formazione dei plotoni d'esecuzione. Fu dunque soprattutto la Seconda Compagnia a occuparsi dello sgombero, passando di porta in porta per costringere gli ebrei a correre verso il punto di raccolta, la piazza del mercato. La maggior parte della Terza Compagnia provvedeva a isolare la citt con un cordone sanitario, ma un plotone fu distaccato a dar man forte alla Seconda (32). L'organizzazione logistica iniziale si modificava col procedere dell'operazione. All'alba i tedeschi iniziarono il rastrellamento degli ebrei del ghetto di Jzefw, passandolo al setaccio in piccole pattuglie di due o tre uomini, e cacciando a forza gli ebrei dalle loro case. Quelli della Terza Compagnia avevano ricevuto direttamente dall'ufficiale le medesime istruzioni comunicate alle altre: Nel corso dell'evacuazione i vecchi, i malati, i neonati e i bambini piccoli che opponessero resistenza dovranno essere fucilati sul posto (33). I tedeschi agirono con incredibile brutalit, eseguendo con slancio l'ordine di non preoccuparsi se qualcuno non era in grado di camminare fino al luogo di raccolta: lo si ammazzava su due piedi.

Vidi circa sei cadaveri di ebrei, che i miei camerati avevano ucciso, secondo gli ordini, nel posto in cui li avevano trovati. Fra gli altri c'era una vecchia, uccisa nel suo letto (34). Quando i tedeschi ebbero finito, il ghetto era disseminato di corpi, nei cortili, sulle porte, lungo tutte le strade che portavano al mercato (35). Cos un soldato della Terza Compagnia riferisce di quelle prodezze: So che quell'ordine fu eseguito anche perch, attraversando il quartiere ebraico nel corso dell'evacuazione, vidi parecchi cadaveri di vecchi e bambini. So che tutti i ricoverati di un ospedale israelitico furono fucilati dalle truppe che setacciavano il quartiere (36). Sarebbe facile leggere queste due frasi, rabbrividire per un istante, e passare oltre. Ma proviamo a considerare quanto sarebbe stata forte la pressione psicologica a non uccidere quella gente se i poliziotti fossero stati davvero contrari all'eccidio, se davvero non fossero stati convinti che gli ebrei meritassero quella sorte. Avevano appena sentito dal loro comandante che chi avesse voluto tirarsi indietro sarebbe stato esentato. Invece di raccogliere quell'offerta, preferirono entrare in un ospedale, una istituzione di carit, per sparare agli ammalati, tremanti, inginocchiati a chiedere piet. E ammazzavano i neonati (37), anche se nessuno dei testimoni ha ritenuto opportuno riferire questi dettagli. Probabilmente l'assassino sparava al bambino in braccio alla madre, e magari anche alla madre, oppure, come piaceva a molti in quegli anni, lo sollevava per una gamba e gli sparava con la pistola. Forse la madre stava a guardare, inorridita, mentre il corpicino veniva gettato a terra, a marcire come un mucchietto di spazzatura. Sarebbe dovuto bastare l'orrore di un solo infanticidio, o di aver preso parte al massacro dei ricoverati nell'ospedale ebraico - per non parlare di tutti gli altri eccidi avvenuti o a venire in quella giornata - per indurre quelli tra i tedeschi che consideravano gli ebrei come parte della famiglia umana a informarsi se l'offerta di Trapp potesse essere ancora considerata valida anche per loro. A quel che sappiamo, nessuno lo fece. Completato il primo rastrellamento, i tedeschi setacciarono di nuovo il ghetto per assicurarsi che nessun ebreo potesse sfuggire al suo destino. Ovunque in Polonia, dopo l'esperienza personale e collettiva, fatta nei primi mesi del 1942, di ci che i tedeschi avevano in serbo per loro, gli ebrei avevano costruito nascondigli, spesso molto ingegnosi.

I tedeschi, aiutati con entusiasmo da parecchi polacchi, si dedicavano con grande zelo alla ricerca di quei rifugi, esaminando minuziosamente ogni parete e ogni zolla rivoltata: "Il quartiere fu perquisito un'altra volta. Spesso grazie all'aiuto dei polacchi, furono scoperti numerosi ebrei nascosti in stanze o alcove murate. Ricordo che un polacco mi fece notare un cosiddetto spazio morto tra le pareti di due stanze adiacenti. Un altro polacco ci parl di un nascondiglio sotterraneo. Gli ebrei scoperti in due nascondigli non furono uccisi subito, come prescrivevano gli ordini; fui io a decidere di farli portare nella piazza del mercato" (38). Se dobbiamo credergli, quest'uomo prefer che fossero altri a sporcarsi le mani, scegliendo di disobbedire all'ordine di uccidere chiunque opponesse resistenza, ma ottenendo comunque lo scopo in modo meno sgradevole (ci pensassero gli altri, a ucciderli). Ma se, oltre a trovarlo un compito spiacevole da eseguire personalmente, fosse stato contrario all'eccidio degli ebrei, non gli sarebbe stato difficile evitare di trovare quelli che avevano fatto il possibile per tenersi nascosti; dalla sua lunga testimonianza, invece, non risulta che n lui, n altri tedeschi abbiano finto di non vedere (39). I tedeschi avevano radunato gli ebrei nella piazza del mercato. Avevano impiegato parecchio tempo: era il primo eccidio del Battaglione 101, e le procedure andavano ancora perfezionate.Qualche ufficiale, insoddisfatto dell'andamento dell'operazione, correva da un punto all'altro spronando gli uomini: Siamo fuori tempo massimo! Pi in fretta, pi in fretta! (40). Finalmente, alle 10 del mattino, i tedeschi selezionarono i cosiddetti abili al lavoro ("Arbeitsfhigen"), circa 400 uomini, destinati a un campo di lavoro presso Lublino (41). A questo punto gli uomini del 101 erano pronti per affrontare la fase centrale della loro prima impresa genocida. Furono dati nuovi ordini, per prepararli all'eccidio sistematico. Gi durante l'adunata con Trapp avevano ricevuto istruzioni sulla tecnica della fucilazione. "Ricordo perfettamente il dottor Schoenfelder ... Come ho detto, stavamo in semicerchio intorno a lui e agli altri ufficiali.

Il dottor Schoenfelder disegn sul terreno - perch tutti potessimo vedere - il profilo di un torso umano, e segn sul collo il punto al quale si doveva sparare. Quell'immagine mi rimane impressa nella mente. Di una cosa non sono certo, se per fare il disegno avesse usato un bastone o qualcos'altro" (42). Il medico del battaglione, che insegn agli uomini il modo migliore per uccidere, evidentemente non riteneva che il giuramento di Ippocrate valesse anche per gli ebrei (43). Vi furono altre discussioni per perfezionare le tecniche del macello. Si parl di come si dovesse sparare. Ci si chiedeva se fosse meglio farlo con o senza la baionetta in canna ... La baionetta aiutava a prendere la mira, e manteneva un minimo di distanza tra il fucile e la vittima (44). A gruppi, i tedeschi trasferirono gli ebrei in camion dalla piazza ai boschi nei dintorni di Jzefw, dove i poliziotti di scorta ordinarono di saltare gi, e naturalmente, date le circostanze, diedero loro "una mano" ["nachgeholfen wurde"] a fare pi presto (45). Era il loro primo eccidio, ma stando alla testimonianza di questo assassino per gli uomini del Battaglione 101 era gi una cosa naturale picchiare gli ebrei (l'evidente significato dell'eufemistica mano, che anche nella deposizione compare tra virgolette). Tanto naturale che il testimone ne fa cenno di sfuggita, non considerando la cosa degna di attenzione o approfondimento. Intorno a mezzogiorno agli uomini della Prima Compagnia, inizialmente gli unici assegnati alle fucilazioni, si aggiunsero elementi della Seconda, perch il maggiore Trapp prevedeva che altrimenti non si sarebbe riusciti a portare a termine il massacro entro sera (46). L'aspetto materiale dell'eccidio fin quindi per essere condiviso da un numero maggiore di uomini di quanto il maggiore avesse progettato. Le modalit precise del trasporto e delle esecuzioni furono lievemente diverse da un'unit all'altra, e si modificarono nel corso della giornata. Per rimanere alla Prima Compagnia, i suoi plotoni si erano divisi in squadre di circa otto uomini. All'inizio la procedura seguiva pi o meno questo iter: la squadra si avvicinava a un gruppo di ebrei appena arrivati, all'interno del quale ogni tedesco sceglieva la sua vittima - un uomo, una donna, un bambino (47). Ebrei e tedeschi si avviavano poi insieme, in due file parallele in modo che ogni assassino marciasse al passo con la sua vittima, fino a una radura,

dove prendevano posizione e attendevano dal caposquadra l'ordine di far fuoco (48). La passeggiata nel bosco offriva a ognuno di quegli uomini un'occasione di riflessione; camminando a fianco delle loro vittime, essi potevano confrontare la figura umana accanto a loro con le proiezioni della propria mente. Qualcuno, naturalmente, aveva al fianco un bambino. E' estremamente probabile che a suo tempo, in Germania, questi stessi uomini avessero fatto passeggiate nei boschi con i propri figli, che correvano accanto a loro pieni di allegria e curiosit. Con quali pensieri, quali emozioni, potevano ora marciare, sbirciando di continuo accanto a loro la figura, diciamo, di una ragazzina di otto-dieci anni, che a un occhio non velato dall'ideologia sarebbe apparsa identica a qualsiasi altra ragazzina? Oppure vedevano soltanto un'ebrea, giovane certo, ma comunque un'ebrea? Si chiedevano forse, increduli, con quale giustificazione si apprestavano a farle saltare le cervella? O invece consideravano ragionevole quell'ordine, per la necessit di stroncare anche sul nascere la minaccia ebraica? Dopo tutto, quella bambina ebrea sarebbe diventata una madre di ebrei. L'eccidio vero e proprio fu raccapricciante. Dopo la passeggiata nel bosco, ogni tedesco puntava il fucile alla nuca di quello stesso volto, ora rivolto verso terra, che fino a un attimo prima aveva camminato al suo fianco; poi schiacciava il grilletto e rimaneva a guardare gli ultimi spasimi della vittima, a volte una ragazzina, finch rimaneva immobile. Occorreva restare impassibili di fronte alle grida, alle donne che piangevano, ai bambini che strillavano (49). Sparando quasi a bruciapelo, capitava spesso che i tedeschi si insozzassero di materia organica umana. Il colpo di grazia raggiunse il cranio con tanta forza da strappare via tutta la calotta posteriore, schizzando il tiratore di sangue, schegge d'ossa e materia cerebrale (50). Il sergente Anton Bentheim riferisce che non si tratt di un episodio isolato, ma di una condizione generale: I boia erano spaventosamente coperti di sangue, materia cerebrale e schegge d'ossa, che si attaccavano alle divise (51). Nonostante l'esperienza visceralmente ributtante, sufficiente a turbare anche il carnefice pi incallito, questi neofiti del macello ritornavano a prendere nuove vittime, altre ragazzine, per l'ennesima passeggiata nel bosco.

Per ogni gruppo di ebrei cercavano una nuova radura (52). In questo modo personalizzato, individuale, ognuno dei fucilatori uccideva in genere dai 5 ai 10 ebrei, per lo pi vecchi, donne e bambini. I circa 30 uomini del plotone del tenente Kurt Drucker, Seconda Compagnia, per esempio, nell'arco di tre-quattro ore ammazzarono dai 300 ai 400 ebrei (53). Fra una scarica e l'altra si concedevano qualche pausa per riposare, riprendersi e fumare una sigaretta (54). Diversamente dalle procedure tipiche delle operazioni omicide dei tedeschi, gli uomini del Battaglione 101 non costrinsero gli ebrei a spogliarsi, n raccolsero gli oggetti di valore: quel giorno il loro pensiero era fisso su un'unica missione. In tutto, tra il massacro incontrollato nel ghetto e le esecuzioni metodiche nei boschi, i tedeschi uccisero qualcosa come 1200 ebrei, forse qualche centinaio in pi. Lasciarono i cadaveri dove stavano, per le strade di Jzefw o nei boschi circostanti; ci pensasse il sindaco polacco, a organizzare la sepoltura (55). Tra le vittime erano numerosi gli ebrei provenienti dal nord della Germania, che parlavano tedesco con un accento simile a quello degli uomini del battaglione. E mentre l'estraneit linguistica degli ebrei polacchi (la maggioranza delle vittime) e la diversit dei loro costumi rafforzavano la monumentale barriera cognitiva e psicologica che impediva agli assassini di riconoscerne l'umanit, quelli che invece venivano dalla stessa regione tedesca, che si rivolgevano a loro nella cadenza della madrelingua, avrebbero dovuto suscitare quanto meno l'impulso a prenderla in considerazione, quell'umanit. Due uomini della Seconda Compagnia ricordano un ebreo di Brema, veterano della prima guerra mondiale, che implorava di aver salva la vita: non gli serv a nulla (56), cos come a tutti gli altri ebrei tedeschi l'essere tali serv soltanto a procurare loro quell'egualitario proiettile che - nell'opinione e nelle azioni dei tedeschi - parificava tutti gli ebrei, tedeschi o polacchi, maschi o femmine, vecchi o giovani che fossero. Quale effetto avevano gli eccidi sugli assassini? Che vi si dedicassero con zelo fuori di dubbio, considerando l'efficacia dei risultati. Alcuni provavano raccapriccio, ma non tutti. Uno di loro ricorda con particolare chiarezza un episodio di quella giornata: "Per ordine del sergente Steinmetz, gli ebrei furono portati nei boschi.

Noi andammo con loro. Dopo circa 200 metri Steinmetz ordin agli ebrei di distendersi a terra, in fila. Vorrei dire a questo punto che erano solo donne e bambini; soprattutto donne, e bambini sui dodici anni ... Io dovevo sparare a una vecchia, aveva pi di sessant'anni. Ricordo ancora che la vecchia mi chiese se avrei fatto presto ... Accanto a me c'era Koch ... Lui doveva sparare a un ragazzino, circa dodici anni. Ci avevano detto chiaramente che si doveva tenere la canna del fucile ad almeno quindici centimetri dalla testa ma evidentemente Koch non lo fece, e mentre ce ne andavamo dal luogo dell'esecuzione, i camerati mi presero in giro perch avevo la manica imbrattata di materia cerebrale del ragazzino. Io chiesi perch ridessero, e Koch, indicando la mia manica: Quella del mio; ha gi smesso di agitarsi. Lo disse con un evidente tono di vanteria..." (57). Questa ilarit, questa gioia aperta e infantile di fronte a un eccidio, non fu un caso isolato, che non ebbe a ripetersi. Dopo quell'ultimo commento, l'assassino osserva: Ne ho sentite parecchie, di porcherie ["Schweinereien"] di quel genere.... Alcuni rimasero comunque colpiti dall'orrore della scena del macello, su questo non possono esservi dubbi, e qualcuno ne fu profondamente scosso. Molti, anche tra i pi appassionati carnivori, si trovano a disagio quando entrano in un comune mattatoio per il bestiame; non sorprende che anche un certo numero di quegli assassini sentisse il bisogno di farsi esonerare, o di prendere fiato tra una scarica e l'altra. Un caposquadra, il sergente Ernst Hergert, riferisce che nel suo plotone due o cinque uomini chiesero di essere esentati dalle fucilazioni dopo che queste erano gi cominciate, perch non se la sentivano di sparare alle donne e ai bambini. Furono assegnati subito, da lui stesso o dal tenente, ad altri compiti di trasporto o di sorveglianza per tutta la durata della strage (58). Anche altri due sergenti, Bentheim e Arthur Kammer, esonerarono alcuni dei loro sottoposti (59). Un terzo sergente, Heinrich Steinmetz, prima dell'eccidio avvert esplicitamente gli uomini che non erano obbligati a uccidere: Vorrei inoltre ricordare che prima dell'inizio dell'esecuzione il sergente Steinmetz disse agli uomini del plotone che chi non si sentiva all'altezza del compito poteva farsi avanti. Nessuno, ne sono certo, chiese di essere esentato (60).

E' importante t enere a mente che quegli uomini avevano gi preso parte al brutale rastrellamento del ghetto, e dunque avevano gi avuto ampia possibilit di confrontarsi con la raccapricciante realt dell'impresa genocida; ma nessuno raccolse, in quel momento, l'offerta di evitare ulteriori uccisioni. Stando a uno dei suoi, Steinmetz rinnov l'offerta anche quando le fucilazioni erano ormai avviate; il testimone ammette di aver ammazzato da sei a otto ebrei, prima di chiedere al sergente di essere esentato. La richiesta fu accolta (61): il sergente Steinmetz non era un superiore indifferente ai sentimenti dei suoi uomini. Particolarmente significativo fu il rifiuto opposto da un ufficiale, il tenente Heinz Buchmann. A partire dall'eccidio di Jzefw, e in tutte le stragi successive, egli fece in modo di non partecipare direttamente alle esecuzioni, riuscendo a farsi assegnare altri compiti. A Jzefw comandava la scorta che port gli ebrei cosiddetti abili in un campo di lavoro presso Lublino. Nel battaglione tutti sapevano che quel tenente scansava i turni ai plotoni d'esecuzione; e il suo desiderio di non prendervi parte veniva riconosciuto dalla gerarchia di comando al punto che ogniqualvolta si prospettava un'operazione di quel genere il comandante della compagnia lo aggirava, passando gli ordini direttamente ai suoi subordinati (62). Appare ovvio che almeno alcuni degli uomini non ebbero alcuna esitazione a chiedere di rimanerne fuori; sta di fatto che non faticarono a farsi esentare dalle esecuzioni, ponendosi anche davanti agli occhi degli altri come esempi della possibilit di evitare quell'incarico orrendo. L'offerta di Trapp era stata fatta di fronte all'intero battaglione; uno almeno dei sergenti al comando di un contingente di carnefici l'aveva rinnovata ai suoi, e tenente e sergente di un altro reparto concedevano senza difficolt l'esenzione a chi ne faceva richiesta. Opportunit di evitare il coinvolgimento diretto negli omicidi furono offerte e raccolte sia di fronte all'adunata del battaglione sia nella maggiore intimit dei plotoni e delle squadre. E ci fu, come si visto, perfino un ufficiale che con la propria riluttanza dimostr alla truppa la possibilit di esimersi, senza alcun disonore, dagli orrori dell'eccidio. Dunque tutta la gerarchia del Battaglione di Polizia 101, dal vertice alla base, dava a quanto pare per scontato, in modo pi o meno formale, che chi non voleva uccidere non doveva esservi costretto (63).

Che le esenzioni potessero essere concesse a discrezione dei semplici sergenti, e non soltanto del comandante di battaglione, basta a dimostrare che la cosa veniva accettata senza difficolt. E dimostra anche che chi massacr gli ebrei, i bambini ebrei, lo fece di propria volont (64). Dopo quella giornata di duro lavoro, gli uomini ebbero il tempo di riflettere e di parlarne tra loro. Di ritorno a Bilgoraj, per esempio, misero al corrente delle loro gesta il furiere della compagnia, che era rimasto alla base (65). Ne parlavano, evidente; ed impensabile che quei tedeschi comuni, nei loro scambi di idee, non dessero un giudizio di valore ad azioni tutt'altro che neutre. Molti erano rimasti scossi dagli eccidi, qualcuno era anche depresso: Nessuno dei camerati faceva queste cose con gioia. Dopo, erano tutti molto depressi (66). Quel giorno nessuno aveva appetito: Ricordo ancora che al loro ritorno nessuno dei camerati gust il pranzo. Gustarono molto, invece, la razione supplementare di alcolici (67). E' chiaro che molti non reagirono con indifferenza alle azioni che avevano commesso: nelle testimonianze rese dopo la guerra parlano spesso con grande passione dello sconforto che colp loro e i loro compagni dopo il primo massacro. E' senz'altro vero che, all'inizio, qualcuno si sent infelice, nauseato e forse persino indignato nel vedersi imposto un compito tanto raccapricciante (68). Ma quanto essi riferirono dopo la guerra va considerato con una certa circospezione, evitando la tentazione di leggervi pi di quanto non stia scritto (69). Quello che li disgustava erano i crani che esplodevano, il sangue e le ossa che schizzavano, la vista di tanti cadaveri di gente che essi stessi avevano appena abbattuto (70). E rimanevano attoniti, o persino scossi, da quelle uccisioni di massa in cui commettevano azioni che li avrebbero modificati definitivamente, imprimendo loro un indelebile marchio sociale e morale. La reazione era simile a quella che tanti soldati provano al primo incontro con la truce realt della battaglia: nausea, vomito, perdita dell'appetito. Che lo provassero anche questi tedeschi nel momento dell'iniziazione a una forma cos orrenda di assassinio pi che comprensibile.

Ma difficile credere che la reazione derivasse da qualcosa di diverso dal raccapriccio del momento, come dimostra lo zelo con cui si dedicarono, pochi giorni dopo, a nuovi eccidi. Nonostante l'impressione e il disgusto, nessuno - l'ufficiale medico del battaglione ad attestarlo - ebbe problemi emotivi di qualche rilievo dopo il macello della comunit di Jzefw. L'ufficiale non seppe di nessuno che dopo quell'esperienza si fosse sentito male, o avesse sofferto di qualche disturbo anche lontanamente paragonabile a un esaurimento nervoso (71). L'immagine complessiva di questo battaglione uno scambio verbale continuo: uomini che esprimevano opinioni ed emozioni, con frequenti disaccordi, a volte anche, in qualche misura, tra persone a livelli diversi della gerarchia. Nel pieno delle esecuzioni, nel pomeriggio, esplose un acceso diverbio tra il tenente Hartwig Gnade, comandante della Prima Compagnia, e uno dei suoi sottotenenti sul luogo migliore per fucilare un gruppo di ebrei. Sentirono Gnade che gridava al subordinato recalcitrante che non avrebbe pi lavorato con lui, se rifiutava di obbedire agli ordini (72). Questo atto di insubordinazione - un ufficiale che litiga con il suo superiore, e per di pi davanti alla truppa, su una questione operativa di cos poca importanza, e l'evidente rifiuto, o incapacit, del superiore di asserire l'autorit assoluta che gli spettava - ci dice molto circa la disciplina tutt'altro che draconiana del battaglione: non era gente che tacesse sottomessa di fronte ai superiori, e ancor meno era gente che obbedisse a qualsiasi ordine senza pensare. Nonostante le evidenti difficolt che alcuni dei tedeschi incontrarono nell'eseguire la loro prima strage, nonostante il disgusto provocato dall'effetto dei colpi sparati nella nuca agli ebrei, e nonostante avessero avuto la possibilit di esimersi dalle esecuzioni, da quel compito macabro e raccapricciante, quasi tutti scelsero di andare fino in fondo. Se qualcuno disapprovava che gli ebrei, i bambini e i neonati ebrei, venissero uccisi, in una situazione in cui anche lo stomaco pi robusto faticava a reggere il sangue, le schegge d'ossa e la materia cerebrale di cui tutti si trovavano insozzati, risulta difficile capire non solo perch uccidesse, ma anche in quale modo fosse riuscito a imporsi di uccidere, e di continuare a farlo. La via d'uscita esisteva: persino chi non disapprovava in linea di principio l'uccisione degli ebrei, ma era solo sconvolto dal raccapriccio, riusciva a ottenere un'esenzione temporanea (73).

Per gli uomini del Battaglione di Polizia 101 la tregua nel contributo alla soluzione della "Judenfrage" dur solo pochi giorni; poi intrapresero numerose missioni minori nella zona intorno a Bilgoraj e Zamosc, trasferendo gli ebrei dai villaggi e dalle localit in centri di raccolta pi capienti. Furono operazioni frequenti, parrebbe, ma non ne conosciamo bene i dettagli, dei quali i realizzatori dicono poco (74). La seconda grande strage di una comunit, poco tempo dopo quella di Jzefw, fu messa all'ordine del giorno per il Battaglione 101 nella vicina citt di Lomazy. Mentre a Jzefw l'intero battaglione aveva partecipato all'eccidio, a Lomazy fu la sola Seconda Compagnia a farsi carico dell'operazione. Il giorno prima il comandante di compagnia convoc gli ufficiali di plotone a Biala Podlaska, sede del suo stato maggiore. In quel momento i plotoni erano dispersi in varie localit circostanti, e una squadra, al comando del sergente Heinrich Bekemeier, era stanziata a Lomazy gi dal 9 agosto. Il comandante, tenente Gnade, inform gli ufficiali dell'imminente operazione, ordinando loro di trasferire i reparti a Lomazy entro le 4 dell'indomani mattina, 19 agosto. Lomazy contava meno di tremila abitanti, pi della met dei quali, all'epoca, erano ebrei. La maggioranza dei 1600-1700 ebrei che i tedeschi vi trovarono non era del luogo, ma proveniva da altre zone, anche dalla Germania, alcuni persino da Amburgo (75). I tedeschi li avevano deportati laggi nei mesi precedenti, come primo passo di un'eliminazione che doveva svolgersi in due fasi. Non stavano rinchiusi in un ghetto murato, ma erano comunque concentrati in un loro quartiere. Gli uomini della Seconda Compagnia impiegarono circa due ore per radunare le vittime e portarle nel luogo di raccolta, un campo sportivo nei pressi della scuola. Il rastrellamento fu spietato; seguendo le istruzioni di Gnade, i tedeschi uccisero sul posto tutti quelli che non potevano raggiungere con le proprie forze il luogo di raccolta. Lo zelo con cui svolsero l'incarico viene cos riassunto nella sentenza del tribunale: "La perquisizione delle case fu condotta con straordinaria accuratezza. Le forze disponibili furono divise in pattuglie di 2-3 poliziotti.

Il testimone H. riferisce che avevano l'ordine di cercare anche nelle cantine e nelle soffitte. Gli ebrei, che non erano pi all'oscuro e sapevano ci che accadeva a quelli della loro razza in tutto il Governatorato generale, tentavano di nascondersi per sfuggire all'annientamento. Per tutto il quartiere ebraico si sentiva sparare. Il testimone H. cont nel suo solo settore, un isolato di case, circa 15 ebrei uccisi. Dopo due ore il quartiere, che era facile da controllare, era stato completamente evacuato" (76). I tedeschi sparavano ai vecchi, ai malati, ai bambini, per le strade, nelle case, nei loro stessi letti (77). La furia omicida manifestata nel rastrellamento di Lomazy degna di rilievo, perch il piano generale del massacro intendeva risparmiare ai tedeschi l'esecuzione finale delle vittime. Prima dell'operazione Gnade aveva annunciato che alle esecuzioni avrebbe provveduto, con la supervisione dei tedeschi, un'unit di Trawniki, noti anche come Hiwi (78) europei dell'Est, soprattutto ucraini, che operavano come ausiliari nello sterminio. Ogni ebreo che i tedeschi portavano al punto di raccolta era una vittima alla quale quel particolare tedesco non avrebbe dovuto poi sparare a bruciapelo, risparmiandosi la prova se davvero poteva considerarsi tale - di fucilare gli ebrei tremanti che tentavano di nascondersi, il vecchio nel suo letto, il neonato in fasce. Nel suo insieme, invece il gruppo di tedeschi che rastrellava gli ebrei non approfitt di quest'occasione di evitare di uccidere a bruciapelo, in modo diretto e personalizzato (79). Nel campo sportivo separarono gli uomini dalle donne. Si attardarono sul campo per ore, in attesa che venissero completati gli ultimi preparativi per la strage. Tre fotografie riprodotte nel nostro inserto fotografico sono immagini di quell'adunata, le prime due viste da vicino, la terza da una certa distanza. Nella prima foto un tedesco sta di fronte a una doppia fila di ebrei impugnando una frusta ripiegata; d le spalle ai suoi sorvegliati e guarda diritto verso il fotografo, dando l'impressione di essere fiero di quello che fa, di non voler nascondere l'immagine della sua partecipazione all'operazione genocida, ma anzi di volerla tramandare ai posteri. Sul retro della terza immagine il fotografo scrisse quello che qui riproduciamo: Vi si legge:

"Ebrei condannati / Lomartzie / 18 ago. 42 / 1600" Quest'uomo prendeva nota di tutto, per essere certo che anni dopo non avrebbe confuso o dimenticato i successi di quella giornata. In base ai suoi conti, uccisero 1600 ebrei (80). Dal campo sportivo, un distaccamento del Primo Plotone condusse un gruppo di circa 50-60 ebrei equipaggiati con pale e badili verso un bosco distante pi di un chilometro, dove sarebbe avvenuta l'esecuzione. I tedeschi costrinsero gli ebrei a scavare una grande fossa, quella che vediamo mezza piena d'acqua nella quarta foto (81). Anche sul retro di questa immagine una scritta identifica la scena a beneficio dei posteri: "Ebrei che scavano una fossa comune / Lomartczy 18 ago. 1942 / 1600" Con grave ritardo arrivarono gli Hiwi, 40-50 uomini (82), e fecero subito colazione. Di fronte allo spettacolo delle loro prossime vittime, si ingozzarono di cibo e di vodka, che li avrebbe resi ancor pi feroci. Anche Gnade e il tedesco che li comandava cominciarono a bere (83). Gli ebrei, che non potevano certo nutrire dubbi sulla sorte che li attendeva, guardavano gli assassini banchettare davanti a loro prima di dare inizio al massacro. Nonostante il calore intenso, i tedeschi li lasciarono senza cibo e senz'acqua. Cominci il trasferimento al luogo dell'esecuzione. Il grosso degli ebrei si avvi lungo la strada solo quando dei contadini polacchi ebbero portato una lunga corda che avevano preparato appositamente per quella marcia. Per qualche inspiegabile motivo, forse una bizzarria della logica nazista, i tedeschi strinsero la massa degli ebrei nel cerchio della corda, pensando che cos si sarebbero avviati ordinatamente, in fila per sei o per otto, sulla marcia della morte (84). I tedeschi sparavano a chiunque uscisse - in genere si trattava di qualcuno che restava indietro - dall'anello di corda in movimento. Avevano imposto un passo veloce, che i meno abili faticavano a tenere, e quindi in fondo all'anello si form subito una ressa. La vista dei ritardatari abbattuti a fucilate provocava tanto terrore che a un certo punto gli ebrei corsero avanti, travolgendo alcuni dei loro compagni; i caduti furono prima calpestati dagli altri, poi, nelle parole di uno dei

realizzatori, il sergente Bentheim, vennero spinti brutalmente avanti, e anche presi a fucilate (85). Prima di giungere sulla scena dell'esecuzione, i tedeschi decisero finalmente di fare a meno di quella corda, un'idea balzana e di nessuna utilit funzionale. Quando la colonna arriv sul posto, separarono gli uomini dalle donne, sistemandoli in due punti diversi, a circa un centinaio di metri dalla fossa. Poi li costrinsero a svestirsi parzialmente; gli uomini rimasero a torso nudo, qualcuno nudo del tutto. Strapparono loro anche tutti gli oggetti di valore (86). L'ignominia di denudarsi in pubblico era nulla rispetto a quanto attendeva gli ebrei, ma rimaneva comunque un'ignominia; e aveva anche altre conseguenze, poich si era alla met di agosto. Ricordo perfettamente l'immagine di quegli ebrei, quasi tutti a torso nudo, stesi per diverse ore a scottarsi sotto il solleone. Una volta spogliati, infatti, gli ebrei dovevano rimanere stesi a terra su una superficie piuttosto limitata, e non potevano muoversi (87). Quando finalmente tutto fu pronto per il massacro, quelli del Secondo Plotone si schierarono su due file che andavano dal luogo di attesa fino alla fossa. A gruppi successivi di 15-20 persone gli ebrei furono costretti a correre tra quelle due file fino alla fossa, sotto le grida e i colpi di calcio di fucile dei tedeschi (88). E come se terrorizzare e torturare cos le vittime negli ultimi istanti di vita ancora non bastasse, Gnade riserv un trattamento speciale ad alcuni ebrei molto facilmente identificabili come tali. Questo ricordo rimase indelebilmente inciso - e la cosa non sorprende nella mente di uno dei suoi uomini: "Durante queste esecuzioni vidi anche qualcos'altro che non dimenticher mai. Prima ancora che si cominciasse a sparare, il tenente Gnade in persona aveva scelto circa 20-25 ebrei anziani; esclusivamente uomini con lunghe barbe. Gnade costrinse quei vecchi a strisciare per terra di fronte alla fossa; e prima di ordinar loro di strisciare, li fece spogliare. Mentre gli ebrei, completamente nudi, strisciavano a terra, il tenente strill a quelli che gli stavano intorno: Dove sono i miei sottufficiali? Non c' nessuno che abbia un bastone?.

I sottufficiali corsero al limitare del bosco, si procurarono dei bastoni e poi coi bastoni tempestarono di colpi gli ebrei ... sono dell'opinione che tutti i sottufficiali della compagnia obbedirono all'ordine del tenente Gnade, e bastonarono gli ebrei..." (89). Dopo averli picchiati a sangue, ma non a morte, i tedeschi spararono ai vecchi, a quegli archetipi, nella loro mente nazificata, dell'ebraismo. Perch umiliare e torturare gli ebrei, e quei vecchi in particolare? Non bastava l'estinzione di una moltitudine di ebrei a soddisfare i tedeschi? Dei carnefici freddi, meccanici, si sarebbero limitati a uccidere. Degli uomini contrari all'eccidio non avrebbero prima torturato quei vecchi gi sofferenti, non avrebbero creato nuove miserie poco prima di porre fine alla loro vita. Questi tedeschi non erano certo dei funzionari indifferenti o riluttanti. Il luogo dell'eccidio presentava una scena indescrivibile. La fossa, che abbiamo visto scavare nella foto gi descritta, era profonda da un metro e mezzo a due metri, e larga circa 25 metri per 50 (90). Uno dei lati era in pendenza. Gli ebrei venivano costretti a scendere da quel pendio, per distendersi a faccia in gi sul fondo della fossa. Gli Hiwi, in piedi nella fossa col fucile in pugno, sparavano un proiettile nella nuca a ciascuno. L'ondata successiva doveva distendersi sopra i corpi insanguinati, col cranio fracassato, di quelli che l'avevano preceduta. Con questo metodo, la fossa andava riempiendosi. Gli Hiwi, che non avevano mai smesso di bere, erano ormai ubriachi e miravano male, anche tirando da vicino. Ne nacque una scena allucinante, un orrore difficile da immaginare e capire. Molti ebrei non rimanevano uccisi dai proiettili, e poich quel giorno i tedeschi avevano deciso di non somministrare colpi di grazia ("Gnadenschsse") a chi rimaneva vivo dopo la prima scarica, i gruppi successivi non dovevano distendersi soltanto su cadaveri sanguinolenti, ma anche su corpi in preda agli spasimi dell'agonia, che si agitavano esprimendo con grida umane la loro indicibile sofferenza. Come se l'orrore ancora non bastasse, la fossa era stata scavata su una falda: l'acqua saliva mescolandosi col sangue, e i cadaveri cominciarono a galleggiare. I carnefici Hiwi erano scesi nella fossa, e stavano immersi fino alle ginocchia nell'acqua insanguinata (91).

Molti tedeschi, che formavano un cordone intorno alla fossa, a una ventina di metri di distanza, furono testimoni di quell'orrore sempre pi insostenibile. Alla fine gli Hiwi erano tanto ubriachi che risult impossibile lasciarli continuare. Temevo che sparassero anche a noi, racconta un tedesco (92). Quando Gnade ordin ai due sottotenenti di rimpiazzarli coi loro uomini (93). i tedeschi sapevano gi che cosa si pretendeva che facessero. I sottotenenti "ci informarono che Gnade aveva ordinato di impiegare uomini della compagnia come tiratori ['Schtzen']. Dissero anche che dovevamo portare avanti l'esecuzione allo stesso modo degli Hiwi. Ci ribellammo, perch nella fossa c'era pi di mezzo metro d'acqua, ed era interamente coperta di cadaveri. Ricordo con particolare orrore che durante l'esecuzione molti ebrei non erano stati colpiti a morte e ciononostante venivano coperti dalle vittime successive senza ricevere il colpo di grazia ['ohne Abgabe von Gnadenschssen']". Quest'uomo ricorda che lui e i suoi camerati decisero tra loro di adottare una tecnica diversa. In questa riunione concordammo che l'esecuzione dovesse essere affidata a due gruppi, ognuno di ottodieci uomini. Diversamente dal "modus operandi" degli Hiwi, i due plotoni di esecuzione si sarebbe piazzati su due lati opposti della fossa, e da quella posizione avrebbero tirato a fuoco incrociato. Da ciascuno dei lati si sparava agli ebrei allineati sul lato opposto del fondo della fossa. Le squadre spararono per una buona mezz'ora, prima di avere il cambio. A uno dei lati provvedeva il Primo Plotone, mentre a far piovere proiettili dall'altro si alternavano il Secondo e Terzo Plotone. "Nel corso di questa operazione i membri del plotone venivano rimpiazzati di continuo. Cio, i dieci-dodici tiratori avevano il cambio ogni cinque-sei esecuzioni. Quando tutti gli uomini del plotone ebbero finito il proprio turno, si ricominci daccapo con i primi, sicch ogni gruppo fece per la seconda volta cinque o sei esecuzioni ...

Ritengo inoltre che, a parte i pochi uomini indispensabili per il servizio di guardia, a nessuno fu risparmiato di prender parte all'esecuzione, con l'eccezione di pochi che scapparono per i campi. Cosa che si poteva fare benissimo, perch i diversi plotoni erano in parte addetti ad altri compiti". Questo assassino ricorda che i tedeschi spararono per circa due ore e che poi gli Hiwi, i quali nel frattempo si erano ripresi - alcuni si erano addormentati sull'erba -, li sostituirono e ripresero a uccidere per almeno un'altra ora. Ora sparavano anche loro dall'alto della fossa, ma qualcuno volle comunque scendere ancora in quell'ammasso di cadaveri e sangue (94). La fossa ormai traboccava. Ho ancora davanti agli occhi la scena, racconta un tedesco. Ricordo di aver pensato che non saremmo mai riusciti a coprire di terra i cadaveri (95). Circa 1700 ebrei, tra uomini, donne e bambini, morirono in questo modo orrendo; molti di loro erano ebrei tedeschi provenienti, tra l'altro, da Amburgo, la patria del battaglione (96). Alcuni subirono fino a dodici ore di torture fisiche e psicologiche prima di ricevere il colpo alla nuca. Strappati dal letto dai razziatori tedeschi, avevano sopportato le ore di attesa al campo sportivo, e poi la marcia assassina fino al luogo dell'esecuzione. Solo il primo gruppo di vittime non ud le grida d'agonia dei compagni spinti a forza dai tedeschi verso la fossa, e poi costretti a scendere in quella bolgia infernale. Dopo aver ascoltato le grida e le scariche che annunciavano altre eliminazioni (per molte delle vittime l'incubo dur parecchie ore), ognuno degli ebrei fece a sua volta quel viaggio. Nel tardo pomeriggio i tedeschi e gli Hiwi avevano finalmente portato a termine lo spaventoso massacro; mancava soltanto un dettaglio. Una ventina di ebrei erano stati risparmiati per ricoprire di terra la fossa delle esecuzioni. Alcune delle vittime, che ancora si agitavano, furono sepolte vive; ma non se ne curarono certo i tedeschi, che subito eliminarono anche gli ebrei momentaneamente sopravvissuti per fare da becchini. Il massacro perpetrato dalla Seconda Compagnia a Lomazy consente alcune osservazioni interessanti. Per organizzazione logistica e carattere generale esso fu marcatamente diverso dall'eccidio di Jzefw; nelle intenzioni avrebbe dovuto

corrispondere pi da vicino al modello sperimentato dagli "Einsatzkommandos" (97). Secondo i piani, doveva essere meno individualizzato, meno impegnativo dal punto di vista psicologico per gli assassini, in quanto il lavoro sporco veniva delegato agli Hiwi, e alle esecuzioni individuali di Jzefw si sostituiva il metodo della catena di montaggio. Ripensando a Jzefw, appaiono evidenti le improvvisazioni di quel battaglione composto da reclute impreparate alla loro prima prova; solo pi tardi avrebbero appreso una tecnica pi adeguata, che consentiva agli assassini di tenersi a un minimo di distanza dalle vittime e dagli aspetti pi raccapriccianti dell'operazione. L'impreparazione di cui diedero prova nel massacro di Jzefw dimostra che il comando tedesco era andato incontro con una certa superficialit a queste azioni. Ritornando per a Lomazy, risulta chiaro che le procedure adottate per facilitare il lavoro agli assassini non furono di fatto necessarie, e furono ripetutamente trasgredite nel corso della giornata. Gli uomini di questa compagnia si erano gi adeguati alle esigenze del loro nuovo mestiere (98). L'eccidio di Lomazy istruttivo per altri motivi, oltre a quelli suggeriti dal confronto con il precedente eccidio di Jzefw. Innanzi tutto in questo caso i tedeschi non selezionarono, per risparmiarli e destinarli al lavoro, i cosiddetti ebrei abili: il loro unico ed esclusivo obiettivo era di ucciderli tutti. In secondo luogo, le crudelt compiute dai tedeschi nel corso dell'intera giornata indicano un preciso atteggiamento nei confronti delle vittime e della loro eliminazione. Ai loro scherani fu concesso di infierire senza sosta: Gli episodi di crudelt avvenivano tra il punto in cui venivano scaricati ["Abladeplatz"] e la fossa, ricorda uno dei tedeschi (99). In terzo luogo, quando Gnade ordin ai suoi uomini di sostituire gli Hiwi, essi rifiutarono di entrare nella fossa, non di eseguire l'ordine in quanto tale; a questo in parte disobbedirono, per la parte cio che consideravano ripugnante. E ottennero quello che volevano. In quarto luogo, curioso che i tedeschi tollerassero una condotta tanto sfrenata, poco professionale e persino pericolosa da parte degli Hiwi, tutt'altro che restii a uccidere la loro quota di ebrei. Infine, nessuna delle parti cerc di giustificare questo massacro in base a una logica militare: i tedeschi sapevano che la politica del loro paese in

Polonia era genocida, e che il genocidio, l'aspirazione a liberare il mondo dalla presunta maledizione ebraica, era giustificato in se stesso. Quella fu dunque per ognuno di loro l'occasione di togliersi qualche soddisfazione con gli ebrei, anche se per il gusto di alcuni le cose finirono per prendere una piega eccessiva. Quando ebbero ripulito Lomazy dagli ebrei, gli uomini della Seconda Compagnia ritornarono alla base. Il gruppo del sergente Bekemeier, q uello arrivato una settimana prima dell'eccidio, rimase sul posto. Dalle fotografie che ci rimangono, parrebbe che la permanenza a Lomazy fosse molto piacevole: formali foto di gruppo di fronte alla scuola, di fianco al campo sportivo usato come punto di raccolta degli ebrei prima del massacro (100), ma anche immagini meno ufficiali, compreso uno spigliato ritratto in cui i tedeschi sembrano piuttosto allegri. Altre istantanee li colgono di sorpresa, o in posa amichevole con qualcuno dei residenti, presumibilimente polacchi, di Lomazy - anche con dei bambini. Non sappiamo se queste foto ricordo siano state scattate prima o dopo il massacro che ridusse di pi della met la popolazione della cittadina; Bekemeier e i suoi posarono comunque per un'altra foto poco prima di andarsene definitivamente, parecchi giorni dopo. Il desiderio di conservare una testimonianza fotografica, e l'evidente allegria che esprimono di fronte all'obiettivo, furono all'epoca il loro ultimo commento sul periodo trascorso a Lomazy, il cui momento qualificante era stato l'aver ripulito dagli ebrei una citt abitata per pi di met da ebrei. Quegli uomini erano impegnati in una rivoluzione sociale profonda, e sono pochi i rivoluzionari sociali che guardino con rammarico alle vittime dei loro espropri: in questo caso, gli espropriati perdevano la vita. Ci siamo soffermati sui primi due eccidi di massa del Battaglione di Polizia 101 per cercare di capire in quale modo essi furono vissuti dai realizzatori. Se ci domandiamo in che modo i tedeschi poterono indursi ad agire come agirono, e perch non cercarono di evitare di prender parte ai massacri, dobbiamo conoscere nel dettaglio quelle azioni e le scelte che li indussero a compierle. Gli uomini del battaglione rastrellarono, deportarono e massacrarono ebrei in molte altre occasioni, e anche di queste si potrebbero riportare gli orrendi particolari, ricavati soprattutto dalle testimonianze degli stessi realizzatori; ma per ragioni di spazio dobbiamo limitarci a considerarne, molto schematicamente, soltanto alcune.

Con qualche variazione, stanno alla pari, quanto a crudelt e raccapriccio, con le operazioni di Jzefw e Lomazy; descriverle servirebbe solo ad accumulare elementi di conferma al ritratto del battaglione sin qui delineato. Nell'autunno 1942 gli uomini del Battaglione 101 eseguirono numerosi nuovi eccidi di massa e altre operazioni contro gli ebrei nella regione di Lublino: in qualche caso li fucilarono loro stessi; in altri casi li deportarono nei campi di sterminio. Che si concludessero con le fucilazioni in massa o con le camere a gas, le operazioni omicide seguivano procedure comuni. Cominciavano con rastrellamenti come quelli che abbiamo descritto, nel corso dei quali i tedeschi sparavano ai vecchi, ai malati e ai troppo giovani nelle loro case e nelle strade. Poi gli ebrei venivano condotti in qualche luogo centrale, come la piazza del mercato, dove spesso, ma non sempre, gli abili venivano selezionati e deportati in un campo di lavoro. ln molti casi gli ebrei passavano parecchio tempo in attesa che venissero completati i preparativi per l'eliminazione, e di norma i tedeschi, o gli Hiwi, o le altre forze di sicurezza che a volte operavano in collegamento con il Battaglione 101, impiegavano quel tempo per umiliarli e torturarli. Quando finalmente tutto era pronto, gli ebrei venivano avviati verso i carri bestiame in attesa, nei quali si ammucchiavano a forza di calci, pugni e frustate, o verso il luogo scelto per l'esecuzione, dove venivano fucilati, un gruppo dopo l'altro. In quell'autunno le principali operazioni omicide del battaglione contro gli ebrei furono le seguenti (101): Jzefw, luglio 1942, 1500 ebrei: fucilazione. Distretto di Lublino, dal luglio 1942, centinaia di ebrei: ripetuti rastrellamenti. Lomazy, agosto 1942, 1700 ebrei: fucilazione. Parczew, agosto 1942, 5000 ebrei: deportazione in campo della morte. Miedzyrzec, agosto 1942, 11000 ebrei: deportazione in campo della morte (nota 102). Serokomla, settembre 1942, 200 ebrei: fucilazione. Talcyn/Kock, settembre 1942, 200 ebrei, 79 polacchi: fucilazione. Radzyn, ottobre 1942, 2000 ebrei: deportazione in campo della morte. Lukw, ottobre 1942, 7000 ebrei: deportazione in campo della morte. Parczew, ottobre 1942, 100 ebrei: fucilazione. Konskowola, ottobre 1942, 1100 ebrei: fucilazione.

Miedzyrzec: - Biala Podlaska, ottobre e novembre 1942, 4800 ebrei: deportazione in campo della morte. - Provincia di Biala Podlaska, ottobre e novembre 1942, 6000 ebrei: deportazione in campo della morte. - Komarwka Podlaska, ottobre e novembre 1942, 600 ebrei: deportazione in campo della morte. - Wohyn, ottobre e novembre 1942, 800 ebrei: deportazione in campo della morte. - Czermierniki, ottobre e novembre 1942, 1000 ebrei: deportazione in campo della morte. - Radzyn, ottobre e novembre 1942, 2000 ebrei deportazione in campo della morte. Distretto di Lublino, da ottobre 1942, centinaia di ebrei: cacce all'ebreo. Lukw, novembre 1943, 3000 ebrei: deportazione in campo della morte. Poich con il nuovo anno i tedeschi erano ormai riusciti a uccidere buona parte degli ebrei della regione, nel 1943 il Battaglione 101 fu impegnato in un numero minore di eccidi e si dedic invece a stragi su scala pi ridotta. Le uccisioni di massa furono le seguenti: Miedzyrzec, maggio 1943, 3000 ebrei: deportazione in campo della morte. Majdanek, novembre 1943, 16500 ebrei: fucilazione. Poniatowa, novembre 1943, 14000 ebrei. fucilazione. L'anno culmin, in novembre, con l'immane strage di Majdanek e Poniatowa, nell'ambito di quella che i tedeschi avevano definito "Operation Erntefest" (operazione festa del raccolto). A conti fatti, gli uomini del battaglione presero parte a operazioni omicide nel corso delle quali, da soli o insieme con altri, fucilarono o deportarono verso la morte ben pi di 80 mila ebrei. Le uccisioni di massa e le deportazioni, che giustificavano la presenza del Battaglione 101 in Polonia, non furono per il suo unico contributo alla realizzazione del progetto genocida di Hitler. Ovunque fossero di stanza, gli uomini furono continuamente impegnati a uccidere i piccoli gruppi di ebrei che riuscivano a scovare nella zona. "Il nostro compito principale consisteva nell'annientamento degli ebrei. Con queste azioni venivano liquidati gli ebrei residenti in piccole localit, villaggi o tenute. Di tanto in tanto il plotone, al comando del sergente Steinmetz, partiva con i camion ... Nelle diverse localit si perquisivano le case alla ricerca degli ebrei.

Anche in questi casi i malati venivano uccisi in casa, e il resto degli ebrei alla periferia della localit stessa. In ognuna di queste operazioni si liquidavano da 10 a 40 persone, secondo le dimensioni della localit. Gli ebrei dovevano stendersi a terra e venivano uccisi con un proiettile nella nuca. In nessun caso fu scavata una fossa. Le operazioni di questo tipo, destinate esclusivamente ad annientare gli ebrei, saranno state in tutto una decina... C'era sempre qualche avventuriero disposto ad andare volontario con il sergente Steinmetz per occupare quegli edifici [sic] e per sparare agli ebrei" (103). Su scala minore, l'uccisione degli ebrei scoperti nelle piccole comunit, o nelle grandi propriet agrarie, seguiva le modalit degli eccidi. Ma se furono le operazioni su larga scala a lasciare negli assassini l'impressione pi profonda, sottolineando l'importanza storica delle loro azioni, la frequenza di quelle minori rendeva l'uccisione degli ebrei un normale elemento costitutivo delle giornate, e delle vite, di quegli uomini. Proprio la frequenza con cui essi vi si trovavano coinvolti faceva s, in buona parte, che questo e altri testimoni sapessero che la loro attivit prioritaria era lo sterminio degli ebrei. Al loro sentirsi prima di ogni altra cosa agenti del genocidio contribuivano inoltre i regolari servizi di pattuglia destinati a scovare e uccidere gli ebrei nascosti nelle campagne. Le missioni di ricerca ed eliminazione avevano un carattere diverso dai grandi eccidi di cui si parlato. Era diversa la scala, non soltanto per il numero delle vittime, a volte una o due soltanto, ma anche per quello dei tedeschi che vi erano addetti. Le missioni di ricerca richiedevano inoltre una misura di iniziativa individuale che nella distruzione dei ghetti si imponeva soltanto a chi (ma a volte erano molti) si occupava di scovare gli ebrei nascosti nelle case. Ricordo ancora perfettamente che ci trovavamo proprio di fronte alla galleria quando strisci fuori un bambino di cinque anni. Fu subito afferrato da un poliziotto che lo port da una parte, gli punt la pistola al collo e spar. Era un agente di polizia in servizio attivo ["Beamte"], allora come ordinanza medica: l'unica ordinanza medica del plotone (104). Come altri reparti tedeschi, il Battaglione 101 aveva ricevuto lo "Schiessbefehl" (105), che prescriveva di fucilare tutti gli ebrei sorpresi fuori dai ghetti e dalle altre aree della Polonia loro riservate, concedendo

anche all'ultimo fantaccino del battaglione discrezione assoluta nelle decisioni capitali riguardanti gli ebrei. Ognuno di loro era considerato degno di esserne il giudice e il carnefice: gli uomini del Battaglione 101 ebbero modo di dimostrare che tanta fiducia era ben riposta. Quando venivano a sapere (spesso da informatori polacchi), o sospettavano, che in una certa zona vivessero o si nascondessero degli ebrei, costituivano un distaccamento adeguato all'entit del lavoro previsto, cercavano gli ebrei e, quando li trovavano, li uccidevano (106). A volte le informazioni di cui disponevano erano molto precise, a volte molto vaghe. I distaccamenti impiegati nelle missioni di ricerca ed eliminazione andavano da un'intera compagnia a un pugno di uomini, ma si trattava di variazioni di poco conto nel quadro del rastrellamento continuo e coordinato delle campagne, indispensabile se la Polonia doveva davvero essere ripulita dagli ebrei. Queste missioni, iniziate nell'autunno 1942 e proseguite fino a tutto il 1943, insieme con i massacri degli ebrei che vivevano in gruppi ristretti nelle cittadine o nelle tenute, divennero la principale attivit operativa degli uomini del Battaglione 101, e la loro intensa frequenza confermata da molti testimoni. Anzi, cos numerosi furono le missioni e coloro che vi erano impegnati che dopo la guerra questi ultimi faticavano a ricordarne i dettagli, tendendo a confonderne una con l'altra (107). Riferisce un membro della Seconda Compagnia: Dalle diverse basi del nostro plotone, ogni settimana partivano parecchie operazioni. L'obiettivo era la cosiddetta pacificazione della zona assegnata. Non occorre dire che nel corso del pattugliamento stavamo all'erta per cogliere la presenza di ebrei, e se li trovavamo li fucilavamo sul posto (108). Secondo un altro, della Terza Compagnia, del tutto vero che dopo la conclusione di un'azione venivano spesso intraprese operazioni contro gli ebrei ... Pu darsi che io stesso abbia partecipato a dieci o dodici di quelle operazioni. Il numero delle vittime andava da due a venti. Il numero delle operazioni alle quali prendemmo parte io e Herr Nehring vale anche per tutti gli altri uomini del plotone (109). Le missioni furono tanto frequenti e tanto ben condotte che, secondo un altro uomo della Terza Compagnia, dalla fine dall'agosto 1942 all'agosto

1943 avveniva quasi ogni giorno che degli ebrei sbandati venissero fucilati sul posto dalla pattuglia nella quale si erano imbattuti (110). Gli uomini del Battaglione 101 provvedevano sia ai rastrellamenti finali dopo i grandi massacri sia alle missioni di ricerca ed eliminazione nella regione circostante. Cos fece il gruppo del sergente Bekemeier, rimasto a Lomazy dopo lo sterminio degli ebrei del luogo, avvenuto il 19 agosto. Qualche giorno dopo il massacro, quando il resto della Seconda Compagnia era gi ritornato nelle guarnigioni, gli uomini di Bekemeier passarono al setaccio quel ghetto che fino a poco prima pullulava di vita, e scovarono una ventina di ebrei, uomini, donne e bambini. Li portarono nel bosco, li costrinsero a distendersi a terra, senza spogliarsi, e li ammazzarono con un colpo di pistola alla nuca ("Genickschuss") (111). circa 20 uomini del distaccamento di Bekemeier agivano in modo autonomo, senza il controllo dei superiori; per il comando di battaglione era del tutto indifferente che scovassero qualche ebreo in pi o in meno, non avendo alcun modo per sapere quanti di loro fossero davvero rimasti in libert. E anche se il comando lo avesse saputo, gli uomini sul posto non avrebbero avuto difficolt a dichiarare le cifre che preferivano, non essendo richiesta n fornita alcuna documentazione. Gli omicidi erano tanto consueti e prevedibili che i tedeschi li consideravano parte del tessuto stesso della loro vita, e dunque non degni di nota. Gli ebrei scovati dagli uomini di Bekemeier non furono soltanto uccisi, ma dovettero subire anche gli scherni del sergente, come in questo episodio che stato cos descritto: "Ancora oggi mi rimane impresso nella memoria un fatto. Al comando del sergente Bekemeier dovevamo trasferire da qualche parte un gruppo di ebrei. Lui li costrinse a strisciare in una pozzanghera, cantando. Un vecchio non riusciva pi a camminare, dopo l'episodio della pozzanghera, e lui gli spar in bocca, a bruciapelo (112) ... Dopo il colpo, l'ebreo lev in alto le mani come per appellarsi a Dio, poi croll. Il cadavere rimase l; non ci occupavamo di quel genere di cose" (113). Una delle fotografie raccolte negli album di quei carnefici mostra Bekemeier e i suoi orgogliosamente in posa davanti alle biciclette, mentre si

accingono a uno dei servizi di pattuglia che tanto spesso si concludevano con un massacro di ebrei. Un'altra foto pubblicata nel nostro inserto mostra invece il tenente Gnade e i suoi uomini impegnati in una missione di ricerca ed eliminazione. Sono appunti fotografici dall'aria del tutto innocente, per i non iniziati, ma gravidi di significato per i tedeschi del Battaglione 101. Una delle missioni pi fruttuose, per la messe di cadaveri di ebrei, si svolse nei pressi di Konskowola. Hoffmann aveva mandato degli uomini della Terza Compagnia in una zona in cui risultava vi fossero degli ebrei nascosti. Si imbatterono in una serie di gallerie sotterranee, e cominciarono a gridare agli ebrei di uscire. Non ebbero risposta. Allora spararono delle granate lacrimogene, che offrirono loro qualche indicazione sull'identit delle vittime: Dalle gallerie uscirono grida e pianti di donne e bambini. Di nuovo ordinarono di uscire, ma non serv a nulla. Non usc nessuno, e allora si usarono le bombe a mano; ricordo che ne furono lanciate nella galleria a pi riprese, fino a quando dentro non ci fu pi segno di vita. Non posso indicare il numero esatto delle vittime perch non entrammo nella galleria alla fine dell'operazione, nemmeno per verificare se fossero tutti morti (114). Le operazioni organizzate di liquidazione dei ghetti, in cui i tedeschi si muovevano in grandi formazioni, erano pianificate in base agli ordini del comandante, il che poneva limiti all'azione dei singoli, anche se c'era sempre l'occasione per esprimere la propria personale e gratuita brutalit. Nelle missioni di ricerca ed eliminazione, invece, piccoli gruppi di camerati, soggetti a controlli minimi, si aggiravano a piedi o in bicicletta per le campagne, liberi di cercare con zelo o con indolenza, con puntiglio o nel modo pi distratto. E quando scovavano gli ebrei, potevano trattarli a discrezione, sia che il loro segreto desiderio fosse di ucciderli sia di lasciarli in vita. Potevano umiliarli e torturarli, prima di finirli, o ucciderli e basta; potevano eliminarli cercando di farli soffrire il meno possibile, o disinteressarsi del tutto di questo aspetto, o invece infliggere alle vittime umiliazioni e brutalit gratuite. Le testimonianze stesse degli assassini ci mostrano uomini che operavano con zelo, o quantomeno con assoluta indifferenza per le sofferenze delle vittime, che spesso erano donne e bambini.

Nessuno di questi tedeschi dichiara di aver volutamente omesso di scoprire un ebreo nascosto, o di aver fatto del proprio meglio per infliggere loro il minimo di sofferenze. Anzi, riferiscono con la massima naturalezza dei loro quotidiani successi nell'operazione di stanare e ammazzare gli ebrei, e dello spirito sprezzante con cui lo facevano. Come avrebbero potuto risparmiarli, visto l'inequivocabile ardore con cui si dedicavano a quel pattugliamento dichiaratamente genocida, tanto frequente che uno di loro definisce quel servizio, e dunque anche l'uccisione degli ebrei, pi o meno il nostro pane quotidiano? (115). Gli assassini ammettono che di norma c'erano sempre volontari per cercare, snidare e annientare ancora altri ebrei; tanti, anzi, che in genere erano di pi di quanti ne richiedesse la specifica missione (116). Possiamo affermare con sicurezza che questi tedeschi comuni desideravano uccidere gli ebrei. L'unica motivazione delle missioni di ricerca ed eliminazione era il genocidio, e la cosa era chiara per tutti: durante tutte le missioni intraprese dai tedeschi di questo battaglione di polizia, non vi fu un solo caso di resistenza armata da parte degli ebrei (117). Molti di quegli uomini parteciparono a numerosissime di quelle che consideravano pure e semplici battute di caccia per ripulire la campagna dagli animali dannosi: tra loro definivano significativamente le missioni di ricerca e distruzione "Judenjagd" (caccia all'ebreo) (118). L'uso del termine non casuale: esprimeva il modo in cui gli assassini concepivano la natura della loro attivit, e le emozioni che ne conseguivano. Era l'opera di disinfestazione di ci che restava di una specie particolarmente perniciosa, che doveva essere annientata. Tanto pi che la parola "Jagd" ha un "Gefhlswert" (valenza emotiva) positivo: la caccia un passatempo piacevole, avventuroso, che non comporta rischi per il cacciatore, il cui premio il conto degli animali abbattuti - nel caso degli uomini di questo battaglione di polizia e degli altri cacciatori di ebrei, il conto degli ebrei stanati e uccisi. Sulla base delle loro attivit e delle rivelazioni contenute nelle testimonianze rese, giusto definire gli uomini del Battaglione di Polizia 101 una coorte genocida ("Vlkermordkohorte"), ed indubitabile che si considerassero tali. Il nostro compito principale, tuttavia, consisteva tuttora nell'annientamento degli ebrei (119). L'ardore con cui vi si dedicarono fu tale che per continuare le missioni di ricerca ed eliminazione degli ebrei erano disposti a rinviare persino le

operazioni contro i veri partigiani, contro chi rappresentava un'autentica minaccia militare (120). Le descrizioni e le analisi delle loro azioni sin qui proposte inducono a ritenere che questi tedeschi vedessero in una luce positiva il genocidio, loro principale attivit in Polonia, e la parte che in esso dovevano svolgere. Pi volte diedero prova di iniziativa personale nell'uccidere, e non tentarono di scansare gli incarichi ricevuti, pur potendolo fare senza incorrere in punizioni. Davano priorit su tutto all'uccisione degli ebrei, lasciandosi anche trasportare dalla crudelt. Tanto erano votati al massacro genocida da persistere nonostante l'orrore che, se pure in queste pagine viene talvolta comunicato in termini impressionanti, e abbastanza particolareggiati, risulta forse impossibile da immaginare e comprendere per chiunque non abbia preso parte direttamente a scene di quel genere. E in buona parte si tratt di omicidi personalizzati, in cui si trovavano faccia a faccia con le vittime. E spesso la faccia che avevano di fronte era quella di un bambino.

NOTE AL CAPITOLO 7 N. 1. Le fonti principali riguardo al Battaglione di Polizia 101 sono due diverse e separate inchieste giudiziarie, quella su Wolfgang Hoffmann e altri, in UPA Amburgo 141 Js 1957/62 (d'ora in poi citata come Hoffmann) e quella su H.G. e altri, ibid., 141 Js 128/65 (d'ora in poi "H.G."). Altro materiale, meno approfondito, si trova presso l'Archivio di Stato di Amburgo (S.t.A.H.). Christopher R. Browning, "Ordinary Men" cit., autore di una ricostruzione assai completa e per molti versi ammirevole delle azioni del battaglione, ci risparmia di dover ripetere qui molti fatti ed episodi non direttamente pertinenti a quanto ci proponiamo. Ci evita inoltre l'obbligo di presentare nel dettaglio tutto il materiale che, ricostruito con un certo taglio (per quanto erroneo), puo mettere in dubbio la mia interpretazione di quel reparto, materiale che si trova senza difficolt nel libro di Browning. Dissento su aspetti essenziali del quadro delineato da quest'ultimo, su molte sue spiegazioni e interpretazioni di eventi particolari, persino su

alcune dichiarazioni di fatto, e soprattutto sulla sua concezione generale delle azioni degli uomini. Alcuni dei maggiori problemi del libro sono stati enucleati da Daniel Jonah Goldhagen, recensione a Christopher R. Browning, "Ordinary Men" cit., in New Republic, 207,1992, numeri 34, pagine 49-52. Il fatto pi grave che questo libro permeato dalle dichiarazioni infondate e autoassolutorie degli uomini stessi, che dicono di essersi opposti, di aver esitato, di aver rifiutato: dichiarazioni di cui qui ci rifiutiamo di tener conto per motivi metodologici (confronta Appendice 1), mentre Browning pare in genere averle accettate acriticamente, fondando su di esse la sua interpretazione del battaglione. Altri fondamentali problemi interpretativi sono: la costante equiparazione di ci che gli uomini dichiararono nelle testimonianze con i loro effettivi ricordi, e con ci che realmente accadde; l'assenza, o il fraintendimento, delle prove che documentano il volontarismo e il consenso generale per le attivit genocide; una sottovalutazione costante delle facolt mentali dei realizzatori; una inadeguata prospettiva comparata di altri battaglioni di polizia, e pi in generale delle strutture della morte. N. 2. Un riassunto della sua vicenda nella Sentenza contro Hoffmann e altri, in Hoffmann, pagine 8-10. N. 3. Confronta B.P., ibid., pagine 1912-14.I particolari su questo periodo non abbondano: confronta la trattazione dei primi tempi del battaglione in Cristopher R. Browning, "Ordinary Men" cit., pagine 3844. N. 4. Sentenza Hoffmann, in Hoffmann, pagine 24-26; B.P, ibid., pagine 193031; H.K., ibid., p. 2246; nonch Christopher R. Browning, "Ordinary Men" cit., pagine 42-43. Non molto chiaro un episodio di cui sarebbe stato protagonista il tenente Gnade, che avrebbe rifiutato di autorizzare i suoi uomini a prendere parte all'uccisione degli ebrei di uno dei convogli, affrettandosi a rientrare ad Amburgo. Se davvero fu cos, un rifiuto tanto diretto appare interessante, perch a quest'atto di insubordinazione avrebbe assistito un buon numero di uomini del Battaglione 101. Tra l'altro, Gnade sarebbe diventato uno degli assassini pi zelanti, dando prova di estremo accanimento e brutalit nei confronti delle vittime durante la vasta campagna di eccidi del battaglione in Polonia. N. 5.

Sulla dislocazione con compiti di guarnigione di ciascuna compagnia e dei relativi plotoni in Polonia confronta i capi di accusa contro Hoffmann e altri, in Hoffmann, pagine 209-13; per un resoconto pi dettagliato, Vermerk, ibid., pagine 2817-43. N. 6. Sentenza Hoffmann, ibid., pagine 24-25. N. 7. I dati relativi a questa sezione sono stati raccolti come segue. Partendo da diverse fonti si costruito un inventario degli uomini che fecero parte del battaglione durante la sua permanenza genocida in Polonia. La fonte principale data da un ruolo del 20 giugno 1942, con i nomi degli uomini che partirono per la Polonia. A questo si sono aggiunti altri nomi e dati desumibili dai verbali delle due inchieste (Hoffmann e "H.G.") sui crimini del battaglione, oltre alle informazioni contenute nei fascicoli personali in Z.S.t.L. Gli elenchi dei nomi, con luoghi e date di nascita, sono stati poi passati al vaglio dal Centro Documentazione di Berlino per accertare chi fosse stato iscritto al Partito nazista; si tenuto conto anche dei dati ulteriori forniti dalle tessere del partito e dagli eventuali fascicoli personali S.S. N. 8. Con un certo ricambio, pi di 500 uomini prestarono servizio nel battaglione al tempo delle sue attivit genocide: dato di un certo rilievo di cui Browning non parla. Quanti pi di 500, o dei 550 che sono riuscito a verificare, non ci dato di sapere. N. 9. Sappiamo pochissimo sui livelli d'istruzione. In linea di massima nella Germania del tempo occupazione e istruzione coincidevano, perch in genere ogni attivit professionale richiedeva un preciso tipo di preparazione. Come per la maggioranza dei loro contemporanei, probabile che una percentuale minima degli uomini del battaglione avesse studiato all'universit; e ben pochi dovevano aver completato l'"Abitur" (la maturit). Si deve presumere che la stragrande maggioranza avesse frequentato la scuola per otto anni, entrando poi direttamente nel mondo del lavoro come operai generici, o frequentando un programma di addestramento o apprendistato per un mestiere specifico nell'amministrazione o nel lavoro qualificato. N. 10.

Le categorizzazioni qui impiegate ricalcano quelle elaborate da Michael Kater, "The Nazi Party" cit., p. 241, dal quale abbiamo attinto il profilo occupazionale e le cifre generali per la Germania (estate 1933). L'unica differenza che qui le due categorie Artigiani specializzati e Altri operai specializzati sono riunite sotto una voce unica, Operai specializzati. Poich i dati individuali sono spesso approssimativi, sono consapevole di aver preso qualche decisione discutibile nella categorizzazione dei singoli, ma anche modificando queste scelte le differenze non sarebbero significative, perch questo spaccato si propone soprattutto di definire un profilo sociale generale del battaglione. N. 11. Il campione di Browning si riduce a 210 uomini, quelli che furono interrogati delle autorit giudiziarie, il che produce una significativa distorsione delle sue cifre; tanto pi che, non confrontando la struttura occupazionale particolare con quella generale della Germania, la composizione sociale del battaglione da lui proposta risulta errata. E' fuorviante affermare che gli uomini del Battaglione di Polizia 101 provenissero dai ceti inferiori della societ tedesca; pur non riflettendo con precisione la struttura occupazionale della Germania, possono comunque essere considerati uno spaccato sufficientemente rappresentativo della sua popolazione. Browning, inoltre, non dice nulla circa gli appartenenti alle S.S., se non nel caso di ufficiali e sottufficiali (Christopher R. Browning, "Ordinary Men" cit., pagine 45-48 e 199, nota 26). N. 12. Erano poliziotti giovani (l'et media era di ventun anni) in servizio attivo, la cui presenza risulta marginale rispetto alla vita del battaglione. Sappiamo ben poco di loro. N. 13. O.I., per esempio, era stato congedato dalla Wehrmacht perch troppo anziano - era nato nel 1896. Tempo due settimane, e la "Ordnungspolizei" l'aveva gi arruolato nella sua riserva (Hoffmann, pagine 2055-60, 3053-54). Confronta pure la testimonianza di H.Ri., che era stato dichiarato non idoneo al servizio dall'Afrikakorps ("H.G.", pagine 476-78) e H.Re., ibid., pagine 620-29. N. 14. Confronta l'accusa in Hoffmann, pagine 246-48, e H.Re., in "H.G.", pagine 441-50.

G.H. fu richiamato nel maggio del 1942 e trascorse due settimane di addestramento prima di raggiungere il Battaglione di Polizia 101 (ibid., pagine 536-42). N. 15. Uno degli uomini, B.D., fu perseguitato per un certo periodo nel 1933, presumibilmente a causa della sua attivit nel sindacato e nel Partito socialdemocratico. Era iscritto al sindacato dal 1923, e dopo la guerra rinnov l'iscrizione (sentenza Hoffmann, in Hoffmann, pagine 19-20). E.S., invece, era stato dichiarato persona sospetta dalla Gestapo (Centro Documentazione di Berlino). N. 16. Sentenza Hoffmann, ibid., pagine 27-28, nonch pagine 489-507. N. 17. Julius Wohlauf, ibid., p. 1880; H.B., ibid., p. 3355; A.K., ibid., p. 3356. N. 18. F.B., ibid., p. 2091. N. 19. Aggiunge che quella sera fu distribuita la grappa; pi o meno una bottiglia per ogni camerata. In ogni camerata c'erano otto uomini, che bevvero due o tre grappe ciascuno: non abbastanza per ubriacarsi (F.B., ibid., p. 3692). Browning accenna alla questione delle fruste, ma solo per metterne subito in dubbio l'autenticit: Nessun altro, comunque, ricorda le fruste (non dice nulla nemmeno dell'enfatico Ricordo ancora perfettamente... con cui il testimone apre la sua deposizione a proposito di Jzefw). Confronta Christopher R. Browning, "Ordinary Men" cit., p. 56. La questione delle fruste pone in evidenza i fondamentali aspetti interpretativi che differenziano sistematicamente la mia spiegazione dalla sua. La presenza e l'uso delle fruste sono proprio il tipo di dettaglio che gli uomini del battaglione avrebbero preferito non ricordare: l'immagine di un rastrellamento di donne e bambini condotto con la sferza di cuoio in pugno mal si adatta con quella di un'azione commessa con riluttanza o controvoglia, l'immagine di s che essi tentano di proporre, e che Browning disposto ad accettare. Che poi il silenzio di quegli uomini su un tema come la brutalit di cui si erano macchiati venga considerato come un segnale della loro disponibilit a ricordare ci invita a credere che quanto essi raccontano rifletta i fatti reali, e non ci che sceglievano di riferire ad ascoltatori ostili.

Questo problematico taglio interpretativo compare spesso nel libro di Browning quando tocca argomenti che andrebbero a confermare la volontaria brutalit degli uomini del battaglione. Sappiamo che essi avevano le fruste durante una delle deportazioni da Miedzyrzec, e che le usarono senza risparmio - un episodio riferito dallo stesso Browning (p. 108) - e tanto basta a rendere credibile che le avessero usate anche a Jzefw (e probabilmente altrove), cio fin dall'inizio delle loro attivit genocide. N. 20. F.K., in Hoffmann, p. 2482. N. 21. Confronta, per esempio, O.S., ibid., p. 4577. A.Z. riferisce che anche Gnade, parlando alla Seconda Compagnia dopo il rapporto generale di battaglione, offr la medesima giustificazione ("H.G.", p. 275). Ma si tratta di un'evidente falsificazione, poich all'epoca non c'erano attivit partigiane degne di questo nome. Confronta B.P., in Hoffmann, p. 1919; A.S., ibid., pagine 745-50; A.K., ibid., p. 2430. A.K. dichiara che le attivit antipartigiane iniziarono quando il massacro degli ebrei era gi stato quasi portato a termine. N. 22. F.E., in "H.G.", p. 874; confronta inoltre la sua testimonianza in Hoffmann, p. 1356. Molti sono i commenti sull'evidente disagio di Trapp di fronte all'ordine genocida: un testimone ricorda di averlo visto piangere come un bambino al suo posto di comando durante l'eccidio (E.G., in "H.G.", p. 383); un altro riferisce che una volta risparmi, per compassione, una bambina ebrea di dieci anni, gi coperta di sangue (O.S., in Hoffmann, pagine 1954-55). N. 23. Questa giustificazione stata ripetutamente addotta dai realizzatori dell'Olocausto. Dopo la guerra costoro "Einsatzkommandos", membri dei battaglioni di polizia e altri blateravano di continuo queste sciocchezze, pur sapendo che gli eccidi erano iniziati quando la Germania era ancora trionfante, e i bombardamenti erano di l da venire. N. 24. Secondo A.W., Trapp parl anche del boicottaggio delle merci tedesche che gli ebrei avevano tentato di organizzare con scarso successo negli Stati Uniti negli anni Trenta.

La prossima missione una misura di rappresaglia ["Vergeltungsmassnahme"] contro quelle macchinazioni (Hoffmann, pagine 2039-40). Era un'idea assurda, perch ormai gli Stati Uniti, e buona parte del mondo, erano in guerra con la Germania - e anche di questo la colpa ricadeva sugli ebrei. N. 25. Confronta, per esempio, O.S., ibid., p. 4577. N. 26. Ibid., p. 1953; confronta inoltre la sua testimonianza, ibid., p. 4577. Oualcuno dichiara che Trapp chiese prima dei volontari per il plotone d'esecuzione; A.B. sostiene che si presentarono pi volontari del necessario (ibid., p. 440). N. 27. Sull'affetto e il rispetto degli uomini per Trapp, confronta la sentenza Hoffmann, in Hoffmann, p. 28; W.N., ibid, p. 3927; H.H., ibid., p. 318. Quest'ultimo aveva fatto parte del K.d.S. Radzyn Podlaski, e pur non essendo del Battaglione 101 sapeva della reputazione di cui godeva Trapp nel suo reparto. N. 28. O.S., ibid., p. 1953; confronta inoltre la sua testimonianza, ibid., p. 4577. N. 29. A.W., ibid., p. 4592; confronta anche le dichiarazioni, ibid., pagine 204142, 3298, in cui ribadisce che l'offerta di Trapp riguardava l'esonero non soltanto dai plotoni di esecuzione, ma anche da altre operazioni, come il trasferimento degli ebrei dalle loro case alla piazza del mercato. N. 30. Confronta la disamina di Browning sulla testimonianza in "Ordinary Men" cit., p. 194 nota 3 [cap. 1] e p. 200, nota 9. Non capisco perch Browning (Ibid., p. 200, nota 9) sostenga che anche Weber la consider un'offerta per i soli riservisti pi anziani, quando lui stesso dichiara il contrario (A.W., in Hoffmann, p. 4592). N. 31. Una raccolta delle estese testimonianze in proposito sono W.G., in Hoffmann, p. 4362; E.G., ibid., p. 2502; B.G., ibid., p. 2019. N. 32. Sentenza Hoffmann, in Hoffmann, p. 35, e W.G., ibid., p. 2147. N. 33. E.H., ibid., p. 2716; confronta inoltre W.G., ibid., p. 2147, e E.G., ibid., p. 1639.

N. 34. E.G., ibid., p. 1639; confronta anche la sua testimonianza, ibid., p. 2502. N. 35. E.H., ibid., p. 2716. N. 36. B.G., ibid., p. 2019. Confronta inoltre F.B., ibid., p 2091; A.W., ibid., pagine 2041, 2044-45; F.V., ibid., p. 1539; H.J., in "H.G.", p. 415. N. 37. Confronta la discussione di Christopher R. Browning circa le contraddittorie testimonianze sulle fucilazioni di neonati in "Ordinary Men" cit., p. 59. Non vedo alcun motivo per dubitare delle testimonianze secondo le quali gli uomini del battaglione uccidevano i neonati. Il testimone che secondo Browning lo dichiarerebbe in realt molto esplicito: Ricordo di essere entrato in case che gi erano state perquisite parecchie volte, dove trovai dei malati e dei neonati uccisi a fucilate (F.B., in Hoffmann, p. 1579). N. 38. E.H., in Hoffmann, p. 2717.N. 39. Anche H.K. dichiara di aver chiesto ai suoi uomini, prima del rastrellamento iniziale, di fare il possibile per non uccidere gli ebrei sul posto, portandoli invece tutti, i malati sostenuti dai sani, nella piazza del mercato. Dice poi di non essere stato d'accordo sulla fucilazione di certe categorie di vittime, e aggiunge che come per tacito accordo, tutti gli uomini si astennero dallo sparare ai neonati e ai bambini piccoli, e di non aver visto cadaveri di neonati tra quelli che giacevano nelle strade intorno al ghetto (ibid., pagine 2716-17). E' difficile stabilire se fu davvero cos, ma se vero H.K. avrebbe rischiato una ramanzina per non aver eseguito gli ordini, cosa di cui non fa cenno; se vero, probabile che soltanto un'inibizione viscerale contro l'infanticidio, e non il rifiuto di ammazzare gli ebrei in generale, impedisse a quei tedeschi di uccidere i bambini nelle strade. I bambini in questione furono poi comunque fucilati (H.K., ibid, p. 2270). Un altro degli uomini del battaglione dichiara di aver risparmiato una vecchia e un bambino in una casa di Jzefw, che furono comunque uccisi dal sergente che li trov dopo di lui; il sergente lo avrebbe poi rimproverato per questo (H.K., ibid., p. 2270).

Non abbiamo alcun modo di valutare la veridicit di questa deposizione autoassolutoria. N. 40. E.H., ibid., p. 2717. N. 41. Tenente H.B., ibid., pagine 821-22; Capi d'accusa, ibid., pagine 216, 225. Confronta pure la disamina di Christopher R. Browning in "Ordinary Men" cit., p. 201, nota 31. Il distaccamento che li scortava era comandato dal tenente Buchmann, che rifiut di partecipare all'eccidio. A questo proposito, confronta oltre. A.W. r iferisce un episodio indicativo della discrezionalit di cui disponeva Trapp. Prima di dare inizio alle fucilazioni sistematiche, il direttore di una segheria gli present un elenco di 25 ebrei che lavoravano per lui; Trapp lo accontent, consegnandogli gli ebrei, che per il momento avrebbero continuato a lavorare (ibid., p 2042). N. 42. E.H., in "H.G.", p. 956, confronta inoltre le sue dichiarazioni, ibid., p. 507. N. 43. Come Trapp, anche il dottor Schoenfelder sarebbe stato turbato dalla missione omicida. In proposito F.E., ibid, p. 874. Che dei medici, per di pi disgustati dall'iniziativa, si prestassero al massacro genocida non certo sorprendente: nella Germania nazista non esisteva una professione che non fosse stata contaminata. Sulla complicit dei medici, confronta Robert Jay Lifton, "The Nazi Doctor", cit., e Ernst Klee, "Euthanasie im N.S.-Staat" cit. N. 44. Tenente K.D., in Hoffmann, p. 4337. N. 45. E.G., ibid., p. 2504. N. 46. Capi d'accusa, ibid., pagine 281-82. N. 47. Confronta il tenente K.D., ibid, p. 4337, che fu nella Prima Compagnia, per la descrizione delle procedure seguite dal suo plotone; nonch W.G., ibid, pagine 2148-49.

La mia ricostruzione degli aspetti logistici dell'intera operazione di sterminio estremamente sintetica; in proposito, confronta Christopher R. Brouming, "Ordinary Men" cit., pagine 60-69. N. 48. Su questo punto confronta A.Z., in "H.G.", pagine 276-77. N. 49. Tenente K.D., in Hoffmann, p. 4337. N. 50. E.H., ibid, p. 2719. Alcuni degli uomini avevano ricevuto istruzioni su come risolvere il problema degli schizzi di materia organica umana: Se si teneva troppo alto il fucile, volava via l'intera calotta cranica, spandenclo brandelli di cervello e schegge d'ossa in ogni direzione. Allora diedero l'ordine di sparare appoggiando al collo la punta della baionetta. Cos, di regola, non succedeva pi (M.D., ibid, p. 2538). Ma poteva ancora accadere: il raccapriccio era inevitabile. N. 51. A.B., ibid., p. 4348. N 52. Non fucilavamo gli ebrei sempre nello stesso posto; ogni volta si cambiava zona: W.G., ibid, p. 2149. Confronta pure E.H., ibid., p. 2718. N. 53. Sentenza Hoffmann, ibid., pagine 54-55, ed E.H., ibid., p 2720. N. 54. E.G., ibid., p 4344. N. 55. Tenente K.D., ibid, p. 4338. Negli eccidi successivi, i tedeschi lasciarono quasi sempre ai sindaci polacchi l'incombenza di sbarazzarsi dei cadaveri degli ebrei (confronta A.B., ibid., p. 442). Vale la pena osservare inoltre che a Jzefw i polacchi furono autorizzati a saccheggiare il ghetto dopo il rastrellamento (confronta E.H., ibid., p. 2717). Mentre distruggevano quella comunit, i tedeschi non si preoccuparono di accumulare bottino a beneficio del loro "Volk", anche se pare che molti dei carnefici si impossessassero a livello individuale degli oggetti di valore delle loro vittime (confronta A.B., ibid., p. 441).

Il vantaggio economico non era una motivazione, ma un corollario, spesso gradito, del vero motivo per cui si uccidevano gli ebrei; poteva quindi accadere che i tedeschi se ne dimenticassero, o semplicemente che non avessero tempo da dedicarvi, impegnati com'erano in ben altri compiti. Analogamente, non costrinsero gli ebrei a spogliarsi prima di fucilarli, rinunciando cos a impossessarsi dei loro abiti (confronta W.G., ibid., p. 2148). N. 56. R.B., ibid., p. 2534, e F.B., ibid., pagine 2951, 4357. Confronta anche F.V., ibid., p. 1540. N. 57. A.B., ibid., pagine 2518-20, nonch la sua testimonianza a p. 4354. N. 58. E.H., ibid., p. 2720. Pare che Hergert prendesse l'iniziativa di esentare gli uomini troppo provati dalla tensione dell'eccidio. Uno dei suoi riferisce: Io stesso ho preso parte a dieci eccidi, nei quali ho dovuto uccidere uomini e donne. Non riuscivo pi a sparare a nessuno, e il mio caposquadra, Hergert, se ne accorse, perch pi volte avevo sparato troppo alto. Per questo mi rimpiazz. Anche altri camerati finivano per essere rimpiazzati, perch proprio non ce la facevano pi (W.G., ibid., p. 2149). In un'altra deposizione dichiara di aver sparato a sei o otto ebrei in tutto (ibid p. 4362). N. 59. F.B., ibid., pagine 2092-93; W.I., ibid., p. 2237; A.B., ibid., pagine 269192, 4348; B.D., ibid., p. 1876. Si trattava di uomini pi anziani. F.B. racconta che due suoi camerati fecero richiesta di esenzione al comandante di compagnia, Wohlauf, che avrebbe minacciato di farli fucilare; gli stessi due uomini furono poi tra quelli esonerati dal sergente Kammer. Poich F.B. ammette di aver ucciso, e non dice che la minaccia di Wohlauf era rivolta a lui, bens a due altri, il suo racconto ha una certa credibilit. E' per strano: il comandante di compagnia avrebbe minacciato gli uomini che chiedevano di essere esentati (contravvenendo alle disposizioni del comandante di battaglione), mentre un umile sergente, suo sottoposto, poteva concedere a loro e ad altri quella stessa esenzione.

N. 60. E.G., ibid., p. 1640 e la sua testimonianza a p. 2505. N. 61. M.D., ibid., p. 2539, ed E.G., ibid., p. 2505. August Zorn riferisce l'episodio che lo indusse a chiedere di essere esentato. L'ebreo che aveva scelto era molto vecchio, e dunque i due rimasero indietro; quando raggiunsero gli altri, i suoi camerati avevano gi ucciso il loro ebreo. Alla vista dei cadaveri il vecchio si gett a terra, e a quel punto Zorn gli spar. Ma si era innervosito, e mir troppo in alto, colpendo il cranio. Il colpo strapp via la parte posteriore della calotta, esponendo il cervello del mio ebreo. Frammenti della calotta schizzarono in faccia al comandante di plotone, il sergente Steinmetz. Zorn dichiara di aver vomitato, e di aver chiesto al sergente di essere esonerato; per il resto dell'operazione fu messo di guardia agli ebrei ("H.G.", p. 277; confronta inoltre la sua testimonianza in Hoffmann, p. 3367). N. 62. Confronta il tenente H.B., in Hoffmann, pagine 2437-40. Sui particolari del rifiuto di quest'uomo e sulle sue conseguenze ritorneremo tra poco. N. 63. Per una disamina pi estesa dell'argomento, confronta Christopher R. Browning, "Ordinary Men" cit., pagine 64-69. N. 64. Che il capitano Hoffmann fosse meno accomodante cambia ben poco, perch di rado partecipava di persona agli eccidi, dando invece carta bianca ai suoi sottoposti; nelle altre compagnie peraltro, dove vigeva un atteggiamento relativamente permissivo quanto alla partecipazione degli uomini agli eccidi, furono pochi coloro che ne approfittarono. N. 65. H.E., ibid., p. 2167. N. 66. W.G., ibid., p. 4362. Confronta anche J.R., ibid., p. 1809. N. 67. A.S., ibid, p. 747.

N. 68. Christopher R. Browning si sofferma a lungo su questi temi ("Ordinary Men" cit., pagine 69, 71-77), ma dissento, per molti aspetti generali e particolari di cui dir pi avanti, dalla sua analisi delle reazioni degli assassini: per esempio, la vergogna (p. 69) - un'emozione che in casi come questo dipende dalla sensazione di aver commesso una trasgressione morale - che a suo dire essi avrebbero provato non trova alcun riscontro documentario nelle fonti. Disgusto viscerale, s; vergogna, no. La sua spiegazione della generale assenza di ci che tutti vorrebbero poter riscontrare, cio un rifiuto e un disgusto motivati da opposizione etica o di principio, non sostenibile: Dato il livello di istruzione di quei poliziotti della riserva, non si pu pretendere da loro una sofisticata elaborazione di principi astratti (p. 74). Ma non occorre essere un filosofo kantiano per condannare come moralmente abominevole il massacro indiscriminato di civili, uomini, donne e bambini innocui e disarmati. Browning riconosce che difficile stabilire quanti degli uomini assegnati ai plotoni d'esecuzione chiedessero di essere esonerati dall'eccidio, ma la sua stima, tra il 10 e il 20 per cento, non pare suffragata dai documenti. Dice, per esempio, che il sergente Hergert ammise di aver esonerato fino a 5 dei 40-50 uomini della sua squadra (p. 74); in realt il sergente parla di circa 2-5 uomini (E.H., in Hoffmann, p. 2720). Due su 40-50 ben lontano dal 10, per non dire del 20, per cento proposto da Browning. E i motivi per dissentire dalla sua interpretazione del materiale contenuto in queste pagine non sono tutti qui. N. 69. Uno degli assassini, che chiese di essere temporaneamente esonerato dalle fucilazioni, spiega che poich tra le vittime c'erano anche donne e bambini, dopo un po' non riuscii pi a continuare (W.I., in Hoffmann, p. 2237). Il sergente Hergert conferma che il motivo delle richieste di esonero era la scarsa propensione a uccidere donne e bambini (E.H., ibid., p. 2720). Sparare agli ebrei in generale non era invece un problema; un vecchio ebreo era un bersaglio pi che legittimo. Durante il loro primo eccidio, gli uomini ebbero particolare difficolt a superare il tab che impone di proteggere le donne e i bambini; furono comunque ben pochi quelli che alla fine non riuscirono a superarlo. N. 70.

Confronta E.G., ibid., p. 2505; F.K., ibid, p. 2483; G.K., ibid., p. 2634; A.Z., in "H.G.", p. 277; M.D., in Hoffmann, p. 2539; G.M., in "H.G.", pagine 168-69. N. 71. H.K., in "H.G.", p. 363. A suo dire per tutto il tempo dell'esecuzione lui non ebbe nulla da fare. La dichiarazione deve essere considerata anche alla luce di un episodio, del quale possibile lui non fosse al corrente. Nel pieno della notte uno degli uomini, evidentemente agitato per l'eccidio al quale aveva partecipato, spar un colpo sul soffitto della camerata (K.M., in Hoffmann, p. 2546). N. 72. W.G., in Hoffmann, p. 2149. N. 73. Nulla indica che non prendessero parte agli eccidi successivi. Che molti di loro avessero ucciso parecchi ebrei prima di chiedere l'esonero induce inoltre a pensare che il desiderio di evitare quel compito orrendo non fosse dovuto a un'opposizione etica, bens all'incapacit viscerale di continuare: se infatti lo avessero considerato un delitto, data la possibilit (e per molti le ripetute offerte) di evitare di uccidere, difficile capire perch mai non chiesero prima di esserne esonerati. N. 74. F.B., in Hoffmann, p. 1581, e H.B., ibid., pagine 889-90. Due testimoni riferiscono in modo alquanto sommario un episodio che sarebbe avvenuto ad Aleksandrw, un villaggio nei pressi di Jzefw. Dopo aver radunato gli ebrei, Trapp li lasci andare e ritorn con i suoi a Bilgoraj. Confronta F.B., ibid., pagine 1093-94, e K.G., ibid., p. 2194. Christopher R. Browning ne parla in "Ordinary Men" cit., pagine 69-70. N. 75 Sulla presenza di ebrei di Amburgo confronta F.V., ibid., p. 973, ed E.H., ibid., p. 2722.N. 76. Sentenza Hoffmann, ibid., p. 72, nonch A.B., ibid., pagine 2698-99, ed E.H., ibid., p. 2722. N. 77. Per un resoconto generale dell'eccidio, confronta la sentenza Hoffmann, ibid., pagine 72 e seguenti, i capi d'accusa, ibid, pagine 338-79, ed E.H., ibid., pagine 2722-28. N. 78.

In tedesco Hiwi la forma abbreviata di "Hilfswilliger", vale a dire aiutante volontario, e viene usato per definire una disparata gamma di subordinati, adibiti in genere ai lavori pi sporchi. Durante la guerra divenne il termine generico per tutti gli sgherri dei tedeschi provenienti dai paesi dell'Est. Confronta la voce Hilfswillige, in "Encyclopedia of the Holocaust" cit., pagine 65060. N. 79. Christopher R. Browning cita un'unica testimonianza secondo la quale la maggior parte dei neonati e dei bambini piccoli non vennero uccisi durante il rastrellamento ("Ordinary Men" cit., p. 80), ma la cosa non convincente. Bisogna notare che gli altri testimoni non dichiarano di non aver eseguito l'esplicito ordine di Gnade di uccidere tutti gli ebrei il cui trasferimento al luogo di raduno presentasse qualche difficolt; se si fossero astenuti dall'uccidere i meno abili o i pi recalcitranti (e parrebbe fossero molti), sicuramente le testimonianze in proposito sarebbero pi numerose. E.H., per esempio, nella sua dettagliata testimonianza (tra le altre cose, riferisce di aver parlato in quell'occasione con qualche ebreo di lingua tedesca), dice che Gnade ordin ancora una volta di uccidere sul posto i vecchi, i malati e i neonati, poi non fa pi alcuna menzione di quell'ordine, il che significa che esso fu eseguito (Hoffmann, p. 2722). La testimonianza di W.H., l'uomo citato dalla corte nella sentenza (ibid, p. 72), definitiva in proposito: Tutti i malati, gli infermi e i neonati erano gi stati uccisi dal distaccamento della prima ondata ... In quelle 20 case vidi circa 2530 cadaveri. Giacevano all'interno e di fronte alle case (confronta ibid., p. 2211 e i capi d'accusa, p. 359). N. 80. E' a dir poco improbabile che il fotografo avesse creato quel documento come atto d'accusa contro se stesso e gli altri. Nemmeno lui lo dichiara, e dunque pare giustificato concludere che si trattava di una compiaciuta celebrazione delle micidiali imprese dei suoi amici. N. 81. E.H., in Hoffmann, p. 2723, e J.P, ibid., p 2750. N. 82. F.P.,in "H.G.", p. 241. N. 83. J.P., in Hoffmann, pagine 2749-50, ed E.H., ibid., p. 2723. N. 84.

E' difficile credere che si trattasse di una reazione puramente pragmatica alle difficolt incontrate dai tedeschi nel trasferimento al luogo dell'esecuzione del primo gruppo di ebrei (confronta Christopher R. Browning, "Ordinary Men" cit., pagine 80-81). A quanto mi risulta questo fu l'unico caso in cui escogitarono e utilizzarono quel ridicolo espediente (che fra l'altro si rivel del tutto controproducente). N. 85. A.B., in Hoffmann, p. 2700. Una sua lunga dichiarazione pubblicata in Christopher R. Browning, "Ordinary Men" cit., p. 81. Altre informazioni in E.H., in Hoffmann, p. 2723, e in W.Z., ibid., p. 2624. N. 86. Confronta i capi d'accusa, in Hoffmann, pagine 346-47; J.P., ibid, p. 2750; H.B., in "H.G.", p. 98 e A.Z., ibid., p. 282. N. 87. A.Z., in "H.G.", p. 282. N. 88. L'episodio tratto dai capi d'accusa, in Hoffmann, p. 3 7. La testimonianza contenuta nel verbale degli investigatori indica che alcuni uomini si misero a fianco degli ebrei e li costrinsero a fare di corsa l'ultimo tratto fino al luogo dell'eccidio. E' ragionevole pensare che occorressero violenti incoraggiamenti verbali, oltre che fisici, per indurli a correre verso la propria esecuzione, ma le testimonianze non lo dicono. Confronta W.Z., ibid., p. 2625 e G.K., ibid., p. 2638. Ho utilizzato i capi d'accusa perch per ogni altro aspetto si sono rivelati attendibili. N. 89. F.P, in "H.G.", pagine 241-42, nonch la sua testimonianza in Hoffmann, p. 4571. N. 90. F.P, in "H.G.", p. 240, e J.P, in Hoffmann, pagine 2749-50. N. 91. Capi d'accusa, in Hoffmann, pagine 347-48, e E.H., ibid., pagine 2724-26. N. 92. F.P., ibid., p. 4571, e E.H., ibid., p. 2725. N. 93.

L'ufficiale delle S.S. che comandava gli Hiwi grid a Gnade: I tuoi poliziotti di merda ["Scheisspolizisten"] non stanno nemmeno sparando; Gnade ne fu spronato a ordinare ai suoi di riprendere l'eccidio (E.H., ibid., pagine 2725-26). N. 94. Ibid., pagine 2726-27. N. 95. F.P, in "H.G.", p. 242.N. 96. E.H., in Hoffmann, pagine 2722, e i capi d'accusa, ibid., p. 341. N. 97. Assai differente l'analisi di Christopher R. Browning sul significato del massacro di Lomazy: "Ordinary Men" cit., pagine 84-87. N. 98. Con l'eccezione dei pochi che si sarebbero allontanati surrettiziamente dal luogo dell'eccidio, tutti gli uomini della compagnia diedero il loro contributo al massacro: confronta Hoffmann, p. 2727. E' ovvio che i lavativi avrebbero potuto evitare di uccidere con il tacito assenso dei superiori. Browning fa il nome di due uomini che avrebbero evitato di sparare agli ebrei, basandosi per soltanto sulle loro stesse dichiarazioni. Uno afferma cli non aver sparato a un ebreo in fuga; non incorse nelle ire di Gnade solo perch nessuno degli altri lo denunci, e perch l'ufficiale era troppo ubriaco per dar seguito alla cosa. Confronta Christopher R. Browning, "Ordinary Men" cit., p. 86. Ma si tratta di una testimonianza inattendibile (si pu dimostrarlo) e autoassolutoria, come ebbe a osservare per due volte l'interrogatore (P M., in "H.G.", p. 209). L'uso che Browning fa di tale testimonianza discusso qui nel capitolo 8, nota 65. Browning azzarda che il fatto che in questo eccidio non venisse esplicitamente offerta agli uomini la possibilit di farsi esonerare dal massacro rese pi facile l'esecuzione dell'ordine, e contribuisce a spiegare perch quasi nessuno se ne astenesse. Nell'interpretazione di Browning, poich non avevano l'onere della scelta, essi non dovevano fare altro che eseguire gli ordini, senza curarsi dei conflitti che quell'onere aveva creato in loro a Jzefw. Confronta "Ordinary Men" cit., pagine pagine 84-85. Questa ipotesi - che non ha alcuna base documentaria - aggira una spiegazione assai pi ovvia, diretta e probabile della diligenza con cui essi svolsero il lavoro, spiegazione che trova conferma in tutti i loro eccidi

successivi, oltre che nell'intera storia degli altri battaglioni di polizia e degli "Einsatzkommandos". All'epoca del massacro di Lomazy, il trauma del primo eccidio si era dissolto, e con esso era scomparsa l'origine del disagio. Assuefatti ai lati spiacevoli delle missioni genocide facevano tutto il loro dovere, non perch non avessero scelta (formalmente, quanto meno), ma perch non avevano buoni motivi per fare altrimenti. Come a Jzefw, nulla dimostra che quelli contrari all'eccidio, specie per motivi etici, venissero costretti a uccidere. Che a Jzefw fosse stata esplicitamente offerta una possibilit di scelta che a Lomazy non fu annunciata (e comunque non affatto da escludere che quella di Jzefw fosse un'offerta permanente) non ha nulla a che vedere con la repulsione provata da alcuni nel primo eccidio personalizzato, diretto, di uomini, donne e bambini disarmati, n poi, con Lomazy, con la loro assuefazione a quel compito - un compito al quale, come indica l'assenza di enunciati etici nelle loro stesse testimonianze, essi non si opponevano per principio. Possiamo davvero credere che se Gnade avesse offerto loro la possibilit di tenersene fuori sarebbero stati in molti a farsi esonerare dall'operazione di Lomazy, e che chi non l'avesse fatto avrebbe reagito a questo massacro in modo analogo a quello di Jzefw, cio con un senso di repulsione? Non dobbiamo dimenticare che, a dispetto delle cifre di Browning, non furono in molti ad avvalersi nemmeno dell'offerta di Trapp a Jzefw. N. 99. A.B., in Hoffmann p. 4448. N. 100. Tutte le fotografie del Battaglione di Polizia 101 di cui parliamo senza mostrarle non si sono potute pubblicare a causa della particolare interpretazione di un funzionario locale delle leggi della Repubblica federale di Germania che tutelano il diritto alla riservatezza. Queste immagini, e altre, altrettanto significative, sono raccolte nel dossier fotografico dell'indagine Hoffmann. N. 101. Per molti eccidi non possibile stabilire con certezza il numero degli ebrei uccisi o deportati dai tedeschi. Nel costruire queste tabelle ho deciso di presentare le stime minimali corrispondenti a quelle nelle tavole 1 e 2 di Christopher R. Browning ("Ordinary Men" cit., Appendice). Un'eccezione data dal numero degli uccisi nelle cacce all'ebreo, calcolato in 1000 da Browning.

La mia impressione, tuttavia, che quel numero debba essere ritoccato in alto, anche se difficile esserne certi. N. 102. Nel solo corso del rastrellamento ne massacrarono quasi 1000. N. 103. A.B., in Hoffmann, pagine 442-43. N. 104. Ibid., p 443. N. 105. Gli uomini del Battaglione di Polizia 101 seppero dello "Schiessbefehl" dai rispettivi comandanti di compagnia. Confronta i capi d'accusa, ibid., pagine 272-73; F.B., ibid., p. 2103; A.Z., in "H.G.", pagine 274-75. N. 106. A K., in Hoffmann, p. 1183. N. 107. E.N., ibid., p. 1693, e B.P., ibid., p. 1917. Risulta evidente dalla semplice lettura delle testimonianze dei realizzatori. Un elenco delle testimonianze in merito alle missioni di ricerca ed eliminazione in Christopher R. Browning, "Ordinary Men" cit., p. 211, nota 20. N. 108. A.B., in Hoffmann, p. 2708 N. 109. M.D., ibid., p. 3321. N. 110. B.P., ibid., p. 1917. N. 111. F.B., ibid., p. 404, e B.D., ibid., p. 2535. N. 112. H.B., ibid., p. 3066. N. 113. Ibid., p. 3215. Stando a questa deposizione, B. era alquanto crudele, sia con gli ebrei sia con i polacchi, e gli piaceva sfoggiare le insegne S.S. sull'uniforme: Se appena era possibile, cercava di ingannarli (ibid., p. 3066). N. 114. E.N., ibid., p. 1695. Aggiunge di ricordare che affidarono a dei polacchi il compito di radere al suolo ("eineben") le gallerie, seppellendo le vittime.

Secondo i suoi calcoli in quell'occasione furono cos distrutte da dieci a dodici gallerie, uccidendo da 50 a 100 ebrei. N. 115. Ibid., p. 1693. N. 116. Alcune delle testimonianze rese da molti uomini su questo punto sono in ibid., pagine 2532-47. Si esaminer in dettaglio questo argomento nel capitolo 8. Sentenza ibid., pagine 143-44. N. 118. P.H., della Prima Compagnia, riferisce: Io stesso ricordo diversi rastrellamenti nei boschi ["Walddurchkmmungen"] condotti dalla compagnia nel corso dei quali ci dedicammo alla caccia all'ebreo ["Judenjagd"]. Anche noi la chiamavamo cos (ibid., p. 1653). Confronta anche la testimonianza di C.A., che le definisce operazioni di caccia all'ebreo ["Judenjagdeinstze"] (ibid., p. 3544); apparteneva alla Seconda Compagnia. F.S. ("H.G.", p. 306) e G.M. (ibid., p. 169), anch'essi della Seconda Compagnia, fanno riferimento a quel termine. Ovviamente l'immagine della caccia ben diversa da quella del soldato che si prepara a un scontro: caccia pu riferirsi soltanto agli animali o ai fuorilegge, o a entrambi. I tedeschi dicono spesso che gli ebrei erano stati messi fuori legge, ("vogelfrei"). N. 119. A.B., ibid., p. 442. Lo dichiara mentre descrive i ripetuti eccidi perpetrati dal suo plotone nelle cittadine, nei villaggi e nelle tenute della regione di Parczew, nel corso dei quali i suoi camerati uccidevano dai 10 ai 40 ebrei per volta, direttamente nelle loro case o portandoli nei dintorni dell'abitato. N. 120. W H., ibid., p. 3566.

Capitolo 8 IL BATTAGLIONE DI POLIZIA 101: GLI UOMINI E LE LORO MOTIVAZIONI

Come fare per capire i tedeschi del Battaglione di Polizia 101, rei non soltanto di stragi e deportazioni, ma anche del modo in cui le eseguirono? E' evidente che le loro azioni non sono compatibili con alcuna forma di disapprovazione, anche solo di principio, del massacro genocida degli ebrei. A volte accade che le azioni stesse esprimano, per quanto approssimativamente, la relativa motivazione; ma il modo in cui i realizzatori concepivano le proprie azioni e motivazioni diventer ancora pi chiaro se si studieranno a fondo alcuni problemi specifici, e la vita che quegli uomini conducevano in Polonia. E' istruttivo un rapido confronto con un altro gruppo nazionale i cui membri vennero massacrati dal Battaglione 101. Oltre all'importante ruolo che rivestivano nello sterminio degli ebrei polacchi, gli uomini del battaglione dovevano infatti provvedere a pacificare la regione loro assegnata, e dunque a volte massacravano anche dei polacchi. Nel paese erano attivi i partigiani che, sebbene all'epoca si dimostrassero assai meno pericolosi di quanto alcuni ritengano, infliggevano perdite alle truppe, e quindi anche al Battaglione 101, e danni agli impianti tedeschi. In Polonia, come altrove, i tedeschi applicavano procedure d'occupazione draconiane e le loro perdite venivano moltiplicate per cinquanta o per cento quando si trattava di farne pagare il prezzo a civili polacchi innocenti. Il 25 settembre 1942 a Talcyn, durante un'operazione per la cattura di due partigiani, un distaccamento della Terza Compagnia sub un'imboscata. Uno dei tedeschi, un sergente, rimase ucciso. Pur essendosi il battaglione gi reso complice dell'eccidio di quasi 20 mila ebrei, probabile che questo fosse il suo primo caduto nei tre mesi appena trascorsi in Polonia, il che forse contribuisce a spiegare la selvaggia violenza della reazione. Il maggiore Trapp present un rapporto di oltre due pagine e mezzo a interlinea singola, riferendo molto dettagliatamente gli eventi prima, durante e dopo l'imboscata: tutto per la morte di un singolo sergente in un territorio occupato e ostile. Ci che pi conta, comunque, che i tedeschi esigevano vendetta per quello che Trapp definisce - in un'involontaria dimostrazione di compassione selettiva, e senza alcuna traccia di autocritica - un vile assassinio ("feige Mordtat"). Quattro plotoni, comandati da Trapp in persona, passarono subito al setaccio la zona intorno a Talcyn alla ricerca di partigiani, ma senza successo.

Avevano l'ordine di uccidere, in rappresaglia per la morte del tedesco, 200 persone, e dunque radunarono i 300 abitanti polacchi del villaggio, ne scelsero 78 soltanto (tra i quali forse donne e bambini) e li fucilarono accanto al cimitero (1). Quale fu l'atteggiamento di Trapp di fronte all'uccisione dei polacchi? Uno dei suoi uomini ne rest colpito: Ricordo ancora molto bene che il nostro comandante di battaglione rimase scosso da questa azione. Pianse, persino. Era quello che si dice una gran brava persona, e ritengo impossibile che sia stato lui a ordinare la fucilazione degli ostaggi (2). Trapp - che anni dopo, nonostante avesse guidato i suoi uomini in tante stragi, veniva ancora definito una gran brava persona - non volle far pagare l'intero prezzo di 200 morti al villaggio in cui era stato ucciso il suo soldato, villaggio che lui stesso riferiva essere noto da tempo come un covo di complici [dei fuorilegge] (3). Gli uomini del battaglione fecero invece un viaggio di una decina di chilometri per mettere le mani sugli ebrei del ghetto di Kock: ne massacrarono 180 come ulteriore misura di rappresaglia (4), ma il testimone non riferisce se Trapp fu turbato o sconvolto da questo eccidio. L'episodio consente di contrapporre l'atteggiamento dei tedeschi verso gli ebrei a quello verso i polacchi. Anche questi ultimi furono massacrati, certo, secondo una logica punitiva militare che, per quanto normale per le truppe di occupazione tedesche, era criminale per chi la subiva. Ma ne furono risparmiati 122, che in base agli ordini sarebbero dovuti essere fucilati. Il maggiore Trapp, che negli ultimi due mesi e mezzo aveva guidato i suoi uomini in operazioni che erano costate la vita a circa 20 mila ebrei, rimase scosso dall'uccisione di meno di 100 polacchi! Pianse, persino. E non fu solo lui a commuoversi per quell'eccidio: alcuni suoi uomini avrebbero poi espresso il desiderio di non ricevere pi incarichi di quel genere (5). Trapp, oltre tutto, con un atto di sollecitudine che non manifest mai verso le vittime ebree, mand uno dei suoi a calmare le donne, rinchiuse in un'aula scolastica, mentre i mariti venivano fucilati (6). Quel giorno inoltre i tedeschi agirono come se fossero guidati da qualche tacita norma del nazismo, secondo la quale nessuna popolazione poteva subire un eccidio senza che cadessero con loro anche tutti gli ebrei a portata di mano: in questo caso, in un rapporto di pi di due a uno con i polacchi.

Gli uomini del battaglione si spinsero fino a una citt che non era vicina al luogo dell'imboscata, dove placarono la loro sete di sangue ebreo ammazzando un numero di persone molto superiore alla quota prestabilita. Trapp, commosso fino alle lacrime per l'uccisione dei polacchi, pass poi "di propria iniziativa" a uccidere gli ebrei, che non avevano alcun rapporto con il delitto se non nella mente nazificata dei tedeschi, secondo la quale gli ebrei erano nemici metafisici (7). Dopo quella rappresaglia, il Battaglione 101, a seguito dell'uccisione di un funzionario del Partito nazista avvenuta a Biala Podlaska, prese parte a un altro massacro di polacchi. All'operazione partecip insieme con reparti della Wehrmacht e di ausiliari delle S.S. dell'Europa orientale. Trapp fece il possibile per tenere i suoi lontani dalla mischia, riuscendo a destinarli al rastrellamento dei boschi e lasciando agli Hiwi le esecuzioni e i roghi dei villaggi (8).A fronte dell'evidente riluttanza manifestata dal Battaglione 101 negli eccidi relativamente minori legati alle rappresaglie, lo zelo con cui si dedicava al massacro degli ebrei risalta per contrasto. Uccidere i polacchi era una spiacevole necessit; se si trattava invece di ebrei, cadeva ogni inibizione. Il piacere di uccidere gli ebrei non comunque l'unico elemento caratterizzante: anche la disponibilit a mostrarsi agli altri, compresi i propri cari, come assassini genocidi rivela in quale misura essi approvassero quelle azioni. Almeno due ufficiali, il tenente Paul Brand e il capitano Wohlauf, comandante della Prima Compagnia, avevano portato con s le mogli. Wohlauf era rientrato ad Amburgo poco dopo l'arrivo del battaglione in Polonia, per celebrare, il 29 giugno 1942, il proprio matrimonio. Poi ritorn al reparto; la moglie, trattenutasi ad Amburgo, raggiunse lui e il battaglione poco dopo la strage di Jzefw, e rimase con loro per parecchie settimane e parecchi eccidi, presenziando a uno, se non a due, dei maggiori (9). Il 25 agosto la moglie di Wohlauf assistette alla giornata di massacri compiuti dall'intero battaglione a Miedzyrzec. Il rastrellamento, durante il quale gli ebrei furono cacciati dalle case verso la piazza del mercato, fu forse il pi brutale e selvaggio tra quelli effettuati dal Battaglione 101: gi per le strade furono disseminate centinaia di cadaveri. Le scene nella piazza del mercato furono spaventose: fra l'altro, i tedeschi costrinsero gli ebrei a rimanere accovacciati per ore sotto il sole cocente molti svennero - sparando a chiunque si alzasse in piedi.

La piazza non tard a riempirsi di cadaveri (10), e tra questi com' ovvio vi furono molti bambini, per i quali era particolarmente difficile rimanere immobili per ore in una posizione tanto scomoda. Gli Hiwi e alcuni elementi della "Gendarmerie" tedesca di Miedzyrzec colsero inoltre l'occasione per sfogare il proprio sadismo, divertendosi a flagellare gli ebrei con la frusta (11). A tutto questo non fu presente soltanto Frau Wohlauf, ma anche le mogli di alcuni tedeschi di stanza nel luogo, e un gruppo di infermiere tedesche della Croce Rossa (12). Com'era sua abitudine, Frau Wohlauf probabilmente aveva con s quel simbolo di predominio che il frustino da equitazione (13). Quel giorno lei e le altre donne tedesche ebbero modo di vedere di persona i mariti impegnati a purgare il mondo dalla presunta minaccia ebraica, uccidendo circa 100 persone e deportandone altre 10 mila verso la morte. Questa fu la luna di miele di Frau Wohlauf, che era gi incinta. Se Wohlauf e i colleghi ufficiali non si preoccupavano che il loro lavoro venisse osservato dalla giovane signora, dalle altre donne e persino dalle infermiere della Croce Rossa, molti uomini del battaglione ritenevano invece che la presenza di Frau Wohlauf fosse quanto meno inopportuna. Cos reag uno dei testimoni: "Il giorno dell'azione vidi con i miei occhi Frau Wohlauf, in abiti da passeggio, sulla piazza di Miedzyrzec. E non una volta soltanto, ma parecchie e per parecchio tempo. Anch'io rimasi esterrefatto dal comportamento del comandante di compagnia e della sua sposa, ed ero tanto pi indignato perch il comandante di compagnia sapeva che cosa sarebbe accaduto ben prima che cominciasse l'azione" (14). Un altro parla pi genericamente della reazione del battaglione: E inoltre i camerati mi riferirono con rabbia che la moglie del nostro comandante di compagnia aveva assistito all'evacuazione, pur essendo incinta (15). In queste obiezioni non c' alcuna vergogna per ci che facevano, alcun desiderio di nascondere agli altri l'apporto di ciascuno alle stragi e alle torture, ma piuttosto l'impressione che la presenza di Frau Wohlauf violasse le norme di cavalleria e di decoro, tanto pi che l'evacuazione di questo ghetto fu anche per i loro criteri particolarmente brutale e raccapricciante (16). Erano cose che soprattutto questa donna non doveva vedere, come dimostra il fatto che nessuno aveva da obiettare sulla presenza delle altre,

compresa la moglie del tenente Brand, anch'essa a quanto pare per qualche momento testimone delle loro azioni. Pu darsi fossero convinti che le donne in genere non dovessero essere esposte a quel genere di orrori, ma fu quella donna in particolare a provocare il malcontento: poich era incinta, gli uomini si sentivano a disagio per i rischi ai quali esponeva la sua sensibilit e la sua persona. Vivendo con il battaglione, Frau Wohlauf era gi al corrente delle loro imprese genocide; lo spettacolo di Miedzyrzec non le insegnava nulla che non sapesse, tranne forse i dettagli di quel tipo di operazione. Era la sua condizione, la preoccupazione per il suo benessere a causare tanta agitazione nella truppa, come riferisce la moglie del tenente Brand: Ricordo perfettamente che poco tempo dopo il maggiore Trapp denunci in pubblico l'incidente, dichiarando, mi pare, che considerava scandaloso che una donna in gravidanza assistesse a quelle cose. Trapp volle informare le donne della sua disapprovazione di fronte a molti uomini del battaglione. Spiega Frau Brand: Per denuncia pubblica intendo che il maggiore Trapp fece queste dichiarazioni di fronte a un folto gruppo di ufficiali e sottufficiali, e alla presenza di parecchie mogli l in visita ai mariti, tra le quali c'ero anch'io (17). Gli uomini non avevano nulla da eccepire sul fatto che Frau Wohlauf, Frau Brand e altre donne vivessero con loro in Polonia, perfettamente informate sui massacri genocidi di ebrei che, per citare due testimoni, erano il pane quotidiano del battaglione (18). Trapp si trovava abbastanza a suo agio in quella situazione da poterne discutere apertamente con le donne di fronte ai suoi. Voleva soltanto mettere in chiaro che da allora in poi sarebbe stato considerato sconveniente esporre le donne, e soprattutto Frau Wohlauf, a quelle scene. Dopo tutto, si trattava abitualmente di operazioni violente e raccapriccianti. Come il Battaglione di Polizia 101, tutti quei responsabili delle persecuzioni che operavano in Polonia e altrove non cercavano affatto di nascondere le loro azioni a coloro che non rientravano nella cerchia della coorte genocida, compresi le donne e i familiari. Ovunque in Polonia c'erano donne tedesche - mogli e ragazze dei realizzatori, e segretarie, infermiere, impiegate di grandi aziende, attrici; dunque anch'esse sapevano del genocidio, visto che lo sterminio degli ebrei polacchi, cio del 10 per cento circa della popolazione del paese, era di pubblico dominio.

Gli stessi rapporti della "Sicherheitspolizei" sugli umori della gente nel distretto di Lublino contengono continue indicazioni della diffusione tra i tedeschi e i polacchi delle notizie sullo sterminio degli ebrei. Stando a uno di questi rapporti, della sorte degli ebrei si discuteva in tutti gli uffici tedeschi, anche alle poste e sui treni. Che gli ebrei venissero gasati, diceva, era un segreto noto a tutti (19). Un altro tedesco allora di stanza a Lublino riconosce con una frase memorabile quanto si discutesse ampiamente ed esplicitamente sul massacro sistematico degli ebrei: Lo cantavano le rondini dai tetti (20). La moglie del tenente Brand, riferendo l'episodio di un tedesco troppo sfacciato nella sua sete di sangue ebraico, indica anche che di quell'argomento si parlava nel modo pi libero e scoperto: "Una mattina, mentre sedevo con mio marito a colazione nel giardino del suo alloggio, si present un poliziotto del plotone, che scatt sull'attenti e dichiar: Tenente, non ho ancora fatto colazione. Mio marito gli lanci uno sguardo interrogativo, e lui continu: Non ho ancora fatto fuori un ebreo. Mi parve una cosa tanto cinica che rimproverai quell'uomo con parole dure, chiamandolo anche, mi pare, straccione ['Lumpen']. Mio marito lo mand via, poi rimprover me, spiegando che con quel tipo di uscite andavo in cerca di guai" (21). Per i realizzatori in genere, e quelli del Battaglione 101 in particolare, era bene che le donne conoscessero le loro operazioni genocide. Altrimenti non avrebbero consentito che tante donne fossero presenti, sia pure solo come testimoni, alla brutale persecuzione e all'assassinio degli ebrei. Alcuni per ritenevano sconveniente esporle direttamente al raccapriccio, all'orrore visivo, della campagna di sterminio. Come i soldati di tante altre epoche, che si sarebbero indignati se fosse stato consentito alle donne di affiancarli in battaglia, gli uomini del Battaglione 101 consideravano il genocidio un lavoro da uomini, o quanto meno non da donne incinte. Come i soldati, potevano protestare per la presenza delle donne senza per questo vergognarsi delle proprie azioni di guerrieri al servizio della nazione. Il fatto che i tedeschi non tentassero in alcun modo di nascondere il genocidio - lasciandolo scoperto alla vista di tanti altri loro compatrioti di stanza per caso in Polonia - l'ennesima riprova di come ovviamente i realizzatori approvassero quelle storiche imprese.

E nulla tradisce la falsit delle loro scontate dichiarazioni, dopo la guerra, di non aver mai approvato gli eccidi, di non esserne mai andati fieri, pi delle fotografie scattate dai tedeschi del Battaglione 101 in ricordo della permanenza in Polonia, delle quali non sappiamo quale percentuale sia ritornata alla luce. Il desiderio di conservare una vasta documentazione fotografica delle loro gesta, compresi gli eccidi, presentandosi come gente allegra e fiera di s, del tutto a proprio agio nell'ambiente, nel mestiere e nelle scene immortalate, dimostra irrefutabilmente che essi non ritenevano di commettere un delitto, per non dire uno dei peggiori crimini del secolo. La fotografia n. 19 del nostro inserto fuori testo mostra a noi, e celebra per i tedeschi, il totale disprezzo per la dignit degli ebrei, o meglio il rifiuto di riconoscere loro alcuna dignit. E' un esempio di come i tedeschi potessero usare gli ebrei, socialmente morti, come trastulli per la propria soddisfazione personale (22). Come dice il luogo comune, un'immagine comunica spesso pi di tante parole. Ma poche parole possono potenziare la forza evocativa di una scena immortalata quanto quelle scarabocchiate da questo borioso tedesco sul retro della fotografia: Deve lavorare, ma si deve prima rasare ("Arbeiten soll er, aber Rasirt [sic] muss er sein"). Costui non si limitava a prender nota dell'evento; faceva anche un commento ironico (23). Per i tedeschi dell'epoca il taglio della barba come umiliazione per gli ebrei era una pratica comune. L'immagine ha dunque una doppia valenza simbolica. Rappresenta il dominio assoluto che il tedesco fotografato esercitava sull'ebreo; questi, un uomo maturo, non poteva far altro che rimanere immobile mentre un altro gli usurpava la padronanza del suo corpo tagliandogli la barba, simbolo della virilit. La dissacrazione personale avveniva per di pi di fronte alla macchina fotografica, cos che la vergogna della vittima sarebbe rimasta esposta a tutti per anni a venire. Bastava quel gesto per comunicare senza possibilit di equivoci - al tedesco, all'ebreo, a chiunque lo vedesse, allora o in futuro - il potere virtualmente illimitato del tosatore sulla sua vittima. Il gesto, e il divertimento che gli altri ne traggono, denuncia la forma mentale dei padroni nel rapporto con i socialmente morti, soprattutto nei momenti in cui impongono loro un marchio fisico che li segnala come privi di onore (24).

Quale modo migliore per mostrare ai figli e ai nipoti le proprie eroiche gesta nella guerra per la sopravvivenza del "Volk" tedesco? La seconda valenza simbolica data dalla scelta, tutt'altro che casuale, della barba. Come Gnade, che aveva selezionato dei vecchi ebrei barbuti per il pestaggio durante l'eccidio di Lomazy, come gli uomini del Battaglione 309 che a Bialystok avevano dato fuoco alle barbe degli ebrei, come tanti altri tedeschi, che cos spesso strapparono loro la barba durante l'Olocausto, quest'uomo documentava il momento in cui anche lui aveva privato un ebreo di quell'attributo lussureggiante che i tedeschi identificavano con l'ebraismo. Le fotografie scattate dai tedeschi del Battaglione 101 a ricordo del lavoro svolto in Polonia non erano istantanee private, scattate furtivamente e tenute ben nascoste, ma venivano distribuite liberamente ai camerati. L'atteggiamento positivo con cui il battaglione affrontava il proprio compito assumeva un carattere quasi celebrativo, festoso, nell'esposizione pubblica e nello scambio delle fotografie. Desidero dire qualcosa su quelle fotografie. Venivano affisse a una parete, e chiunque poteva ordinare copie di quelle che preferiva. Anch'io ne ordinai qualcuna, pur non avendo partecipato a tutte le occasioni immortalate nelle fotografie. Se non ricordo male, le foto erano state scattate tutte da un dipendente dell'amministrazione (25). Era come se dicessero: Ecco il grande evento. Chiunque voglia conservare delle immagini di quelle gesta eroiche pu ordinarne una copia. Fa pensare ai viaggiatori che acquistano cartoline o chiedono all'amico copie delle istantanee che colgono i pi bei panorami di una vacanza memorabile. Le fotografie forniscono due tipi di informazioni. Non si tratta soltanto del desiderio di ciascuno di arricchire il proprio album con immagini delle operazioni genocide; sono rivelatrici anche le immagini in s. Le fotografie scattate a Lomazy e altrove ci inducono di nuovo a contestare l'opinione prevalente, secondo la quale quei tedeschi sarebbero stati gli assassini (spaventati, coatti, recalcitranti, contrariati o inorriditi) di persone che loro stessi consideravano innocenti. Le foto, invece, presentano uomini dall'aria tranquilla e felice, o in pose fiere o ridanciane, mentre procedono nelle operazioni contro gli ebrei.

Guardando tali immagini, difficile credere che considerassero gli eccidi come un delitto. Ma per quanto eloquenti, quelle descritte e riprodotte finora sembrano quasi mute a confronto con altre due fotografie. La prima fu scattata a Radzyn, probabilmente in un momento compreso tra la fine di agosto e l'ottobre del 1942, periodo in cui il battaglione esegu parecchi eccidi e brutali deportazioni in massa. Immortala un gruppo di ufficiali dello stato maggiore del battaglione e della Prima Compagnia, seduti a un lungo tavolo all'aperto con le mogli di due di loro, Frau Brand e Frau Wohlauf. Stanno bevendo, in un'allegra atmosfera conviviale; dal gran sorriso di Frau Wohlauf si capisce che si sta divertendo un mondo. La seconda fotografia, ripresa a Czemierniki nella seconda met del 1942, davvero gioiosa: pi di quindici uomini del plotone del tenente Oscar Peters, Terza Compagnia, colti nel pieno di un festeggiamento. Questi tedeschi tengono in mano il bicchiere, fanno larghi sorrisi, pare stiano cantando accompagnati da un violino. Sulla parete alle loro spalle affissa una strofetta scritta a mano, evidentemente appena composta. "Parola d'ordine per oggi: Comincia ora la galoppata E tutto a posto". ("Parole fr Heute / Jetzt gehts los im Trapp / Und alles fhlt sich Wohlauf".) Quegli uomini descrivevano il clima generale con giochi di parole sui nomi dei loro capi (Trapp significa cavalcata, e Wohlauf in buona salute, a posto). Quei tedeschi celebravano, non maledicevano, i nomi di chi li mandava ogni giorno ad ammazzare gli ebrei. Quegli uomini - la cui vita era allora dedicata agli eccidi, e che oltre ai massacri compiuti con la compagnia o il battaglione intraprendevano in quel periodo continue missioni di ricerca ed eliminazione nella zona di loro competenza - si sentivano in gran forma (26). Nei luoghi di riunione dei realizzatori non c'erano soltanto fotografie, ma si tenevano anche conversazioni continue sul massacro. Gli uomini del Battaglione 101 rivelano poco di quanto si dicevano tra loro in privato su quelle azioni. Qualche indicazione in proposito possono fornire i colleghi del Reggimento di Polizia 25, impegnati nella stessa missione e usi a ricorrere a identici metodi di massacro.

Gli ufficiali parlavano spesso, con approvazione, del genocidio: So che al circolo ufficiali il comandante di compagnia e gli altri ufficiali del Reggimento di Polizia 25, allora di stanza a Lublino, parlavano degli eccidi che erano stati eseguiti ... i pi giovani ne parlavano continuamente. Si consideravano in guerra con la Polonia, e per loro quelle erano gesta di eroismo (27). Erano a tal punto prigionieri delle fantasie antisemite da ritenere che la popolazione ebraica della regione di Lublino, palesemente inerte e inerme, immiserita, prostrata e pronta a piegarsi a qualsiasi desiderio dei tedeschi, fosse in guerra con la Germania; massacrando gli ebrei i guerrieri della "Weltanschauung" erano convinti di compiere atti di eroismo. La testimonianza non si riferisce specificamente agli uomini del Battaglione 101, ma a tutti gli ufficiali del reggimento al quale esso, assieme al Battaglione 65, apparteneva. Basta comunque per farci cogliere il clima di approvazione che regnava in questo reggimento e nei suoi battaglioni. A quanto disse quest'uomo, che era stato comandante della "Ordnungspolizei" a Lublino dal luglio 1940 al luglio 1944, gli ufficiali discutevano sempre delle fucilazioni, e ne andavano anche piuttosto fieri (28). E' indubbio che gli uomini del Battaglione 101 discutessero tra loro degli eccidi. Lo scrivano della Prima Compagnia racconta per esempio che al ritorno dalle operazioni correvano tutti a raccontargli i particolari della dura giornata di lavoro (29). Molti hanno deposto di aver protestato a gran voce con i camerati per la presenza di Frau Wohlauf all'eccidio di Miedzyrzec, episodio che d un esempio a un tempo di quelle discussioni, dei giudizi morali che si esprimevano e delle vivaci critiche rivolte al comportamento dei superiori (30). Nelle testimonianze rese dopo la guerra, gli uomini non dichiarano esplicitamente di aver approvato il genocidio e le crudelt che lo accompagnarono (non sorprende, considerando che una dichiarazione di quel genere avrebbe avuto serie conseguenze legali), ma nulla, in migliaia di pagine, induce a concludere che lo disapprovassero per principio. Anzi, quanto riferiscono delle loro conversazioni sul campo induce a credere il contrario, cio che in linea di principio essi approvassero il genocidio e le azioni che avevano compiuto (31). Uno di loro, per esempio, racconta di un pasto in allegria dopo un eccidio:

"A pranzo certi camerati fecero dello spirito ['machten lustig'] sulle loro esperienze durante l'operazione. Dai loro racconti riuscii a capire che si era trattato di una fucilazione. Ricordo quindi come un esempio di particolare grossolanit l'uscita di uno di loro, che disse che stavamo mangiando cervella di ebreo. Mi disgust tanto che lo ripresi, e lui smise subito. Smisero anche gli altri camerati che avevano riso di questa battuta per me troppo macabra" (32). La testimonianza di un ex membro della Seconda Compagnia conferma che gli uomini discutevano quotidianamente degli omicidi e delle brutalit commesse: "Di sera, negli alloggiamenti, si sentivano spesso storie sugli spaventosi abusi commessi ai danni degli ebrei, nei quali pareva si distinguesse in modo particolare la Prima Compagnia. In quella compagnia c'era il grosso Raeder, soprannominato Picchiatore ['Schlger'], che trattava ebrei e polacchi con grande brutalit" (33). Si tratta ovviamente di stabilire con quale spirito e con quali emozioni sia i narratori sia gli ascoltatori accogliessero questi racconti. Le testimonianze inducono a ritenere che quelle riunioni pubbliche fossero occasioni per scambiarsi aneddoti divertenti, in un clima di generale approvazione. La Prima Compagnia era nota per la sua crudelt, ma qui si dice solo che si distingueva in un'attivit praticata da tutti. Ci significa che anche qualcuno dei colpevoli di eccessi nella Seconda Compagnia stava l a condividere le proprie imprese con gli altri. Dobbiamo inoltre presumere che fossero stati quelli della Seconda Compagnia a compiere buona parte delle azioni di cui parlavano, perch di norma le tre compagnie erano di stanza in luoghi diversi e ognuna, quanto ad argomenti di conversazione, doveva contare sulle proprie risorse. E' ovvio che molti di quegli uomini commettevano atti di brutalit e le discussioni serali non fossero state improntate all'approvazione generale, se qualcuno avesse davvero risposto a quei racconti dichiarando la propria contrariet di principio alla brutalizzazione e all'assassinio degli ebrei, non avrebbe certo mancato di riferirlo dopo la guerra. Il loro silenzio a questo proposito rivelatore, quasi un'autoaccusa (34). Che cosa dicono, gli uomini del Battaglione 101, del loro atteggiamento verso il massacro genocida? Il tenente Buchmann, quello che rifiutava di prender parte alle esecuzioni, spiega che cosa lo indusse a tirarsi indietro, diversamente da quanto fecero i suoi colleghi:

"Ero un po' pi anziano di loro, e per di pi ero ufficiale della riserva. Non mi interessavano promozioni n avanzamenti di alcun genere, perch a casa gli affari andavano bene. I comandanti di compagnia invece, Wohlauf e Hoffmann, erano giovani in servizio attivo che aspiravano a diventare qualcuno. Grazie alla mia esperienza negli affari, che mi aveva portato anche all'estero, capivo meglio come andassero le cose. E inoltre, sempre per affari, avevo conosciuto molti ebrei" (35). Accennando al carrierismo degli altri ufficiali, il tenente, nel breve resoconto delle ragioni per cui guardava agli eccidi con occhi diversi dagli altri, tradisce inconsapevolmente - nonostante la sua sentita e dichiarata intenzione di non incriminare nessuno (36) - la motivazione delle loro azioni e la differenza fondamentale che li distingueva da lui. Capire meglio come andassero le cose significava, nel suo caso, riconoscere la delittuosit di quelle azioni. Questa opinione, che implicitamente egli ammette essere eccezionale per l'epoca, era basata sulle sue esperienze all'estero e sui suoi rapporti con gli ebrei: in poche parole, il tenente vedeva gli ebrei in modo diverso. In questo confronto con i colleghi, egli implicitamente fa capire che i colleghi erano invece votati all'antisemitismo imperante, base e origine della politica di sterminio totale. Che il tenente riguardo all'eccidio avesse un'idea radicalmente diversa viene confermato da altri membri del battaglione. Il riservista impiegato come scrivano nella Prima Compagnia lo descrive come unica eccezione del reparto, dichiarando di non aver mai avuto, come del resto i camerati, l'impressione che agli ufficiali, e in particolare al loro comandante, Wohlauf, desse fastidio uccidere gli ebrei. Mentre il tenente protestava spesso e apertamente contro gli eccidi, gli altri ufficiali non esprimevano alcuna simpatia per quelle opinioni, pur tollerando e accettando la sua inattivit (37). Una volta, a Lukw, il tenente si trov sottoposto non a Trapp bens direttamente alla "Sicherheitspolizei", ed evidentemente la pressione fu tale da indurlo, a dispetto della sua disapprovazione, a guidare i suoi uomini in un'operazione omicida, conducendo un gruppo di ebrei in un luogo prestabilito, dove li fece fucilare (38). Per sua fortuna, comunque, fu una circostanza straordinaria; grazie all'indulgenza di Trapp, lui e gli altri non venivano costretti a uccidere. In assenza di pressioni, il tenente Buchmann non uccideva; gli altri uccidevano comunque, perch le pressioni non erano necessarie.

Gli aspetti pi significativi e rivelatori delle azioni degli uomini del Battaglione 101 sono dati da un lato dal loro continuo offrirsi volontari per uccidere, dall'altro dal fatto che non si avvalsero mai della possibilit di evitarlo. Uno della Seconda Compagnia lo ammette candidamente: E' inoltre del tutto possibile che chi lo voleva fosse autorizzato a evitare le esecuzioni (39). E non si trattava di una semplice illusione degli uomini. Spiega il tenente Buchmann: Ricordo che di tanto in tanto, prima delle operazioni, domandavano se ci fosse qualcuno che non si sentiva all'altezza del compito imminente. Se qualcuno rispondeva affermativamente ... gli veniva affidato un altro incarico (40). A proposito del massacro di Jzefw, Erwin Grafmann, della Seconda Compagnia, dichiara: In ogni caso, cos come stavano le cose, ci si poteva offrire volontari o avvalere della possibilit di non partecipare, se uno non se la sentiva (41). Se ai tedeschi ripugnava uccidere, ed essi a volte si comportavano di conseguenza, la loro era una ripugnanza viscerale, non etica. Il motivo che si poteva addurre, e che veniva addotto, per farsi esentare dalle stragi era che qualche volta il compito poteva essere ingrato: non sempre tutti se la sentivano. La decisione di uccidere o di non uccidere non era questione di principio ma di gusto. La testimonianza di un altro assassino conferma che n lui n gli altri consideravano il ricorso a quella possibilit come un rifiuto ideologico o etico dell'impresa genocida. Quando mi si domanda perch io abbia partecipato alle fucilazioni, posso dire solo che non fa piacere essere considerato un vigliacco (42). Sarebbe dunque stato il rischio di essere considerati vigliacchi a impedire ad alcuni di farsi esentare dagli eccidi; il che pu significare soltanto che esisteva un consenso assolutamente indiscusso sulla giustezza dello sterminio. Perch qualcuno sia considerato un vigliacco, un uomo psicologicamente debole, di costituzione inferiore, si presuppone che tutti concordino sul fatto che l'azione richiesta abbia la sua approvazione, oltre a quella generale. E quindi, mentre si accingevano alla prima strage, a Jzefw, le ultime parole del discorso di Gnade alla compagnia furono un invito: Perci, non siate deboli (43).

Un uomo pu essere vigliacco, pu essere bloccato nell'azione perch debole, solo se non abbastanza coraggioso, o non ha abbastanza spina dorsale, per svolgere un compito che pure ritiene debba essere svolto. Se non favorevole a quell'azione, il non farla indice della sua opposizione, non di vigliaccheria o di debolezza (44). I pacifisti, che si oppongono alla guerra per principio, non sono vigliacchi. E' da notare che i testimoni non dicono che chi sceglieva di evitare le esecuzioni correva il rischio di essere considerato un amico degli ebrei ("Judenbegnstiger"), cio un oppositore per principio. Evidentemente questa possibilit censoria non pass nemmeno per la mente ai singoli, n allora n dopo la guerra; sarebbe certamente balenata, invece, se all'interno del battaglione la solidariet verso gli ebrei fosse esistita davvero, anche come motivazione operativa, o se fosse stato lontanamente possibile per quegli uomini sospettare che il motivo di una scarsa propensione a uccidere gli ebrei fosse l'opposizione di principio. Il clima interno del battaglione era tale che dell'accusa di essere amici degli ebrei non si parlava nemmeno. E' rivelatore anche il fatto, di cui si gi detto, che il discorso tenuto al Battaglione 101 prima del massacro di Jzefw contenesse una giustificazione incredibilmente esile per l'immenso eccidio di civili ebrei. Una giustificazione - la morte delle donne e dei bambini tedeschi sotto i bombardamenti aerei avrebbe dovuto motivare l'annientamento totale di quelle disgraziate comunit ebraiche, derelitte e inermi, in un paese sconfitto a centinaia di chilometri dalla Germania - che non stava in piedi, da ascoltare e recepire come la logica di un pazzo per chiunque non condividesse il credo antisemitico eliminazionista, che aveva per articolo di fede la demoniaca capacit degli ebrei di arrivare ovunque, con potenti effetti distruttivi. Il richiamo ai civili caduti in patria doveva attivare il modello cognitivo culturale degli ebrei condiviso dai tedeschi, doveva limitarsi a ricordare agli uomini quale fosse la natura degli ebrei, non certo conquistare dei dissenzienti a una concezione che non condividevano. L'ipotesi che quella giustificazione fosse accettabile per gli uomini del battaglione trova ulteriore conferma nell'assenza di commenti in proposito: non uno di loro ha dichiarato che gli parve pazzesca, o che all'epoca non gli riusciva di cogliere il nesso causale tra la morte dei tedeschi e la necessit di ammazzare gli ebrei, la connessione organica tra i bombardamenti e il genocidio.

Per le missioni di ricerca ed eliminazione e per i plotoni d'esecuzione destinati alle operazioni genocide su vasta scala vigeva una norma alquanto singolare per un'organizzazione di sicurezza, e dunque degna di nota: gli uomini dovevano essere volontari. Gli ufficiali sapevano che era un compito ingrato, e quindi era ragionevole lasciare che ognuno decidesse se si sentiva di farlo. C'erano due buoni motivi per concedere questa possibilit. Il primo era che gli ufficiali interpretavano la riluttanza a prender parte alle esecuzioni non come espressione di un rifiuto morale, ma come una reazione all'effettivo orrore di quelle operazioni, e quindi si mostravano solleciti verso i loro uomini. Non esiste alcuna indicazione per ritenere che nel Battaglione 101 il desiderio di farsi esonerare da un'esecuzione venisse percepito come una sfida all'ordine morale tedesco, o come una dissociazione di principio dal regime e da questo che era uno dei suoi progetti prioritari. Se cos fosse stato, con ogni probabilit gli ufficiali sarebbero stati meno disposti a concedere tanta possibilit di scelta a chi doveva prender parte all'attivit principale della permanenza in Polonia. Il secondo motivo per cui gli ufficiali potevano contare sul servizio volontario era che anche lasciando la decisione agli uomini non si correva mai il rischio che non si presentasse nessuno. E' inoltre vero, dichiara un uomo della Seconda Compagnia, che c'erano sempre abbastanza volontari per le esecuzioni. Anch'io mi offrii volontario un paio di volte, specificamente per le operazioni su scala ridotta del plotone (45). Diversi commilitoni confermano il volontarismo che pervadeva quei ranghi. Prima di tutto, e soprattutto, devo dichiarare categoricamente che a ogni richiesta del superiore c'erano sempre abbastanza volontari per i plotoni di esecuzione. Cos avvenne anche a Jzefw. Devo aggiungere, anzi, che i volontari erano tanti da doverne scartare qualcuno (46). Il primo di questi due testimoni, Grafmann, fu uno dei pochissimi che, nel pieno dell'eccidio di Jzefw, chiesero di essere esentati perch disgustati dalle esecuzioni a bruciapelo in quella che fu la loro operazione genocida d'esordio. Ovviamente, come si deduce dalla sua testimonianza e come dimostra il fatto che in seguito si offr anche lui volontario, la richiesta di Grafmann non derivava da un rifiuto morale del massacro degli ebrei (47).

Grafmann potrebbe appartenere al tipo paradigmatico dell'assassino che, inizialmente respinto dal raccapriccio, viene esonerato fino a quando non decide liberamente di riprendere a uccidere.Come in molti altri battaglioni di polizia, offrirsi volontari per le esecuzioni era la norma (48). La possibilit di evitare le esecuzioni esisteva, come abbiamo gi detto: oltre ai camerati che sceglievano di non uccidere, c'era il lampante esempio del tenente dissenziente a dimostrare all'intero battaglione che era possibile rifiutarsi di uccidere senza incorrere in conseguenze tangibili. Dal comandante del battaglione all'ultimo sottufficiale, tutti i superiori si mostravano comprensivi per l'eventuale scarsa propensione dei subordinati a svolgere certi compiti ingrati. Come dichiara uno di loro, commentando l'offerta iniziale di Trapp, non occorreva un coraggio particolare per fare un passo avanti (49). Ma proviamo a immaginare che, nonostante le occasioni di evitare le esecuzioni, nonostante la possibilit di non offrirsi volontari per fucilare gli ebrei, qualcuno esitasse ancora a dichiarare di non voler uccidere, chiedendo di essere esentato o rifiutando ripetutamente, magari in modo esplicito, di offrirsi volontario. Proviamo a immaginare che fossero cos sprovvisti di volont da accettare, pur percependo il genocidio come un monumentale delitto, di esserne i realizzatori, assistendo e partecipando alle scene raccapriccianti dei rastrellamenti e delle esecuzioni. Potevano per ancora fare ci che fece il tenente dissenziente: sollecitare il trasferimento. Quando il tenente scrisse al presidente della polizia di Amburgo dichiarandosi contrario agli eccidi e chiedendo di essere richiamato in servizio ad Amburgo, il trasferimento fu concesso (50). E quel rifiuto non gli fu mai rinfacciato; sarebbe poi stato promosso alla delicata posizione di aiutante del capo della polizia di Amburgo (51). Come sempre nelle strutture militari e di sicurezza, nella "Ordnungspolizei" esistevano condizioni che regolavano le richieste di trasferimento. E di questo gli uomini si avvalevano. Nel febbraio 1940, per esempio, furono approvate le richieste di trasferimento in patria presentate da due membri del Battaglione 102, anch'esso di Amburgo: a uno perch era morto il padre, e la vecchia madre era rimasta sola ad accudire due ettari di terra; quanto al secondo, i gravi disturbi di cuore della moglie furono considerati motivo sufficiente.

Nell'agosto di quell'anno un altro ottenne il trasferimento dal battaglione, a causa di una gamba gonfia troppo dolorante per consentirgli di marciare (52). Parrebbe anche che la struttura fosse piuttosto liberale nel concedere i trasferimenti. Inoltre, se vogliamo considerare tutte le possibilit che esistevano per sottrarsi agli eccidi, dobbiamo tener conto anche delle offerte di trasferimento ufficiali. Ne conserviamo una, presentata ai tre battaglioni del Reggimento 25 e al Battaglione 53, in cui si cercano poliziotti giovani e volonterosi nei plotoni addetti alle comunicazioni per un corso volontario di addestramento in vista della costituzione di una compagnia comunicazioni di appoggio a Cracovia. L'avviso arriv nel dicembre 1942, quando tutti i reparti partecipavano gi in pieno alle stragi. Due uomini del Battaglione 101 accettarono e furono trasferiti (53). Perch non fecero altrettanto tutti quelli che possedevano i requisiti? Invece, a parte queste due, nel Battaglione 101 non sono documentate richieste di trasferimento, n per iniziativa personale n in risposta a proposte di trasferimento ufficiali, per tutto il periodo delle attivit genocide. A dispetto delle facili proteste successive - non approvavano gli eccidi, avrebbero voluto evitarli, ma non potevano - nessuno degli uomini del Battaglione 101 ha mai nemmeno dichiarato di aver presentato richiesta di trasferimento (54). Un altro aspetto della loro vita merita la nostra attenzione. Mentre operavano come assassini genocidi, gli uomini del battaglione andavano a casa in licenza, a volte per intere settimane (55). Alcuni dicono di aver ricevuto l'ordine di non parlare delle attivit genocide; altri negano di aver mai avuto istruzioni del genere. Il tenente Kurt Drucker, per esempio, ammette che in occasione di una licenza parlai di quei fatti con gli amici (56). Al di l delle istruzioni ricevute (che potevano essere diverse da una compagnia all'altra), i membri del battaglione non riferiscono quasi nulla di ci che facevano o dicevano mentre stavano a casa con gli amici e i parenti. Se i realizzatori avessero percepito il massacro genocida come un delitto, e se dunque, rientrati a casa, avessero visto la prospettiva di ritornare alla sanguinosa brutalit degli eccidi nella luce in cui doveva vederla chi li disapprovava, come si sarebbero potuti imporre di ritornare in Polonia? A casa propria, ad Amburgo o Brema, come poteva una persona contraria agli eccidi non rabbrividire d'orrore al pensiero di dover riprendere le esecuzioni

in massa? Non si pu pretendere che disertassero (anche se vale la pena di notare che, stando ai documenti, nessuno disert), dati i rischi concreti che la diserzione comportava; rimane comunque il fatto che quella pausa nell'attivit genocida avrebbe dovuto offrire a chi vi si opponeva, cio a chi la considerava davvero un assassinio di massa (e non uno sterminio giustificato), l'occasione e il tempo per riflettere ancor pi a fondo sulla propria situazione e sulle scelte possibili. Erano in seno alle loro famiglie, lontani da qualsiasi pressione sociale e psicologica che la vita in una struttura genocida pu esercitare sull'individuo; e sapevano bene quali orrori li attendessero al ritorno in Polonia. E allora, perch non presero la decisione di chiedere il trasferimento? Perch non fecero ricorso a tutte le risorse di cui disponevano parenti, amici, conoscenti con qualche contatto nelle istituzioni per tentare di evitare quell'orrenda trasferta? Se gli uomini del Battaglione 101 avessero fatto il minimo sforzo per sottrarsi al genocidio, dopo la guerra lo avrebbero certo rivendicato. Invece si limitarono a dire, col senno di poi, che avrebbero tanto voluto non dover uccidere - una testimonianza ben poco convincente da parte di chi viene interrogato con l'accusa di strage. Eppure, tra tante affannose espressioni del desiderio di discolparsi, un solo uomo nell'intero battaglione - a parte il tenente Buchmann - disse di aver fatto il gesto che ci si dovrebbe aspettare da una persona contraria al massacro: tentare di uscir fuori dalla struttura omicida. Convinse la moglie a scrivere alle autorit di polizia di Amburgo, dichiarando di non essere in grado di crescere i loro otto figli senza l'assistenza del marito; e pochi mesi dopo rientr ad Amburgo (57). Nessun altro uomo del battaglione dichiara - n tantomeno fornisce elementi a supporto della dichiarazione - di aver comunicato ad amici e parenti durante le licenze il desiderio di esimersi dagli eccidi, o di aver realmente tentato di affrancarsi dal compito della strage. E ci va a ulteriore conferma del fatto che essi non disapprovavano il massacro genocida. La cultura tedesca della crudelt verso gli ebrei non documentata per questo battaglione nella stessa misura in cui attestata da molte altre strutture della morte. I sopravvissuti sono pochi, e dunque accade spesso che siano solo i tedeschi a poter riferire sulla propria brutalit e sulla misura di questa brutalit; ma si tratta di autoincriminarsi, e naturalmente sono restii a farlo.

Conta anche il fatto che in genere gli inquirenti della Repubblica federale tedesca non erano interessati a conoscere i singoli casi di crudelt, perch all'epoca delle indagini tutti i reati tranne l'omicidio erano caduti in prescrizione. Per quanto avesse picchiato, torturato o storpiato gli ebrei, se le sue vittime non erano morte il tedesco del battaglione di polizia non poteva pi essere perseguito. Esistono comunque indicazioni sufficienti a dimostrare che la cultura della crudelt era parte integrante anche della costituzione del Battaglione di Polizia 101. Nessuno di questi tedeschi faceva il minimo sforzo per risparmiare alle vittime una sola sofferenza inutile; anzi, a quanto sappiamo la cosa non era nemmeno presa in considerazione. La distruzione di una comunit ebraica manifestava in ogni sua fase dalla brutalit dei rastrellamenti alle sofferenze inflitte agli ebrei nei centri di raccolta (costretti a sedere, a stare accovacciati o distesi immobili a terra per ore sotto il solleone, senz'acqua) - un'indifferenza assoluta, se non un'attiva intenzionalit. Non era necessario che i rastrellamenti fossero tanto selvaggi; non c'era alcun bisogno di instillare il terrore nelle vittime, lasciando decine, a volte centinaia, di cadaveri lungo le strade. Mentre gli ebrei attendevano di essere portati alla periferia della citt, o caricati sui carri bestiame, non sarebbe costato nulla ai tedeschi distribuire loro un po' d'acqua, o lasciare qualche libert di movimento, invece di sparare a chiunque si alzasse in piedi. Come dichiarano molte testimonianze, i tedeschi vedevano bene che nell'attesa gli ebrei soffrivano molto e inutilmente. Infine, la crudelt con cui sparavano agli ebrei, o usavano bastoni e fruste per cacciarli dalle case e ammassarli sui carri bestiame, si commenta da s. Poich queste cose divennero parte integrante delle evacuazioni dei ghetti e degli annientamenti, e anche perch l'obiettivo dello sterminio in massa in s orrendo e tende a soverchiare i crimini minori, chi vuole redigere il registro delle brutalit e delle crudelt dei tedeschi nel tentativo di valutare azioni e opinioni degli assassini - rischia di passarle in secondo piano, nonostante il loro orrore. Perch quelle operazioni non si svolgevano in modo ordinato, senza uccisioni di bambini davanti a tutti, senza pestaggi, senza umiliazioni simboliche? All'intenzionale e inutile brutalit con cui i tedeschi e i loro ausiliari conducevano le diverse fasi dell'annientamento di un ghetto le

ormai ordinarie procedure del rastrellamento e delle esecuzioni si aggiungevano altre gratuite torture. A volte erano gli Hiwi, gli ausiliari dei paesi dell'Est, a infliggere le peggiori sofferenze agli ebrei: durante una deportazione a Miedzyrzec, per esempio, gli Hiwi, evidentemente influenzati dalla brutalit dei tedeschi, li flagellarono con la frusta. Qualsiasi crudelt da essi perpetrata davanti agli occhi di tutti veniva tollerata, se non stimolata, dai tedeschi che esercitavano su di loro un controllo assoluto. Ne fu un esempio la scena nella piazza durante l'ultima grande deportazione a Miedzyrzec, dove i tedeschi costrinsero gli ebrei a rimanere accovacciati uno a ridosso dell'altro. La fotografia n. 20 del nostro inserto riprende una scena analoga a Miedzyrzec durante un'altra deportazione. Gli ebrei pregavano e piangevano, facendo molto rumore, e ci disturbava i signori tedeschi: A intervalli regolari gli Hiwi picchiavano i prigionieri col calcio dei fucili, per imporre il silenzio. Gli uomini dello S.D. erano armati di fruste annodate, come quelle per i cavalli, e camminando tra le file di gente accovacciata, ogni tanto colpivano con violenza (55). Gli uomini del Battaglione 101 non si lasciarono certo surclassare in crudelt dai loro scherani, ma per quanto anch'essi avessero umiliato e torturato gli ebrei di Miedzyrzec nel modo pi gratuito e intenzionale, nulla di tutto questo traspare dalle loro testimonianze. Quelle dei sopravvissuti raccontano ben altra storia, pi veritiera e rivelatrice, che non lascia dubbi sull'incredibile brutalit dei tedeschi: una crudelt gratuita che sconfinava nel gioco sadico. Gli ebrei nella piazza, costretti a stare accovacciati per ore, vennero scherniti ("khoyzek gemacht") e presi a calci, poi alcuni dei tedeschi inventarono un gioco ("shpil"): Lanciavano delle mele, e sparavano a chi ne veniva colpito. Il gioco fu ripreso alla stazione, questa volta con bottiglie di liquore vuote: Lanciavano le bottiglie sulle teste degli ebrei, e chi rimaneva colpito veniva trascinato fuori dalla folla e picchiato a sangue, tra scrosci di risate; alcuni di quelli malmenati ["tseharget"] furono poi fucilati. Dopo di che anche i morti furono caricati con i vivi sui carri bestiame diretti a Treblinka. Una fotografia (n. 21) documenta l'ultima fase di quella che potrebbe ben essere questa stessa deportazione.

Alcune donne ebree terrorizzate, spinte avanti dai tedeschi (possiamo immaginare in che modo) corrono con i figli verso quell'antro buio, da cui riemergeranno solo per entrare nella camera a gas. Il tedesco pi vicino, del quale non conosciamo l'identit, passeggia impugnando minacciosamente una frusta. Non stupisce quindi che agli occhi delle vittime - non cos nelle interessate testimonianze dei realizzatori - questi tedeschi comuni non apparissero come semplici assassini, e ancor meno come agenti riluttanti costretti a quel compito nonostante la loro interiore opposizione al genocidio, bens come belve a due gambe ... assetate di sangue (59). I tedeschi riferiscono di rado di aver torturato le loro vittime, non elencano a uno a uno i gratuiti colpi di calcio di fucile sulle teste degli ebrei, ma tutto sta a dimostrare che le torture di Miedzyrzec e di Lomazy (dove picchiarono gli ebrei barbuti, costringendoli a strisciare fino al luogo dell'esecuzione) non furono rare eccezioni. Gli uomini del Battaglione 101 non parlano delle crudelt commesse durante la deportazione in massa degli ebrei di Lukw, ma un poliziotto della "Gendarmerie" di stanza nella cittadina racconta ci che vide dalla finestra del suo ufficio. [Gli ebrei] venivano spinti avanti dagli agenti di polizia ["Polizeibeamten"] tedeschi. Vidi che i poliziotti picchiavano con i bastoni gli ebrei che cadevano a terra. La scena mi sconvolse. Quelli che non riuscivano a rialzarsi da soli venivano rimessi in piedi a forza dai poliziotti. Le bastonate erano continue, accompagnate da grida violente ["lautstark angetrieben"]... (60). Gli uomini del Battaglione 101 riferiscono le crudelt di altri, dell'S.D. e degli Hiwi a Miedzyrzec, per esempio, ma sono reticenti circa le proprie. Non fanno cenno ai bastoni che anch'essi usarono con effetti devastanti durante quell'operazione, eppure si sa che molti di loro parteciparono all'evacuazione degli ebrei dal ghetto. Dobbiamo presumere che li usassero in tutte le evacuazioni e nelle altre operazioni omicide, anche se ne troviamo scarse tracce nelle testimonianze. Sappiamo delle fruste a Jzefw, dei bastoni a Lomazy (soltanto perch a qualcuno venne in mente di raccontare l'episodio del pestaggio degli ebrei barbuti), e ancora delle fruste a Miedzyrzec, in ognuno dei casi da una o due fonti soltanto.

Nessuno dei tedeschi dice che qualcuno di loro us la frusta a Lomazy; vediamo soltanto quella che compare in una delle istantanee di quella giornata arrivate fino a noi. Le deposizioni non dicono nulla nemmeno della scena documentata da due fotografie da noi pubblicate (n.n. 22 e 23) scattate a Lukw. Uomini del Battaglione 101 scherniscono questi ebrei prima di spedirli, insieme con 7000 altri, nelle camere a gas di Treblinka. Li costringono a mettere gli scialli da preghiera, a inginocchiarsi e, forse, a salmodiare. La vista degli oggetti e dei riti religiosi suscitava gli sghignazzi dei tedeschi risolutori della "Judenfrage", spingendoli alla crudelt: ai loro occhi quelli erano certo i costumi bizzarri, le cerimonie grottesche, gli strumenti misteriosi di una stirpe diabolica. L'Olocausto fu uno dei pochi stermini della storia in cui i realizzatori, come questi e altri uomini del Battaglione 101, derisero le vittime, costringendole a far buffonate prima di mandarle alla morte. Le pose fiere e divertite dei padroni tedeschi (si noti il sorriso dell'uomo nella foto n. 22) mentre umiliano quelli che per loro sono gli archetipi dell'ebreo, con tanto di scialle da preghiera (si noti che nella foto n. 23 manca il cappello, probabilmente fatto saltar via con un colpo), sono indubbiamente rappresentative delle tante scene di degradazione, o altre forme di crudelt, sulle quali gli uomini del Battaglione 101 preferiscono tacere, e sulle quali nessun sopravvissuto ebreo pu rendere testimonianza. Se ci fidassimo in modo preciso e puntuale di quanto riferiscono gli stessi uomini del battaglione, avremmo un quadro distorto delle loro azioni, tendente a sottovalutare nel modo pi grossolano le sofferenze gratuite inflitte agli ebrei, per non dire dell'evidente compiacimento di cui spesso davano prova nell'infierire su quelle vittime indifese. In almeno un'occasione il maggiore Trapp, un assassino dai sentimenti incerti, rimprover agli uomini l'eccesso di crudelt. Uno di loro racconta che il maggiore dichiar la sua disapprovazione all'adunata del battaglione dopo le scene selvagge della prima fase delle operazioni a Jzefw: A quanto ricordo disse qualcosa circa il suo disaccordo sui maltrattamenti "ai quali aveva assistito" [il corsivo mio]. Il nostro compito era fucilare gli ebrei, non picchiarli e torturarli (61). E' significativo che il testimone non ricordi un divieto categorico, bens un'espressione di disapprovazione (Trapp era "nicht einverstanden", non era d'accordo).

Ecco la voce dell'autorit, nella persona di un comandante tedesco atipico che cerca di contenere la crudelt gi spontaneamente affiorata nei suoi uomini. Trapp parafrasando involontariamente un verso di Shakespeare, epuratori saremo chiamati, non assassini (62) - diceva ai suoi uomini: siamo assassini, non torturatori. Invano, perch le crudelt continuarono, come dimostrano quelle perpetrate a Miedzyrzec e altrove, e le successive spacconate degli uomini sui loro spaventosi eccessi contro gli ebrei (63). E' indubbio che all'interno del Battaglione 101 esistessero diversi atteggiamenti verso il massacro genocida. Al di l della generale approvazione di principio, gli uomini affrontavano i loro compiti distruttivi con emozioni e convinzioni diverse. Ci sono tipi come i sadici macellai di ebrei, Gnade e Bekemeier, o gli assassini zelanti ma indecisi come Hoffmann (64), o i carnefici convinti ma poco propensi all'autocelebrazione come Grafmann, o gli omicidi consenzienti ma rosi dall'incertezza e dai conflitti interiori come Trapp. Tipi che si distinguevano per la misura del piacere che traevano dall'uccidere, ma non divergevano sulla giustizia dell'impresa. Sulla base dei dati esistenti difficile accertare quale fosse la distribuzione dei diversi tipi all'interno del battaglione; quanto sappiamo della maggioranza dei singoli non basta a consentire conclusioni di questo genere. Per lo stesso motivo impossibile sapere quanti fossero gli uomini disposti a uccidere, e con quale frequenza; e ancor pi arduo stabilire quanti perpetrassero quali tipi di crudelt gratuite, e quanto spesso. N ci dato di sapere nulla di preciso sulle emozioni con cui guardavano il prodotto delle loro fatiche, che si trattasse di una fossa traboccante o di una strada disseminata di cadaveri di ebrei, compresi vecchi e bambini. Sarebbe sorprendente se negli anni Sessanta qualcuno degli assassini avesse riferito alle autorit giudiziarie, e al mondo intero, i sentimenti di gioia e di trionfo che forse lo avevano animato mentre contemplava quelle scene. Ed altrettanto difficile credere che quegli uomini guardassero gli ebrei che stavano massacrando con sentimenti di affetto o quantomeno di indifferenza, o con il senso di affinit che si prova per un altro essere umano. La documentazione non lascia comunque dubbi sul fatto che la stragrande maggioranza degli uomini del Battaglione di Polizia 101 rastrell gli ebrei

per poi ucciderli o deportarli verso la morte - e non una volta sola, ma ripetutamente. Occorre notare inoltre che soltanto nel primo eccidio in massa, a Jzefw, qualcuno rimase tanto scosso da quel lavoro da chiedere di esserne esentato, o da manifestare qualche segno di disagio emotivo. Se questa reazione fosse stata dettata da un'opposizione di principio e non dal semplice disgusto, probabile che la tensione psicologica ed emotiva si sarebbe aggravata con gli eccidi successivi, invece di sparire del tutto, anche perch pi volte fu offerta loro una via d'uscita. E invece, come gli studenti di medicina che all'inizio possono rimanere turbati dalla vista del sangue e delle interiora, ma considerano eticamente lodevole il proprio lavoro, questi uomini non faticarono ad assuefarsi agli aspetti pi ingrati del mestiere. L'approvazione morale spiega perch solo una esigua minoranza chiedesse di essere esentata dalle esecuzioni, e perch gli ufficiali potessero sempre contare sulla partecipazione volontaria alle squadre della morte (65). In questo battaglione uccidere gli ebrei era la norma, in entrambe le accezioni della parola: anche il personale medico uccideva. Nella Prima Compagnia, in perfetta sintonia con la ben nota perversione della medicina tedesca nel periodo nazista, i due ufficiali medici esaminavano gli ebrei dopo la fucilazione per controllare che fossero morti. Accadde pi volte che entrambi finissero con un colpo di grazia le vittime ancora vive (66). Tutti in pratica gli uomini del battaglione uccisero, e lo fecero con una dedizione e uno zelo che non devono sorprendere, se vero, come testimonia uno di loro, che tra i miei camerati c'erano molti fanatici (67). Il loro instancabile contributo alla distruzione di quello che era considerato il primo nemico della Germania, l'ebraismo internazionale, fu cospicuo e merit il riconoscimento delle autorit superiori. Conrad Mehler, della Prima Compagnia, ottenne la croce di seconda classe per il servizio in guerra ("Kriegsverdienstkreuz"); la citazione lo elogiava, tra l'altro, per il suo comportamento ardito e intrepido nelle operazioni di evacuazione e deportazione degli ebrei (68). Il Battaglione 101, insieme con gli altri battaglioni del Reggimento di Polizia 25, ottenne dal suo comandante un elogio complessivo del lavoro svolto che, nel rispetto di tutti i mascheramenti linguistici imposti al tedesco dell'epoca, non parla esplicitamente del genocidio, pur sapendo bene che per buona parte della permanenza a Lublino il loro compito principale era stato proprio il massacro degli ebrei.

"Nell'occasione ... del mio commiato dal Reggimento di Polizia-S.S. 25, mi sento sinceramente obbligato a ringraziarvi tutti, ufficiali, sottufficiali e soldati, per il vostro impegno indefesso, per la lealt di cui mi avete dato prova e per lo spirito di sacrificio. Tutti avete dato il vostro meglio per Fhrer, 'Volk' e patria nella dura, aspra e sanguinosa guerra partigiana. Continuate nello stesso spirito, avanti verso la vittoria!" (69). Anche se dopo la guerra gli uomini del Battaglione 101 preferivano non manifestare in pubblico il loro orgoglio per gli elogi collettivi e individuali che si erano guadagnati - pi di 20 ebbero decorazioni individuali - quelle citazioni al merito per la devozione e l'efficienza erano pienamente giustificate (70). I riconoscimenti ufficiali, dei quali certo non si vergognarono all'epoca, e le azioni che con essi venivano premiate - e non i dinieghi del dopoguerra devono essere il commento finale sui fatti e le motivazioni degli uomini del Battaglione di Polizia 101. Uomini che non si limitarono a fare il loro dovere: al servizio della nazione tedesca, seppero distinguersi per l'efficienza negli eccidi.

NOTE AL CAPITOLO 8 N. 1. Un'esposizione del principio in base al quale si selezion in Hoffmann, pagine 825-26. Christopher R. Browning ("Ordinary Men" cit., p. 101) ha forse ragione nel sostenere che Trapp scelse i pi emarginati tra gli abitanti del villaggio per compromettere il meno possibile i rapporti con i polacchi; un modo di pensare come questo, per, dipende da un orientamento cognitivo contrastante con quello che produsse le azioni dei tedeschi contro gli ebrei. Occorre ripensare all'ipotesi che la decisione di massacrare gli ebrei innocenti fosse un modo ingegnoso per raggiungere la quota prevista senza compromettere ulteriormente i rapporti con la popolazione locale. Come i realizzatori non erano uomini comuni bens i tedeschi comuni di quell'epoca, quello non era ingegno comune, bens ingegno nazista o tedesco. N. 2. A.H., in Hoffmann, p. 285. N. 3.

Rapporto di Trapp al Reggimento di Polizia 25, 26 settembre 1942: ibid., p. 2550. N. 4. Per un racconto di questo evento confronta il rapporto di Trapp al Reggimento di Polizia 25, 26 settembre 1942, ibid., pagine 2548-50; A.H., ibid., pagine 284-85; F.B., ibid., pagine 1589-90; H.B., ibid., pagine 825-26; G.W., ibid., p. 1733; F.B., ibid., pagine 2097-98; H.K., ibid., pagine 225556; H.S., in "H.G.", pagine 648-49, e H.B., ibid., pagine 464-65. Confronta inoltre la dettagliata ricostruzione dei fatti in Christopher R. Browning, "Ordinary Men" cit., pagine 1002. N. 5. H.E., in Hoffmann, p. 2174. N. 6. G.W, ibid., p. 1733. N. 7. H.E., ibid., p. 2179. N. 8. F.B., ibid., p. 2105. Riferisce un membro della Seconda Compagnia che in quei servizi polivalenti di pattuglia si fucilavano anche polacchi (F.P., ibid., p. 4572). B.P. racconta che gli uomini del Battaglione di Polizia 101 uccidevano di frequente i polacchi che davano rifugio, o erano sospettati di dare rifugio, agli ebrei (ibid., pagine 1919,1925). Nulla di strano, in questo, perch cos imponeva la legge spietata dell'occupazione tedesca. E' indicativo il fatto che solo due uomini del battaglione ammettano questi omicidi, bench tutti dovessero esserne al corrente. Ne parla anche Christopher R. Browning ("Ordinary Men" cit., p. 157), senza per trarne l'ovvia conclusione che cos facendo quella gente teneva nascosta gran parte degli omicidi e delle brutalit commesse ai danni degli ebrei. N. 9. Julius Wohlauf, in Hoffmann, pagine 750-51; e E.R., in "H.G.", pagine 609-10. Sulla moglie del tenente Brand, confronta tenente H.B., in Hoffmann, p. 2440. N. 10. F.B., Hoffmann, p. 1583. N. 11. J.F., ibid., p. 2232.

Sul coinvolgimento della "Gendarmerie", confronta G.G., ibid., p. 2183. N. 12. Sulle infermiere, confronta F.M., ibid., pagine 2560-61. Quanto alle mogli, confronta la dichiarazione di una di loro, I.L., ibid., p. 12-3. Sappiamo che anche le infermiere della Croce Rossa tedesca videro la scena sulla piazza del mercato perch protestarono contro l'uccisione dei bambini, colpevoli soltanto di essersi alzati in piedi. Evidentemente i realizzatori non si facevano alcuno scrupolo di consentire a quelle donne, angeli del conforto e del sollievo, di assistere al massacro. N. 13. H.E., ibid.,p. 2172. N. 14. E.R., in "H.G.", p. 610. H.E., in licenza durante quell'eccidio, seppe dai colleghi sia della brutalit dell'operazione sia della presenza della moglie di Wohlauf: A questo proposito i camerati erano particolarmente indignati dal fatto che la moglie del capitano Wohlauf fosse stata a Miedzyrzec, e avesse visto da vicino l'"azione" (Hoffmann, p. 2171). N. 15. F.B., in Hotfmann, p. 2019. La versione di un altro testimone in F.B., ihid., p. 1582, nonch H.B., ibid., pagine 2440, 3357, e A.K., ibid., p. 3357.N. 16. Brovvning attribuisce loro l'emozione della vergogna un'emozione forte, dolorosa, che in questo contesto poteva essere prodotta solo dalla consapevolezza di una colpa, di una grave violazione morale - che per non suffragata da alcuna testimonianza e prova materiale. Confronta Daniel Jonah Goldhagen (recensione cit. a Christopher R. Browning, "Ordinary Men" cit.) che critica tale attribuzione (a p. 51 del libro). L'interpretazione di Browning della gita di piacere della signora Wohlauf con il Battaglione 101 e dell'episodio in questione ("Ordinary Men" cit., pagine 91-93) non tiene conto della testimonianza, che ora citeremo, della moglie del tenente Brand, dalla quale risulta chiaramente che le obiezioni degli uomini nulla avevano a che fare con la vergogna. Uno dei realizzatori accenna effettivamente a un senso di vergogna in un altro contesto, l'episodio particolarmente selvaggio del massacro nell'ospedale del ghetto di Knskowola, quando i suoi camerati avevano

aperto il fuoco indiscriminatamente in una stanza che ospitava da 40 a 50 ebrei malati e deperiti. Alcune delle vittime caddero dall'alto dei letti a castello, rendendo ancor pi orrenda del consueto la scena. Quel modo di agire mi disgust a tal punto, e ne provai una tale vergogna, che mi voltai immediatamente e uscii dalla stanza (F.V., Hoffmann, p. 1542). Si osservi per che la sua vergogna nasceva da quel modo di agire, dalla gratuita brutalit dei camerati, non dall'eccidio stesso, che peraltro era il motivo della sua presenza sul posto. Avrebbe voluto che i compagni uccidessero nel modo che pi si confaceva a dei bravi tedeschi. N. 17. L.B.,in "H.G.", p. 596. N. 18. B.P, in Hoffmann, p. 1917, ed E.N., ibid., p. 1693. N. 19. Un parziale sunto delle massicce attestazioni di come tutti nel Governatorato generale fossero al corrente dello sterminio degli ebrei nella Sentenza contro Johannes von Dollen e altri, Hannover 11 K.s. 1/75, pagine 42-45, in particolare pagine 42-43. Sulle vanterie degli assassini degli ebrei di Hrubieszw, confronta i capi d'accusa contro Max Stobmer e altri, S.t.A. Hildesheim 9 Js 204/67, pagine 121-32. N. 20. Citato nei capi d'accusa, K.R., p. 90. N. 21. L.B., in "H.G.", p. 598. E' interessante notare che all'epoca quell'uomo le apparve cinico, non immorale o criminale". Il marito, vale la pena di notarlo, non era contrario allo sterminio (H.E., in Hoffmann, p. 2172). Browning non tiene conto di questa vicenda impressionante nella sua analisi della reazione della truppa alla presenza della moglie di Wohlauf all'eccidio di Miedzyrzec. L'episodio conferma inoltre il clima favorevole al genocidio che regnava nel battaglione: se fosse stato altrimenti, un semplice poliziotto non si sarebbe rivolto cos al proprio ufficiale. N. 22.

Confronta Orlando Patterson, "Slavery and Social Death" cit., sulla condizione disonorevole degli schiavi (pagine 10-12). N. 23. Ovviamente quell'uomo dichiara di non aver tagliato davvero la barba all'ebreo: sarebbe stata solo una posa. Che sia vero o no, non ha importanza rispetto alla fierezza di quella posa simbolica, e al desiderio di immortalarla. Al di l delle azioni concrete, voleva (per s e presumibilmente per la famiglia) un ricordo della sua appropriazione di quel simbolo dell'ebraismo. Si noti anche la gratuit del commento sul lavoro per l'ebreo: profondamente radicata nella cultura tedesca, l'idea che gli ebrei non lavorassero aveva sufficiente rilevanza nella visione personale di quel poliziotto da indurlo a scarabocchiare un riferimento sul retro di un'immagine del tutto estranea al tema. N. 24. Per una discussione sul significato della marcatura degli schiavi, confronta la sezione intitolata "The Rituals and Marks of Enslavement", in Orlando Patterson, "Slavery and Social Death" cit., pagine 51-62. N. 25. H.F., in Hoffmann, p. 2161. Apparteneva alla Seconda Compagnia. Inspiegabilmente Browning non presenta questo episodio fondamentale, che indica l'assenza di disagio, e anzi l'approvazione del genocidio, che regnava nel battaglione. N. 26. Per una rassegna delle attivit del plotone, confronta Vermerk, in Hoffmann, pagine 2839-40. N. 27. G.M., ihid., p. 3275. N. 28. Ibid., p. 3279. N. 29. Confronta H.E., ibid., pagine 2165-79. N. 30. Confronta, per esempio, ibid., pagine 2170-71. N. 31. Come spiegato nell'Appendice 1, motivi metodologici inducono a non tener conto delle immancabili dichiarazioni degli uomini dei Battaglione 101 di essersi opposti agli eccidi.

Si noti che quelle proteste non si esprimono mai nei termini espliciti della disapprovazione di principio. Invano si cercher nelle testimonianze un riconcoscimento dell'umanit degli ebrei, o qualche attestazione del fatto che per loro il razzismo e l'antisemitismo della dottrina ufficiale fossero obbrobri da rifiutare. Invano si spera di leggere un'espressione di solidariet per le sofferenze delle vittime. Pu capitare che in un impeto autoassolutorio un realizzatore dichiari in tono freddo e ritualistico che gli eccidi lo avevano indignato ("emprt"). Dalle testimonanze risulta fin troppo evidente che gli uomini furono pi offesi dalla presenza della moglie di Wohlauf all'immane eccidio di Miedzyrzec che non dall'operazione genocida in s: quella la trasgressione della quale parlano con sincera passione. Sono pochissimi anche i vaghi accenni alla possibilit che qualcuno si opponesse per principio alle esecuzioni genocide. Un solo testimone esprime un'esplicita condanna morale: La consideravo una grande porcheria ["Schweinerei"]. Mi amareggiava che ci fossimo trasformati in porci ["Schweine"] assassini, anche perch in caserma ci avevano insegnato a comportarci da brave personeo (A.B., ibid., p. 4355). Non c' modo di sapere se davvero la pensassero cos all'epoca - era facile pronunciare una condanna di questo genere a guerra finita - ma comunque significativo che nessun altro pronunciasse una denuncia di principio del genocidio. Ancor pi istruttiva la dichiarazione di un altro presunto oppositore degli eccidi: Poich ero un grande amico degli ebrei, quel compito mi era odioso (H.W., ibid., p. 1947). Vero o no che sia, la formulazione stessa denuncia tutti gli altri: quest'uomo si sente obbligato a spiegare qualcosa che dovrebbe essere ovvio (cio che l'omicidio in massa da condannare) dichiarando di essere stato indotto a opporsi dalla sua grande amicizia per gli ebrei; l'evidente sottinteso che un simile riguardo nei confronti degli ebrei non era certo la norma, e che il suo atteggiamento era del tutto eccezionale. Non lo implica necessariamente a rigor di logica, ma nel contesto in cui fu pronunciata, quella dichiarazione d quasi per scontato ci che il testimone sapeva bene: quelli che non erano stati grandi amici degli ebrei ne approvavano lo sterminio. N lui, n nessun altro membro del battaglione parlano mai di un atteggiamento positivo, o quanto meno neutrale, dei camerati nei confronti degli ebrei.

Sulle pochissime dichiarazioni in questo senso, ognuna delle quali indica l'eccezionalit della posizione di chi la pronuncia, confronta Christopher R. Browning, "Ordinary Men" cit., p. 75. N. 32. E.H., in "H.G.", p. 511. Christopher R. Browning interpreta quei festeggiamenti come un indice dell'abbrutimento, della sensibilit ottusa di chi era contrario al massacro, come se un mero processo di ottundimento potesse bastare a produrre tanta allegria in uomini che avessero perpetrato loro malgrado quello che consideravano un delitto, un omicidio in massa ("Ordinary Men" cit., p. 128). Esiste una spiegazione ben pi plausibile. Quella non era gente abbrutita e insensibile: scherzavano su azioni che ovviamente approvavano, e alle quali avevano preso parte con evidente piacere. N. 33. A.B., in Hoffmann, p. 799. N. 34. Confronta l'Appendice 1, dove si discute il significato dell'assenza di un certo genere di attestazioni documentarie. N. 35. H.B., in Hoffmann, pagine 2439-40. N. 36. Dichiara: ... Non desidero comunque che alcuno dei miei superiori o sottoposti venga incriminato, o vada incontro ad altri problemi, a seguito della mia deposizione (ibid., p. 2439). N. 37. H.E., ibid., p. 2172. A proposito del tenente Brand dice per esempio: Ricordo che nemmeno il tenente Brand ebbe mai nulla da obiettare sulle operazioni contro gli ebrei ["Judeneinstze"]. N. 38. Confronta il racconto di Christopher R. Browning in "Ordinary Men" cit., pagine 111-13. N. 39. M.D., in Hoffmann, p. 2536. N. 40. H.B., ibid., pagine 3356-57.

Ho omesso la formula Lo ritengo possibile perch se presa alla lettera non ha alcun senso, grammaticale o storico. La dichiarazione di Buchmann non lascia adito a dubbi: chi lo richiedeva veniva adibito ad altri compiti. Sapeva bene, peraltro, che alcuni degli uomini, fra cui lui stesso, erano stati esonerati dagli eccidi. N. 41. E.G., ibid., p. 2534; confronta pure ibid., pagine 2532-47, per quanto dicono in proposito numerosi membri del battaglione. C' confusione e discordanza nelle testimonianze circa il numero delle occasioni in cui furono richiesti volontari, e circa l'esplicitazione o no della possibilit per tutti di farsi esonerare. Ne un esempio la deposizione un po' ambigua di E.G.; la confusione nasce probabilmente dall'assenza di una precisa distinzione tra le due possibilit. Testimoniando vent'anni dopo, gli uomini ricordano di non essere stati obbligati a uccidere; non ha importanza se la cosa risult implicitamente dal fatto che, in occasione di un dato eccidio, vennero richiesti dei volontari, o se invece fu loro detto esplicitamente che potevano smettere se non se la fossero pi sentita: comunque fosse, sapevano che la loro partecipazione era volontaria. I dettagli delle procedure attraverso le quali potevano evitare di uccidere non lasciarono in loro una particolare impressione per due motivi interconnessi: la solidariet con gli ebrei non era motivazione che li toccasse, sicch la possibilit di esimersi dagli eccidi non assumeva per loro un grande peso, soprattutto di ordine morale; in secondo luogo, l'unanimit ideologica sull'approvazione degli eccidi rendeva improbabile che qualcun altro nel battaglione sospettasse nella richiesta di esonero un'opposizione di principio, e dunque non c'era nulla di particolarmente memorabile nemmeno nella prospettiva delle conseguenze sociali di quella scelta. N. 42. B.D., ibid., p. 2535, e sergente A.B., ibid., p. 2693. N. 43. A.Z., in "H.G.", p. 246. N. 44. Confronta Christopher R. Browning, "Ordinary Men" cit., p 185, per un'interpretazione opposta del significato di codardia. Tra i problemi presentati dalla sua impostazione, il principale dato dalla pretesa, non documentata, che la dichiarazione di debolezza mascherasse la bont della persona in questione, cio la sua opposizione morale.

La testimonianza citata fu rilasciata dopo la guerra, non fu una dichiarazione espressa a quel tempo, magari con i camerati, sicch c'erano ottimi motivi per "non" nascondere la presunta bont. E' evidente che il testimone intende codardo, non oppositore. La cosa risulta tanto pi chiara nel resoconto degli eventi che precedono quella dichiarazione. Durante l'eccidio di Jzefw egli avrebbe chiesto di essere esonerato perch non se la sentiva pi di continuare, a causa dei frammenti d'ossa e di materia cerebrale che schizzavano in tutte le direzioni. Non dice invece, anche se la testimonianza fu resa dopo la guerra, di aver chiesto l'esonero perch considerava quell'eccidio un delitto (B.D., Hoffmann, pagine 2534-35). Vale inoltre la pena di chiedersi se il timore di sentirsi chiamare codardo fosse una motivazione sufficiente a indurre un uomo a perpetrare degli omicidi cos raccapriccianti, se davvero egli li considerava un crimine mostruoso, specie se erano molti nel battaglione a condividere la sua opinione. La devastazione psicologica che un crimine del genere dovrebbe produrre in quel tipo di individuo enorme; e invece le attestazioni in questo senso brillano per la loro assenza. N. 45. E.G., in Hoffmann, p. 2533, nonch la sua testimonianza a p. 4400. N. 46. A.B., ibid., p. 2532. Il sergente Bentheim contesta la dichiarazione di A.B. secondo la quale i volontari erano sempre in numero sufficiente, se non esuberante. Concorda comunque sul fatto che si cercavano sempre volontari, e che si impiegavano come carnefici soltanto i volontari; a nessuno fu mai imposto (ibid., pagine 253738). Ci significa, ovviamente, che i volontari furono sempre in numero sufficiente alla bisogna. N. 47. Il disgusto di Grafmann in E.G., ibid., p. 2505. Informazioni su altri in F.K., ibid., p. 2483; G.K., ibid., p. 2634; A.Z., in "H.G.", p. 277; M.D., in Hoffmann, p. 2539. N. 48. Confronta J.S., in Z.S.t.L. A.R.-Z 24/63, pagine 1370-71, sui volontari del Terzo Squadrone di Polizia a cavallo; Abschlussbericht, ibid. 202 A.R.-Z 82/61, p. 55, sul Battaglione di Polizia 307; "Verfgung", ibid. 208 A.R.-Z 23/63, vol. 3, sul Battaglione di Polizia 41.

Esistono inoltre testimonianze analoghe per altri battaglioni di polizia. Questo argomento sar ripreso nel capitolo 9. N. 49. A.W., in Hoffmann, p. 4592. N. 50. H.B., ibid., p. 822. N. 51. Atto d'accusa, ibid., p. 246b. N. 52. S.t.A.H., Polizeibehrde 1, Akte 1185. N. 53. Kommando der Schutzpolizei, Abschrift 12/31/42, ibid. N. 54. H.R., in "H.G.", p. 624. Su questo ritorneremo tra poco. N. 55. Confronta, per esempio, F.S., ibid., pagine 300-09; F.B., ibid., p. 961; P.F., in Hoffmann, p. 2242. N. 56. Tenente K.D., in Hoffmann, p. 4339.N. 57. H.R., in "H.G.", p. 624. Era particolarmente favorito nella richiesta di trasferimento da una regola che stabiliva che chi aveva molti figli, chi possedeva un podere ereditario ("Erbhof"), nonch l'ultimo portatore del cognome di famiglia ("letzte Namenstrger") poteva essere assegnato a incarichi di prima linea solo se accettava di propria volont. Confronta A.W., in Hoffmann, p. 3303. E' questo un segno ulteriore della sollecitudine del regime nei confronti dei suoi sottoposti. N. 58. A.H., in Hoffmann, p. 281. N. 59. "Mezrich Zamlbuch", a cura di Yosef Horn, Buenos Aires, 1952, pagine 476, 561. Browning non utilizza la testimonianza di un sopravvissuto, considerandola di scarso valore. Sostiene che la brutalit degli uomini del Battaglione 101 era strumentale, dovuta alla necessit di spostare migliaia di ebrei contro la loro volont con un contingente di guardie troppo esiguo (p. 95). Lo contraddicono i sopravvissuti, nonch le versioni accuratamente costruite e asettiche dei realizzatori stessi.

Sulla crudelt dei realizzatori ci soffermeremo pi sistematicamente nel capitolo 15. N. 60. E.K., in Hoffmann, p. 157. Si noti che anche lui era un torturatore (confronta H.B., ibid., pagine 1048-50), e che la sua presunta simpatia per gli ebrei del tutto artefatta; il che non diminuisce certo il valore della sua descrizione della condotta degli uomini del Battaglione 101. N. 61. A.B., ibid., p. 441. Come ho affermato nella mia recensione gi citata a "Ordinary Men", Browning presenta ed espone impropriamente l'avvertimento di Trapp (p. 87). Non fu, come cerca di farci credere (omettendo tra l'altro la prima frase), un divieto preventivo comunicato da Trapp prima del massacro di Jzefw per imporre un tono moderato a quell'eccidio (un tono presumibilmente alquanto diverso da quello imposto dal perfido Gnade a Lomazy). In realt non si trattava di imporre il tono di quell'operazione (e delle successive), bens di reagire alla crudelt degli uomini di cui Trapp era stato testimone a Jzefw. Browning tenta di sostenere che la personalit dell'ufficiale comandante influenz in modo significativo la condotta degli uomini: una conclusione non suffragata da alcun dato concreto. Con buona pace di Browning, l'annuncio di Trapp smentisce la sua ipotesi. Tanto pi che, pi avanti, le selvagge crudelt di Miedzyrzec sarebbero state perpetrate sotto il comando diretto di Trapp. N. 62. William Shakespeare, "Giulio Cesare", 2,1,180. N. 63. A.B., in Hoffmann, p. 799. N. 64. Confronta il capitolo che Christopher R. Browning, "Ordinary Men" cit., pagine 114-20, riserva a Hoffmann. N. 65. Secondo Christopher R. Browning, una minoranza, forse il 10 per cento, e sicuramente non pi del 20 per cento, non commise assassinii (ibid., p. 159), ma questa ipotesi non trova confcrma nei documenti. Anche la sua prima estrapolazione sull'eccidio di Jzefw, dal 10 al 20 per cento, alquanto sospetta; se anche fosse vero (e se gli uomini si fossero effettivamente fatti esonerare per ragioni di principio e non perch

di stomaco troppo debole) nulla sta a indicare che costoro (o altri) persistessero nel rifiuto durante le operazioni genocide successive (e non bisogna peraltro dimenticare l'apporto che essi diedero a quelle operazioni in altri modi che non la fucilazione vera e propria). Lo conferma, pur se non compare in "Ordinary Men", la testimonianza di Erwin Grafmann citata sopra: disgustato dagli schizzi di materia organica umana, si fece esonerare dall'eccidio di Jzefw dopo aver ucciso almeno dieci ebrei, e ammette di essersi poi offerto nolontario per le missioni di ricerca ed eliminazione (confronta Hoffmann, pagine 2505, 2533, 4400). Non abbiamo motivo per credere che anche gli altri esonerati di Jzefw non si siano comportati allo stesso modo. Se il 10-20 per cento degli uomini avesse sistematicamente evitato di fare la propria parte nel genocidio, avremmo indubbiamente un buon numero di testimonianze in proposito, perch la cosa avrebbe prodotto una consistente divisione all'interno del battaglione. Altrettanto problematica l'analisi di Browning del modo in cui gli uomini sarebbero riusciti a evitare di prendere parte alle cacce all'ebreo e ai plotoni d'esecuzione ("Ordinary Men" cit., p. 129). In questa sezione non propone soltanto un'analisi, ma ipotizza anche che quelle strategie furono davvero impiegate da coloro (il famoso 10-20 per cento?) che si opponevano agli eccidi. Browning sopravvaluta di continuo i segnali di riluttanza e opposizione che gli pare di cogliere nei documenti, sicch questa particolare analisi, come altri passi del libro in cui affronta l'argomento, accetta acriticamente come dati di fatto i tentativi di evitare gli eccidi, pi o meno riusciti, che i realizzatori si attribuiscono a posteriori. Come se non bastasse, fraintende la testimonianza di un uomo che identifica (per citare Browning) nella propria immediata e aperta opposizione alle azioni antiebraiche del battaglione il motivo per cui gli fu risparmiato ogni ulteriore coinvolgimento. Browning cita l'intera versione di quel testimone (vera o falsa che fosse), e giunge a concludere che dopo aver reso esplicita la sua opposizione non fu mai assegnato a un plotone d'esecuzione (p. 129). La testimonianza contiene per elementi che Browning trascura; rimaniamo con l'impressione che quell'uomo si sia risparmiato ogni ulteriore coinvolgimento, anche perch Browning sta trattando in quel contesto le tre linee di condotta che sarebbero state praticabili per evitare le cacce all'ebreo o i plotoni d'esecuzione. Il testimone nega di aver mai sparato a un ebreo, ma racconta di dieci cacce all'ebreo nelle quali risulta evidente (anche se non dichiarata) la sua

partecipazione: non si pu certo dire che gli sia stato risparmiato ogni ulteriore coinvolgimento. Nella migliore delle ipotesi, sar riuscito a evitare di sparare agli ebrei nelle missioni di ricerca ed eliminazione non grazie alla sua reputazione di oppositore, ma semplicemente perch non si fece avanti per sparare (erano in tanti, comunque, quelli che non aspettavano altro). Lo stesso testimone riferisce gli agghiaccianti dettagli di una caccia all'ebreo. Con una trentina di commilitoni avevano battuto la campagna in bicicletta, scoprendo una galleria piena di ebrei nascosti di cui avevano avuto notizia da un informatore polacco: Ricordo ancora con precisione che eravamo proprio di fronte alla galleria quando un bambino sui cinque anni ne usc, camminando carponi. Un poliziotto lo afferr e lo port in disparte; poi gli punt la pistola alla nuca e spar. Era un poliziotto in servizio attivo ["Beamter"], ordinanza medica nella nostra unit. Era l'unica ordinanza medica del plotone (confronta A.B., Hoffmann, pagine 442-43). Basta questo per contraddire la pretesa di Browning che l'immediata e aperta opposizione di quell'uomo gli abbia risparmiato ogni ulteriore coinvolgimento. Con buona pace di Browning, sono pochi i casi convincenti di rifiuto di uccidere che compaiano nei documenti. Uno dei suoi imboscati preferiti, usato come esempio sia per Jzefw sia per Lomazy ("Ordinary Men" cit., p. 65 - lui quello che si imbosc - e p. 86), rese sull'eccidio di Lomazy una testimonianza tanto lontana dagli eventi reali ( la testimonianza in cui lui dichiara di aver preso le distanze dalla scena del delitto), che per due volte l'interrogatore gli fece notare la sua inattendibilit: Signor Metzger, le sue dichiarazioni non sono credibili. E contraddicono le deposizione dei suoi ex commilitoni. Soprattutto, non concepibile che lei sia stato di guardia nel cortile per tutto il pomeriggio, anche perch gli ebrei erano gi stati portati via intorno a mezzogiorno. E inoltre, falso ci che lei dice di aver osservato. Stando alle indagini e alle deposizioni di testimoni oculari finora raccolte, assodato che tutti gli uomini della Seconda Compagnia furono schierati nelle immediate vicinanze della fossa fin dall'inizio dell'eccidio (P.M., in "H.G.", pagine 208-09).

L'interrogatore contesta quella deposizione autoassolutoria immediatamente dopo la verbalizzazione dell'episodio citato da Browning ("Ordinary Men" cit., p. 86). N. 66. E.B., in "H.G.", p. 960; confronta inoltre la nota precedente, sull'ordinanza medica che spar a un bambino di cinque anni durante una caccia all'ebreo (Hoffmann, p. 443). N. 67. A.B., in Hoffmann, p. 4335. N. 68. Una copia della citazione, datata 14 gennaio 1943, ibid., p. 2671. N. 69. K.d.O. Lublino, Reggimento S.S. e di Polizia 25, ordine del giorno del 24 settembre 1943, in Z.S.t.L. Ord. 365A4, p. 243. N. 70. Tra loro, solo C.M. fa esplicita menzione degli ebrei (atto d'accusa Hoffmann, in Hoffmann, p. 330).

Capitolo 9 I BATTAGLIONI DI POLIZIA: LA VITA, GLI ECCIDI, LE MOTIVAZIONI

Studiando il contributo del Battaglione 101 e di altri battaglioni di polizia al genocidio, facile finire per vedere i realizzatori esclusivamente attraverso il filtro delle loro gesta omicide. Ma una visione distorta; la straordinariet delle operazioni omicide induce molti - non pu certo sorprendere - a isolare i carnefici e le loro azioni dal resto dell'attivit sociale umana, dal funzionamento normale della societ, anche perch l'azione genocida non pare appartenere al nostro stesso universo sociale o morale, bens a un particolare sottouniverso della realt. Si rischia cos di delineare di loro e del modo in cui vivevano un quadro caricaturale: invece questi tedeschi partecipavano anche ad attivit diverse dal massacro genocida, conducevano un'esistenza sociale. Per capire chi fossero, e le azioni che commisero, occorre riconoscere e studiare gli aspetti non criminali di quella vita.

I battaglioni di polizia non perpetravano le loro azioni omicide in un vuoto sociale o culturale. In Polonia i tedeschi si erano rapidamente costruiti una struttura istituzionale e una vita culturale essenzialmente autonome da quelle dei polacchi (per non parlare degli ebrei), come si addiceva a degli "bermenschen" arrivati per occupare il posto dei subumani, ricostruendo a propria immagine il territorio occupato. Di fatto, esisteva una rigogliosa vita culturale tedesca che fu punto di riferimento per l'esistenza dei battaglioni di polizia in Polonia. Dopo aver massacrato migliaia di ebrei inermi, gli uomini rientravano nelle sfere pi convenzionali della vita culturale: attivit come circoli, centri ricreativi e posti di ristoro (1) della polizia, eventi sportivi, film e rappresentazioni teatrali, funzioni religiose, legami affettivi, discussioni e prescrizioni morali presentano un netto e agghiacciante contrasto con le loro gesta apocalittiche. Persino gli ordini di routine diramati dai diversi superiori gerarchici, per quanto incompleti e schematici, aiutano a capire che i realizzatori del genocidio non erano quegli individui stereotipati e atomizzati ai quali sono stati spesso ridotti, cos come oggi vengono forse concepiti da tutti, o quasi. L'Ordine di reggimento n. 25, diramato dal comando del Reggimento di Polizia 25 ai suoi reparti, tra i quali i Battaglioni 65 e 101, pu darci indicazioni sulla vita di quegli uomini quando non erano impegnati a uccidere. Le due pagine dell'ordine sono costituite da sei voci. La prima riporta i risultati di una gara: Domenica 18 ottobre 1942, e il 25 ottobre 1942 la squadra del Battaglione "Gendarmerie" motorizzato ha partecipato alla riunione autunnale di atletica su pista a Radom; seguono i nomi dei quattro componenti della squadra che avevano battuto la Luftwaffe di Radom in entrambe le corse sui 4000 metri, ottenendo i migliori tempi della giornata. Un altro soldato del Battaglione "Gendarmerie" motorizzato era arrivato secondo in un'altra gara. Il comandante di reggimento aggiungeva: Estendo ai vincitori le mie congratulazioni per i risultati conseguiti. La seconda voce dell'ordine ordinaria amministrazione: l'elenco degli ufficiali e delle reclute di servizio per ogni giorno della settimana entrante. La terza voce comunica la ripresa del servizio ferroviario da Cracovia a Krynica, per promuovere i bagni termali di Krynica, fornendo gli orari invernali dei treni per quel luogo di villeggiatura, a parecchie ore di viaggio.

La terza voce, intestata Teatro per la truppa, annuncia un'altra occasione di intrattenimento: "3 e 4 novembre, alle ore 20 nella Casa della N.S.D.A.P. [Partito nazista] a Lublino la compagnia teatrale della polizia Ostermnn meglio nota come Giovent berlinese, - si esibir per i militari della "Ordnungspolizei" e le loro famiglie - Ingresso libero". La quinta e sesta voce riguardano misure sanitarie, l'una ordinando la denuncia immediata delle malattie infettive, l'altra allertando i reparti su possibili casi di tifo. L'Ordine di reggimento n. 25, un esempio come tanti degli ordini diramati settimanalmente a tutti i reparti, presenta un quadro diametralmente opposto all'immagine unidimensionale che saremmo portati a farci dei realizzatori e delle strutture in cui essi agivano. Il comandante del reggimento naturalmente orgoglioso delle vittorie sportive dei suoi uomini contro la Luftwaffe, avvenute nella lontana Radom; li informa sull'offerta ricreativa a Krynica, una localit gi citata; e li invita con le famiglie a una serata di intrattenimento gratuito, offerto dalla compagnia teatrale della stessa polizia. L'Ordine di Reggimento n. 25, emesso a Lublino il 30 ottobre 1942, fu irradiato ai reparti del reggimento sparsi nell'intero distretto (2). Quali erano i loro compiti nella guerra contro gli ebrei al momento in cui ricevevano notizia di queste occasioni di svago? Il Battaglione 101 era nel pieno della sistematica decimazione genocida degli ebrei nella regione assegnata, avendo appena portato a termine, tre giorni prima, la deportazione degli ebrei da Miedzyrzec a un campo della morte. Il Battaglione 65 stava provvedendo di buona lena a fucilare e deportare ad Auschwitz gli ebrei di Cracovia e del circondario. Il Battaglione 67 stava decimando le comunit ebraiche intorno a Bilgoraj e Zamosc. In quello stesso periodo il Battaglione 316 massacr 2000 ebrei a Bobrujsk. L'Ordine di reggimento del 30 ottobre 1942 non aveva nulla di straordinario: per gli assassini genocidi era normale ricevere notizie di avvenimenti sportivi (3), occasioni culturali (4) e altre attivit di svago. Alla fine di giugno, per esempio, si comunicavano gli orari di apertura della piscina a Lublino, e si informava della possibilit di giocare a tennis. Ognuno doveva provvedere da s alla racchetta, ma un numero limitato di palle disponibile presso l'Associazione Sportiva S.S. e Polizia, Ostlandstr. 8c, stanza 2.

Possono essere noleggiate. Data la difficolt di reperimento, la tenuta da tennis non obbligatoria. L'accesso in campo consentito solo con scarpe con suole di gomma (5). Le circolari inviate agli uomini dei reparti di polizia informavano su ogni tipo di questioni di interesse quotidiano, come la data e il luogo della distribuzione del carbone per il riscaldamento (6), oltre che sulle nuove procedure amministrative. E comunicavano le ultime istruzioni sul trattamento da riservare agli ostaggi, compresa l'uccisione, e sulle operazioni contro gli ebrei. E' di per s significativo e degno di nota il fatto che questioni cos normalmente letali venissero trattate in paragrafi posti fianco a fianco con le informazioni sulle attivit di svago. Gli ordini comprendevano anche le pi disparate istruzioni per la condotta degli uomini sia in servizio sia nel tempo libero, spesso redarguendoli per aver violato il regolamento, o per non aver corrisposto alle aspettative. In un comunicato il comandante informava gli uomini di aver notato grandi quantit di materiali da imballaggio e bottiglie d'acqua vuote gettate via in disordine. Quegli sprechi lo indignavano: E' irresponsabile scriveva nelle attuali condizioni di scarsit di rifornimenti e materie prime, che chi ne ha il compito non provveda al riciclaggio immediato dei contenitori vuoti e del materiale da imballaggio; il comandante prometteva sanzioni contro chi avesse continuato a sprecare materiale (7). Da questa e da tante altre ammonizioni provocate da infrazioni agli ordini superiori o al decoro del reparto risulta chiaro che i tedeschi non erano certo degli automi, dei subordinati dall'obbedienza assoluta; come per tutti, il loro rispetto degli ordini, dei regolamenti e delle norme sociali era incostante e selettivo. Oltre alle occasioni culturali offerte dalla polizia, i tedeschi delle unit di stanza a Lublino potevano accedere a quelle organizzate dalle forze armate. Non sempre gli uomini del Reggimento di Polizia 25 si comportavano nel modo dovuto, durante gli spettacoli, come documenta questa sfuriata del comandante di reggimento: "La distribuzione di biglietti gratuiti per rappresentazioni teatrali, concerti e spettacoli cinematografici fa s che agli intrattenimenti delle forze armate partecipino anche membri della polizia in uniforme, che non ne traggono alcun piacere e manifestano il loro disappunto con commenti sguaiati, risate e comportamenti disdicevoli.

Questa condotta mancanza di rispetto per gli altri spettatori e per gli artisti, e pu danneggiare la reputazione della polizia in uniforme. Si ordina ai comandanti di reparto e ai dirigenti di trasmettere istruzioni didattiche per far s che ognuno si comporti con correttezza, attendendo in silenzio la fine della rappresentazione o l'intervallo" (8). Sebbene vivessero all'interno di strutture in cui il comportamento corretto era un'abitudine, in cui di regola non occorreva un'autorit esterna per imporre l'elementare civilt della cortesia, i tedeschi del Reggimento 25, vincolati dalle regole presumibilmente ferree di una struttura di polizia, violavano le regole sociali dell'esistenza quotidiana nel modo pi grossolano. Non ci dice forse qualcosa, questo, circa la loro devozione alle regole, e circa la natura della struttura da cui dipendevano, e che chiaramente non temevano? Lo stesso Ordine di reggimento contiene un'altra ramanzina, questa volta non per uno sciocco gesto antisociale, ma per degli atti illegali: Elementi della "Ordnungspolizei" assegnati alla sorveglianza del raccolto hanno illegalmente cacciato i cinghiali selvatici. Ribadisco che qualsiasi forma di caccia illegale verr considerata bracconaggio. I recidivi saranno chiamati a renderne conto (9). Questi ordini ufficiali, per quanto siano scarse le informazioni che contengono - cos misere per volume e variet rispetto al flusso reale delle azioni quotidiane dei tedeschi in servizio o in libert -, bastano comunque per sostenere una serie di conclusioni. Gli stereotipi sui realizzatori, nati come sono dal nulla, esistono in larga misura solo nel vuoto empirico: chi ha creato o sostenuto questi stereotipi erronei ha fatto ben poco per confrontarsi con il contesto istituzionale e sociale delle loro azioni, e con i dati concreti della loro vita (10). I realizzatori non erano fredde macchine per uccidere: erano esseri umani che conducevano vite spesse, non unidimensionali come le propone in genere la letteratura sull'Olocausto. Intrattenevano molti e complessi rapporti sociali e svolgevano una serie relativamente ampia di attivit quotidiane. Avevano una famiglia a casa, degli amici, sicuramente anche intimi, nel proprio reparto, e nelle localit in cui erano di stanza avevano contatti con tedeschi di altre organizzazioni, e anche con non tedeschi. Pur vivendo all'ombra del massacro genocida, parecchi realizzatori dovevano aver portato con s la famiglia, come indica l'esplicita estensione ai familiari dell'invito alla serata a teatro.

E' evidente che la presenza delle mogli di Wohlauf e del tenente Brand non era affatto eccezionale. Tra i realizzatori nascevano anche degli amori; uno degli uomini, quando era scrivano al Reggimento 25, addetto tra l'altro a registrare i progressi delle stragi, inizi una relazione con la donna che poi avrebbe sposato. Lei lavorava nell'ufficio del comandante della "Ordnungspolizei" a Lublino, prima come centralinista, poi come segretaria dell'unit operativa che pianificava le missioni genocide (11). Non era una societ priva di donne; il Battaglione 101, per esempio, dava frequenti serate tra amici ("gesellige Abenden") in cui uno dei soldati, violinista, ricorda che il dottor Schoenfelder il guaritore di tedeschi che aveva spiegato loro la tecnica per uccidere gli ebrei - suonava meravigliosamente la fisarmonica, e con noi lo faceva molto spesso (12). C'erano pomeriggi musicali, uno dei quali si svolse presso la Seconda Compagnia a Miedzyrzec, dove ebbero luogo i suoi eccidi pi vasti e frequenti: esistono quattro fotografie in cui si vede un gruppetto di musicisti che suona da una terrazza al secondo piano, su un cortile affollato di uomini della compagnia in libert. Come ulteriore svago, gli uomini del Battaglione 101 disponevano di un campo da bocce, che avevano costruito nell'officina. Il gioco delle bocce la quintessenza del gioco sociale, un gruppetto di uomini - da due a sei - che si raccoglie in fondo al campo per gareggiare in bravura, tra scherzi e grida di incoraggiamento (13). I realizzatori dell'Olocausto disponevano di tempo libero da impiegare, secondo il luogo in cui erano di stanza, in una serie di attivit che consentivano, o persino stimolavano, quell'attivazione delle facolt morali che porta ad assumere una posizione personale. Che fossero in chiesa, al campo giochi, o radunati in gruppo in un bar a bere e a contemplare lo spettacolo della loro esistenza, quegli uomini vivevano anche nel mondo morale della riflessione, della discussione e delle divergenze. Non era possibile non reagire, non avere opinioni, non emettere giudizi sugli eventi grandi e piccoli che si susseguivano ogni giorno. Alcuni andavano in chiesa, pregavano Dio, meditavano sugli eterni quesiti, recitavano preghiere che li richiamavano ai doveri verso il prossimo; i cattolici facevano la comunione e si confessavano (14). E di notte quanti assassini raccontavano alla moglie o alla fidanzata le loro attivit genocide? I tedeschi dei battaglioni di polizia non erano servili esecutori di ordini, come dimostrano i frequenti richiami dei superiori sia per le omissioni sia per le vere e proprie trasgressioni: la passione per le

riprese fotografiche delle eroiche gesta contro gli ebrei, per esempio, fu frenata da una serie continua di divieti, ma invano (15). Non erano dei robot; avevano opinioni sulle regole che li governavano, opinioni che ovviamente determinavano le loro preferenze e le concrete scelte se aderire o no a quelle regole e, in caso affermativo, in quale maniera. Le testimonianze successive non parlano quasi mai delle attivit di svago; agli inquirenti interessa interrogarli sui loro delitti, non sulla frequenza con cui andavano a teatro, sul numero dei goal segnati nelle partite di calcio, su quello che si dicevano ritrovandosi al circolo. Apprendiamo poco, quindi, dalle voci dei realizzatori su tutta una serie di attivit che dobbiamo invece conoscere, se vogliamo fornire una ricostruzione completa del carattere della loro vita di guerrieri dell'ideologia. Sarebbe particolarmente interessante conoscere le reazioni suscitate da certi ordini che ricevettero riguardo agli animali, ordini che sarebbero apparsi sinistramente ironici e inquietanti a chiunque non fosse votato al credo antisemita del nazismo. Un Ordine di reggimento dell'agosto 1942 informa la truppa che il Governatorato generale stato proclamato zona di epizoozia ("Tierseuchengebiet"), e prescrive alcune procedure per la cura dei cani poliziotto, da sottoporre ad attenta visita medica, soprattutto quando venivano trasferiti da una zona all'altra: L'addestratore dovr sempre tenere sotto attento controllo il proprio cane, portandolo al locale veterinario di polizia al primo segno di malessere o alterazione nel comportamento dell'animale (16). La preoccupazione per il benessere dei cani (che dopo tutto erano utili anche per aggredire gli ebrei) e per la prevenzione delle malattie contagiose comprensibile. Ma nel leggere questo avviso, a nessuno degli assassini venne in mente la differenza fra il trattamento riservato ai cani e agli ebrei? Al primo segno di malessere si doveva far visitare il cane dal veterinario. Per gli ebrei malati, specie se gravi o con il minimo sintomo di un male contagioso come il tifo, non c'erano visite del medico. Di regola, i tedeschi combattevano le malattie degli ebrei con un proiettile, o con un viaggio di disinfestazione sociobiologica nelle camere a gas. Non soltanto curavano le malattie dei cani e degli ebrei in modi diametralmente opposti, ma ammazzavano anche gli ebrei sani con il pretesto formale della malattia, ingannevole eufemismo del genocidio.

Per i tedeschi, l'essere ebreo era ormai sinonimo di malattia, una malattia considerata e trattata come una cancrena, che andava tagliata dal corpo sociale. Uno slittamento di valori espresso con orgoglio da un medico tedesco di Auschwitz: Naturalmente sono un medico, e il mio scopo conservare la vita. Proprio per rispetto della vita umana, asporterei un'appendice cancrenosa da un corpo malato. L'ebreo l'appendice cancrenosa del corpo dell'umanit (17). Il desiderio di prevenire le malattie dei cani poliziotto pu essere considerato un provvedimento utilitaristico. Ma anche l'affetto che legava un generale delle S.S. al suo cane poteva bastare per muovere all'azione gli agenti del genocidio. Nell'ottobre 1942 gli uomini del Reggimento 25 appresero dalla postilla aggiunta a un ordine che qualche settimana prima un pastore tedesco giallo di quattordici mesi, che risponde al nome di Harry, era saltato da un treno nei pressi di Lublino e non era ancora stato ritrovato. Si richiede a tutte le stazioni di cercare il cane perch venga restituito al suo padrone (18); chi lo avesse trovato avrebbe dovuto comunicarlo al quartier generale del reggimento. Grazie alle missioni di ricerca degli ebrei nascosti, gli uomini che ricevettero quest'ordine erano quasi tutti abituati a battere la campagna; forse ognuno di loro stava all'erta anche per il cane, mentre passava al setaccio il terreno a caccia dell'ultimo ebreo. Se mai lo trovarono, la sorte del cane fu di gran lunga preferibile a quella degli ebrei. Da ogni punto di vista, e i tedeschi avrebbero concordato, era meglio essere un cane. Gli ordini riguardanti i cani avrebbero forse potuto indurre i tedeschi a ripensare a ci in cui erano impegnati, se la loro sensibilit fosse stata anche lontanamente assimilabile alla nostra; il confronto fra il modo in cui si dovevano trattare i cani e il trattamento effettivamente riservato agli ebrei avrebbe dovuto indurli a un esame di coscienza. Ma per quanto inquietanti potessero risultare i confronti evocati da questi ordini per una mente non nazificata, l'effetto psicologico di una serie di prescrizioni contro la crudelt verso gli animali sarebbe dovuto essere quantomeno devastante. L'11 giugno 1943 il comandante del Reggimento 25 rimprover ai suoi uomini la mancata affissione dei fogli informativi sulla protezione degli animali ("Tierschutz").

Questa negligenza lo induceva a ritenere che non si presta la dovuta attenzione alla protezione degli animali, e continuava: "Occorre prendere con rinnovata lena provvedimenti contro le sevizie sugli animali ['Tierqulereien'], che devono essere denunciate al reggimento. Particolare attenzione va dedicata ai bovini da macello, perch a seguito del sovraffollamento nei vagoni si sono verificate sensibili perdite di capi, con grave danno per gli approvvigionamenti alimentari. Le note allegate devono essere utilizzate come materiale didattico" (19). I carnefici genocidi, i torturatori, emettevano e ricevevano ordini che invitavano ad aver cura degli animali. E quell'ordine parlava persino del problema delle vacche troppo stipate nei carri bestiame! Si faccia il confronto con quanto dice un membro del Battaglione 101 su come furono ammassati nei carri gli ebrei di Miedzyrzek: Ricordo che fu particolarmente crudele il modo in cui gli ebrei furono stipati nei vagoni. Erano tanto pieni che si faticava a chiudere le porte scorrevoli. Non di rado occorreva aiutarsi coi piedi (20). Cos assurdo era il mondo tedesco in epoca nazista da produrre questo accostamento rivelatore tra la sollecitudine verso gli animali e la spietata crudelt verso gli ebrei (21). In Polonia, l'ordine di non stipare troppi ebrei nei carri bestiame non arriv mai ai tedeschi, che deportavano quella gente verso la morte usando pugni e calci per pigiarne quanti pi possibile in ogni vagone. Gli stessi carri bestiame trasportavano le vacche e gli ebrei: era chiaro a tutti gli interessati quale dei due carichi meritasse il trattamento pi decente e umano. Le vacche non andavano stipate nei vagoni perch producevano cibo, ma non era soltanto per questo. Durante tutto il periodo nazista i tedeschi si diedero un gran da fare per evitare i maltrattamenti agli animali: per loro, si trattava di un imperativo morale (22). Per quanto efficaci possano apparire a nostri occhi il contrasto fra i due tipi di carro bestiame, nonch la sequela di ordini che imponevano di trattare in modo umano gli animali, con ogni probabilit i tedeschi di allora non se ne accorsero nemmeno. Quelle che a noi suonano come ironie, cos sfacciate da non poter sfuggire a nessuno, cos crudeli da dover turbare chiunque ne fosse toccato, non furono probabilmente nemmeno percepite dai realizzatori.

Non ci potevano arrivare: il loro apparato cognitivo era tale che il contrasto non veniva neppure registrato. Nei confronti degli ebrei ognuno dei realizzatori era, per citare il titolo di una delle commedie rappresentate per intrattenerli, un Uomo senza cuore ("Mann ohne Herz") (23). Possiamo stare certi che non colsero nemmeno l'ironia di quel titolo. Queste storie di alcuni dei battaglioni di polizia - erranti coorti genocide di guerrieri dell'ideologia che cancellavano dalla faccia della terra una comunit ebraica dopo l'altra - non sono casi isolati o singolari. Le stesse vicende di orrore e intenzionale ferocia si ripropongono, nei tratti essenziali, per una lunga schiera di battaglioni di polizia. Quelli che abbiamo preso in esame (i Battaglioni 309,133, 65 e 101) non furono tra i pi sanguinari (si veda la tabella a lato), e le loro non furono azioni eccezionali rispetto ai livelli di brutalit e crudelt raggiunti dalla polizia tedesca durante l'Olocausto. Detto questo, che altro aggiungere, pi in generale, sul contributo complessivo dei battaglioni di polizia all'Olocausto? Com' ovvio, non tutti i battaglioni presero parte ai massacri genocidi; molti semplicemente non ne ricevettero mai l'ordine. La percentuale di quelli che si resero complici del genocidio non ci pu dire nulla, quindi, perch non si trattava di mansioni volontarie: il regime non pubblicava bandi di arruolamento che offrissero a reparti o uomini particolarmente assetati di sangue la possibilit di entrare nei ranghi dei carnefici genocidi. Ad alcuni battaglioni di polizia capitarono in sorte gli eccidi, ad altri no. Nulla sta a indicare che il regime esitasse a impiegarli per i massacri di ebrei, n che esistessero discriminazioni tra i battaglioni nella loro assegnazione, sulla base di un qualunque criterio, di preparazione o predisposizione, che in qualche modo tenesse conto del carattere dei reparti stessi e degli uomini (24). Fu il caso, molto spesso, a decidere quali battaglioni dovessero ammazzare gli ebrei e quali no. Ai fini dell'analisi del ruolo dei battaglioni nel genocidio sono quindi rilevanti soltanto le azioni degli uomini nei reparti che ebbero l'ordine di deportare gli ebrei verso la morte o di ucciderli con le loro stesse mani. A questo punto si possono avanzare alcune considerazioni generali. Il numero dei battaglioni di polizia che contribuirono all'Olocausto sufficiente a far considerare la loro partecipazione un fatto assolutamente ordinario, come difatti era.

Il regime si affidava per routine ai battaglioni come esecutori della sua volont genocida. La mia ricerca, vasta ma non esauriente, mi ha portato a identificare almeno 38 battaglioni che ammazzarono o deportarono ebrei nei campi nella morte con le procedure descritte per i Battaglioni 65 e 101 (senza dubbio sar possibile identificarne altri). Per alcuni di questi il materiale tanto scarso che nulla si pu dire del carattere e della portata delle loro azioni se non che essi perpetrarono eccidi in massa di ebrei. Di questi 38, almeno 30 realizzarono eccidi o deportazioni su "vasta scala". La tabella che segue elenca solo alcuni dei pi vasti eccidi (oltre mille vittime) perpetrati dai 30 battaglioni. Insieme con altri reparti essi commisero comunque un numero enorme di altri massacri, grandi e piccoli, che qui non compaiono (25). TABELLA. [Il numero dato come prima voce quello del Battaglione di polizia; seguono l'indicazione della Localit, la Data del massacro e infine il Numero delle vittime]. 3: Unione Sovietica, Dicembre 1941: Centinaia di migliaia di vittime. 9: Unione Sovietica, Giugno-dicembre 1941: Centinaia di migliaia di vittime. 11: Sluck, Autunno 1941: Migliaia di vittime. 13: Distretto di Mlawa, Novembre-dicembre 1942: 12 mila vittime. - Plhnen, Fine del 1942: 5 mila vittime. 22: Riga, Novembre-dicembre 1941: 25.000 mila vittime. - Sluck, 8-9 febbraio 1943: 3 mila vittime. 32: Leopoli, Settembre 1941: Migliaia di vittime. 41: Ghetto di Varsavia, Inizio del 1943: Decine di migliaia di vittime. - Majdanek, 3 novembre 1943: 16 mila vittime. - Poniatowa, 3 novembre 1943: 14 mila vittime. 45: Berdicev, 12 settembre 1941: 1000 vittime. - Babi-Yar, 29-30 settembre 1941: 33 mila vittime. 53: Ghetto di Varsavia, Inizio del 1943: Decine di migliaia di vittime. 64: Sajmiste, 26 settembre 1941: 6000 vittime. 65: Siauliai, Estate 1941: 3000 vittime. - Cracovia, Estate e autunno 1942: Migliaia di vittime. 67: Szczebrzeszyn, Autunno 1941: 1000 vittime. - Dintorni di Zamosc, Estate o autunno 1942: 2000 vittime. - Bilgoraj, Autunno 1942: 1200 vittime.

96: Rovno, 7-8 novembre 1941: 21 mila vittime. 101: Parczew, Agosto 1942: 5000 vittime. - Miedzyrzec, 25 agosto 1942: 10 mila vittime. - Majdanek, 3 novembre 1943: 16 mila vittime. - Poniatowa, 3 novembre 1943: 14 mila vittime. 133: Stanislaww, 12 ottobre 1941: 12 mila vittime. - Nadvornaija, 16 ottobre 1941: 2000 vittime. - Del'atin, Due stragi, autunno 1941: 2000 vittime. 251: Bialystok, 16-20 agosto 1943: 25 mila - 30 mila vittime. 255: Bialystok, 16-20 agosto 1943: 25 mila - 30 mila vittime. 256: Bialystok, 16-20 agosto 1943: 25 mila - 30 mila vittime. 303: Babi-Yar, 29-30 settembre 1941: 33 mila vittime. - Zitomir, Settembre 1941: 18 mila vittime. 306: Luninec, 4 settembre 1942: 2800 vittime. - Vysokye, 9 settembre 1942: 1400 vittime. - David Gorodok, 10 settembre 1942: 1100 vittime. - Stolin, 11 settembre 1942: 6500 vittime. - Janw Podlaski, 25 settembre 1942: 2500 vittime. - Pinsk, 29 ottobre -1 novembre 1942: 16200 vittime. 307: Brest-Litovsk, Primi di luglio 1941: 6000-10 mila vittime. - Tarnw, Giugno 1942: 16.000 - Neu Sandau (Nowy Sacz), Agosto 1942: 18 mila vittime. 309: Bialystok, 27 giugno 1941: 2000 vittime. 314: Dnepropetrovsk, Novembre 1941: Migliaia di vittime. - Charkov, Gennaio 1942: 10 mila- 20 mila vittime. 316: Bialystok, 12-13 luglio 1941: 3000 vittime. - Mogilev, Novembre 1941: 3700 vittime. - Bobrujsk, Fine del 1942: 2000 vittime. 320: Kamenec-Podol'skij, 27-28 agosto 1941: 23600 vittime. - Rovno, 7-8 novembre 1941: 21 mila vittime. - Kostopol, 14 luglio 1942: 5000 vittime. - Pinsk, 29 ottobre-primo novembre 1942: 16200 vittime. 322: Bialystok, 12-13 luglio 1941: 3000 vittime. - Mogilev, 19 ottobre 1941: 3700 vittime. - Minsk, Novembre 1941: 19 mila vittime. - Minsk, 28-30 luglio 1942: 9000 vittime. Terzo squadrone Polizia a cavallo: - Majdanek, 3 novembre 1943: 16 mila vittime. - Poniatowa, 3 novembre 1943: 14 mila vittime. - Trawniki, 3 novembre 1943: 12 mila vittime.

Battaglione "Gendarmerie" motorizzato: - Majdanek, 3 novembre 1943: 16 mila vittime. - Poniatowa, 3 novembre 1943: 14 mila vittime. Primo Battaglione Polizia della Guardia (Posen): - Stryj, Estate 1943: 1000 vittime. - Drogobyc, 1943: 1000 vittime. - Rogatin, 1943: ghetto epurato. - Tarnopol, Estate 1943: ghetto epurato. Compagnia riserva di Polizia Colonia: - Kielce, 20-24 agosto 1942: 20 mila vittime. - Ghetto di Varsavia, Maggio 1943: Migliaia di vittime. Gli uomini dei battaglioni sapevano, senza possibilit di equivoci, che non si chiedeva loro di prender parte a un qualsiasi intervento militare particolarmente duro, giusto o ingiusto che fosse, come la fucilazione di cento ostaggi in una citt per rappresaglia contro la popolazione locale accusata di aver aiutato i partigiani. Mentre massacravano migliaia di persone, o spedivano intere comunit stipate nei carri bestiame verso le fabbriche della morte, i tedeschi non potevano illudersi di essere null'altro che una coorte genocida, anche se forse non lo dicevano apertamente. E' difficile stabilire quanti tedeschi parteciparono alle operazioni di morte di questi battaglioni. Non conosciamo le dimensioni effettive di ciascun reparto, e non sempre possibile accertare quanti uomini di ciascun battaglione intervennero direttamente nelle deportazioni e negli eccidi. Il personale dei battaglioni cambiava, a seguito di perdite e trasferimenti, il che fa senza dubbio aumentare il numero dei tedeschi che si resero complici del genocidio sotto la loro egida. Si possono ipotizzare alcune stime approssimative, tutte arrotondate per difetto. Se assumiamo come dimensioni medie di un battaglione i 500 effettivi (e probabilmente erano di pi), ne deriva che i 38 battaglioni che sappiamo aver preso parte all'uccisione di massa degli ebrei erano composti da 19 mila uomini. In base a questo calcolo, i tedeschi dei 30 battaglioni che perpetrarono i massacri pi ingenti erano 15 mila. Non possiamo stabilire con certezza quale percentuale degli uomini di ciascun battaglione abbia partecipato alle esecuzioni; sappiamo comunque che in genere i reparti impegnati negli eccidi su vasta scala impiegavano

un'altissima percentuale degli effettivi; in molti casi le testimonianze indicano che fu coinvolto fino all'ultimo uomo di ciascun battaglione (26). Se pure il numero dei tedeschi che possiamo considerare realizzatori fu lievemente inferiore rispetto alle stime degli effettivi di quei battaglioni di polizia cos propensi al genocidio, si tratta comunque di cifre impressionanti; e molti di loro erano tedeschi comuni. La composizione dei singoli reparti non incideva per nulla sul loro rendimento. Che fossero soprattutto riservisti oppure professionisti, e qualunque fosse la proporzione tra i due elementi, svolgevano il loro compito allo stesso modo, con effetti micidiali. Indipendentemente dalla percentuale di uomini del partito o delle S.S. nei loro ranghi, nell'insieme i battaglioni si dedicarono al genocidio con un impegno di cui Hitler poteva andar fiero. Le testimonianze successive non rilevano modi di agire percepibilmente diversi tra gli iscritti al partito o alle S.S. e gli altri. Pare che il problema non si ponesse, molto probabilmente perch quando si trattava della loro attivit pi importante non esistevano differenze, e men che meno differenze formali, tra chi apparteneva alle due maggiori istituzioni del nazismo e chi no. Nella Germania nazista uccidere gli ebrei era un grande fattore di livellamento, di parificazione, che cancellava le differenze, normali in altri campi di attivit, tra tedeschi diversi per origine, professione e opinioni. Anche le vicende istituzionali dei battaglioni erano irrilevanti ai fini della disposizione e dell'efficacia genocida dei loro uomini. Dal loro comportamento di assassini genocidi impossibile determinare se fossero stati al fronte o no, se avessero conosciuto o no gli orrori della guerra e la paura di morire. Il Battaglione di Polizia 65 ammazz degli ebrei prima di essere mandato al fronte, nel Nord dell'Unione Sovietica dove fu circondato, combatt per la sopravvivenza e sostenne pesanti perdite. Poi, dopo il battesimo alle sofferenze della guerra, ammazz altri ebrei nel Governatorato generale. L'abbrutimento, conseguenza della battaglia, non ebbe alcun effetto apprezzabile sul modo in cui trattavano gli ebrei, che a quanto risulta non si modific nemmeno dopo un impegno prolungato nelle azioni genocide. Nel massacro d'esordio, con qualche eccezione dovuta al disgusto per l'orrore degli eccidi, l'atteggiamento dei tedeschi, lo zelo con cui svolgevano il loro compito e l'ottima qualit di quella apocalittica produzione rimasero costanti per tutta la durata della loro vita nella coorte genocida.

L'idea quindi che col procedere degli eccidi gli uomini sentissero sempre meno inibizioni nei confronti degli ebrei, o che venissero abbrutiti dagli effetti psicologici dei macelli continui, e che fosse questa (se cos fu davvero) la causa che li indusse ad agire come agirono, non sostenuta - anzi smentita - dai fatti (27). I battaglioni di polizia - i pi innocenti come i pi esperti, i pi protetti come i pi esposti ai pericoli e alle privazioni - ammazzavano gli ebrei con un'efficienza che avrebbe soddisfatto l'antisemita pi virulento e patologico. Hitler e Himmler potevano ben esserne compiaciuti. I tedeschi dei battaglioni massacravano gli ebrei nelle pi diverse formazioni e nei pi svariati contesti. Vi furono eccidi condotti da interi battaglioni, da compagnie, a volte da un solo plotone. Nei massacri di vaste dimensioni uccidevano a fianco di altre unit, di polizia e no, insieme a tedeschi e ad ausiliari non tedeschi; nei massacri minori uccidevano in piccoli gruppi. A volte erano controllati da un ufficiale, altre volte gli uomini di leva assegnati all'eccidio agivano senza alcuna sorveglianza. Nulla ci induce a ritenere che le dimensioni del distaccamento o la misura della supervisione esercitata dagli ufficiali in una data operazione fossero determinati da altro che da considerazioni puramente pratiche, sul numero di uomini ritenuto necessario per eseguire l'ordine. I tedeschi dei battaglioni di polizia non avevano difficolt n nelle grandi operazioni coordinate, n in quelle per gruppi di medie dimensioni, n quando si trattava di pattuglie di due, tre, cinque uomini. Svolgevano sempre il compito assegnato, si trattasse dell'evacuazione di un ghetto, di una deportazione, di una fucilazione in massa, di una missione di ricerca ed eliminazione: era gente flessibile, versatile e ferrata nel suo mestiere. All'assenza di variazioni significative nel modo di agire dei tedeschi dei diversi battaglioni di polizia in relazione alla composizione, alla storia e al contesto immediato delle azioni di ciascuno, corrispondeva un'analoga assenza di distinzione tra quanto facevano questi uomini e il modo di agire degli "Einsatzkommandos" e delle altre unit S.S.. Oltre a essere diversi per composizione, per esempio, i battaglioni di polizia e gli "Einsatzkommandos" lo erano anche per identit istituzionale. I primi erano addetti formalmente e principalmente all'attivit di polizia e all'ordine pubblico. Come gli "Einsatzkommandos" dovevano provvedere anche alla sicurezza della zona assegnata - cio combattere i nemici del regime - ma erano stati

addestrati (sia pure affrettatamente) come poliziotti, nello spirito della polizia, o meglio forse della polizia coloniale. Gli "Einsatzkommandos" invece erano per vocazione dichiarata guerrieri dell'ideologia, che riconoscevano come propria ragione d'essere lo sterminio degli ebrei. Anch'essi svolgevano altri compiti, ma il loro primo dovere era di uccidere i nemici del regime. Nonostante le identit e gli orientamenti divergenti, i battaglioni di polizia e gli "Einsatzkommandos" si somigliavano molto nel modo di operare e di trattare gli ebrei. Due aspetti importanti, per, li distinguono. In genere gli "Einsatzkommandos" erano stati iniziati gradatamente ai massacri genocidi, avevano cominciato uccidendo solo gli uomini, risparmiandosi il compito psicologicamente pi difficile del massacro di donne e bambini, prendendo il tempo per meglio acclimatarsi nella nuova professione. Cos avvenne anche per i tedeschi dei pochi battaglioni di polizia che intervennero nella prima fase dell'aggressione agli ebrei sovietici. Ma per tanti altri non vi fu alcuna iniziazione graduale all'annientamento genocida. Fra le loro prime vittime vi furono numerosissime donne e bambini, che ne sottoposero la dedizione e la saldezza dei nervi a prove ben pi ardue. I tedeschi si erano certo accorti che, contrariamente a quanto previsto in origine, non era necessario attutire l'impatto del genocidio sugli uomini. Qualcuno inizialmente ne risentiva, ma la maggioranza si adattava agli eccidi senza fatica n perdita di tempo. Per il Battaglione 101 le cose andarono comunque al contrario: cominciarono uccidendo soprattutto donne, bambini, vecchi e malati, perch gli uomini pi sani venivano selezionati per la deportazione nei campi di lavoro. A quell'epoca, peraltro, il massacro genocida era diventato tanto normale che un eccidio selettivo sarebbe stato controcorrente rispetto allo spirito e alle procedure dell'"Aktion Reinhard". In secondo luogo, era compito esplicito dei battaglioni di polizia anche in questo caso, fin dagli esordi del loro contributo al genocidio - annientare i ghetti ebraici (piaghe, per l'occhio germanico, sul corpo della societ) nel duplice senso di uccidere gli abitanti e di distruggere le istituzioni sociali. I tedeschi scovavano gli ebrei nascosti e uccidevano sul posto, a volte nel loro letto, i vecchi e i malati.

Le evacuazioni dei ghetti, descritte pi sopra, si trasformavano in scene selvagge che non avevano nulla dell'operazione militare. Fin dall'inizio fu chiaro a tutti gli interessati che dietro quegli spettacoli orrendi, danteschi, non c'era la minima logica militare. Le evacuazioni dei ghetti richiedevano volont e spirito di iniziativa in misura maggiore degli eccidi pi ordinati, pi (apparentemente almeno) militareschi, perpetrati nella fase iniziale dagli "Einsatzkommandos" (28). A conti fatti dunque, sia pure marginalmente, gli uomini di alcuni dei battaglioni di polizia affrontarono un percorso pi impegnativo e psicologicamente pi arduo. A differenza dagli "Einsatzkommandos", non furono iniziati al massacro genocida per gradi e come parte integrante della loro operativit si videro assegnare l'estinzione di ogni forma di vita nei ghetti, con tutte le brutalit che l'accompagnavano. Vale la pena di sottolineare che queste differenze non si davano in tutti i casi, e in definitiva, per quanto significative, sono soltanto differenze di grado; il loro valore e gli effetti psicologici sui realizzatori rimangono discutibili. E' certo comunque che, alla luce del massacro genocida che era l'attivit essenziale dei tedeschi, le divergenze sono eclissate dalle analogie; nell'insieme le azioni dei battaglioni di polizia e quelle degli "Einsatzkommandos" furono sostanzialmente uguali. Lo studio dei battaglioni di polizia evidenzia infine due dati di fatto fondamentali: in primo luogo, i tedeschi non avevano difficolt nel trasformarsi in assassini genocidi; in secondo luogo, diventavano tali pur non essendovi costretti. Il regime colmava i ranghi di molti battaglioni di polizia nel modo pi casuale, ed era quindi estremamente probabile una forte presenza di tedeschi comuni, gente che per molti aspetti decisivi poteva essere considerata rappresentativa dell'intera societ. I dati biografici degli uomini del Battaglione 101 lo confermano. Abbiamo comunque effettuato un'ulteriore campionatura su due altri battaglioni della riserva di polizia che perpetrarono un gran numero di eccidi, il 65 e il 67, per verificare che la composizione del Battaglione 101 non fosse atipica. Il campione di 220 uomini di entrambi i reparti ci ha dato 40 iscritti al Partito nazista, cio il 22,3 per cento, e 13 S.S., cio il 6 per cento. Nei due battaglioni la percentuale degli iscritti al partito era inferiore rispetto al 101, mentre quella delle S.S. era leggermente superiore.

Dei 770 uomini che costituiscono il campione complessivo per i tre battaglioni, 228 (29,6 per cento) erano iscritti al partito, e solo 34 (4,4 per cento) appartenevano alle S.S.. Dal confronto con questi due battaglioni, la nazificazione del 101 non era dunque superiore alla norma dei battaglioni di polizia. Quei tedeschi - per le affiliazioni istituzionali precedenti, per la provenienza sociale e persino, con qualche differenza di poco conto, per l'entit della preparazione ideologica - erano comuni esponenti della loro societ. Diciassette almeno dei 38 battaglioni che perpetrarono massacri genocidi, e 14 dei 30 che lo fecero su vasta scala, includevano un numero elevato di non professionisti, i cui profili corrispondevano con ogni probabilit a quelli del campione, in quanto i metodi di reclutamento erano identici (29). Come dimostrano inoltre i relativi programmi, per la maggior parte di loro l'addestramento fu ben poca cosa, perch il regime nazista e la "Ordnungspolizei" non concepivano nemmeno che dovesse essere necessaria un'ulteriore preparazione psicologica per ottenere la disponibilit di quegli uomini a prender parte all'eccidio degli ebrei. Esisteva infine la possibilit individuale di evitare le esecuzioni, o quantomeno di esimersi di tanto in tanto dall'attivit genocida diretta. E' dimostrato che questa possibilit fu pi volte offerta agli uomini di molti battaglioni, ed probabile (pur non essendo documentato) che cos avvenisse nella grande maggioranza dei casi. E' dimostrato che ad almeno 8 diversi battaglioni di polizia, e a un'altra unit della stessa categoria, il Battaglione "Gendarmerie" motorizzato, fu comunicato che gli uomini non sarebbero stati puniti se si fossero rifiutati di uccidere (30). Nel caso del Battaglione 101 la cosa documentata al di l di ogni possibilit di equivoco. La generale sollecitudine dimostrata da molti comandanti che consentivano ai loro uomini di sottrarsi senza difficolt alle esecuzioni trasse probabilmente forza anche da un'altra fonte: secondo alcune testimonianze parrebbe che Himmler avesse diramato un ordine generale che autorizzava l'esenzione dalle stragi dei membri delle forze di polizia e di sicurezza che ne avessero fatta richiesta (31). E' molto probabile che anche gli uomini degli altri battaglioni fossero stati informati della possibilit di farsi esonerare, anche se le testimonianze successive non lo rivelano: ammetterlo equivarrebbe a un'autoaccusa. Il maggiore comandante della Divisione operazioni del Reggimento 25 riferisce di un colonnello che chiese di essere esonerato dal servizio a

Leopoli perch la sua coscienza non gli consentiva di continuare a uccidere, e ottenne un importante incarico a Berlino. Il maggiore, che indubbiamente avrebbe saputo di ogni caso del genere verificatosi nel reggimento, dato che era lui l'ufficiale incaricato di quelle procedure, dichiara esplicitamente che a quanto gli risulta nessun uomo della "Ordnungspolizei" che rifiutasse di prender parte al genocidio fu per questo mai punito (32). Anche in assenza dell'annuncio ufficiale, comunque, gli uomini dei battaglioni si sarebbero potuti dar da fare per tentare di esimersi da quel compito oneroso. Potevano chiedere il trasferimento; potevano dichiarare di non considerarsi adatti all'incarico. I comandanti di molti battaglioni vengono descritti dai loro sottoposti come persone paterne, comprensive o gentili (33); non era certo difficile rivolgersi a un ufficiale di quel tipo per spiegargli che uno proprio non ce la faceva, ad ammazzare i bambini. E nella peggiore delle ipotesi, potevano sempre fingere un esaurimento nervoso. Vi furono senza dubbio tentativi isolati di evitare gli eccidi, ma a quanto risulta furono davvero pochi (34). I tedeschi dei battaglioni di polizia erano esseri pensanti, dotati di facolt morali, che non potevano non avere un'opinione sugli eccidi che andavano perpetrando. E' quindi significativo che, nelle voluminose testimonianze autoassolutorie del dopoguerra, il diniego di avervi preso parte, e di averli approvati, venga reso dal testimone con riferimento quasi esclusivo a se stesso. Se la frequenza ossessiva di questi dinieghi corrispondesse davvero alle condizioni prevalenti al momento degli eccidi, ci significherebbe che vi fu una diffusa opposizione ai massacri, e quindi un clima di condanna che gli uomini avrebbero condiviso tra loro. Dovremmo dunque aspettarci che - se queste conversazioni fossero davvero avvenute - intere legioni di singoli realizzatori, l'uno a sostegno dell'altro, rendessero testimonianza delle discussioni con i camerati sulla criminalit dei massacri, delle proteste che uno comunicava all'altro nel vedersi costretto a quel delitto. E, invece, di un'opposizione di principio agli eccidi da parte dei camerati del testimone non si parla quasi mai, nelle deposizioni; un'assenza che vale tanto per i battaglioni che sappiamo informati della possibilit di non uccidere, quanto per quelli per i quali non disponiamo di dati in proposito.

In definitiva, stabilire se fossero pi o meno di nove i reparti i cui uomini erano al corrente di quella possibilit non ha grande rilevanza ai fini delle conclusioni sul contributo dei battaglioni di polizia al genocidio, perch anche i tedeschi che ne erano informati uccisero come gli altri. Nove battaglioni, in tutto pi di 4500 uomini, sapevano di non essere costretti a partecipare direttamente, eppure scelsero, quasi all'unanimit, di uccidere, e di continuare a uccidere. E' importante notare che solo uno non era composto in misura predominante o consistente da riservisti. Possiamo desumerne che anche gli altri battaglioni avrebbero ucciso indipendentemente da quanto sapevano della possibilit di farsi esonerare; non esiste ragionamento o prova che ci inducano a ritenere il contrario. I nove battaglioni costituiscono un campione sufficiente ad autorizzare una conclusione generale su tutti gli altri: scegliendo di non farsi esonerare, i tedeschi dei battaglioni di polizia dichiaravano la loro volont di essere realizzatori del genocidio. Perch sarebbe dovuto essere altrimenti, se vero che concepivano gli ebrei come potenze del male? A Erwin Grafmann, per molti versi l'uomo pi estroverso e onesto del Battaglione 101 (nota 35) fu domandato per quale motivo lui e gli altri non avessero raccolto l'offerta del sergente in occasione della prima spedizione omicida, chiedendo l'esonero dal plotone d'esecuzione. La risposta fu che all'epoca, nessuno di noi ci pens nemmeno (36). L'offerta ci fu, ma n a lui n ai suoi camerati venne in mente di accettarla. Perch? Perch volevano uccidere. A proposito dell'eccidio di Jzefw, Grafmann dichiara esplicitamente: Non ho sentito uno solo dei miei camerati dichiarare di non voler partecipare (37). Facendo capire la misura del loro consenso, Grafmann conferma che quegli uomini erano preda di un'ideologia abbastanza forte da indurli a uccidere gli ebrei di propria volont: Solo anni dopo si riusc a prendere piena coscienza di ci che era avvenuto all'epoca. Cos profonda era stata la sua nazificazione che solo dopo anni (quando, dobbiamo presumere, rinsav e cominci a percepire il mondo con occhi diversi) si rese conto di ci che avevano commesso: un crimine mostruoso. Qui Grafmann intendeva dire che lui e i suoi camerati, di cui si faceva portavoce, non erano moralmente contrari al massacro degli ebrei: ci emerge con chiarezza dalle frasi successive, in cui spiega come quel giorno si fece esonerare, dopo aver gi fucilato da 10 a 20 ebrei.

Chiesi di essere esentato, soprattutto perch il mio vicino sparava troppo male. Credo tenesse sempre troppo alta la canna del fucile, perch infliggeva alle vittime ferite orribili. In qualche caso la calotta cranica si frantumava a tal punto che la materia cerebrale schizzava da tutte le parti. Non riuscivo pi a guardare (38). Grafmann dichiara esplicitamente che fu solo il disgusto a indurlo a chiedere una pausa, e non una parola induce a pensare che lui o gli altri assassini considerassero immorale quell'eccidio. Come avrebbe poi deposto al processo, solo pi tardi a Grafmann balen il pensiero che gli eccidi non fossero giusti (39). Un altro uomo del battaglione, parlando dei banditi, spiega il motivo dell'assenza di scrupoli morali circa quanto stavano facendo. Come lui stesso sostiene - e la cosa non valeva soltanto per quelli del Battaglione 101, ma per tutti i tedeschi in servizio nella Polonia orientale gli ebrei venivano automaticamente associati ai banditi e alle loro attivit antitedesche. Che idea ne avevano questo tedesco e i suoi camerati? La categoria di essere umano a loro non era applicabile... (40). Un altro carnefice genocida, di servizio in una delle unit mobili di polizia subordinate al comandante della "Ordnungspolizei" a Lublino, lo conferma. La sua candida confessione pone in netto risalto la spinta motivazionale che mosse i tedeschi a partecipare - senza coercizione, nel modo pi volonteroso e zelante, e con straordinaria brutalit - alla distruzione degli ebrei d'Europa. In poche parole, non riconoscevamo l'ebreo come essere umano (41).

NOTE AL CAPITOLO 9 N. 1. K.d.O. Lublino, Reggimento di Polizia 25, ordine di servizio n. 40 del 24 settembre 1942, Z.S.t.L. Ord. 365w, p. 155. N. 2. Ibid., pp. 171-72 (copia del Terzo Squadrone di Polizia a cavallo). N. 3. Ad esempio, per domenica 7 giugno alle ore 10 antimeridiane veniva annunciata una partita del campionato di calcio: Nel campo sportivo presso

gli alloggiamenti della truppa si disputer il campionato di calcio tra lo Sport Club di S.S. e Polizia e i biancobl della Wehrmacht. Confronta ibid., p. 19. Un altro successo sportivo venne al campionato regionale di atletica leggera di quest'anno, resoconto in Reggimento di Polizia di Lublino [25], ordine di servizio n. 26 del 18 giugno 1942, conservato ibid., p. 30. Un uomo del reggimento arriv secondo nei 100 metri piani, correndoli in 12,5 secondi. N. 4. Pare che gli uomini della "Ordnungspolizei" fossero dei cinefili accaniti, quanto meno a giudicare da un ordine del giorno del 1944, in cui si comunicava loro che gli spettacoli della Wehrmacht del sabato e della domenica erano esauriti, invitandoli a intervenire, se possibile, soltanto a quelli del luned o del mercoled. K.d.O. Lublino, ordine del giorno n. 5 del 4 febbraio 1944, in Z.S.t.L. Ord. 365A4, p. 248. N. 5. Reggimento di Polizia di Lublino [25], ordine di servizio n. 27 del 25 giugno 1942, in Z.S.t.L. Ord. 365w, pagine 38-39. N. 6. Reggimento di Polizia di Lublino [25], ordine di servizio n. 43 del 15 ottobre 1942, ibid., p. 166. N. 7. Reggimento di Polizia di Lublino [25], ordine di servizio n. 37 del 4 settembre 1943 ibid. p. 162. N. 8. K.d.O. Lublino, Dept. Ia, ordine del giorno n. 2 del 14 gennaio 1944, in Z.S.t.L. Ord. 365A4, p. 214. N. 9. Ibid. Confronta pure l'ordine di servizio n. 39 del 17 settembre, che invitava gli uomini a tenere in ordine gli alloggiamenti, astenendosi dalla grossolana negligenza a danno delle propriet dello stato (servizi, finestre eccetera) (Z.S.t.L. Ord. 365w, p. 145). N. 10. Confronta, per esempio, Raul Hilberg, "The destruction of the European Jews" cit.; Helmut Krausnick e Hans-Heinrich Wilhelm, "Die Truppe des Weltanschauungskrieges" cit.; Lucy Dawidowicz, "The War against the Jews" cit.

C' ben poco su molti aspetti della loro vita al di fuori delle attivit omicide e degli altri incarichi operativi. Lo stesso vale per Christopher R. Browning, "Ordinary Men" cit., che trascura i lati veramente comuni della loro vita di assassini. Fa eccezione a questa tendenza generale Robert Jay Lifton, "The Nazi Doctors" cit., uno studio su un gruppo piccolo e atipico di realizzatori, i medici di Auschwitz; confronta pure Tom Segev, "Soldiers of Evil: the Commanders of the Nazi Concentration Camps", New York, McGraw-Hill, 1987, ed Ernst Klee, "Euthanasie im N.S.Staat" cit. N. 11. R.E., in K.R.,.p. 34. N. 12. E.H., in "H.G.", p. 507.N. 13. H.F., in Hoffmann, p. 1389. Il carpentiere che diresse la costruzione del campo di bocce a Miedzyrzec produceva anche tavoli, sedie e brande per gli alloggiamenti, e rastrelliere per le biciclette. Fino all'aprile 1943 fu autorizzato a impiegare degli artigiani ebrei. N. 14. Gli orari delle funzioni religiose venivano regolarmente comunicati alla truppa. Il Comando di Lublino, ordine del comando n. 60 del 5 giugno 1942, per esempio, comunica che domenica 7 giugno l'esercito far celebrare due messe cattoliche, una alle 9 in una chiesa, la seconda alle 19,15 in un'altra, e avvisa che in entrambe le messe vi sar la possibilit di accedere ai sacramenti (Z.S.t.L. Ord. 365w, p. 19). N. 15. Per esempio, confronta la Sentenza contro Hermann Kraiker e altri, Schwurgericht Bochum 15 K.s. 1/66, p. 164 e BAK R19/324 (8/11/41). N. 16. K.d.O. Lublino, Reggimento di polizia 25, ordine di servizio n. 34 del 14 agosto 1942, Z.S.t.L. Ord. 365w, p. 122. N. 17. Citato da Robert Jay Lifton, "The Nazi Doctors" cit., p. 16. N. 18. Reggimento di Polizia di Lublino [25], ordine di servizio n. 43 del 15 ottobre 1942, in Z.S.t.L. Ord. 365w, p. 166. N. 19. K.d.O. Lublino, Reggimento di Polizia 25, ordine del giorno n. 24 dell'11 giugno 1943, in Z.S.t.L. Ord. 365A4, p. 174.

Nonch l'ordine di servizio n. 34 del 14 agosto 1942, in Z.S.t.L. Ord. 365w, p. 122 e Befehlshaber der Ordnungspolizei di Lublino, ordine del giorno n. 1 del 7 gennaio 1944, in Z.S.t.L. 365A4, p. 242. N. 20. F P., in "H.G.", p. 244. N. 21. Uno degli uomini del Battaglione di Polizia 101 si prese un cane, che fu chiamato Ajax: H.K., in Hoffmann, p. 2259. N. 22. Non stato scritto quasi nulla sul singolare atteggiamento dei nazisti verso gli animali. Devo buona parte di quanto so in merito a questo argomento a Erich Goldhagen, che vi ha dedicato un capitolo del suo prossimo libro. Sulle fotografie degli animali nello zoo di Treblinka, confronta Schne Zeiten cit., p. 207. N. 23. Comando di Lublino, ordine del comando n. 69 del 26 giugno 1942, in Z.S.t.L. Ord. 365w, p. 40. N. 24. O quanto meno, non ho incontrato alcuna indicazione in questo senso nella mia estesa ricerca. Era peraltro diffuso l'impiego di altre unit della "Ordnungspolizei", come la "Gendarmerie", nell'eliminazione degli ebrei delle citt in cui erano di guarnigione, il che indica inequivocabilmente che il regime considerava abile al genocidio ognuno dei suoi sudditi tedeschi. N. 25. Per quanto ne so, nessuno ha pubblicato un qualsiasi genere di elenco degli eccidi dei battaglioni di polizia. La mia lista, compilata sulla scorta di materiali in Z.S.t.L. con qualche integrazione dalla "Encyclopedia of the Holocaust" cit., non ha valore esaustivo ma illustrativo. Occorre rilevare che spesso pi di un battaglione partecipava alle esecuzioni in massa o alle deportazioni particolarmente impegnative. Non mi propongo di stabilire quanti ebrei furono uccisi da tutti i battaglioni di polizia, bens di presentare le principali operazioni genocide, e il numero degli assassinii di cui ogni battaglione si rese complice in quelle occasioni (quasi tutti i reparti perpetrarono altri eccidi di diverse dimensioni, che qui non compaiono). Quello che ci interessa stabilire che cosa si sia trovato ad affrontare ciascuno dei battaglioni.

Tutte le cifre totali sulle attivit dei battaglioni di polizia comprendono le azioni di due unit di "Ordnungspolizei" che a rigore non appartenevano al battaglione di polizia: il Battaglione motorizzato "Gendarmerie" e il Terzo Squadrone di Polizia a cavallo, che per composizione e condotta omicida non si distinguevano in nulla dai battaglioni. Operavano tutti nella regione di Lublino e in altre zone del Governatorato generale; come i Battaglioni 65 e 101, le due unit appartenevano al Reggimento di Polizia 25. E' compresa anche la Compagnia Kln della Riserva di polizia. N. 26. Confronta, per esempio, Abschlussbericht, in Z.S.t.L. 202 A.R.Z 82/61, pagine 13-16, sul Battaglione di Polizia 307. N. 27. Omer Bartov ("The Eastern Front, 1941-1945" cit.) lo ha sostenuto riguardo all'esercito tedesco in Unione Sovietica. N. 28. L'eccezione a tutto questo naturalmente costituita dai selvaggi macelli scatenati dai tedeschi lasciando mano libera contro gli ebrei a ucraini, lituani e lettoni nei primi giorni dell'invasione dell'Unione Sovietica. Furono loro a incitare e organizzare gli eccidi, e a volte parteciparono direttamente alle esecuzioni, ma in genere i tedeschi si tenevano in disparte per meglio contemplare i raccapriccianti spettacoli messi in scena da altri secondo i loro desideri. N. 29. Queste cifre sono sottostimate. E' probabile che i battaglioni in cui era forte la presenza di riservisti fossero pi numerosi: di alcuni dei reparti non conosco purtroppo la composizione. N. 30 E' certo inoltre che anche gli uomini di un altro battaglione di polizia, il nono, frazionato all'interno degli "Einsatzkommandos", sapevano di non essere tenuti a uccidere, perch agli "Einsatzkommandos" - se non a tutti, almeno ad alcuni - era stata offerta l'alternativa. Su questo ritorneremo nel capitolo 15. Ho preferito sbagliare per difetto, e ho dunque escluso questo battaglione dai miei calcoli. N. 31. Confronta, per esempio, P.K., in Z.S.t.L. 208 A.R.-Z 5/63, p. 503. Quanto alle "Einsatzgruppen", confronta Schne Zeiten cit., p. 83. N. 32. O.R, in Hoffmann, pagine 3191-92.

N. 33. Parecchi uomini del Battaglione di Polizia 309, responsabile del macello, delle fucilazioni e dell'incendio di Bialystok, parlano del comandante di compagnia, il capitano B., in termini affettuosi. Era paterno, dice uno di costoro (E.B., in Buchs, p. 1148), Con noi era paterno gli fa eco un altro (A.E., in Buchs, p. 1158). Confronta pure W.G., in Buchs, p. 1384. N. 34. Non sappiamo quanti si rifiutassero di uccidere, ma l'impressione di chiunque abbia studiato l'argomento che fossero pochi. Le attestazioni sono talmente disperse che occorrerebbero parecchi mesi di lavoro solo per raccoglierle e organizzarle. Di molte di tali rivendicazioni facile dimostrare la falsit. Su questo argomento si soffermano Herbert Jger, "Verbrechen unter totalitrer Herrschaft" cit., pagine 79-160; Kurt Hinrichsen, Befehlsnotstand, in "N.S.-Prozesse" cit., pagine 131-6l; Daniel Jonah Goldhagen, "The Cowardly Executioner" cit., n. 2, pagine 19-32; David H. Kitterman, "Those Who Said No!: Germans Wha Refused to Execute Civilians During World War Il", in German Studies Review, 11, maggio 1988, n. 2, pagine 241-54. Sulla possibilit di rifiutarsi di uccidere ritorneremo pi approfonditamente nel capitolo 15. N. 35. Una valutazione analoga compare nell'atto di accusa, in Hoffmann, p. 327. N. 36. E.G., in Hoffmann, p. 2505. N. 37. Ibid, p. 4344. N. 38. Ibid., p. 2505. N. 39. Ibid, p. 4344. N. 40. A.B., in Hoffmann, p. 6222r. N. 41. J.S., in Z.S.t.L. 208 A.R.-Z 24/63, p. 1371. Apparteneva al Terzo Squadrone Polizia a cavallo. Christopher R. Browning, "Ordinary Men" cit., p. 112, sostiene (dopo aver osservato che nelle testimonianze alcuni uomini del Battaglione 101 usano un linguaggio che riflette gli stereotipi nazisti) che i commenti di altri

poliziotti esprimono invece una sensibilit diversa, che riconosce negli ebrei degli esseri umani vittimizzati: erano coperti di stracci e mezzi morti di fame. Ma da quelle parole non si pu certo dedurre che si riconoscesse l'umanit degli ebrei, e tanto meno che li si considerasse esseri umani vittimizzati,. Anche i pi perfidi antisemiti potevano fare le stesse osservazioni oggettive sullo stato in cui versavano gli ebrei: ne un esempio la guardiana della marcia della morte di Helmbrechts citata nel capitolo 13. Tanto pi che a riprova di questa ipotesi Browning porta la dichiarazione, per quello che vale, di un solo testimone. Nelle migliaia di pagine che raccolgono le deposizioni degli uomini del Battaglione 101 gli attestati dell'umanit degli ebrei brillano invece per la loro totale assenza. Se ci si accosta al materiale con la ragionevole convinzione che quegli uomini condividessero la concezione degli ebrei proclamata nel modo pi aperto e insistente nella Germania nazista, le loro testimonianze perdono la bench minima parvenza di credibilit. Browning, convinto in buona fede che molti vedessero negli ebrei degli esseri umani vittimizzati, riesce a addurre ben poche prove a sostegno dell'ipotesi: quale migliore dimostrazione della sua inattendibilit?

PSEUDONIMI [Le leggi della Repubblica federale che tutelano il diritto alla riservatezza vietano ai ricercatori di rivelare i nomi che compaiono nelle inchieste giudiziarie, a meno che le persone non siano morte, o il loro nome sia divenuto di dominio pubblico Per questo si usano a volte degli pseudonimi per le persone citate nel testo, e iniziali per quelle nelle note]. Bekemeier, Heinrich. Bentheim, Anton. Brand, Lucia. Brand, Paul. Buchmann, Heinz. Dietrich, Max. Dressler, Alfred. Eisenstein, Oscar. Fischer, Alfred. Grafmann, Erwin.

Hahn, Irena. Hauer, Gerhard. Hergert, Ernst. Jensen, Walter. Kammer, Arthur. Kemnitz, Simon. Koch, Johann. Koslowski, Wilhelm. Mehler, Conrad. Metzger, Paul. Moering, Hermann. Nehring, Erwin. Papen, Georg. Peters, Oscar. Raeder, Karl. Reich, Hartmuth. Reitsch, Viktoria. Riedl, Sigfried. Ritter, Michael. Rust, Willi. Schfer, Rita. Schmidt, Irena. Schneider, Emma. Schoenfelder, Dott. Steinmetz, Heinrich. Vogel, Eberhard. Wagner, Karl. Weber, Alois. Wirth, Martin.

ABBREVIAZIONI BAK: Bundesarchiv Koblenz. Buch: Z.S.t.L. 205 A.R.-Z 20/60. Drr: Indagini e processo ad Alois Drr, S.t.A. Hof 2 Js 1325/62. Grnberg: S.t.L. 410 A.R. 1750/61. "H.G.": Processo a H.G. e altri, S.t.A. Hamburg 141 Js 128/65.

H.G.S: Holocaust and Genocide Studies. Hoffmann: Indagini e processo a W. H. e altri, S.t.A. Hamburg 141 Js 1957/62. H.S.S.P.F.: Hherer S.S.- und Polizeifhrer (alto grado delle S.S. e della Polizia). I.M.G.: "Der Prozess gegen die Hauptkriegszwerbrecher vor dem Internationalen Militargerichtshof, Nrnberg, 20 November 1945 - 1 Oktober 1946" (Il processo ai principali criminali di guerra difronte al tribunale militare internazionale, Norimberga, 20 novembre - primo ottobre 1946), 42 volumi. J.K.: Z.S.t.L. 206 A.R.-Z 6/62. K.d.O.: Kommandeur der Ordnungspolizei (comandante della Polizia di pubblica sicurezza) K.R.: Z.S.t.L. 208 A.R.-Z 967/69. "Nazism": "Nazism: a History in Documents and Eyewitness Accounts, 1919-1945", a cura di Jeremy Noakes e G. Pridham, New York, Schocken Books, 1988. S.S.P.F.: S.S.- und Polizeifhrer (capi delle S.S. e della Polizia). S.S.P.F. Lublin: Indagini sugli S.S.P.F. di Lublino. S.t.A.: Staatsanwaltschaft (Procura della Repubblica). S.t.A.H.: Staatsarchiv Hamburg (Archivio di Stato Amburgo) Streckenbach: Accusa contro Streckenbach, Z.S.t.L. 201 A.R.-Z 76-59. T.W.C.: "Trials of War Criminals before the Nuernberg Military Tribunals under Control Low No. 10, Nuernberg, October 1946 - April 1949" (Processi a criminali di guerra di fronte ai tribunali militari di Norimberga in base alla legge n. 10, Norimberga, ottobre 1946 - aprile 1949), 15 volumi. V.f.Z.: Vierteljahrshefte fr Zeitgeschichte. Y.V.S.: Yad Vashem Studies. Z.S.t.L.: Zentral Stelle der Landesjustizverwaltungen zur Aufklrung nationalistischer Verbrechen in Ludwigsburg (Ufficio centrale amministrativo della giustizia regionale per l'indagine sui crimini del nazionalsocialismo a L.).

SECONDO VOLUME

Parte quarta IL LAVORO DEGLI EBREI COME ANNIENTAMENTO "Il lavoro [per gli ebrei] consisteva nel saccheggio delle carovane; oggi consiste nel saccheggio dei contadini, degli industriali, delle classi medie, schiacciati dai debiti. Sono cambiate le forme, certo, ma il principio rimane lo stesso: noi non lo chiamiamo lavoro, ma rapina". Aolf Hitler, discorso di Monaco, 13 agosto 1920.

Capitolo 10 FONTI E LOGICHE DEL LAVORO DEGLI EBREI NEL PERIODO NAZISTA

Perch i tedeschi facevano lavorare gli ebrei? Perch non li uccidevano subito? Perch, laddove impiegarono gli ebrei in contesti produttivi, si affermarono logiche e pratiche del tutto singolari? La complessit delle risposte a questi quesiti una sfida al nostro buon senso, tanto che autorevoli interpreti del lavoro forzato degli ebrei si sono lasciati gravemente fuorviare. Secondo due di loro, gli esperti che pianificarono lo sterminio degli ebrei non si crogiolavano nei miti del sangue e della razza, ma ragionavano in termini di spazi economici di vasta scala, di rinnovamento strutturale, di sovrappopolazione e dei conseguenti problemi alimentari (1). Chi condivide questa impostazione ritiene in genere che lo sfruttamento tedesco della manodopera ebraica rispondesse a certi principi economici razionali, per quanto brutali. Alcuni sono arrivati a dire che la politica complessiva della mobilitazione del lavoro, e pi in generale dello sfruttamento economico, fu il momento

centrale della politica antiebraica dei tedeschi; la morte degli ebrei sarebbe stata non l'obiettivo motivante, ma soltanto un fenomeno secondario (2). Il massacro degli ebrei non fu un prodotto collaterale di altri progetti, e agli occhi di chiunque non sia impregnato dell'ideologia eliminazionista, il modo in cui i tedeschi sfruttarono il loro lavoro fu palesemente irrazionale. L'autolesionistica distruzione di una forza lavoro numerosa, abile e insostituibile nel pieno corso di una guerra totale pu essere tutto fuorch una via per arrivare a metodi di produzione pi razionali. Ma dal punto di vista "degli obbiettivi dei nazisti", e soltanto da questo, la logica con cui i tedeschi utilizzarono il lavoro degli ebrei fu - per quanto strano possa sembrare - eminentemente razionale, in quanto prodotto di un mutevole insieme di compromessi tra obiettivi incompatibili. La logica in base alla quale i tedeschi utilizzarono o no il lavoro forzato degli ebrei aveva tre motivazioni centrali. In primo luogo l'eliminazione degli ebrei e, certamente sin dal giugno 1941, il loro sterminio. La seconda motivazione, di ispirazione pragmatica ma spesso in conflitto con la prima, e quindi per lo pi ignorata dai tedeschi, era l'esigenza di estorcere agli ebrei il massimo contributo economico possibile allo sforzo bellico. La terza, meno ovvia ma non meno rilevante, costituita dai diversi compiti ai quali i tedeschi adibivano gli ebrei, e dai quali traevano una soddisfazione emotiva. In questa rientrava il desiderio di farli faticare (3). Fin dalla rivoluzione industriale il lavoro, anche se a volte considerato un'attivit intrinsecamente morale (4), stato in genere concepito come strumentale allo scopo di produrre beni e servizi utili. I criteri di valutazione della sua efficacia non hanno nulla di sentimentale: quantit e qualit di un dato bene prodotto a un dato costo. Cos era per la societ tedesca in generale, e anche per i nazisti, con un'unica, significativa eccezione: il lavoro degli ebrei. Un'idea diffusa e profondamente radicata, bench poco studiata, nella tradizione antisemita tedesca e pi generalmente europea (5), un'idea che assumeva una forza particolare nella mentalit nazificata dei tedeschi, era che gli ebrei scansassero il lavoro fisico, e pi in generale, che rifiutassero il lavoro "onesto". Lutero aveva espresso questo assioma culturale quattrocento anni prima di Hitler: Ci tengono prigionieri nel nostro paese. Ci fanno lavorare, col sudore della fronte, a guadagnare denaro e propriet per loro, e loro stanno accanto alla stufa, indolenti, flatulenti, ad

arrostire pere, a mangiare, a bere, a far la vita bella e comoda con le nostre ricchezze. Ci sbeffeggiano, ci sputano addosso, perch lavoriamo, e li accettiamo come inetti signori e padroni nostri e del nostro regno (6). Tutte le petizioni dell'imponente campagna popolare del 1849-1850 in Baviera contro l'emancipazione ribadiscono che gli ebrei rifiutano il lavoro onesto (7). Nella seconda met dell'Ottocento per tutti gli antisemiti il parassitismo fu una delle accuse portanti mosse agli ebrei: L'idea dello sfruttamento come antitesi del lavoro produttivo venne a coincidere del tutto con l'attivit degli ebrei (8). Anticipando l'uso punitivo che ne avrebbero fatto i nazisti, nel 1816 lo scrittore Friedrich Rhs asseriva che gli ebrei considerano qualsiasi lavoro una punizione (9). Il parassitismo degli ebrei fu un tema portante della conversazione sociale anche ai tempi di Weimar e nel periodo nazista. In Germania, dichiarazioni come gli ebrei non lavorano, o l'ebreo quello che gioca con il lavoro e l'industriosit altrui si leggevano e si ascoltavano di continuo (10). Hitler stesso riecheggiava questo motivo quando dichiarava in "Mein Kampf" che, pur essendo un popolo nomade, gli ebrei erano diversi dai nomadi, che avevano un rapporto definito [positivo] con l'idea del lavoro ... Nell'ebreo invece questo rapporto manca del tutto; egli non fu mai un nomade, ma sempre e soltanto un "parassita" sul corpo di altri popoli. Non era concepibile che l'ebreo facesse un lavoro onesto e produttivo, l'antitesi stessa della missione della sua vita, poich egli corrode sempre pi a fondo le fondamenta di qualsiasi economia che possa davvero fare il bene del popolo (11). La svastica - il simbolo centrale e onnipresente della nuova Germania significava proprio questo. Era il blasone della bandiera nazista, che secondo Hitler aveva questi significati: Come nazionalsocialisti, vediamo il nostro programma nella nostra bandiera. Nel "rosso" l'idea sociale del movimento, nel "bianco" l'idea nazionale, nella "svastica" la missione della lotta per la vittoria dell'uomo ariano, e in questa la vittoria dell'idea del lavoro creativo, che sempre stata e sempre sar antisemita (12). L'idea della contrapposizione assoluta tra gli ebrei e il lavoro creativo, il lavoro onesto e produttivo, era tanto fondamentale che tra tutti i significati

che avrebbe potuto attribuire ai simboli centrali del suo movimento e della nuova Germania, Hitler scelse di enfatizzare proprio questo. A quale punto i tedeschi fossero convinti che gli ebrei erano incapaci nel senso reale ed effettivo - non soltanto simbolico - di svolgere un lavoro produttivo risulta evidente da un discorso tenuto da Hans Frank, governatore tedesco della Polonia occupata, nel novembre 1941 all'Universit di Berlino. Di fronte a un pubblico di tedeschi comuni, Frank non sembra molto sicuro di riuscire a incrinare uno degli assiomi dell'antisemitismo culturale che con loro condivideva: Ma questi ebrei [del Governatorato generale] non sono soltanto il solito branco di parassiti, dal nostro punto di vista, ma "stranamente" l'abbiamo riscontrato solo laggi - esiste anche un'altra categoria di ebreo, "una cosa che mai avremmo ritenuto possibile". L ci sono degli ebrei industriosi, che lavorano nei trasporti, nell'edilizia, nelle fabbriche, e altri sono artigiani specializzati, sarti, ciabattini eccetera (il corsivo mio) (13). L'opinione dominante in Germania coincideva con quella di Hitler: gli ebrei erano parassiti il cui lavoro consisteva nel succhiare il sangue dell'industrioso popolo tedesco (14). A causa di quel modello cognitivo culturale, per i tedeschi il binomio ebrei-lavoro, e tutte le decisioni relative al lavoro degli ebrei, assumevano una dimensione morale e simbolica. Far lavorare un ebreo, per chi dell'ebreo condivideva il modello dominante in Germania, costituiva lo sfogo di un impulso, aveva, per usare il termine di Weber, una razionalit rispetto al valore (15). Era un risultato, non un mezzo, indipendente dal valore del prodotto, indipendente anzi dalla produttivit o meno del lavoro. Il lavoro degli ebrei era fine a se stesso. Il desiderio di far lavorare l'ebreo, al di l della strumentalit materiale, parrebbe nascere da due motivi interrelati, di derivazione antisemita. In primo luogo, poich per presunta predisposizione l'ebreo rifugge dal lavoro, ogni lavoro onesto per lui un pesante fardello. Il lavoro allora puniva l'ebreo fisicamente, facendo vendetta di secoli, anzi millenni, di sfruttamento. Una poesia tratta da un libro didattico di epoca nazista comunica bene questo aspetto del modello culturale cognitivo tedesco degli ebrei, che cio per loro il lavoro fosse una forma di punizione. La poesia, intitolata "Il Padre degli ebrei il Diavolo", racconta che, subito dopo la creazione del mondo, l'ebreo entr in sciopero, perch lui voleva imbrogliare, non lavorare.

Guardando gli ebrei, il Faraone decise subito: Tormenter questi lazzaroni / mi fabbricheranno i mattoni! (16). Il Faraone, l'eroe di questa poesia del 1936, esprime bene l'idea del lavoro come mezzo per tormentare gli ebrei; un precursore dei tedeschi, che riduce gli ebrei in schiavit e usa volutamente il lavoro per farli soffrire. Il secondo motivo immateriale per costringerli al lavoro era la soddisfazione che i padroni tedeschi traevano dalla vista di un ebreo che faticava e dal potersi dimostrare capaci di sottometterlo al punto di farlo agire in modo contrario alla sua natura, cio da uomo onesto (anche se mai sarebbe potuto diventarlo davvero). Veniva cos soddisfatta l'esigenza psicologica, espressa di continuo nel comportamento dei tedeschi, di esercitare un potere assoluto sugli ebrei. Proprio perch l'impulso ideologico e psicologico a far lavorare gli ebrei era tanto forte, i tedeschi li costringevano spesso a fatiche fini a se stesse. Il fenomeno del lavoro non strumentale, cio privo di qualsiasi scopo produttivo, imposto dai tedeschi agli ebrei fu diffusissimo e va posto al centro di ogni studio sul nostro argomento. Eugen Kogon, senza citare la fonte, parla del lavoro non produttivo come aspetto costante della vita a Buchenwald: Nel campo si faceva qualche lavoro utile, ma altri erano completamente senza senso, forme di tortura, distrazioni inventate dalle S.S. "per divertimento". Soprattutto gli ebrei dovevano costruire dei muri, per abbatterli il giorno dopo e poi ricostruirli, e cos via (17). L'impulso ideologico, di origine antisemita, di costringere gli ebrei a faticare trovava sfogo in tutti i territori dominati dai tedeschi. Le manifestazioni pi impressionanti avvennero in Austria nel marzo 1938, dove esplosero spontaneamente nell'euforia per l'annessione alla Germania. Nell'entusiasmo delle celebrazioni, gli austriaci inserirono subito degli atti di vendetta simbolica contro gli ebrei, che in Austria, non meno che in Germania, venivano accusati di aver sfruttato e danneggiato la societ. Come vediamo nella fotografia 24 del nostro inserto, lo spettacolo di uomini, donne e bambini ebrei costretti, in abito da festa, a lavare le strade, i marciapiedi e gli edifici di Vienna (spesso con spazzole troppo piccole e acqua mista ad acido corrosivo), fu accolto con grida di gioia e di dileggio da folle di austriaci. A Whring, uno dei quartieri pi ricchi di Vienna, i nazisti ordinarono alle donne ebree di pulire le strade con la pelliccia indosso, poi le fecero inginocchiare e urinarono loro sul capo (18).

E' questa la forma pi pura del lavoro non strumentale, l'espressione pi pura delle sue fonti ideative e psicologiche. L'atteggiamento dei tedeschi verso il lavoro degli ebrei, derivato da motivazioni contraddittorie - i desideri conflittuali di sterminarli, estorcere loro un beneficio economico e farli lavorare per lavorare port a un groviglio di provvedimenti incoerenti, spesso autolesionistici. Non era affatto chiaro, a priori, in quale modo ciascuna di quelle motivazioni avrebbe influenzato l'elaborazione e l'imposizione della politica intrapresa. In quale misura la logica ineludibile, di fronte alla carenza di manodopera in una guerra totale, che imponeva di utilizzare produttivamente il lavoro degli ebrei, avrebbe avuto la meglio sugli impulsi allo sterminio o ad altre forme di distruzione e debilitazione degli ebrei? O invece l'impiego da parte dei tedeschi del lavoro produttivo degli ebrei avrebbe avuto un ruolo del tutto marginale, per quanto significativo, nel deciderne la sorte durante il periodo nazista? Il dato principale dello sfruttamento produttivo degli ebrei che esso non ebbe "nulla" a che fare con la messa a punto del progetto complessivo dei tedeschi sugli ebrei d'Europa. La loro mobilitazione su vasta scala per il lavoro "produttivo" fu effetto di un ripensamento, quando la guerra era ormai in fase avanzata e Hitler da tempo aveva deciso la fine degli ebrei. Anche i campi erano stati concepiti in origine come sistema di detenzione, che solo in seguito, durante la guerra, quando i tedeschi avevano gi ammazzato gran parte delle loro vittime ebree, svilupp il suo forte potenziale industriale (19). Sul finire degli anni Trenta, mentre gi pesava la penuria di manodopera, i tedeschi allontanarono gli ebrei dall'economia e li cacciarono dal paese. Fu il periodo in cui le manifestazioni principali dell'eliminazionismo furono la condanna degli ebrei alla morte sociale, dopo la rottura di tutti i legami sociali con i tedeschi, e l'epurazione della Germania con l'emigrazione forzata. L'indirizzo dominante non era quindi di far lavorare gli ebrei, quanto piuttosto di impedirglielo. Il fatto che nel 1936 l'economia tedesca fosse arrivata alla piena occupazione, che non esistesse pi una riserva di forza lavoro e anzi se ne prospettasse la penuria, non devi l'imperativo eliminazionista; proprio allora i nazisti cominciarono a pianificare la "Entjudung der Wirtschaft", l'esclusione totale degli ebrei dall'economia tedesca. Il processo fu avviato l'anno successivo, e nel 1938 era a pieno regime (20).

Fu il primo esempio di quella che sarebbe diventata una scelta generale: nonostante le esigenze impellenti dell'economia, i tedeschi non utilizzarono gli ebrei per soddisfarle, arrivando piuttosto a chiudere le aziende, o a sostituire agli ebrei altra gente inferiore (spesso non altrettanto qualificata) (21). Nella loro prospettiva, ci che era razionale nei confronti degli altri popoli non lo era pi quando si trattava degli ebrei. Agli occhi dei tedeschi gli ebrei, anche integrati nell'economia, anche piegati sulle loro macchine, muti ingranaggi dello sforzo bellico tedesco, rimanevano esseri a parte. Dopo la conquista della Polonia e poi della Francia, i tedeschi mobilitarono civili polacchi e francesi per compensare, ma mai a sufficienza, la sempre pi grave carenza di manodopera dell'economia tedesca. Tirando le somme, nell'autunno del 1940 lavoravano nel Reich pi di due milioni di civili e prigionieri di guerra stranieri, pari al 10 per cento della forza lavoro totale (22). Ma i tedeschi rifiutarono di attingere a un'altra importante riserva di manodopera nei loro domini: gli ebrei polacchi. E' vero che Hans Frank, il gi citato governatore tedesco della Polonia, il 26 ottobre 1939 emise un ordine che port alla costituzione di squadre di forzati ebrei (23), ma si tratt pi di una reazione ideologica che di un provvedimento economicamente razionale: nonostante l'acuta consapevolezza delle esigenze della produzione, fin dall'inizio i tedeschi sperperarono tutto il potenziale produttivo degli ebrei polacchi. Non soltanto rifiutarono di dare un'organizzazione efficiente al loro lavoro erano tanto accecati dall'ideologia da accorgersi soltanto alla met del 1940 che i lavoratori ebrei forse erano davvero in grado di dare un contributo economico e anche allora li utilizzarono con scarsa convinzione (24) - ma presero anche misure che ne debilitarono le forze, tanto da farli morire a migliaia prima ancora dell'avvio formale della politica di sterminio. Il ghetto di Varsavia offre l'esempio migliore. Nel momento di massimo affollamento il ghetto, che ospitava 445 mila persone, era la pi grande concentrazione di ebrei, e di lavoratori ebrei, in Polonia. Le condizioni di vita sarebbero state del tutto irrazionali se nei progetti dei tedeschi per gli ebrei polacchi ci fosse stata anche solo l'ipotesi del lavoro produttivo; i tedeschi, invece, diedero una lezione da manuale su

come ridurre rapidamente dei lavoratori sani e abili in ombre di esseri umani, decrepiti scheletri viventi, o cadaveri. Il ghetto rinserrava il 30 per cento della popolazione di Varsavia sul 2,4 per cento della sua superficie, con una densit di 125 mila persone per chilometro quadrato; nelle abitazioni la densit era di nove persone per ogni locale; acqua, riscaldamento e fognature erano catastroficamente inadeguati. Sarebbero bastate l'insostenibile sovrappopolazione e le pessime condizioni igieniche per scatenare malattie e contagi, ma a confronto con la situazione alimentare, equivalente a una pianificata politica della fame, anche quelle sofferenze disumane parevano quasi sopportabili (25). La razione quotidiana ufficiale per gli ebrei del ghetto di Varsavia era di 300 calorie, contro le 634 dei polacchi e le 2310 dei tedeschi (26); ma nemmeno quella misera razione veniva concessa loro per intero (27). Le conseguenze prevedibili, e previste, non tardarono a verificarsi: gli abitanti del ghetto precipitarono ben presto in uno stato di denutrizione permanente, divenendo pericolosamente deboli e inadatti al lavoro regolare, per non dire di un lavoro che richiedesse uno sforzo fisico. Il numero dei morti nel ghetto, soprattutto di fame e delle malattie collegate, fu altissimo, una media di 4650 al mese tra il maggio 1941 e il maggio 1942, pi dell'1 per cento della popolazione al mese, il 12 per cento all'anno (28). A Varsavia l'obiettivo dei tedeschi, che rispecchiava i provvedimenti sugli ebrei polacchi in genere, era di distruggerli, non di utilizzare la loro forza lavoro (29). Che "gi nel 1940" - ben prima della scelta formale dell'obiettivo alternativo dello sterminio, e prima dell'inizio della sua applicazione che avvenne qualche mese dopo, nel giugno 1941- si fosse intenzionalmente trascurato di garantire agli ebrei uno stato di salute funzionale al lavoro di per s sufficiente ad attestare la marginalit delle considerazioni economiche nell'indirizzo della politica ebraica dei tedeschi, nonch l'inclinazione allo sterminio implicita nel loro antisemitismo razziale (30). Tra il 1940 e il 1941 continu il sacrificio della produttivit economica degli ebrei polacchi, mentre nel contempo si precettavano lavoratori fra i popoli inferiori per compensare la crescente carenza di manodopera, che nel settembre 1941 toccava i 2,6 milioni di unit (31).Nel 1942, stando alle statistiche tedesche, nel Governatorato generale c'erano pi di 1,4 milioni di lavoratori ebrei; circa 450 mila erano impiegati in modo permanente, mentre 980 mila lavorarono solo per un breve periodo. Anche di fronte alla carenza di manodopera, i tedeschi rifiutavano di utilizzare "un milione" di lavoratori ebrei (32).

Quando, tra l'autunno 1941 e il 1942, fu intensificata la mobilitazione al lavoro dei popoli non ebrei sottomessi, modificando per molti aspetti rilevanti la precedente politica, il contrasto con la razionalit dei provvedimenti concernenti gli ebrei divenne ancora pi stridente. Nonostante la decisa, e fino ad allora vincente, opposizione ideologica all'impiego dei subumani russi in territorio tedesco - una posizione puramente ideologica che indusse i tedeschi a uccidere, soprattutto per fame, in meno di otto mesi, 2,8 milioni di prigionieri di guerra sovietici, giovani e sani (33) - in quel periodo vi fu un'inversione di tendenza. Nel 1942, di fronte alle esigenze sempre pi pressanti dell'economia, cessarono di affamare a morte i prigionieri sovietici per poterne utilizzare le braccia, tanto che nel 1944 i cittadini sovietici (molti non prigionieri di guerra) impiegati nell'economia tedesca erano 2,7 milioni (34). Eppure, in questo stesso periodo si costruirono i campi della morte, e cominci la liquidazione sistematica degli ebrei d'Europa, quel grande serbatoio di braccia utili, e a volte insostituibili, a costo della chiusura di attivit funzionali all'impegno bellico (35). Quando avviarono i progetti economici per il sistema dei campi, costruendo tra l'altro grossi complessi concentrazionari con impianti industriali, in Polonia ad Auschwitz, Gross-Rosen e Majdanek, in Austria a Mauthausen, in Germania a Buchenwald e Dachau (36), i tedeschi avevano dunque gi ammazzato la maggioranza delle loro vittime ebree. Nella misura in cui, dopo il 1942, i tedeschi impiegarono gli ebrei in attivit produttive, quel lavoro fu inteso come sfruttamento temporaneo prima della morte, se non come lo strumento stesso che avrebbe dovuto ucciderli. I tassi di mortalit erano allucinanti, tanto elevati da far pensare che, per quanto riguarda gli ebrei, la convenzionale distinzione tra campi di concentramento e di sterminio vada ripensata (37). Nondimeno, pur non interrompendo lo sterminio, in grande e in piccola scala, a partire dalla fine del 1942 i tedeschi si adoperarono maggiormente per sfruttare gli ebrei in attivit produttive prima di ucciderli. In questo periodo di sfruttamento "parziale", di regola gli ebrei venivano tenuti in vita, o al lavoro, solo fino a quando la situazione militare locale non presentava qualche rischio, o fino a quando l'impulso allo sterminio diventava incomprimibile. Cos avvenne per il ghetto di Lodz, nella Polonia occidentale. Al momento della fondazione, nel 1941, il ghetto ospitava 164 mila persone; oltre 40 mila nuovi arrivi nel 1941 e nel 1942 portarono il totale della popolazione a pi di 200 mila.

Nella prima parte del 1942 i tedeschi ne deportarono 55 mila verso i furgoni a gas di Chelmno; nel ghetto rimasero poco pi di 100 mila ebrei. Nel maggio 1944, dopo altre deportazioni, e per le perdite causate dalla fame programmata (43.500 persone, un 21 per cento abbondante di tutti coloro che erano entrati nel ghetto, morirono di fame e malattie), erano ridotti a 77 mila, in larga parte impiegati in attivit produttive. Con l'avvicinarsi dell'esercito sovietico, nell'agosto 1944, i tedeschi liquidarono il ghetto, deportando tutti gli ebrei tranne uno sparuto gruppetto ad Auschwitz (38). Il lavoro aveva regalato agli ebrei una sospensione temporanea dell'esecuzione; la logica nazista imponeva che il rinvio non potesse mai diventare permanente. Anche nel periodo in cui la loro manodopera fu sfruttata pi assiduamente, i lavoratori ebrei potevano essere uccisi in massa in qualsiasi momento, con assoluta indifferenza da parte dei padroni per ci che producevano, chiudendo un'attivit industriale nel giro di una notte. Dopo la conclusione ufficiale dell'"Aktion Reinhard", nel Governatorato generale gli unici ebrei ufficialmente autorizzati a vivere erano quelli nei campi di lavoro gestiti dalle S.S. (39). Erano stati tutti selezionati come abili al lavoro, e venivano impiegati in attivit industriali connesse con la difesa. Poi all'improvviso (non furono preavvisati nemmeno i comandanti dei campi), il 3-4 novembre 1943 i tedeschi fucilarono 43 mila di quegli ebrei nell'Operazione Festa della mietitura ("Operation Erntefest"), la pi grande fucilazione in massa della guerra (40). Con il loro consueto senso dell'ironia, i tedeschi non potevano trovare nome migliore per quella mietitura festosa delle fatiche degli ebrei. Solo nel 1944, con l'ulteriore acutizzarsi della crisi economica e militare, vi fu una marcata inversione di tendenza nell'impiego produttivo degli ebrei. Obiettivo principale della politica antiebraica dei tedeschi era sempre stato di liberare il suolo della Germania della loro presenza contaminante. Nonostante la pressante carenza di manodopera, nel settembre 1942 Hitler aveva rifiutato di autorizzare Himmler e Albert Speer al trasferimento di prigionieri e brei in Germania, perch il paese doveva a ogni costo rimanere "judenrein", ripulito dagli ebrei (41). Nell'aprile 1944, un anno e mezzo dopo l'ordine di deportazione degli ultimi operai ebrei dalle industrie degli armamenti di Berlino che aveva definitivamente ripulito la Germania dagli ebrei, Hitler autorizz l'importazione di 100 mila ebrei ungheresi, altrimenti destinati

all'immediato sterminio, che lavorarono allo scavo di immensi bunker sotterranei e ad altre opere di difesa. Nonostante il trattamento spaventoso cui furono sottoposti e l'elevato tasso di mortalit, soprattutto nei lavori di costruzione sotterranei, per molti la decisione dei tedeschi di sfruttare il loro lavoro signific la salvezza. Gli altri 350 mila deportati con loro dall'Ungheria nel 1944 furono gasati ad Auschwitz (42). E nonostante la disperata situazione economica, tra gli uccisi c'erano tante braccia abili al lavoro (43). Nei suoi lineamenti generali, la politica ebraica dei tedeschi vedeva il lavoro come un'anticamera della morte. Una spaventosa carenza di manodopera li indusse, a malincuore, a utilizzare su scala massiccia i non ebrei, sicch nel 1942 pi di 4 milioni, nel 1943 pi di 6 milioni e nel 1944 pi di 7,5 milioni di civili e prigionieri di guerra stranieri si trovavano impiegati in tutti, o quasi, i settori dell'economia tedesca (44). Eppure, anche se la manodopera continuava a non bastare, i lavoratori ebrei furono trattati in tutt'altra maniera. Che la domanda di forza lavoro e la logica economica fossero fondamentalmente irrilevanti ai fini complessivi della sorte degli ebrei fu ribadito di continuo dalle autorit tedesche, con le parole e con i fatti; lo scambio che segue ne forse l'espressione pi efficace. A una interrogazione del 15 novembre 1941 del commissario del Reich per i territori orientali, che chiedeva se si dovessero liquidare tutti gli ebrei dell'Est ... senza riguardo per l'et, il sesso o l'utilit ai fini della produzione degli armamenti (specialisti del settore per la Wehrmacht, per esempio), il ministero per gli Affari orientali rispondeva che le considerazioni di carattere economico devono rimanere fondamentalmente estranee alla soluzione di questo problema (45). Se necessario, si sostituissero gli ebrei morti con altri subumani. L'abisso che secondo loro separava gli ebrei dagli altri popoli, compresi i pi spregevoli tra i subumani slavi, era tanto vasto, anche nel contesto del lavoro, che i tedeschi sembravano quasi adottare per gli uni e per gli altri dei criteri di calcolo interamente diversi (46). L'irrilevanza della produzione economica ai fini della sorte degli ebrei non influenz soltanto le linee generali della politica tedesca. E' soprattutto nel carattere del lavoro e della vita quotidiana nei campi, appunto, di lavoro che si rivela l'insussistenza delle motivazioni economiche nel desiderio dei tedeschi di far lavorare gli ebrei.

NOTE AL CAPITOLO 10 N. 1. Gtz Aly e Susanne Heim, "The Economics of the Final Solution: a Case Study from General Government", in Simon Wiesenthal Center Annual, 5, l988, p. 3. N. 2. Ibid., nonch, degli stessi, Die konomie der "Endlsung": Menschenvernichtung und wirtschaftliche Neuordnung, in "Sozialpolitik und Judenvernichtung: gibt es eine konomie der Endlsung?", Berlin, Rotbuch Verlag, 1987, pagine 11-90. Una posizione analoga assume anche Hans Mommsen, The Realization of the Unthinkable cit., pagine 11927, affiancato da buona parte della scuola marxiana contemporanea. Altri hanno energicamente dissentito da questa opinione errata (le indicazioni bibliografiche sono qui, alla nota 19), ma nemmeno questi tentativi di svelarne il significato pi profondo sono riusciti a penetrare fino agli aspetti centrali della confusa questione del lavoro ebraico nella Germania nazista. N. 3. Come per molte altre motivazioni, anche queste furono comprese soltanto in parte dai tanti e diversificati attori del dramma. Sulla possibilit che gli agenti non siano sempre consapevoli delle motivazioni, confronta Anthony Giddens, "The Constitution of Society" cit., p. 6. N. 4. Confronta, per esempio, Max Weber, "L'etica protestante e lo spirito del capitalismo", Firenze, Sansoni, 1989, e Karl MarxFriedrich Engels, "L'ideologia tedesca", Roma, Editori Riuniti, 1991. N. 5 Sulla Francia, confronta Stephen Wilson, "Ideology and Experience: Antisemitism in France at the Time of the Dreyfus Affair", Rutheford, Farleigh Dickinson University Press, 1982, pagine 265 e seguenti, 626. N. 6. Martin Lutero, "Degli ebrei e delle loro menzogne", citato in Raul Hilberg, "The Destruction of the European Jews" cit., p. 9. N. 7. James F. Harris, "The People Speak!" cit., p. 134. N. 8.

Klemens Felden, "Die bernahme des antisemitischen Stereotyps" cit., p. 20 nonch pagine 34-36. N. 9. Citato in Nicoline Hortzitz, Frh-Antisemitismus in "Deutschland" cit., p. 248; ulteriori esempi alle pagine 182-84, 24555, 312. N. 10. Confronta, per esempio, Maria Zelzer, "Weg und Schicksal der Stuttgarter Juden: ein Gedenkhuch", Stuttgart, Ernst Klett Verlag, 1964, p. 178. N. 11. Hitler, "Mein Kampf", ed. cit., pagine 333 e seguenti. E' indubbio che la struttura cognitiva che sostiene la designazione culturale di un'attivit come il lavoro contenga in genere l'idea che esso debba possedere qualche sanzione sociale, e che in linea di massima debba essere utile alla societ. Poich in buona misura la societ esiste e si riproduce per mezzo del lavoro, per un antisemita virulento difficile convincersi che gli ebrei esseri antisociali per definizione - siano capaci di lavoro onesto. E gli difficile anche non pensare agli ebrei come mentitori congeniti, come hanno fatto tutti gli antisemiti da Lutero ("Degli ebrei e delle loro menzogne") a Hitler, che dopo aver citato con approvazione Schopenhauer scriveva: L'esistenza stessa impone all'ebreo di mentire, e di mentire sempre (ibid., p. 335). N. 12. Ibid., p. 557. In "Mein Kampf" Hitler si sofferma sul tema dell'ignavo parassitismo degli ebrei meno di quanto aveva fatto nel discorso del 13 agosto 1920, dedicato interamente alla natura e alla pericolosit degli ebrei. Confronta Reginald H. Phelps, "Hitlers Grundlegende Rede ber den Antisemitismus" cit., n. 4, pagine 390420. N. 13. Frank avrebbe poi aggiunto qualche frase: Da quando gli ebrei abbandonarono Gerusalemme, per loro non rimasto altro che un'esistenza da parassiti: giunta l'ora di porvi fine. Dal Diario di lavoro di Frank, citato in "Documents on the Holocaust: Selected Sources in the Destruction of the Jews of Germany and Austria, Poland and the Soviet Union", Jerusalem, Yad Vashem and Pergamon Press, 1987, pagine 247-47. Il12 dicembre 1941 l'"Einsatzgruppe" C riferiva costernata di aver scoperto una bizzarria, cio alcune comunit agricole ebraiche in Ucraina in

cui gli ebrei non lavoravano solo come amministraton, ma anche come braccianti. Come interpretare l'imprevisto fenomeno di un ebreo impegnato in un onesto lavoro fisico? A quanto ci fu dato di sapere, erano ebrei poco intelligenti, considerati inadatti agli incarichi pi importanti ed "esiliati" in campagna dai politici ("The Einsatzgruppen Reports" cit., pagine 13132). N. 14. Una analisi di questo tema in Alexander Bein, "Der judische Parasit" cit., pagine 121-49. N. 15. Max Weber, "Economia e societ" cit., vol. 1, p. 22. N. 16. Norimberga, doc. 032-M, in I.M.T., vol. 38, p. 130. La traduzione inglese citata in "Propaganda in Education", in Shoah, 3, autunno-inverno 1982-83, n.n. 2-3, p. 31. N. 17. Eugen Kogon, "The Theory and Practice of Hell", New York, Berkeley Medallion Books, 1968, p. 90. Kogon aggiunge: Spesso il lavoro era inutile, o male organizzato, sicch occorreva fare ogni cosa due o tre volte. Si dovettero ricostrulre interi edifici, perch a volte le fondamenta non reggevano, non essendo state progettate adeguatamente. Si osservi che Kogon insiste sul trattamento diverso riservato dalle guardie agli ebrei e ai non ebrei. N. 18. George E. Berkley, "Vienna and Its Jews: the Tragedy of Success, 18801980s", Cambridge Abt Books, 1988, p. 259. Confronta inoltre Herbert Rosenkranz, "Verfolgung und Selbsthauptung: die Juden in sterreich, 1933-1945", Wien, Herold, 1978, pagine 22-23. N. 19. Per i lineamenti generali delle politiche del lavoro dei tedeschi mi riferisco soprattutto agli studi di Ulrich Herbert, in particolare "Fremdarbeiter" cit.; Arbeit und Vernichtung: konomisches Interesse und Primat der "Weltanschauung" im Nationalsozialismus, in "Ist der Nationalsozialismus Geschichte? Zu Historisierung und Historikerstreit", a cura di Dan Diner, Frankfurt am Main, M. Fischer Verlag, 1987; Der "Auslndereinsatz". Fremdarbeiter und Kriegsgefangene in Deutschland, 1939-1945 - ein berblick, in "Herrenmensch und Arbeitsvlker: Auslndische Arbeiter und Deutsche, 1939-1945", Berlin, Rotbuch Verlag, 1986, pagine 13-54.

Confronta pure Falk Pingel, "Hftlinge unter S.S.-Herrschaft" cit. N. 20. Percorre le tappe di questo processo Avraham Barkai, "Vom Boykott zur Entjudung" cit., pagine 57, 128-46. N. 21. Confronta Albert Speer, "The Slave State: Heinrich Himmler's Masterplan for S.S. Supremacy", London, Weidenfeld & Nicolson, 1981, pagine 5-6 (trad. it. "Lo stato schiavo", Milano, Mondadori, 1985). N. 22. Ulrich Herbert, "Geschichte der Auslnderbeschaftigung in Deutschland 1880-1980. Saisonarbeiter, Zwangsarbeiter, Gastarbeiter", Berlin, 1986, pagine 126134; Id., "Fremdarbeiter" cit., p. 96; Id., Der "Auslndereinsatz" cit., p. 23. N. 23. Confronta "Nazism", p. 1059. N. 24. Israel Gutman, "The Jews of Warsaw, 1939-1943" cit., p. 73. Nel dicembre 1940 i livelli di occupazione degli ebrei erano bassissimi rispetto al periodo prebellico: il 12 per cento nell'industria e il 16 per cento nel commercio. Il ghetto non disponeva di capitali, e i tedeschi non pagavano gli artigiani, che mendicavano lavoro e salari sufficienti al solo sostentamento alimentare. L'attivit delle "officine" nel ghetto ebbe un minimo di espansione solo tra la fine del 1941 e la primavera del 1942, soprattutto a seguito delle informazioni e delle voci sull'imminente deportazione e su quanto era gi avvenuto nei ghetti di diverse citt; anche in quella fase, comunque, le "officine" non davano lavoro a pi di 4000 persone (pagine 74-75). Nel dicembre 1941 solo 65 mila dei circa 400 mila abitanti del ghetto avevano un impiego (p. 77). Vi fu qualche eccezione locale in alcuni dei ghetti pi importanti, come quello di Ldz', di cui si dir pi avanti. Qualche comandante tedesco riconosceva di avere interesse a rendere produttivo il proprio ghetto, per poterne prolungare la sopravvivenza e garantirsi quindi una posizione di privilegio. N. 25. "Faschismus-Getto-Massenmord: Dokumentation ber Ausrottung und Widerstand der Juden in Polen whrend des zweiten Weltkrieges", Frankfurt am Main, Roderberg-Verlag, s. d., p. 112; "Nazism", p. 1066; Israel Gutman, "The Jews of Warsaw, 1939-1943" cit., p. 60; e Lucy Dawidowicz, "The War against the Jews" cit., pagine 280-91.

N. 26. "Nazism", p. 1067. I polacchi avevano ovviamente molte pi occasioni per integrare la propria dieta; gli ebrei invece erano rinchiusi nel ghetto e rischiavano la vita se uscivano alla ricerca di cibo. N. 27. Sull'alimentazione giornaliera, confronta "FaschismusGettoMassenmord" cit., p. 136, ove registrata la carta annonaria di un ebreo dal gennaio all'agosto 1941: in media, cibo per duecento calorie al giorno. N. 28. Israel Gutman, "The Jews of Warsaw, 1939-1943" cit., pagine 6265; "Nazism", p. 1070; e "Faschismus-Getto-Massenmord" cit., p. 138. Un dato da confrontare con i 360 morti nell'agosto 1939, su una popolazione di 360 mila:lo 0,01 per cento. Confronta ancora "Faschismus-Getto-Massenmord", p. 140. N. 29. Confronta Israel Gutman, "The Jews of Warsaw, 1939-1943" cit., pagine 62-65, e Ulrich Herbert, "Geschichte der Auslnderbeschftigung in Deutschland 1880-1980" cit., pagine 165 e seguenti. N. 30. Nel 1940-41 i tedeschi fecero qualche sforzo per trarre un risultato economico dagli ebrei polacchi, ma senza por fine alla denutrizione e alle malattie: un altro esempio del loro atteggiamento paradossale verso il lavoro degli ebrei. Confronta Israel Gutman, "The Jews of Warsaw, 1939-1943" cit., pagine 73-74. N. 31. Ulrich Herbert, Arbeit und Vernichtung cit., p. 213. N. 32. Confronta Albert Speer, "The Slave State" cit., pagine 281-82. N. 33. Norimberga, doc. 1201-P.S. Uno sguardo generale sul trattamento dei prigionieri di guerra sovietici in Alfred Streim, "Die Behandlung sowjetischer Kriegsgefangener im Fall Barbarossa" cit. N. 34. Ulrich Herbert, Der "Auslndereinsatz" cit., p. 17. N. 35. Sui prigionieri di guerra sovietici, confronta Christian Streit, "Keine Kameraden" cit., pagine 191-216, 238-88.

Sull'impiego dei cittadini sovietici in generale, confronta Ulrich Herbert, "Geschichte der Auslnderbeschftigung in Deutschland 1880-1980" cit., pagine 134-137. Sulle conseguenze economiche dell'uccisione degli ebrei, confronta Raul Hilberg, "The Destruction of the European Jews" cit., pagine 332-45. N. 36. Un resoconto in Konnilyn G. Feig, "Hitler's Death Camps" cit. N. 37. Confronta Czestaw Madajczyk, Concentration Camps as a Tool of Oppression in Nazi-Occupied Europe, in "The Nazi Concentration Camps" cit., pagine 54-55. Nel capitolo seguente un esame ulteriore della mortalit nei campi.N. 38. Voce Ldz', in "Encyclopedia of the Holocaust" cit., pagine 904-8, nonch Lucy Dawidowicz, "The War against the Jews" cit., pagine 188,19697, 393-94. N. 39. Raul Hilberg, "The Destruction of the European Jews" cit., p. 327. N. 40. Un resoconto di "Erntefest" in Yitzhak Arad, "Belzec, Sobibor, Treblinka" cit., pagine 365-69. N. 41. Ulrich Herbert, Arbeit und Vernichtung cit., pagine 222-23. Albert Speer lo racconta in "The Slave State" cit., pagine 22-25. N. 42. Della separazione tra destinati alla morte e destinati al lavoro parla Ulrich Herbert, Arbeit und Vernichtung cit., p. 232. Randolf L. Braham, "The Politics of Genocide" cit., p. 792, accetta la stima di Rudolf Hss ("Kommandant in Auschwitz" cit.): 400 mila di quei 435 mila furono gasati dai tedeschi ad Auschwitz (p. 167). N. 43. Israel Gutman, Social Stratification in the Concentration Camps, in "The Nazi Concentration Camps" cit., pagine 143-76, in particolare p. 148, descrive la sorte di alcuni trasporti dall'Ungheria, di cui i tedeschi lasciarono in vita solo un pugno di persone (7 in uno, 19 in un altro, 5 in un terzo), gasando subito tutti gli altri. N. 44. Ulrich Herbert, "Geschichte der Auslnderbeschftigung in Deutschland 1880-1980" cit., pagine 143 e seguenti. N. 45.

Norimberga, docc. 3663-P.S. e 3666-P.S.: "Nazi Conspiracy and Aggression", Washington, United States Printing Office, 1946, vol. 6, pagine 401-3. Su questo scambio di corrispondenza, confronta Raul Hilberg, "The Destruction of the European Jews" cit., pagine 232-34. N. 46. Confronta, per esempio, Norimberga, doc. L-61: ibid, vol. 7, pagine 81617. Anche la condotta dei tedeschi nei confronti degli altri popoli inferiori era influenzata dall'ideologia razzista, e dunque violava le massime dell'economia - ma in misura ben inferiore, per quanto variabile. Confronta Ulrich Herbert, "Geschichte der Auslnderbeschftigung in Deutschland 1880-1980" cit., p. 177.

Capitolo 11 LA VITA NEI CAMPI DI LAVORO

Con l'inizio del 1943 la campagna di sterminio nota come "Aktion Reinhard" aveva tolto la vita, per lo pi nei campi della morte di Treblinka, Belzec e Sobibr, alla maggioranza degli ebrei del Governatorato generale. Gli unici ai quali veniva ancora concesso di vivere erano quelli impegnati in un lavoro utile allo sforzo bellico nei campi gestiti dalle S.S. Nel periodo di maggiore sfruttamento produttivo degli ebrei, tutti gli internati dei campi venivano considerati abili al lavoro per definizione. Questi "Lager", la cui unica missione formale era la produzione, potranno quindi fornire utili indicazioni sulla natura del lavoro degli ebrei nella Germania nazista. I campi si trovavano soprattutto nel distretto di Lublino (1). Il pi vasto, e di gran lunga il pi noto, era Majdanek. Himmler ne aveva ordinato la costruzione, nei dintorni di Lublino, il 21 luglio 1941; era pi piccolo di Auschwitz e oltre alle camere a gas disponeva di un complesso di impianti di produzione. La popolazione era eterogenea, ma i gruppi pi consistenti erano i polacchi, gli ebrei e i sovietici. Per Majdanek passarono quasi 500 mila persone: ne morirono 360 mila (i restanti furono per lo pi trasferiti in altri "Lager"), ma con tempi diversi da quelli del campo di sterminio classico.

Ad Auschwitz, a Chelmno e nei tre campi della morte dell'"Aktion Reinhard", i tedeschi gasavano la stragrande maggioranza delle vittime, quasi esclusivamente ebrei, al momento stesso del loro arrivo; a Majdanek ne gasarono o fucilarono il 40 per cento. L'altro 60 per cento mor di stenti (e per le brutali violenze fisiche): le cause immediate di morte erano la fame, il sovraffaticamento da denutrizione e le malattie (2). Sebbene fosse un campo di lavoro, il tasso di mortalit di Majdanek fu superiore a quello di ogni altro "Lager", eccettuati Auschwitz e gli altri quattro campi di sterminio (3). Sebbene fosse un campo di lavoro, non aveva impieghi produttivi per molti degli internati, sicch i tedeschi li costringevano a fatiche finalizzate soprattutto a provocare sofferenza e morte. Molti ex prigionieri raccontano di quel travaglio senza senso. Un ebreo sopravvissuto, che arriv a Majdanek nell'aprile 1943, all'apogeo dello sfruttamento degli internati nel distretto di Lublino, lo definisce in tutto e per tutto un campo di sterminio, destinato soltanto a tormentare e uccidere.Gli internati non facevano alcun lavoro utile. Ogni giornata cominciava con un appello che poteva durare ore, durante il quale molti venivano picchiati fino a restare mezzi morti. "Poi si andava al lavoro (4). Con gli zoccoli di legno, correvamo spinti dalle bastonate fino a un angolo del campo, dove dovevamo riempire di pietre, melma o sabbia bagnata i berretti o le giacche, e poi correre, tenendole con entrambe le mani, in mezzo a una gragnuola di colpi, per portarle nell'angolo opposto del campo, scaricarle, ricaricarle, e ricominciare. Una doppia fila urlante di tedeschi e di prigionieri privilegiati ['Hftlingsprominenz'], armati di bastoni e fruste, ci tempestava di colpi. Era un inferno" (5). Cos un altro sopravvissuto descrive le ovvie conseguenze: "Al ritorno al campo, le squadre trascinavano pile di cadaveri sulle slitte. I vivi venivano portati a braccia; abbandonati a se stessi al cancello, strisciavano fino alle baracche, traversando carponi la superficie ghiacciata della spianata; chi ce la faceva, cercava di alzarsi in piedi sorreggendosi alla parete, ma non ci riuscivano a lungo" (6). E se ci riuscivano, li attendeva il brutale appello della sera. Le testimonianze sulla finalit di sterminio del lavoro in quel campo abbondano (7).

Nonostante la numerosa presenza di altri gruppi, le vittime delle camere a gas erano, prevedibilmente, quasi soltanto ebrei. A Majdanek i tedeschi riservarono loro sempre un trattamento fondamentalmente diverso, e ben peggiore, rispetto ai non ebrei. Al suo apogeo il campo contava 35-40 mila internati, molto al di sotto della prevista capacit di 150 mila, per mancanza di attrezzature e materiali. Di questi, 18 mila erano ebrei e furono falcidiati dai tedeschi durante la strage della Festa della mietitura. Anche in questo caso l'eccidio non fu indiscriminato: i tedeschi risparmiarono i non ebrei e il campo rimase operativo fino a quando, il 22 luglio 1944, fu liberato dalle truppe sovietiche (8). Majdanek era un grande complesso, con obiettivi diversificati e una popolazione mista, mentre gli altri campi istituiti nella regione al di fuori dell'"Aktion Reinhard" erano ufficialmente solo di lavoro, ed erano popolati quasi solo da ebrei; essi presentano quindi un quadro ancor pi chiaro del carattere del loro lavoro. Ci soffermeremo sul campo di Lipowa ("Lipowa Lager") e sullo "Flughafenlager" (9). Il campo di Lipowa, fondato nel dicembre 1939 sul luogo di un antico maneggio in via Lipowa, a Lublino, era nato come centro di raccolta, ma si trasform poi in un tipico campo di concentramento, con una sua popolazione di detenuti (10). La trasformazione fu imposta nel 19401941 da due considerazioni: in primo luogo, le autorit tedesche avevano scoperto che molti ebrei di Lublino tentavano di sottrarsi alla precettazione nelle squadre di lavoro e avevano perci cominciato a utilizzare quegli impianti per rinchiudervi i renitenti; in secondo luogo, si prevedevano grandi deportazioni di ebrei dal Reich, che avrebbero fatto tappa temporanea nel campo, e occorreva far fronte a un forte afflusso di prigionieri di guerra ebrei polacchi. Nell'inverno 1940-41 ne arrivarono almeno 2000, venendo a costituire il gruppo pi numeroso di internati (11). La popolazione del "Lager" veniva inoltre alimentata dai periodici rastrellamenti nel ghetto di Lublino. Nell'aprile 1942 Lipowa era a completa disposizione dello "S.S.- und Polizeifhrer Lublin" (S.S.P.F.), e la sua produzione era al servizio delle S.S. Gli internati contribuirono alla selezione degli oggetti personali degli ebrei ammazzati dai tedeschi nel corso di "Aktion Reinhard"; Lipowa trattava le scarpe (12).

Il breve intervallo di vita concesso ai 3000 e pi ebrei del campo si esaur nel novembre 1943 (13); perirono tutti nelle fucilazioni in massa dell'Operazione Festa della mietitura. Nei primi due anni di esistenza del campo la produzione e la produttivit dei lavoratori ebrei furono minime; un fatto particolarmente significativo, considerato che il suo scopo dichiarato fu sempre, fin dall'inizio, di far lavorare gli ebrei di Lublino. A partire dal dicembre 1939 lo "Judenrat" di Lublino doveva fornire ogni giorno da 800 a 1000 operai, molti dei quali artigiani specializzati. Fino a quando la produzione di Lipowa non pass sotto la giurisdizione degli stabilimenti tedeschi di equipaggiamento, le Deutsche AusrstungsWerke (D.A.W.) delle S.S., le officine del campo furono attrezzate e gestite con grande approssimazione (14): le competenze degli operai specializzati rimanevano per lo pi inutilizzate, sprecando buona parte del potenziale di lavoratori che in circostanze normali sarebbero stati assai considerati per la loro produttivit. Con l'assunzione di controllo delle D.A.W. e l'arrivo in dicembre del nuovo direttore Hermann Moering, inizi un'intensa fase di attivit: si costruirono altre baracche e officine per le nuove macchine. Aumentata la capacit di utilizzare le loro competenze, i tedeschi impegnarono un numero sempre maggiore di ebrei nelle officine del campo, finch nell'aprile 1943 le squadre di lavoro esterne (a suo tempo un terzo degli internati) si ridussero a un unico gruppo di 50 persone (15). Secondo Moering, il numero degli artigiani ebrei impiegati pass da 280 (al momento del suo arrivo) a 1590 (nell'autunno 1943). All'apogeo della produttivit, dall'estate 1942 fino alla distruzione del campo nel novembre 1943, Lipowa fu il pi importante stabilimento delle D.A.W. all'esterno del "Reichsgebiet", il territorio del Reich (16), un valido fornitore di scarpe e capi di vestiario per lo S.S.P.F. di Lublino, l'esercito, le S.S., la polizia e l'amministrazione civile. Stando alla contabilit delle D.A.W., pare rendesse bene (17). Quando, dopo due anni di non produttivit e sprechi, si cominci finalmente a lavorare sul serio, potrebbe sembrare che in termini strettamente contabili Lipowa fosse un'impresa gestita con razionalit economica. Ma nel pi ampio contesto del modo del tutto controproducente in cui i tedeschi utilizzarono il lavoro degli ebrei, i miseri profitti di quel breve e finale periodo produttivo escludono qualsiasi ipotesi di vero rendimento, come del resto anche i primi due anni di generale inattivit economica.

La produzione dei meno di 16 mila internati ebrei impiegati in tutti gli stabilimenti delle D.A.W. nel 1943, e degli altri 16 mila negli impianti della Ostindustrie G.b.m.H. (Osti) delle S.S., non pu essere certo considerata economicamente razionale se rapportata ai circa due milioni di ebrei polacchi che erano gi stati eliminati (18). E quando, nel novembre 1943, i tedeschi massacrarono anche questa manodopera insostituibile, condannarono gli impianti produttivi del campo alla virtuale inattivit fino alla fine della guerra (19). Quanto all'organizzazione interna, dal punto di vista della redditivit essa era assolutamente irrazionale. I tedeschi trattavano gli ebrei con grande brutalit, compromettendo gravemente la produzione economica, scopo dichiarato dell'esistenza del campo. Sia il regime ufficiale - cio i regolamenti e le punizioni - sia la condotta non codificata delle singole guardie infliggevano agli ebrei un'esistenza quotidiana gravida di sofferenze, sulla quale la morte incombeva onnipresente. Come in tutto il sistema dei campi, non pare vi fossero limiti a ci che i tedeschi potevano fare senza timore di punizioni. Sicuramente a partire dall'inizio del 1941, a Lipowa i tentativi di fuga venivano puniti con la morte; ma d'altra parte la morte - in pratica l'unica forma di reazione dei tedeschi a qualsiasi infrazione, pseudoinfrazione o gesto sgradito commesso dagli internati ebrei faceva parte della razione quotidiana; c'era la morte anche per i furti. Un responsabile interessato a conservare la salute e la capacit di lavoro della manodopera avrebbe dovuto vedere di buon occhio l'economia sommersa che consentiva a qualcuno di trovare una crosta di pane in pi per integrare le razioni inadeguate, o un capo di vestiario per coprirsi un po' meglio nel freddo pungente. Invece i tedeschi fecero tutto quanto era in loro potere per impedire agli ebrei di proteggersi dalla debilitazione e dalle malattie. La loro brutalit a Lipowa non si manifestava come deterrente per la salvaguardia di qualcosa di valore. A ogni violazione, per quanto insignificante, commessa dagli ebrei delle norme, per quanto controproducenti o irrazionali, fissate dai tedeschi, rispondeva una reazione sproporzionata. Nel 1941, per esempio, uccisero con un colpo di pistola a bruciapelo un ebreo che aveva rubato un paio di manopole di lana (20).

Il valore degli oggetti rubati non aveva importanza alcuna; a Lipowa i tedeschi punivano con la morte anche gli ebrei che sottraevano scarti industriali senza valore (21). Non si puniva il danno tangibile provocato ai materiali o alla produzione, bens l'atto stesso della violazione: una trasgressione insignificante o un danno effettivo facevano scattare la medesima sentenza. Se i tanti atti necessari alla sopravvivenza in condizioni di privazione acuta provocavano la morte o altre brutali punizioni, in definitiva pure e semplici torture, la necessit per gli ebrei di ricorrere a quegli atti aumentava a ogni violenza cui venivano sottoposti. Tutto, o quasi, il personale del campo era dotato di sferze o di qualche strumento equivalente, e li usavano con vigore, picchiando gli ebrei nel modo pi arbitrario e senza cause apparenti, anche tenendo conto dell'interpretazione alquanto lata che i tedeschi davano al concetto di causalit. Oltre all'uso quotidiano della sferza, la crudelt dei tedeschi assumeva di regola altre forme particolari: brutali fustigazioni con fruste dotate di piccole sfere di ferro; reclusione in un bunker per periodi indeterminati; fustigazioni nel bunker su uno speciale tavolaccio ("Auspeitisch") appositamente inventato da un tedesco; torture con l'elettricit; ore di attesa a piedi scalzi nella neve, dopo un risveglio a bastonate; impiccagioni pubbliche che terrorizzavano gli internati pi delle esecuzioni nascoste. Molti ebrei morirono a seguito di spontanee iniziative dei tormentatori; i pi fortunati sopravvissero con gravi menomazioni fisiche (22). A Lipowa, come in tutto l'impero dello sterminio, le crudelt inflitte agli ebrei non erano un segreto per nessuno: avvenivano davanti a tutti, e per tutte le guardie erano ordinaria amministrazione. Infierire sugli ebrei era a un tempo la politica semiufficiale del campo e la norma non scritta cui si ispirava il personale. Queste brutali torture quotidiane non avevano nulla di eccezionale rispetto alla norma tedesca, anche per i campi di lavoro; ma a Lipowa si verificarono anche due episodi inconsueti e particolarmente significativi (23). L'esercito tedesco trattava i prigionieri di guerra ebrei appunto come prigionieri di guerra (24), sia pure di seconda classe, ma le S.S. non li riconoscevano come tali: per loro erano semplicemente e soltanto ebrei. Quelli che arrivarono a Lipowa erano stati sino a quel momento sotto la giurisdizione dell'esercito, che li aveva trattati in modo relativamente decente.

I tedeschi del campo lo sapevano e decisero di far capire ai prigionieri di guerra che per loro un ebreo era solo un ebreo, organizzando poco dopo l'arrivo una cerimonia notturna senza preavviso. Ricorda un sopravvissuto: "Una notte ci cacciarono fuori dalle baracche, mezzo nudi e scalzi, e ci costrinsero a rimanere a lungo nelle neve, distesi bocconi. Ci dicevano che non eravamo prigionieri di guerra, ma soltanto ebrei internati. E ci picchiavano ... Poi ci ordinarono di ritornare di corsa nelle baracche, e quando cos facemmo ci picchiarono ancora, e ci aizzarono contro i cani" (25). Altri ex prigionieri di guerra sopravvissuti raccontano le diverse ore di tormento di quella indimenticabile notte di mezzo inverno, aggiungendo che molti si ammalarono per il freddo (e per le percosse) e morirono. All'azione di quella notte presero parte gli ufficiali responsabili del campo e parecchi altri (26). La componente simbolica di quella cerimonia della reidentificazione ricorda i riti che un tempo trasformavano gli uomini liberi in schiavi, in esseri socialmente morti: l'annuncio della nuova posizione sociale veniva sempre accompagnato da azioni che ne rendevano chiaro il significato, che imprimevano nella mente di ciascuno il valore del nuovo posto occupato nella societ dall'individuo cos trasformato (27). I tedeschi non si limitavano a comunicare a parole ai prigionieri di guerra che da quel momento sarebbero stati soltanto internati ebrei, privi delle garanzie previste dalle convenzioni internazionali; non poteva bastare. Oltre a ci, adottavano e replicavano spontaneamente, certo senza rendersene conto in modo consapevole, un aspetto ricorrente nel percorso che trasforma un uomo libero in uno schiavo; nel caso specifico, traducendo l'annuncio nel linguaggio pi adatto a comunicare che cosa significasse, nel loro mondo, essere ebrei: il linguaggio della sofferenza. E durante il rito, seppero attribuire a quel linguaggio un'eloquenza affatto particolare: gli ebrei erano creature che non dovevano conoscere pace, nate per soffrire, per essere picchiate e torturate, per essere aggredite dai cani, per morire a capriccio dell'"bermensch" tedesco. Occorreva imprimere irrevocabilmente nella mente degli ebrei, per il tramite del loro corpo, la consapevolezza di essere soltanto dei trastulli, vivi per generosa concessione dei tedeschi.

Si operava in base al principio comunicativo che una frustata vale mille parole; e gli internati ebrei non tardarono a imparare il linguaggio del nuovo ordine (28). La seconda cerimonia che si tenne a Lipowa fu un'occasione festosa, che per comunicava in quale modo i tedeschi concepissero la loro missione con la medesima eloquenza delle crudelt esiziali e gratuite inflitte ai prigionieri di guerra. Si tratt di una festa organizzata da Odilo Globocnik, capo dell'"Aktion Reinhard", in onore di un personaggio noto per la sua brutalit, il comandante di Lipowa Alfred Dressler. Ecco ci che racconta un ebreo sopravvissuto: Un giorno, mentre lavoravo da Globocnik, tennero una festa per celebrare il cinquantamillesimo ebreo assassinato da Dressler: in casa sua, questo motivo di celebrazione era sulla bocca di tutti. Globocnik mi convoc nella sala e mi costrinse, minacciandomi con la pistola, a bere un'intera bottiglia di vodka (29). Ecco l'obiettivo di produzione da celebrare nella vita di questo campo di lavoro. Il personale tedesco che gestiva Lipowa fu successivamente integrato da contingenti di polacchi di origine tedesca delle unit paramilitari e delle Waffen-S.S., da unit del Kommando Dirlewanger e infine da ucraini, che in genere vivevano fuori dal campo e venivano impiegati soprattutto per sorvegliarne il perimetro e i gruppi di ebrei che lavoravano fuori dal reticolato (30), in genere contingenti di 30-40 uomini. I tedeschi erano soprattutto S.S., subordinati all'S.S.P.F. di Lublino. Dalle poche informazioni di cui disponiamo, su 46 dei tedeschi che gestivano il campo, non parrebbe avessero nulla di straordinario, rispetto alla norma dell'epoca (31). Tra loro c'erano qualche tecnico non appartenente alle S.S. e qualche donna con incarichi amministrativi. Come in tutti i campi, alcuni tedeschi oltrepassavano il confine della brutalit usuale, riuscendo persino a far apparire vivibile una normalit di per s disumana; altri si distinguevano perch meno brutali. Non sorprende che la personalit di ognuno influisse sul contenuto e lo stile della crudelt che riversava sugli ebrei, ma il livello minimo di persecuzione dalla quale nessuno, o quasi, si asteneva era comunque molto alto. A Lipowa non c'era guardia che non facesse uso della frusta; alcuni, come il comandante in persona, che con la sua condotta dava l'esempio a tutto il campo, picchiavano duro.

Gli internati, tra loro, storpiavano il suo nome inserendovi la parola "Mord" (assassinio). La crudelt era tanto diffusa da esercitare sui tedeschi una forte pressione sociale al conformismo; i sopravvissuti raccontano di una guardia che era pi indulgente delle altre, ma che a sua volta picchiava quando era sotto l'occhio vigile dei superiori (32). E' un'informazione doppiamente rivelatrice sulla norma di comportamento nei confronti degli internati. Gli ebrei sapevano che quel tedesco li avrebbe picchiati, ma nonostante questo lo consideravano il pi buono del campo; gli altri erano peggiori di lui. In secondo luogo, se gli altri davvero non avessero voluto far del male agli ebrei, anche loro avrebbero potuto picchiarli solo quando erano osservati, colpendoli in modo calcolato per provocare meno dolore e lesioni possibili. E invece, come attestano chiaramente i sopravvissuti, sceglievano di non ridurre al minimo le loro sofferenze. Dei 46 membri del personale del campo sottoposti a inchiesta giudiziaria, i sopravvissuti danno un giudizio positivo soltanto su questo e su altri due uomini (33). Un altro campo di lavoro, sempre nei pressi di Lublino, fu teatro di crudelt e di azioni criminali e antieconomiche tali da confermare le nostre perplessit sull'idea che il comportamento dei tedeschi verso gli ebrei fosse dettato da criteri produttivi, se non in modo del tutto marginale e transitorio. Tra i tanti nomi con cui il complesso del campo viene definito nei documenti tedeschi - Campo di lavoro Lublino, o Flughafen [Aeroporto] Lublino - scegliamo di usare Flughafenlager (Campo dell'aeroporto) (34). L'attivit economica principale consisteva nella selezione del bottino strappato agli ebrei eliminati dall'"Aktion Reinhard", cui sarebbe seguita la fabbricazione di spazzole; era stata prevista la produzione di armamenti, che per non fu mai avviata. Questa attivit, che pure aveva qualche rilievo economico, non era che un aspetto collaterale della vera produzione in cui il campo seppe distinguersi in modo prodigioso: quella di cadaveri dei suoi lavoratori. Il "Flughafenlager", fondato nell'autunno 1941, era sulla via che porta da Lublino a Majdanek e a Zamosc. Diversamente dagli altri campi di Lublino e dintorni, destinati a una presunta produzione economica, questo fin dall'inizio forn agli internati ebrei un vero lavoro. Ognuno dei suoi settori principali era un campo a s, un'entit relativamente distinta con compiti, personale, internati, e vicende

di crudelt e morte, del tutto particolari: il piccolo "Hauptnachschublager" (Campo principale di rifornimento) Russia-Sud, lo stabilimento abbigliamento ("Bekleidungswerk") S.S., dipendente dalle D.A.W., e pi tardi gli impianti dell'Osti (35). Lo stabilimento abbigliamento, il principale, rispondeva all'Ufficio economicoamministrativo centrale delle S.S., ma operava soprattutto come strumento dell'S.S.P.F. Lublino, nell'ambito dell'impresa genocida dell'"Aktion Reinhard" (36). Per il "Flughafenlager" passarono decine di migliaia di ebrei, maschi e femmine di tutte le et. Vi sostarono temporaneamente grossi contingenti di deportati da Varsavia, Bialystok e Belzyce, mentre i tedeschi decidevano quali destinare ai forni di Treblinka e quali ai vicini campi di Majdanek, Budzyn, Poniatowa, Trawniki e Lipowa. La popolazione permanente di ebrei rimase intorno alle 7500-8500 unit, tra uomini e donne, per tutto il corso dell'esistenza del campo, con la continua sostituzione dei morti con nuovi arrivi (37). Delle migliaia di ebrei che passarono una parte della loro vita di detenuti nel "Flughafenlager", i sopravvissuti furono uno sparuto manipolo: 40, al massimo 50 (nota 38). Il Campo rifornimenti centrale fu sempre un'impresa su scala ridotta, con una popolazione fissa di 25 ebrei, coadiuvati ogni giorno da squadre di lavoro, un centinaio di uomini in tutto, provenienti da un campo vicino (39). Caricavano e scaricavano i carri merci, e costruivano baracche. Sappiamo poco sulla vita degli ebrei nel Campo rifornimenti e nell'intero "Flughafenlager" prima dell'autunno 1942, perch a quanto stato possibile accertare una sola persona sopravvisse al campo di lavoro in quel periodo, una donna che fu per breve tempo nell'Officina abbigliamento. Sull'atmosfera che regnava nel Campo rifornimenti dobbiamo quindi credere alla deposizione di Albert Fischer, una delle guardie tedesche che, diversamente dai colleghi, parla senza reticenze del modo in cui venivano trattati gli ebrei (40). Fischer si limita a riferire la sequela di orrori di cui lui stesso fu testimone in solo tre mesi al campo, a partire dal marzo 1942. Si tratta di un'immagine molto parziale, circoscritta dalla brevit della sua permanenza e - ovvia limitazione - dal fatto che ebbe modo di osservare soltanto gli atti di crudelt che si verificarono davanti ai suoi occhi. Quanto riferisce Fischer, che pu non corrispondere esattamente nemmeno a quanto lui stesso vide, andrebbe moltiplicato per un fattore alquanto consistente, se vogliamo immaginare e comprendere le dimensioni

della sofferenza intenzionalmente inflitta dai tedeschi agli ebrei nel Campo rifornimenti. Sappiamo poco di quel campo (41), ma una cosa del tutto chiara: la brutalit e la ferocia si respiravano nell'aria. Fischer riassume una volta per tutte la qualit di quella vita: Nel campo i pestaggi erano all'ordine del giorno ("Schlgereien waren im Lager an der Tagesordnung"). Dopo questa definizione generale, la testimonianza si concentra in modo quasi esclusivo su un sergente particolarmente crudele, Max Dietrich, che possiamo considerare la pietra di paragone della brutalit nel campo, un esempio appena enfatizzato del modo di agire normale dei tedeschi. Membro delle S.S. fin dal primo febbraio 1933, Dietrich aveva ventinove anni quando Fischer lo conobbe, ma era gi un esperto nel trattare gli internati: si era fatto le ossa, a ventun anni, come guardia a Dachau, dove aveva prestato servizio dal 1934 al 1938. Nel 1941 aveva comandato squadre di forzati ebrei, compresi i prigionieri di guerra di Lipowa, per conto dell'S.S.P.F. di Lublino. Anche nel Campo rifornimenti, dal maggio 1942 fino al 1943, era caposquadra (42). Gi al secondo o terzo giorno dopo il suo arrivo al campo, Fischer ebbe modo di conoscere i metodi di Dietrich, che vide fustigare orrendamente gli ebrei con un frusta di cuoio. Un paio di giorni dopo fu testimone di un'altra scena: questa volta Dietrich, per comunicare la sua concezione del valore di un lavoratore ebreo nell'inconfondibile linguaggio dei tedeschi, aveva scelto una spranga di ferro: Mentre mi avvicinavo, Dietrich colp l'ebreo alla nuca, come si colpisce un coniglio quando si vuole ucciderlo. Us una spranga di ferro grossa e lunga come l'asse di una carrozzella per bambini. L'ebreo croll a terra, senza vita (43). Dietrich non si limitava ai pestaggi vecchio stile, per quanto brutali e micidiali. Un giorno Fischer e un altro tedesco sentirono delle grida orrende, e scoprirono Dietrich di nuovo in preda a uno dei suoi attacchi. La scena di cui furono testimoni fatica a conciliarsi con l'immagine del caposquadra in un'istituzione finalizzata alla produttivit economica: "Vidi Dietrich picchiare l'ebreo a lungo, finch questi non cadde a terra esanime.

Allora Dietrich ordin ad altri ebrei di spogliarlo del tutto, e di rovesciargli acqua addosso. L'ebreo si era insozzato delle proprie feci, e quando rinvenne Dietrich gli afferr le mani, le ficc negli escrementi e lo costrinse a mangiarli. Me ne andai, perch lo spettacolo mi nauseava". Quella sera Fischer seppe che il lavoratore ebreo che aveva mangiato i propri escrementi era morto (44). Nonostante il pronunciato sadismo, il personaggio di Dietrich ci dice molto anche del carattere dei suoi colleghi: era solo il pi scatenato del campo, uno che si metteva in luce tra i camerati per il vigore e il gusto con cui maneggiava la frusta o un altro dei mezzi di espressione che gli erano abituali. Fischer propone una efficace sintesi del suo carattere e della sue azioni, e del loro rapporto con le norme del campo: "I pestaggi erano invariabilmente all'ordine del giorno. Dietrich era un picchiatore particolarmente attivo. Cominciava di primo mattino, all'arrivo degli ebrei: ne picchiava un paio, e solo allora riusciva a godersi il caff. Quando gli parlavamo di quegli episodi entrava in grande agitazione, e ci minacciava con la pistola". I pestaggi erano la regola etica del campo, la grammatica dell'espressione e della comunicazione. Dietrich era soltanto un tipo la cui coazione a far soffrire e umiliare gli ebrei lasciava perplessi gli altri, picchiatori coscienziosi ma non ossessivi. La sua irresistibile necessit psicologica di marchiare gli ebrei nel corpo li metteva a disagio (45), perch in genere la brutalit incontrollata disturba chi pure estremamente brutale, ma riesce a tenersi a freno. Non li infastidiva certo, invece, l'invariabile ordine del giorno, perch anche loro quotidianamente si svegliavano al levar del sole pronti a farsene i portatori. Fischer arriva quasi ad ammettere che allora non gli pareva ci fosse nulla di male nel modo in cui si trattavano gli ebrei. Era entrato nelle Waffen-S.S. nel 1940, sedicenne entusiasta, impregnato di nazismo, perch a quel tempo ero devoto anima e corpo alla causa ("weil ich damals Feuer und Flamme fr di Sache war") - parole che possiamo considerare rappresentative di un'intera generazione. Aveva combattuto sul fronte russo e nel novembre 1941 era stato ferito.

Dopo la convalescenza e alcuni incarichi temporanei era finito, nel marzo 1942, al Campo rifornimenti, dove il suo zelo di nazista si trov di fronte alle proprie conseguenze logiche, la pi brutale realt del nazismo. In un rapido accenno al lento processo che risvegli in lui un briciolo di umanit, e che lo avrebbe poi indotto a rendere questa testimonianzaconfessione, spiega che solo anni dopo arrivai per gradi a riconoscere quel marciume. E da quel momento aprii gli occhi. Aveva chiesto di deporre perch volevo scaricarmi di quella colpa, liberarmi di tutto quanto successo: sono le parole di un uomo che ha molto sulla coscienza. A differenza del Campo rifornimenti, le Officine abbigliamento erano un complesso di dimensioni notevoli. Per tutta l'esistenza del "Flughafenlager" ne furono il settore produttivo principale, con una popolazione media - "esclusivamente" ebrei - compresa tra i 3500 e i 5500, di cui 2000-3000 donne (46): polacche, cecoslovacche, olandesi e molte tedesche, in particolare di Aquisgrana e Coblenza (47). Nella fase iniziale riusciamo a cogliere soltanto i lineamenti essenziali della vita nelle Officine abbigliamento: la loro evoluzione, il tipo di lavoro che vi svolgevano gli internati, il modo in cui venivano trattati. Le S.S. avevano trasferito qui gli ebrei per i lavori di costruzione gi nel luglio 1940 (e forse anche prima), ma il "Flughafenlager" fu ufficialmente inaugurato solo nell'autunno 1941; i capannoni delle Officine abbigliamento vennero eretti nell'inverno 1941-42 (nota 48). La fondazione e lo sviluppo delle Officine rispondevano a due esigenze distinte. La prima era l'ambizione di Globocnik, a partire dal 1942, di costruire un impero economico controllato dalle S.S. di Lublino, di cui lui era S.S.P.F. (49). la seconda era la necessit di selezionare gli oggetti personali strappati agli ebrei sterminati dall'"Aktion Reinhard" (50). Le Officine abbigliamento erano un campo di lavoro dichiaratamente finalizzato a sfruttare la manodopera degli ebrei per trarne produzione e profitto economico; ma fino a quando non cominciarono ad affluire in seguito all'"Aktion Reinhard" i vestiti e gli oggetti personali degli ebrei, un evento fortuito, imprevisto al momento della fondazione del campo, le Officine non ebbero vero lavoro da dare se non a una piccola minoranza di internati (51) - persone che, come tutti gli ebrei nel mondo dei "Lager", erano state strappate ai diversi settori dell'economia ai quali davano il loro apporto produttivo.

Dobbiamo dunque ritenere che la fondazione delle Officine e la loro fase iniziale avessero assai poco a che fare con un'effettiva razionalit economica, o con il desiderio di utilizzare la forza lavoro ebraica. Ma i tedeschi non potevano certo lasciare i detenuti con le mani in mano; anzi si davano da fare, come vedremo nel prossimo capitolo, per essere certi che per gli ebrei non passasse nemmeno un momento senza sofferenza. Li costrinsero a lavorare, ma nessuna logica economica, nessun lessico normale avrebbero potuto chiamarlo lavoro, n lavoratori coloro che vi erano impegnati. Oltre a costringerli a fatiche massacranti e senza senso, studiate per sfinire e distruggere la salute anche dei pi forti (52), i tedeschi li nutrivano a malapena. Cos una donna ebrea descrive la razione quotidiana: Il pane era duro, quasi immangiabile. A mezzogiorno ci davano una zuppa che chiamavamo "zuppa di sabbia", fatta con patate e carote che loro non si curavano di pulire. Nella zuppa gettavano una o due teste di vacca, con tutti i denti, i peli e gli occhi (53). Le condizioni igieniche erano spaventose; l'unica acqua corrente di cui gli internati potessero disporre si trovava nell'infermeria (54), e dovevano portarla nelle baracche con i secchi. Com'era prevedibile - e come di fatto i tedeschi avevano previsto - gli ebrei di questo campo di lavoro, un tempo sani e produttivi, producevano ben poco e morivano a ritmo rapidissimo, anche per la diffusione di malattie come il tifo e la dissenteria (55). La donna ebrea sopra citata l'unica sopravvissuta delle Officine abbigliamento nel periodo precedente l'autunno 1942 (fu nel campo per solo tre settimane, nell'aprile di quell'anno), e quindi non conosciamo nei dettagli il lavoro senza senso che veniva svolto a quel tempo; risale ad allora, comunque, un esempio tipico di fatica non produttiva nel Campo rifornimenti, che pu rendere l'idea di come venisse inteso il lavoro anche nelle Officine abbigliamento e nel "Flughafenlager" in generale. Ancora una volta, il protagonista Dietrich. Una domenica, l'unica giornata di riposo che i tedeschi concedessero agli internati, radun una squadra di ebrei per metterli al lavoro: "Una delle baracche di fianco alla ferrovia era piena di materassi di paglia; al di l dei binari c'era un'altra baracca, che in quel momento era vuota.

Dietrich costrinse gli ebrei a portare di corsa i materassi dalla prima baracca a quella vuota, e quando la ebbero riempita a riportarli nella prima. Dovevano farlo di corsa, e Dietrich li picchiava con la frusta finch parecchi di loro crollarono, incapaci di continuare. A quel punto Dietrich fu soddisfatto; si ritir nel suo alloggio e si ubriac" (56). Comunque le definissero i tedeschi, in quel periodo le Officine abbigliamento furono un campo di sterminio, diverso dagli altri solo perch i mezzi che adottava - attivit sfibrante accompagnata da grave denutrizione e da una esiziale brutalit - impiegavano un po' di pi per ottenere lo scopo. La seconda fase della storia delle Officine abbigliamento inizi nell'autunno 1942, con l'arrivo di grandi quantitativi di abiti e oggetti personali appartenuti agli ebrei consumati dalle fiamme dell'"Aktion Reinhard". Finalmente i tedeschi avevano modo di rendere produttiva la manodopera di questo campo di lavoro. A partire dalla fine del 1942, la popolazione degli internati, allora intorno alle 2000 persone, crebbe rapidamente e gli impianti del campo furono ingranditi con un programma urgente di costruzioni (57). Gli internati selezionarono una straordinaria quantit di materiali; secondo Globocnik, furono consegnati all'industria tedesca 1901 carri merci carichi di vestiti, biancheria, piume da imbottitura e stracci confiscati agli ebrei. I tedeschi accumularono inoltre 103614 orologi da polso (da riparare), 29391 paia di occhiali, molti gioielli e ingenti quantitativi di denaro: si calcolava che il valore totale del bottino superasse i 178 milioni di Reichsmark (58). Molto (ma non sappiamo quanto) di questo materiale fu selezionato nelle Officine abbigliamento. Sapendo bene che le condizioni di vita in cui lui e i suoi sottoposti avevano sino ad allora tenuto gli ebrei avrebbero drasticamente ridotto il loro rendimento, anche in un lavoro relativamente poco faticoso come la selezione dei vestiti, Christian Wirth, comandante delle Officine, aument le razioni e impose un regime un po' meno brutale. Fu questo il periodo, all'inizio del 1943, in cui il campo fu dotato di fognature e di una fornitura pi adeguata di acqua corrente (59). Queste modifiche, a un tempo significative e di poco conto, vanno a ulteriore conferma di come, fino a quel momento, la politica praticata dai tedeschi nelle Officine fosse stata soltanto quella dello sterminio per mezzo del "lavoro".

Lo stato di salute degli internati era tanto compromesso dalle condizioni di vita nel campo da renderli di fatto incapaci di lavoro produttivo. Nella primavera del 1943 l'Osti apr degli impianti di manifattura nel "Flughafenlager", attingendo in un primo momento al personale delle Officine. Diversamente da chi governava e sorvegliava l'impero dei campi, l'Osti, un'istituzione economica, teneva davvero al lavoro produttivo, e il direttore di uno dei nuovi impianti rimase esterrefatto di fronte alle condizioni in cui versavano i lavoratori che avrebbero dovuto costituire la sua riserva di manodopera. Erano al limite della morte per fame, con il fisico distrutto. Prima di metterli al lavoro, fu costretto a concedere loro due settimane per lasciarli riposare e riprendersi (60). Ciononostante, dal punto di vista economico la fabbrica di spazzole e la fonderia del "Flughafenlager", come gli altri stabilimenti industriali dell'Osti fondati sulla manodopera debilitata degli ebrei, furono un fallimento (61). In quel periodo Wirth non si limit ad aumentare le razioni, ma prese altri provvedimenti in favore degli internati. Ripristin l'infermeria abbandonata da tempo - che comunque continu a essere uno dei posti pi frequentati dai tedeschi in vena di ammazzare un ebreo (62) - e ridusse perfino il numero degli ebrei periodicamente selezionati per l'esecuzione. La vita nel campo rimaneva comunque all'insegna della lotta pi dura per una sopravvivenza temporanea, e la denutrizione, sempre presente, minava la capacit degli ebrei di applicarsi al lavoro. I tedeschi stavano loro addosso, uccidendo sul posto o inviando al massacro a Majdanek chiunque fosse ferito o troppo debole per lavorare a quel ritmo forsennato (63). A integrare e aggravare gli effetti delle condizioni di vita complessive nelle Officine abbigliamento, c'era il trattamento che i tedeschi riservavano ai singoli internati: insieme, rivelano chiaramente i reali scopi genocidi dell'istituzione. Come a Lipowa, i tedeschi uccidevano gli ebrei con il minimo pretesto: bastava che uno di loro rubasse un oggetto senza valore, compresi bucce di patate o capi di biancheria usati, perch fosse considerato un sabotatore e come tale ucciso. Perfino accettare, senza autorizzazione, un pezzo di pane offerto "spontaneamente" dal personale tedesco o dai polacchi con cui capitava di entrare in contatto era considerato sabotaggio.

Non contava che quegli oggetti fossero nude necessit di sopravvivenza, requisiti minimi per conservare la capacit produttiva dei lavoratori; se non erano autorizzati, l'ebreo che ne fosse in possesso era passibile della sentenza di morte, da eseguirsi nei modi pi vari, secondo l'umore dei tedeschi: se avevano voglia della scossa emotiva dello sparo, lo uccidevano su due piedi; se preferivano la vista della carne lacerata e delle ossa frantumate sotto la sferza o la spranga, del sangue che scorreva, dei gemiti di agonia della vittima, lo picchiavano a morte; se erano di umore pi cerimonioso, lo impiccavano. Le impiccagioni, di rigore anche per i tentativi di fuga, erano spettacoli pubblici (64), e come tali intesi a impressionare gli spettatori - oltre ai tedeschi, che vi assistevano come a uno spettacolo circense, tutti gli internati ebrei del campo. Questi dovevano presenziare al gran completo, e gli aguzzini badavano bene che prestassero la massima attenzione: un sopravvissuto racconta di essere stato picchiato per aver distolto lo sguardo durante un'impiccagione (65). Alle Officine abbigliamento i tedeschi rendevano la vittima complice della propria morte - una tecnica teutonica allora in gran voga, intesa a degradarla, a ribadire l'abiezione del suo asservimento - costringendola a costruirsi la forca, e a infilarsi da s il cappio al collo (66). Un esponente della cospirazione mondiale giudaica che moriva, in un certo senso, di propria mano rappresentava un motivo di grande divertimento, tanto pi spassoso se accompagnato da altre forme di umiliazione simbolica (67). Diversamente dall'atto di sabotaggio costituito dal possesso di un pezzo di pane, la lentezza o l'incompetenza sul lavoro comportavano una fustigazione leggera, il trasferimento a un reparto di punizione o, se l'S.S. era in vena di straordinari (50), vergate sul corpo nudo; oppure un proiettile nella nuca. Oltre a questo, gli ebrei lavoravano nel costante terrore di finire nelle camere a gas della vicina Majdanek per aver importunato qualche tedesco (68) - a volte bastava aver attirato la sua attenzione. Data la debilitazione della maggioranza degli internati, il rendimento non era certo brillante, e dunque le torture e le esecuzioni erano parte integrante della giornata lavorativa nelle Officine. La crudelt era tra le materie prime del lavoro. I pestaggi degli internati erano tanto consueti che una sopravvissuta, parlando di uno dei pi feroci torturatori del campo, pu accennare a quell'abitudine alla crudelt quasi di sfuggita, come fosse una cosa scontata.

Wagner era un sadico. Non si limitava a picchiare le donne; quello lo facevano tutte le S.S. (69). Pi avanti ci d una descrizione pi completa di Wagner: Non adoperava la pistola, ma la frusta, e spesso picchiava le donne cos forte che poi ne morivano ... Il sadismo di Wagner verso le donne ci pareva del tutto anormale; naturalmente anche le altre S.S., che avevano su di noi potere assoluto, erano estremamente crudeli, ma non sadiche allo stesso modo di Wagner (70). Per il personale tedesco del campo l'evidente soddisfazione sessuale che Wagner traeva dai sadici pestaggi che infliggeva alle donne, a volte costrette a spogliarsi, esulavano dai criteri della normalit (71). Wagner si metteva in luce, appariva del tutto anormale, non perch era brutale con le donne, non perch le picchiava, ma per l'inconsueta componente di esplicito sadismo sessuale che metteva nella sua brutalit. La normalit della violenza nelle Officine abbigliamento era tale che una semplice fustigazione non merita nemmeno di essere menzionata; nel campo, era una delle attivit ordinarie dei tedeschi comuni. Liberi com'erano di torturare gli ebrei a discrezione, e con tutta l'inventiva che sapevano mettere in questo svago tutt'altro che svagato, non sorprende affatto che nel clima particolarmente propizio delle Officine si affermassero alcuni apporti di spicco alla panoplia delle crudelt dei tedeschi: Wirth che dava briglia sciolta al suo cavallo in mezzo alla folla degli ebrei, per esempio, calpestandoli sotto gli zoccoli - alcuni rimanevano storpiati, altri ne morivano. I tedeschi del campo decisero poi di divertirsi sperimentando una camera a gas in una baracca (72), pur disponendo a un tiro di schioppo, a Majdanek, di attrezzature sperimentate e adeguate alla bisogna che rendevano del tutto inutile la loro iniziativa. Nulla di strano in questo, perch prima di arrivare alle Officine abbigliamento Wirth e altri suoi sottoposti avevano gi un curriculum di tutto rispetto in fatto di sterminio degli ebrei con il gas (73). Wirth aveva ricoperto incarichi di responsabilit nel settore, sia nell'ambito del cosiddetto programma di eutanasia, sia nei campi della morte dell'"Aktion Reinhard"; e insieme con i suoi scherani, carnefici per professione e per vocazione, port le vecchie abitudini anche nel nuovo incarico, di cui comunque l'omicidio rimaneva tra i compiti principali, dando prova di grande energia e spirito d'iniziativa nell'adattare alla situazione una ben collaudata esperienza.

Non erano semplici carnefici: erano assassini convinti, entusiasti, pieni di inventiva. Nelle Officine abbigliamento gli ebrei venivano talvolta impiccati al cancello, una pratica comune a tutti i campi, che esponeva i cadaveri anche alla vista di chi stava all'esterno (74). A quanto risulta Wirth non si curava affatto della fittizia norma che imponeva la segretezza su quanto avveniva nei "Lager", dato che a Lublino e nella regione tutti - compresi i numerosi tedeschi dell'amministrazione militare, civile e di polizia, e gli operatori economici - sapevano dello sterminio degli ebrei. Le impiccagioni al cancello del campo trasmettevano una serie di messaggi inequivocabili: porte e cancelli sono spesso indicativi del carattere dell'istituzione di cui controllano l'accesso dal mondo esterno. Il cadavere appeso proclamava visivamente a tutti il vero motivo dell'esistenza delle Officine abbigliamento; e annunciava anche, con una precisione che in genere questi avvertimenti non riescono a ottenere, in quale modo gli ebrei che l'abitavano sarebbero usciti da quell'istituzione, perch i cancelli sono anche la via del ritorno al mondo esterno (75). L'ebreo impiccato era una variazione sul tema del famigerato motto dei campi, Arbeit macht frei (Il lavoro rende liberi), ironico e ingannevole, certo, ma pi vicino alla realt soggettiva di quanto spesso gli stessi tedeschi non si rendessero conto. Agli ebrei il cadavere appeso faceva capire quale fosse la libert accordata dal lavoro, e contribuiva a definire per quella parola un'accezione e un significato di grande rilievo nel lessico elaborato dai tedeschi appositamente per loro. Il repertorio immenso e variegato delle crudelt dei tedeschi, l'immane e sanguinosa vicenda della loro condotta verso gli ebrei, sono tanto agghiaccianti nella loro enormit da impedirci di cogliere la straordinariet di tanti casi particolari. Sono comunque pochi gli episodi capaci di rivaleggiare - per patologia, orrore e tristezza, e come indicazione generale dell'atteggiamento dei tedeschi - con un caso indimenticabile nel panorama delle Officine abbigliamento: quello di un bambino ebreo sadicamente trasformato in aguzzino. Di regola nei campi (con l'eccezione dei ghetti) i bambini venivano eliminati, perch erano tra l'altro il simbolo del rinnovamento e della sopravvivenza del popolo ebraico, un futuro che i tedeschi intendevano cancellare sul piano emotivo e nei fatti.

Per questo anche il mondo delle Officine abbigliamento doveva essere privo di quell'elemento che consente a ogni comunit di immaginare il proprio futuro, e di giudicare il proprio stato di salute. Un'unica eccezione era permessa in quel panorama desolato: un ragazzino ebreo di circa dieci anni che Wirth colmava di attenzioni, caramelle, cioccolatini; gli aveva persino offerto il sogno di ogni bambino, un pony. Ma la gentilezza di Wirth era al servizio della sua crudelt. Ricorda un sopravvissuto: "Ho visto con i miei occhi il comandante delle S.S. indurre un ragazzino ebreo, di dieci anni circa, che teneva con s offrendogli cioccolata e altre leccornie, a uccidere due o tre ebrei per volta con la mitraglietta. Io stesso mi trovai a distanza di pochi metri durante una di queste sparatorie. Sparava anche il comandante delle S.S., in sella a un cavallo bianco - aveva dato un cavallo pure al ragazzino. Insieme, quei due esseri umani uccisero davanti ai miei occhi, in pi occasioni, almeno 50 o 60 ebrei. Tra le vittime c'erano anche delle donne" (76). Attenti come sempre alle valenze simboliche di ci che infliggevano agli ebrei, i tedeschi avevano dotato il ragazzino di tutti gli attributi necessari a trasformarlo in un massacratore del suo popolo: gli avevano confezionato una divisa da S.S. in miniatura, che lui indossava mentre sparava all'impazzata dall'alto della sella del suo pony. E se vero quanto riferiscono i sopravvissuti delle Officine, non ammazzava soltanto degli ebrei senza volto; dicevano che avesse sparato alla sua stessa madre (77). L'unico bambino nel campo (78), che avrebbe potuto accendere un po' di speranza, una scintilla di gioia nelle vite miserabili di quegli ebrei, era stato trasformato da Wirth nella negazione stessa della speranza, in un simbolo della disperazione, un uomo delle S.S. in miniatura. Gli adulti internati nelle Officine abbigliamento dovevano tremare di terrore di fronte a un bambino - di per s una situazione bizzarra, regressiva e deumanizzante - e per di pi ebreo, che non aveva nemmeno l'et per capire quel che faceva, plagiato da Wirth al punto da indurlo a uccidere i genitori; e lui stava l, caracollando allegro sul suo pony. Nessun messaggio poteva risultare pi dolorosamente chiaro: era il mondo alla rovescia, un luogo surreale di sofferenza e abbrutimento dal quale ben difficilmente gli ebrei sarebbero usciti vivi. Wirth e i suoi camerati lo sapevano bene: l'alba del nuovo ordine mondiale tedesco, l'avvilimento dei corruttori ebrei, la transustanziazione

dei loro valori, tutto questo era implicito nella valenza simbolica di quel bambino. I tedeschi avevano indotto un ragazzino di dieci anni a uccidere sua madre. La seconda fase della loro storia fu contrassegnata da un ulteriore cambiamento nella vita delle Officine abbigliamento. La popolazione del campo, trattata ora un po' meglio, si andava espandendo, e Wirth decise di impiegare alcuni degli ebrei per controllare gli altri, scaricando su di loro una parte del lavoro sporco. Cre una gerarchia tra gli internati, fino a quel momento una massa indistinta; a imitazione del modello classico dei campi, che conosceva cos bene, nomin dei Kapos e assegn ad alcuni ebrei delle posizioni privilegiate, inducendoli a collaborare con la promessa della libert e di parte del bottino della "Aktion Reinhard". Wirth organizz anche una cerimonia che rimase forse unica nella storia dei campi tedeschi: un matrimonio ebraico che i tedeschi del campo, e un gran numero di invitati, celebrarono insieme con i collaboratori ebrei: in tutto circa 1100 invitati. Lo straordinario evento doveva convincere i privilegiati a credere, a dispetto dell'evidenza, nella buona fede dei tedeschi, e corrispondeva all'intenzione di Wirth, nella seconda fase di vita delle Officine, di ottenere la collaborazione degli ebrei usando il bastone e la carota ("mit Zuckerbrot und Peitsche") (79). Wirth e gli altri potevano godersi la cerimonia ebraica, celebrando non il matrimonio ma l'inganno: brindavano alle simboliche ultime nozze degli ebrei, un matrimonio morto sul nascere, destinato quant'altri mai a non generare frutti. I tedeschi si divertirono sicuramente molto, durante quella farsesca pagliacciata; la passione di Wirth per l'ironia crudele, il sottile piacere che traeva dallo scherno, dalla sovversione dei legami pi sacri per gli ebrei - la cui espressione pi perfetta era il suo ebreo S.S. in miniatura - erano motivo sufficiente per celebrare queste nozze, al di l degli altri scopi mistificatori che potevano averlo indotto a inscenarle (80). Nella seconda fase le Officine abbigliamento furono soprattutto un'appendice dell'"Aktion Reinhard", un luogo in cui gli ebrei avrebbero lavorato temporaneamente, fino a quando non fosse pi stato necessario selezionare gli effetti personali dei fratelli gi sterminati. Poi sarebbero periti, destinati com'erano a sopravvivere solo per poco a chi era stato ucciso subito dalla "Aktion Reinhard".

Anche in quel periodo di lavoro utile (e a volte c'era tanto da fare che le donne continuavano a selezionare oggetti ininterrottamente per giorni e notti) (81), in condizioni di vita migliori - che fu anche il periodo, per citare le parole di Wirth, dello sterminio degli ebrei con l'aiuto degli ebrei - sulle Officine incombeva comunque il secondo aspetto della concezione dominante del lavoro degli ebrei: quello di uno sfruttamento temporaneo, una breve deviazione sulla via che conduceva inesorabilmente ai forni o alle fosse. Nelle Officine abbigliamento il rapporto diretto tra lavoro e morte era esplicito, inequivocabile. Le condizioni e la natura del lavoro a Lipowa e nel "Flughafenlager" si riproducevano per gli ebrei nell'intero sistema dei campi: ad Auschwitz, Buchenwald, Mauthausen, Plaszw, Budzyn, Krasnik, Poniatowa, Trawniki e in tanti altri (82). Lipowa e il "Flughafenlager" non si distinguevano n per brutalit n per moderazione, n per razionalit n per irrazionalit della politica del lavoro. Erano casi tipici, che forniscono un'immagine precisa del lavoro e dell'esistenza degli ebrei nella fase finale dell'Olocausto. La distruttivit di Lipowa, del "Flughafenlager" e degli altri campi in cui gli ebrei lavoravano - il comune modello di demolizione e debilitazione pianificata delle persone, e la diffusione degli atti di crudelt individuali ben si accorda con la generale indifferenza per la razionalit produttiva nella politica generale adottata dai tedeschi nei confronti della manodopera ebraica. Nella gestione di quella forza lavoro esisteva una singolare consonanza tra macro, meso e microdimensione. Dalla costante subordinazione delle esigenze economiche imposta da Hitler e dai capi nazisti al desiderio prioritario di cancellare gli ebrei dalla Germania e dal mondo, alle micidiali condizioni nei campi di lavoro, ai pestaggi devastanti o alla morte inflitti di continuo e senza provocazione dai singoli sorveglianti di quei campi, tutto obbediva puntualmente a un principio non dichiarato: le considerazioni economiche non dovevano condizionare la logica del trattamento da riservare agli ebrei. Per Hitler come per l'ultima guardia di un "Lager", l'autolesionismo economico non era un deterrente, n una fonte di preoccupazione. - Il lavoro degli ebrei: un esame comparato. Non pu esservi dubbio sul fatto che nell'impiego di ebrei e non ebrei, cio nel semplice atto di decidere se sfruttare o no (e dove) la forza lavoro di entrambi, i tedeschi rifiutarono sistematicamente di utilizzare gli ebrei in imprese per le quali erano abili e qualificati, sostituendoli con lavoratori,

spesso meno competenti, di diversa origine o anche lasciando vacanti i posti e rinunciando del tutto alla produzione. La politica aveva la meglio sull'economia. Questo modello discriminatorio ideologico e autolesionista trovava riscontro anche nelle condizioni di impiego degli ebrei, quando e se si verificava? Il trattamento ordinario dei lavoratori ebrei era diverso da quello riservato agli altri popoli soggetti? C'era una diversa razionalit nell'impiego degli ebrei e dei non ebrei? Il primo, e forse pi efficace, indice dei diversi trattamenti sta nel confronto tra i tassi di mortalit. A tutti i livelli istituzionali, quello degli ebrei era nettamente superiore rispetto agli altri. In Polonia, nelle regioni baltiche, nelle zone occupate dell'Unione Sovietica, in Cecoslovacchia, in Iugoslavia e in Grecia i tedeschi uccisero circa l'80-90 per cento (nell'Unione Sovietica occupata la percentuale fu forse ancora pi alta) della popolazione ebraica locale. Nessun altro popolo sub perdite lontanamente comparabili (83). Un'altra differenza significativa data dal fatto che gli unici gruppi di lavoratori in attivit che i tedeschi uccisero in massa, con la conseguente chiusura degli stabilimenti industriali, furono ebrei. L'Operazione Festa della mietitura, uno fra i tanti esempi di questo autolesionismo economico, elimin 43 mila lavoratori ebrei per i quali non esistevano sostituti. Persino ad Auschwitz vi fu carenza di manodopera, alla fine del 1942, e sarebbe stato facile evitarla se la vita del campo non fosse stata dominata dall'etica dello sterminio e se i tedeschi non avessero ucciso al momento stesso dell'arrivo la maggioranza degli ebrei abili al lavoro (84). Il numero complessivo di ebrei impiegati in Polonia (molti in modo tutt'altro che produttivo) diminu da 700 mila nel 1940, a 500 mila nel 1942, a circa 100 mila alla met del 1943. Una caduta precipitosa, conseguenza dello sterminio, che appare ancor pi autolesionista se messa a confronto con il numero dei lavoratori ebrei "disponibili", pari nel 1942 a 1,4 milioni nel solo Governatorato generale (85). Nemmeno una volta, in tutta la storia dell'occupazione, i tedeschi agirono in modo altrettanto irrazionale, chiudendo una fabbrica, per poter uccidere i lavoratori "non ebrei": n i polacchi, n i russi, n i serbi, n i greci, n i francesi, n i danesi, n i tedeschi: solo gli ebrei. Infine era molto pi elevata per gli ebrei che per i non ebrei la mortalit da logoramento (fame, malattie, omicidi individuali) nel corso del lavoro normale.

Se il criterio informatore, o comunque portante, fosse stato la produttivit, i tassi di mortalit degli ebrei non si sarebbero discostati in modo significativo da quelli di altri popoli soggetti, come i polacchi. Se ne discostavano, invece (86), come dimostrano i dati mensili sulla mortalit dei diversi gruppi di internati nel campo di Mauthausen (87): TABELLA. EBREI: Novembre-dicembre 1942: 100%; Gennaio-febbraio 1943: 100%; Novembre-dicembre 1943: 100%. DETENUTI POLITICI: Novembre-dicembre: 1942 3%; Gennaiofebbraio 1943: 1%; Novembre-dicembre 1943: 2%. CRIMINALI COMUNI: Novembre-dicembre 1942: 1%; Gennaiofebbraio 1943: 0%; Novembre-dicembre 1943: 1%. DETENUTI IN CUSTODIA CAUTELARE: Novembre-dicembre 1942: 35%; Gennaio-febbraio 1943: 29%; Novembre-dicembre 1943: 2%. ASOCIALI: Novembre-dicembre 1942: 0%; Gennaio-febbraio 1943: 0%; Novembre-dicembre 1943: 0%. POLACCHI: Novembre-dicembre 1942: 4%; Gennaio-febbraio 1943: 3%; Novembre-dicembre 1943 : 1%. LAVORATORI CIVILI SOVIETICI: Novembre-dicembre 1942 -; Gennaiofebbraio 1943: -; Novembre-dicembre 1943: 2%. Il tasso di mortalit "mensile" degli ebrei era del 100 per cento; quello dei polacchi meno del 5 per cento. I dati del novembre-dicembre 1943 sono particolarmente significativi, perch con l'autunno di quell'anno fu portata a termine la mobilitazione totale della popolazione del campo nell'industria degli armamenti; a questo si deve la caduta precipitosa della mortalit dei detenuti preventivi", dal 35 al 2 per cento. Ma la nuova priorit assegnata all'impiego economico degli internati per le imprescindibili esigenze dello sforzo bellico non ridusse il tasso di mortalit degli ebrei, che rimase fermo al 100 per cento (nota 88). La modifica indotta dagli interessi produttivi della Germania sull'andamento dello sterminio degli ebrei europei fu del tutto marginale (89). Tra ebrei e non ebrei erano sostanzialmente diverse anche le "condizioni" di lavoro. Di regola i tedeschi usavano criteri razziali per fissare il tipo di trattamento generale, la quantit e il valore nutritivo dell'alimentazione e i compiti specifici da assegnare ai lavoratori.

Sotto ogni punto di vista gli ebrei avevano sempre la peggio: in ogni campo o istituzione, i tedeschi li trattavano pi duramente, li nutrivano pi miseramente e assegnavano loro i compiti pi sfiancanti e umilianti (90). Una discriminazione mortalmente sistematica che si verific anche nell'impiego degli ebrei, alla fine della guerra, negli immensi progetti edilizi avviati in Germania (91), e che rispecchia fedelmente quella esercitata in tutto il sistema dei campi, di cui si detto nel capitolo 5. Quanto al lavoro privo di senso, era riservato quasi esclusivamente agli ebrei: la coazione ideologica dei tedeschi a farli lavorare era assente nei confronti degli altri popoli soggetti, compresi gli zingari, che pure subirono un profondo processo di deumanizzazione e furono sterminati in massa. Questo aspetto del lavoro degli ebrei costituisce una significativa deviazione rispetto ai criteri applicati agli altri popoli, ed di per s sufficiente a indicare che la radicale alterazione della sensibilit e della razionalit dei tedeschi si verific solo ed esclusivamente in rapporto con gli ebrei. Non soltanto le guardie dei campi, ma i tedeschi in genere reagivano in modo diverso alla presenza in mezzo a loro dei lavoratori ebrei e dei non ebrei. Il tipo di vita che conducevano i lavoratori stranieri dipendeva dalle azioni individuali dei milioni di tedeschi comuni che li sorvegliavano o lavoravano al loro fianco almeno quanto dalla volont del regime. Purtroppo per gli stranieri, una percentuale elevata di tedeschi dimostr con il suo comportamento verso i non tedeschi di essere impregnata dalle dottrine razziste del nazismo, in particolare da quelle sulla subumanit degli slavi (92). All'inizio i maltrattamenti furono tanto gravi e diffusi da provocare una produttivit al di sotto dei livelli previsti; un'espressione spontanea delle pi profonde convinzioni dei tedeschi che fu cos controproducente da indurre il regime, all'inizio del 1943, a lanciare una campagna per convincerli a trattare meglio i lavoratori stranieri (93). La misura della disumanit e della ferocia dei tedeschi corrispondeva alla gerarchia razziale che stava alla base dell'ordine nazista, della societ e del pensiero tedesco in quell'epoca. I francesi venivano trattati assai meglio dei polacchi, la cui esistenza sotto la dominazione tedesca era a sua volta preferibile a quella dei russi (94), che soffrirono in modo terribile nella fase iniziale dei lavori forzati, con un tasso di mortalit spaventoso (95).

Si aprivano comunque degli spiragli, nell'armatura ideologica, quando i tedeschi entravano in contatto diretto con i subumani non ebrei, persino con i russi e gli altri popoli sovietici. La componente dell'ideologia nazista e del codice culturale tedesco che considerava subumani gli slavi, per esempio, non godeva n di quel consenso pressoch universale n di quella presa tenace sulla mente dei tedeschi che aveva invece l'antisemitismo; e il "contenuto" delle idee sugli slavi faceva meno paura (si veda l'Appendice 2). Quelle convinzioni non erigevano tra i tedeschi e gli slavi la stessa barriera psicologica e percettiva che era costituita invece dal loro allucinato antisemitismo; molti tedeschi erano ancora in grado di percepire la realt del lavoratore straniero per ci che era, e quelli che entravano in contatto con polacchi e russi avevano la possibilit di adattare la relativa componente del proprio modello cognitivo per tener conto dell'evidente umanit di quei subumani. L'opinione che avevano di loro, e la sua relativa superficialit rispetto a quella che avevano degli ebrei, produceva un modello cognitivo capace di un minimo di flessibilit. Gli operai e i contadini tedeschi vedevano e "riconoscevano" che polacchi e russi lavoravano sodo e bene, e lo interpretavano come una dimostrazione della loro umanit. Un operaio di Bayreuth osservava: La propaganda presenta sempre i russi come gente sconsiderata e stupida. Io ho scoperto che vero il contrario: i russi ragionano, quando lavorano, e non hanno affatto l'aria tanto stupida (96). Russi e polacchi avevano famiglia, e questi legami venivano "riconosciuti" e in sostanza rispettati dai tedeschi. Dopo aver fornito alcuni esempi, un rapporto del Servizio di sicurezza da Liegnitz conclude che la popolazione convinta che il senso della famiglia dei bolscevichi sia il contrario di quanto sostiene la nostra propaganda. I russi si preoccupano molto dei familiari, e la vita di famiglia da loro ordinata. Si fanno visita a ogni occasione, e ci sono forti legami tra genitori, figli e nonni (97). Una volta aperti gli occhi, i tedeschi finivano per esprimersi e agire in modo non conforme alle concezioni culturali di "questi" subumani, in precedenza condivise, che dunque subivano una concomitante modificazione (98). Per molti di loro i russi, e tanto pi i polacchi e gli altri stranieri, erano braccia preziose e degne di rispetto.

Erano frequenti le storie d'amore tra tedeschi e lavoratori stranieri. Nel 1924-43 quasi 5000 tedeschi furono arrestati ogni mese per aver intrattenuto rapporti proibiti; una violazione massiccia e consapevole della legge razziale che si verific nonostante l'occhiuta imposizione del divieto e la gravit delle pene previste (99). I tedeschi permettevano ai lavoratori stranieri di scrivere a casa, e a molti concedevano vacanze. Spesso ascoltavano le loro doglianze, e il personale dell'industria faceva pressione per far loro riservare un miglior trattamento, con un'energia e una decisione che non manifest certo in favore degli ebrei (100). Le operaie polacche che rimanevano incinte non venivano uccise, come accadeva abitualmente alle ebree, ma erano rimandate a casa al sesto mese di gravidanza, e cos gli ammalati (101). Pi in generale, tra i tedeschi e i lavoratori non ebrei si instaurarono rapporti che, pur rimanendo nella logica del predominio, si basavano sul riconoscimento della comune umanit, e che a volte somigliavano persino all'amicizia (102); il che non avvenne mai, o quasi, nei rapporti con gli ebrei. I lavoratori stranieri furono trattati in modo generalmente deplorevole - a riprova del profondo razzismo di buona parte del popolo tedesco (103) - ma comunque incommensurabilmente meglio degli ebrei. Il regime, mentre da un lato implorava i contadini tedeschi di non permettere che i braccianti stranieri mangiassero alla loro tavola e partecipassero alle loro feste, dall'altro stava provvedendo a ripulire la Germania dagli ebrei, con manifesta gioia di tante delle comunit ripulite, e li rinchiudeva in quarantena nei ghetti, come portatori sani dei bacilli delle pestilenze (104). In entrambi i casi la pratica collimava con la teoria (105). La micidiale crudelt dei tedeschi nei confronti dei lavoratori ebrei si manifestava in modi del tutto particolari: a confronto con gli altri popoli soggetti, per loro c'erano tassi di mortalit pi alti, razioni pi misere, brutalit e umiliazioni simboliche pi brucianti e un'impossibilit senza pari di modificare le opinioni dominanti - le stesse differenze che si verificavano nei campi. I tedeschi sfruttavano tutti gli altri popoli con grande brutalit (il livello delle crudelt, delle violenze e degli omicidi superava di gran lunga quello di molte societ schiaviste), ma la politica verso i non ebrei era guidata in misura molto maggiore dai calcoli della razionalit concreta.

Al pi tardi a partire dall'inizio del 1943, l'impiego di buona parte della manodopera straniera non ebraica era ormai organizzato sulla base di principi economici ragionevolmente razionali (106). I non ebrei venivano trattati abbastanza bene da poter conseguire livelli di produttivit di tutto rispetto, soprattutto dopo le campagne didattiche lanciate dal regime per stemperare l'odio popolare. Le cifre che seguono, riferite alla Renania e alla Westfalia, indicano la produttivit media dei diversi gruppi in percentuale rispetto a quella dei lavoratori tedeschi negli stessi settori (107). Popoli dell'Est: 80-100%. Donne dell'Est: 50-75%. Donne dell'Est confrontate con le donne tedesche: 90-100%. Polacchi: 60-80%. Belgi: 80-100%. Olandesi: 60-80%. Italiani, iugoslavi e croati: 70-80%. Prigionieri di guerra in miniera: 50%. Prigionieri di guerra nell'industria siderurgica: 70%. Lo sfruttamento razionale che gener tale produttivit non fu applicato agli ebrei, se non su scala ridotta in contesti locali; e la differenza di trattamento tra lavoratori ebrei e non ebrei riguardava l'intera gerarchia del popolo tedesco, dal livello della grande politica ai suoi esecutori intermedi, alla gente comune che entrava in contatto quotidiano, nel proprio lavoro, con i diversi popoli soggetti, e che nell'accumulo delle azioni individuali era di fatto determinante per la qualit della vita di quei lavoratori. Se la razionalit economica avesse pesato in qualche misura significativa, l'impiego della manodopera ebraica - sia sul piano delle politiche generali sia su quello del trattamento individuale - sarebbe stato razionale almeno quanto lo sfruttamento dei polacchi (108), per non dire dei francesi, degli olandesi o persino dei tedeschi. Le azioni discriminatorie compiute dai tedeschi, di ogni genere e grado, si aggiungono alla massa gi cospicua di elementi che confermano come gli ebrei venissero considerati entit a s stanti, esseri che - al di l di ogni altra cosa che si voleva fare di e con loro - erano destinati soltanto a soffrire e a morire.

NOTE AL CAPITOLO 11 N. 1.

Come gi detto nel capitolo 5, non seguiremo qui la complessit e la confusione della tassonomia nazista dei campi, perch per gli ebrei tali categorie non avevano grande significato. Utilizziamo il termine campo di lavoro quando questa era formalmente la funzione prioritaria del "Lager", indipendentemente da come lo definivano i tedeschi. Una descrizione dei campi di lavoro nel distretto di Lublino nell'atto di accusa contro Georg Lothar Hoffmann e altri, in Z.S.t.L. 208 A.R.-Z 268/59, pp. 316-29. N. 2. Voce Majdanek, in "Encyclopedia of the Holocaust" cit., p. 939. N. 3. Konnilyn G. Feig, "Hitler's Death Camps" cit., p. 322. N. 4. Questo memorialista impiega il termine lavoro, in senso ironico, secondo la consuetudine e la pratica proprie dei tedeschi. N. 5. Joseph Schupack, "Tote Jahre: eine jdische Leidensgeschichte", Tbingen, Katzmann, 1984, p. 148. N. 6. Citato in Edward Gryn e Zofia Murawska, "Majdanek Concentration Camp", Lublin, Wydawnictwo Lubelskie, 1966, pagine 34-35. N. 7. Un altro sopravvissuto racconta che dopo qualche giorno al campo ci misero a spostare pietre. Spesso il lavoro era del tutto inutile, e a mio parere serviva soprattutto a tenere occupati i detenuti e a umiliarli. Nell'insieme il trattamento era estremamente disumano. H.A., in Z.S.t.L. 407 A.R.-Z 297/60, p 1418. N. 8. Su Majdanek, confronta la sentenza contro Hermann Hackmann e altri, in Landgericht Dsseldorf 8 K.s. 1 /75, 2 volumi; l'atto di accusa contro Hermann Hackmann e altri, in Zentrale Stelle der Landesjustizverwaltungen zur Aufklrung nationalsozialistische Verbrechen, Colonia 130 (24) Js 200/62 (Z); la voce omonima in "Encyclopedia of the Holocaust" cit., pagine 937-40, nonch "Nationalsozialistische Massettungen durch Giftas" cit., pagine 17477, e Heiner Lichtenstein, "Majdanek: Reportage eines Prozesses", Frankfurt am Main, Europaische Verlagsanstalt, 1979. N. 9.

Questi due campi non sono stati trattati nella letteratura sul nazismo e l'Olocausto, se non nei rapidi accenni di qualche memorialista. L'unica eccezione a me nota la ricostruzione della vita dei prigionieri di guerra ebrei polacchi a Lipowa in Shmuel Krakowski, "The War of the Doomed" cit., pagine 260-71, che per si concentra su quella categoria di detenuti (sorprende, tra l'altro, che non parli della cerimonia del cambiamento di status, di cui si dir pi oltre), e dunque non dice molto altro sull'esistenza quotidiana nel campo. Il materiale qui usato tratto dalle inchieste giudiziarie a carico dei capi delle S.S. e della polizia di Lublino, in Z.S.t.L. 208 A.R.-Z 74/60 (in seguito S.S.P.L.). N. 10. Informazioni sul campo in Aktenvermerk, in S.S.P.L., pagine 8364-77, e nell'atto di accusa contro M., ibid., pagine 11266-79 (per l'inizio della sua vicenda, confronta ibid., p. 8372). N. 11. Atto di accusa contro M., in S.S.P.L., pagine 11267-68, e Aktenvermerk, ibid., p. 8372. Shmuel Krakowski, "The War of the Doomed" cit., p. 261, fornisce cifre leggermente diverse. N. 12. Atto di accusa contro M., in S.S.P.L., p. 11279. N. 13. E' difficile accertare il numero dei detenuti ebrei durante la vita del campo. Confronta Aktenvermerk, in S.S.P.L., pagine 8375-77, per una stima verosimile della popolazione del campo, e atto di accusa contro M., in S.S.P.L., pagine 11277-78, per le cifre aggregate di Lipowa e di altri due campi (il "Flughafenlager" e la Segheria Pulawy) sottoposti alla sua giurisdizione economica. N. 14. Aktenvermerk, in S.S.P.L., pagine 8380-81. N. 15. Ibid., p. 8382. N. 16. Atto di accusa contro M., in S.S.P.L., pagina 11275. N. 17. Norimberga, docc. No-555 e No-063, in U.S. vs. Pohl et al., in T.W.C., vol. 5, pagine 536-45. N. 18.

Enno Georg, "Die Wirtschaftlichen Unternehmungen der S.S.", Stuttgart, Deutsche Verlags-Anstalt, 1963, pagine 61, 96. N. 19. Atto di accusa contro M., in S.S.P.L., pagine 11280-81. N. 20. Aktenvermerk, in S.S.P.L., pagine 8442-43N. 21. Per un esame complessivo delle micidiali azioni dei tedeschi, confronta ibid., pagine 8425-28, 8442-71. N. 22. Confronta ibid., pagine 8425-29, e J.E., ibid., p. 4030. N. 23. Va ribadito che possibile, e anzi probabile, che si siano verificati molti altri eventi fuori del comune, ai quali non sopravvisse un solo testimone disposto a parlarne. N. 24. Confronta Shmuel Krakowski, "The Fate of Jewish Prisoners of War in the September 1939 Campaign", in Y.V.S., 12,1977, pagine 297333. N. 25. M.K., in S.S.P.L., p. 7194. Per un resoconto generale sul trattamento riservato ai nuovi prigionieri nei campi, confronta Wolfgang Sofsky, "Die Ordnung des Terrors" cit., pagine 98-103. N. 26. Due esempi: J.Z. e P.O., in S.S.P.L., rispettivamente a p. 7188 e p. 7191. N. 27. Confronta Orlando Patterson, "Slavery and Social Death" cit., pagine 5162, sezione nella quale sono discussi The Rituals and Marks of Enslavement. N. 28. I prigioneri di guerra finirono comunque per essere trattati meglio degli ebrei di Lublino. Secondo uno dei sopravvissuti, perch eravamo organizzati militarmente e portavamo la divisa (J.E., in S.S.P.L., p. 4029). Un esame generale dei prigionieri di guerra ebrei a Lipowa, in Shmuel Krakowski, "The War of the Doomed" Cit., pagine 260-71. N. 29. J.E., in S.S.P.L., p. 4031. J.E. racconta inoltre un episodio caratteristico del comportamento dei tedeschi in Polonia: Dressler, che aveva l'abitudine di percorrere il ghetto a

cavallo, con l'aria del padrone, una volta sorprese una donna in via Warschawska e le spar sul posto, senza nemmeno scendere di sella. N. 30, Aktenvermerk, in S.S.P.L., pagine 8412-18. N. 31. La sintesi di quanto le indagini giudiziarie accertarono in merito a ciascuna delle guardie ibid., pagine 8400-12. N. 32. Ibid, pagine 8404-5. N. 33. Ibid., pagine 8404-6. In un'occasione uno degli uomini rifiut di obbedire all'ordine del comandante di impiccare un ebreo, e non sub alcuna conseguenza. N. 34. Confronta Vorbemerkung, in S.S.P.L., p. 10394, dove si parla dei suoi diversi nomi. Lo chiamavano "Flughafen" anche se in quella zona non c'era mai stato un aeroporto. N. 35. Per una storia generale, confronta ibid., pagine 10397-402. N. 36. Ibid., p. 10403. N. 37. Ibid., p. 10413. N. 38. Ibid., p. 10396. I sopravvissuti erano tutti ex detenuti dell'Officina abbigliamento. N. 39. A.F., in S.S.P.L., p. 6681; Vorbemerkung, ibid., pagine 1041011. N. 40. Salvo altre indicazioni, le informazioni che seguono provengono da ibid., pagine 6680-88. N. 41. Ho trovato ben poche informazioni in proposito; degli ebrei internati nel campo si conosce il nome di uno soltanto, e per di pi in trascrizione fonetica. Confronta Vorbemerkung, in S.S.P.L., pagine 10400, 10410-11,10418-28. Ne consegue, ovviamente, che ciascuna delle vittime rimane anonima, soltanto l'ebreo privo di quell'individualit cos importante nella valutazione dei crimini commessi ai suoi danni. N. 42.

Informazioni biografiche e profilo caratteriale in S.S.P.L., pagine 105028. N. 43. Ritiene che l'uomo fosse morto, ma non ne certo perch Dietrich lo cacci via prima che potesse verificarlo con sicurezza. N. 44. S.S.P.L., p. 10517. N. 45. Ibid., p. 10507, per ulteriori testimonianze in proposito. N. 46. Sappiamo poco della vita nel campo maschile, perch non stato individuato alcun sopravvissuto, ma possiamo supporre che le condizioni fossero analoghe a quelle del campo femminile. N. 47. Vorbemerkung, in S.S.P.L., pagine 10412-13. Le cifre qui indicate si basano soprattutto sulle stime proposte dalle guardie e dai detenuti. N. 48. Ibid., p. 10430 N. 49. Ibid., pagine 10402-3. N. 50. Sugli aspetti economici dell'"Aktion Reinhard", confronta U.S. vs. Pohl et al., in T.W.C., vol. 5, pagine 692-763, e Vorbemerkung, in S.S.P.L., pagine 10402-3. N. 51. Vorbemerkung, in S.S.P.L., pagine 10439-40. N. 52. Ibid. N. 53. S.R., cit. in Vorbemerkung, in S.S.P.L., p. 10446. N. 54. Vorbemerkung, in S.S.P.L., pagine 10447-48. N. 55. Ibid., p. 10447. N. 56. A.F., in S.S.P.L., p. 6683. N. 57. Vorbemerkung, in S.S.P.L., pagine 10431-33. N. 58.

Norimberga, docc. No-059 e No-062, in U.S. vs. Pohl et al., in T.W.C., vol. 5, pagine 725-31. N. 59. Vorbemerkung, in S.S.P.L., p. 10447. N. 60. Ibid., p. 10440. N. 61. Proprio perch gli ebrei erano tanto debilitati, ed erano stati allontanati dagli impianti e dai macchinari (l'Osti non disponeva di capitali sufficienti per rimpiazzarli), nell'autunno 1943 le industrie dell'Osti fallirono per mancanza di profitti. Confronta Raul Hilberg, "The Destruction of European Jews" cit., p. 340. Fallirono nonostante il costo insignificante della manodopera. Confronta Norimberga, doc. No-1271, in U.S. vs. Pohl et al., in T.W.C., vol. 5, pagine 51228, sulla revisione dei conti dell'Osti del 21 giugno 1944; confronta soprattutto le pagine 519-20 per la versione ufficiale della storia della ferriera del "Flughafenlager", una vicenda di colossale irrazionalit economica. La fabbrica di spazzole fu una delle poche imprese che parrebbero aver funzionato, nel senso economico pi stretto. N. 62. L'infermeria fu una centrale di morte durante entrambi i periodi della vita del campo. G., forse il pi temuto tra i tedeschi, passava regolarmente a sgomberare i ricoverati, che venivano fucilati subito o inviati nelle camere a gas di Majdanek. S.R., infermiera nel primo periodo, e moglie del medico ebreo che dirigeva l'infermeria, spiega che a seguito di quelle selezioni avevano deciso di trattare ambulatoriamente tutti i casi, se non i pi gravi, rimandando subito i malati al lavoro. Confronta S.S.P.L., pagine 10525-26. N. 63. Vorbemerkung, in S.S.P.L., p. 10441. N. 64. Una suggestiva analisi dello scopo e della funzione degli spettacoli pubblici di questo genere in Michel Foucault, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", trad. it. Torino, Einaudi, 1976. N. 65. E.T., in S.S.P.L., p. 10973. N. 66.

Vorbemerkung, in S.S.P.L., pagine 10444-45. N. 67. A Majdanek un giovane ebreo ortodosso, che aveva dichiarato di essere disposto al doppio turno di lavoro se lo avessero autorizzato a riposare il sabato, un sabato si nascose sotto l'impiantito della latrina. Lo scovarono, e all'alba lo impiccarono sulla piazza dell'appello, davanti a tutti noi. Se ricordo bene, a mettergli la corda al collo fu l'"Oberkapo", un tedesco d'origine, particolarmente crudele. Il giovane ebreo penzolava gi dalla forca, quando l'"Oberkapo" si arrampic sulla scala e gli urin addosso (H.A., in Z.s.t.L. 407 A.R.-Z 297/60, p. 1418). N. 68. Vorbemerkung, in S.S.P.L., pagine 10445-46. N. 69. E.T., in S.S.P.L., p. 10970. N. 70. Ibid., pagine 3414-15. N. 71. Uno dei sopravvissuti ricorda un caso analogo: senza alcun motivo apparente costrinse un'ebrea sui diciotto-vent'anni a spogliarsi, poi la picchi a morte con la frusta davanti agli occhi delle altre ebree nella calzoleria (S.S.P.L., p. 10545). N. 72. Vorbemerkung, in S.S.P.L., p. 10443. Pare - ed fatto del tutto atipico - che in questo campo alcuni tedeschi abbiano violentato delle ebree. N. 73. Per la biografia di Wirth, confronta Robert Wistrich, "Wer war wer im Dritten Reich? Ein biographisches Lexikon", Frankfurt am Main, Fischer Taschenbuch Verlag, 1987, pagine 379-80. La biografia non parla del periodo in cui Wirth oper nell'Officina abbigliamento. N. 74. Vorbemerkung in S.S.P.L., p. 10443. N. 75. Una suggestiva disamina del simbolismo della porta in Peter Armour, "The Door of Purgatory: a Study of Multiple Symbolism in Dante's Purgatorio", Oxford, Clarendon Press, 1983, specie pagine 100118. N. 76.

J.E., in S.S.P.L. pagine 5237-38. N. 77. Uno dei sopravvissuti ricorda di aver sentito dire che il bambino aveva sparato a entrambi i genitori: C.P., in S.S.P.L., p. 9410. N. 78. Vi fu anche un altro bambino: a quanto risulta, Wirth concesse qualche tempo di vita a un neonato, invece di sbarazzarsene nel modo usuale, destinandolo cio ai crematori di Majdanek: Vorbemerkung, in S.S.P.L., p. 10441. N. 79. Ibid., pagine 10440-42. Anche a Treblinka si tenne un matrimonio ebraico organizzato dai detenuti, al quale parteciparono alcuni uomini delle S.S., ma fu cosa di poco conto; nulla a che fare con quello celebrato nelle Officine abbigliamento. Confronta Yitzhak Arad, "Belzec, Sobibor, Treblinka" cit., p. 236. N. 80. Vorbemerkung, in S.S.P.L., pagine 10441-42. Confronta pure I.M.G., vol. 20, pagine 492-95. Il giorno delle nozze non poteva certo trascorrere senza orrori, come se i tedeschi non riuscissero a evitare di guastare ogni momento di conforto per gli ebrei. La seconda cerimonia della giornata fu l'impiccagione pubblica di due ebrei. Come dimostra la storia dei campi, che Wirth conosceva bene, i tedeschi non avevano bisogno di questi inganni per conquistare la collaborazione dei detenuti, che erano disposti a lavorare anche se l'unico vantaggio che potevano trarne era di rimanere in vita per la durata del lavoro. Confronta Yitzhak Arad, "Belzec, Sobibor, Treblinka" cit., pagine 22636. N. 81. E.T., in S.S.P.L. p. 3414. N. 82. Per uno sguardo generale sulla vita e il lavoro nei campi, confronta Konnilyn G. Feig, "Hitler's Death Camps" cit.; Hermann Langbein, "Menschen in Auschwitz" cit., per Auschwitz, appunto; Eugen Kogon, "The Theory and Practice of Hell" cit., per Buchenwald; Benjamin Eckstein, Jews in the Mauthausen Concentration Camp, in "The Nazi Concentration Camps" cit., pagine 257-71, per Mauthausen; le sentenze contro Franz Josef Mller, in Mosback K.s. 2/61, e contro Kurt Heinrich, in Hannover 11 K.s. 2/76, nonch Malvina Graf, "The Krakw Ghetto and the Plaszlo Camp Remembered", Tallahassee, Florida State University Press, 1989, pagine

86-140, per Plaszw; S.S.P.L., in particolare il vol. 46, per Budzyn e Krasnik; Z.S.t.L. 208 A.R.-Z 268/59, per Poniatowa e "trawniki". N. 83. Estimated Jewish Losses in the Holocaust, in "Encyclopedia of the Holocaust" cit., pagine 1797-1802. In certe regioni, i tedeschi trattarono gli zingari allo stesso modo degli ebrei, sterminandone sistematicamente oltre 200 mila. Ma nonostante le generiche analogie, la loro posizione rispetto ai due popoli presentava importanti differenze. Confronta la voce Gypsies, ibid., pagine 634-38, e Donald Kenrick e Grattan Puxon, "The Destiny of Europe's Gypsies", New York, Basic Books, 1972. N. 84. "Kalendarium der Ereignisse im Konzentrationslager AuschwitzBirkenau, 1939-1945", a cura di Danuta Czech, Reinbek, Rowohlt Verlag, 1989, alla data 5 ottobre 1942; Falk Pingel, "Hftlinge unter S.S.Herrschaft" cit., p. 140. N. 85. Confronta la voce Forced Labor, in "Encyclopedia ot the Holocaust" cit., p. 501, e Albert Speer, "The Slave State" cit., pagine 281-82. N. 86. La posizione radicalmente diversa occupata dagli ebrei nell'economia generale del lavoro risalta in qualsiasi tentativo di costruire una periodizzazione razionale della storia dei campi tedeschi. La ragionevole proposta di Pingel ne un ottimo esempio. La storia del sistema concentrazionario viene suddivisa in tre periodi: nel 1933-36 definisce i "Lager" campi speciali per gli avversari politici; il periodo 1936-41 quello dei primi sacrifici per il riarmo e la guerra; l'ultimo periodo, 1942-44, quello della produzione bellica e dell'annientamento in massa. Per gli ebrei, quest'ultima fu l'epoca di Auschwitz, Chelmno, Treblinka, Belzec e Sobibr, il periodo di massima intensit del massacro; per i non ebrei furono gli anni definiti dalla mobilitazione della forza lavoro. Il sistema dei campi conteneva dunque due sottosistemi funzionalmente distinti, uno per lo sterminio degli ebrei, l'altro per lo sfruttamento economico di detenuti nella stragrande maggioranza non ebrei. Nel terzo periodo di Pingel, produzione bellica e annientamento in massa, in realt si concatenano due sistemi diversi, funzionalmente distinti sebbene coincidenti nello spazio. Confronta Falk Pingel, "Hftlinge unter S.S.-Herrschaft" cit. Inhalt (Indice).

N. 87. Ibid., p. 186. Wolfgang Sofsky azzarda delle generalizzazioni sul lavoro nei campi inteso non come forma di schiavit, bens come metodo per uccidere i detenuti. Non vero, per la maggioranza dei non ebrei, come dimostrano queste statistiche e la mobilitazione di milioni di non ebrei per un lavoro effettivo, dentro e fuori dal sistema dei campi. Sofsky fonda le sue generalizzazioni sulle condizioni di vita in quel numero relativamente esiguo di campi che appartenevano formalmente al sistema dei campi di concentramento, e non sul pi generale impiego della manodopera straniera negli altri campi, e nell'economia complessiva. La sua definizione errata persino per i campi di concentramento, ed del tutto campata in aria nel contesto pi generale. In sostanza, Sofsky - guidato da una griglia interpretativa fuorviante, che lo costringe a sottovalutare in modo grave e sistematico le importanti differenze nella sorte dei diversi gruppi di detenuti - attribuisce erroneamente l'effettivo carattere (mortale) del lavoro degli ebrei a quello di tutti gli altri prigionieri. Confronta "Die Ordnung des Terrors" cit., pagine 193-225, specialmente le pagine 215-19. Lo stesso vale per la sua analisi del lavoro non produttivo (pagine 199, 219). Hermann Langbein, forte della sua profonda conoscenza di Auschwitz e di altri campi, conclude che gli ebrei erano sempre all'ultimo gradino di quella gerarchia. A loro venivano assegnati i lavori pi pesanti, anzi era spesso proibito in linea di principio assegnare a una buona unit chi fosse costretto a portare la stella di Davide sull'uniforme a strisce ("Work in the Concentration Camp System", in Dachau Review, 1, p. 107). N. 88. Un resoconto delle condizioni a Mauthausen in Konnilyn G. Feig, "Hitler's Death Camps" cit., pagine 116-28. Molti hanno sostenuto dai nazisti stessi ai loro apologeti dopo la guerra, a certi studiosi contemporanei - che gli ebrei morivano per le privazioni imposte dalla guerra, e in particolare per la mancanza di generi alimentari. L'esempio di Mauthausen non che una delle tante smentite possibili. I tedeschi erano perfettamente in grado di intervenire sulle condizioni di vita dei detenuti al fine di modificare in modo radicale e immediato i tassi di mortalit, e come dimostra l'esempio di Mauthausen sapevano farlo con

lucidit e precisione, differenziando nettamente i gruppi all'interno della medesima istituzione. Dopo la decisione di indirizzare alla produzione la manodopera dei campi di concentramento, ridussero il tasso di mortalit complessivo nell'intero sistema concentrazionario dal 10 per cento nel dicembre 1942 al 2,8 per cento nel maggio 1943 (Norimberga, doc. 1469-P.S., in U.S. vs. Pohl et al., in T.W.C., vol. 5, p. 381), e riuscirono a farlo nonostante il forte incremento della popolazione internata. La riduzione si verific in un periodo in cui le forniture alimentari erano pi scarse di quanto non fossero quando gli ebrei di Varsavia e del resto d'Europa morivano di fame, secondo alcuni perch non ci sarebbe stato nulla per sfamarli. Falk Pingel esamina i diversi provvedimenti presi da Himmler, da Oswald Pohl e dall'amministrazione dei campi di concentramento nel 1943-44 per migliorare le previsioni di vita dei detenuti non ebrei. Confronta Falk Pingel, "Hftlinge unter S.S.-Herrschaft" cit., pagine 13334, 181-87. N. 89. Falk Pingel, ibid., p. 140. N. 90. Israel Gutman, Social Stratification in the Concentration Camps cit., pagine 169-73. N. 91. Un sunto delle differenze di trattamento in senso generale e in Falk Pingel, "Hftlinge unter S.S.-Herrschaft" cit., pagine 92-93. Ci non significa che alcuni non ebrei, soprattutto russi, non finissero per condividere la sorte degli ebrei, soprattutto in quel tipo di progetti. Ma per i lavoratori non ebrei questa fu l'eccezione, non la regola. N. 92. Ulrich Herbert, "Geschichte der Auslnderbeschftigung in Deutschland 1880-1980" cit., p. 162; Id., "Der Auslndereinsatz" cit., pagine 37-38. In Germania c'erano pi di sette milioni di lavoratori stranieri, ed ovvio che le condizioni fossero diverse da un luogo all'altro. Anche nei campi chi occupava gli ultimi gradini della gerarchia poteva influenzare in modo determinante le condizioni e la qualit della vita dei prigionieri; in una rara occasione, per esempio, in cui in un campo per ebrei alcune guardie particolarmente brutali furono rimpiazzate con personale pi umano, il miglioramento delle condizioni fu radicale. Confronta, per esempio, Aharon Weiss, Categories of Camps cit., p. 129.

Ci che valeva in Germania per ogni contadino libero, signore in casa propria, valeva anche per la struttura totale del campo: la gente di poco conto contava invece molto, indipendentemente dalla natura del regime. N. 93. Confronta Norimberga, doc. 205-P.S., in "Nazi Conspiracy and Aggression" cit., pagine 218-22, e Ulrich Herbert, "Der Auslndereinsatz" cit., pagine 34-35. Il tema principale del tentativo di indottrinamento era che tutti i popoli europei, compresi i russi, stavano combattendo insieme contro il bolscevismo: I lavoratori stranieri impiegati nel Reich devono essere trattati in modo tale da stimolare e consolidare la loro affidabilit ... Ogni uomo, anche il pi primitivo, ha una perfetta percezione della giustizia! Di conseguenza, ogni comportamento ingiusto non pu non avere effetti molto negativi. Le ingiustizie, gli insulti, gli inganni, i maltrattamenti eccetera devono cessare. Le punizioni corporali sono proibite. Confronta Norimberga, doc. 205-P.S., in "Nazi Conspiracy and Aggression" cit., vol. 3, p. 219. E' assurdo pensare che i nazisti potessero lanciare una campagna analoga per favorire un trattamento pi umano degli ebrei, all'insegna di slogan come Gli ebrei, europei come noi, o Non combattiamo gli ebrei, ma l'idea del giudaismo. N. 94. Confronta i documenti raccolti in Dokumentation: AusgrenzungDeutsche, Behrden und Auslnder, in "Herrenmensch und Arbeitszvlker" cit., pagine 131-41, in particolare pagine 136-38. Confronta inoltre Ulrich Herbert, "Der Auslndereinsatz" cit., pagine 3637, e Id., "Fremdarbeiter" cit., pagine 201-5. Herbert osserva che la gerarchia dei diversi popoli corrispondeva anche ai pregiudizi della maggioranza della popolazione tedesca. Confronta, ancora, Id., "Der Auslndereinsatz" cit., p. 36. N. 95. Inizialmente i russi furono trattati in modo mostruoso: confronta ibid., pagine 31-34. Sulle micidiali condizioni imposte dai tedeschi a 600 mila prigionieri di guerra italiani che rifiutarono di combattere al loro fianco dopo la caduta di Mussolini, confronta ibid., pagine 35-36. N. 96. "Meldungen aus dem Reich, 1938-1945" cit., vol. 13, p. 5131. N. 97.

Ibid., p. 5134. N. 98. Ibid., vol. 2, pagine 4235-37. N. 99. Robert Gellately, "The Gestapo and German Society" cit., pagine 226-27. N. 100. "Meldungen aus dem Reich" cit., vol. 10, pagine 3978-79, e Ulrich Herbert, "Der Auslndereinsatz" cit., pagine 31, 37-39. N. 101. Robert Gellately, "The Gestapo and German Society" cit., p. 234. N. 102. Confronta, per esempio, Joachim Lehmann, Zwangsarbeiter in der deutsche Landwirtschaft, 1939 bis 1945, in "Europa und der Reichseinsatz", pagine 127-39,132-36. La flessibilit a livello personale trova riscontro a livello decisionale nella scelta di consentire l'accesso in Germania a prigionieri di guerra e civili russi dopo la proibizione iniziale. N. 103. Ulrich Herbert, "Geschichte der Auslnderbeschftigung in Deutschland 1880-980" cit., p. 177. N. 104. Nazism, p. 1065 N. 105. Conferme a quanto si sostiene qui circa i polacchi si trovano in Jochen August, Erinnern an Deutschland: Berichte polnischer Zwangsarbeiter, in "Herrenmensch und Arbeitsvlker" cit., pagine 10929. Il materiale pubblicato nell'articolo dimostra (pur non essendo questa l'intenzione, n la conclusione dell'autore) che sebbene i tedeschi dessero prova di forti sentimenti razzisti, e sebbene trattassero male, e anche brutalmente, i polacchi, l'atteggiamento nei loro confronti fu sempre senza paragone migliore di quello che mai un ebreo avrebbe potuto sperare. I polacchi facevano una vita dura, ma era pur sempre una vita da essere umano, non quella di un essere appestato, socialmente morto, gi condannato. Sui russi confronta "Meldungen aus dem Reich" cit., vol. 11, pagine 4235-37, e vol. 13, pagine 5128-36. N. 106. Ulrich Herbert, Arbeit und Vernichtung cit., p. 225. N. 107. Id., "Der Auslndereinsatz" cit., p. 35. N. 108.

Anche nel trattamento riservato ai polacchi e ad altri popoli dell'Est la razionalit rimase entro i limiti fissati dal razzismo, e dalla generale propensione alla violenza dei tedeschi, che riuscirono comunque a conservare nella metodologla del loro impiego un atteggiamento pi utilitaristico.

Capitolo 12 LAVORO E MORTE

Perch persistere in quella assurda irrazionalit che era, sul piano economico, la distruzione di una forza lavoro esperta e pi produttiva della media? Perch creare condizioni di lavoro intenzionalmente debilitanti? Perch trattare gli ebrei con tanta crudelt, nel farli lavorare? In quale contesto politico e sociale, e alla luce di quale apparato cognitivo, questo genere di impiego della manodopera ebraica poteva avere senso per i tedeschi? L'assoluta incapacit dei tedeschi di impiegare la forza lavoro degli ebrei, che in tutta Europa rimase sostanzialmente inutilizzata, e il modo in cui i lavoratori ebrei vennero trattati nelle istituzioni destinate al lavoro - come Majdanek, Lipowa, il "Flughafenlager" e tanti altri campi offrono un punto di partenza empirico per cercare una risposta a questi interrogativi. Insieme, stanno a indicare che gli aspetti oggettivi qualificanti del lavoro degli ebrei erano patologici, in netta antitesi con il carattere del lavoro normale: 1) I tedeschi in genere non prendevano in considerazione la potenziale utilit degli ebrei. Lo dimostrarono pi e pi volte uccidendo gli ebrei di comunit o di stabilimenti industriali interi, cos interrompendo senza alcun preavviso attivit produttive insostituibili ed essenziali. 2) Anche quando gli ebrei lavoravano, il lavoro era caratterizzato dal sottoutilizzo sistematico delle loro capacit produttive: i tedeschi li strappavano dalle macchine e dai luoghi di produzione per trasferirli in altri luoghi privi delle dotazioni necessarie, dove il lavoro si svolgeva quasi sempre con attrezzature primitive o decrepite. Agli ebrei venivano inoltre assegnati compiti che non corrispondevano alle loro competenze, dal che conseguiva che: 3) La produttivit del lavoro degli ebrei era minimale, su due livelli diversi: quello complessivo degli ebrei in Europa e quello di una data forza lavoro in un luogo particolare.

4) Il lavoro degli ebrei aveva quantomeno una componente punitiva (a parte le conseguenze debilitanti), come dimostra il fenomeno del lavoro inutile. 5) Il lavoro degli ebrei doveva comportare, secondo i tedeschi, soprattutto la massima debilitazione. Essi li costringevano a ritmi disumani, fisicamente insostenibili, che insieme con l'alimentazione del tutto inadeguata e le spaventose, e volute, condizioni igieniche li riducevano in condizioni di salute catastrofiche. 6) La caratteristica qualificante del lavoro degli ebrei era data dalle sue conseguenze fatali. Se gli ebrei morti di fame, sfinimento e malattia non furono pi numerosi fu soltanto perch i tedeschi li uccidevano regolarmente poco prima che le loro condizioni fisiche avessero toccato il fondo. La debilitazione li avviava lungo la strada della morte, e mentre la percorrevano i tedeschi estorcevano loro un po' di produzione, e molte e diverse gratificazioni psicologiche. Qualsiasi tipo di infrazione reale o immaginaria (contro l'ordinamento disumano dei campi) forniva il pretesto per uccidere. 7) Il lavoro degli ebrei fu incessantemente accompagnato dalle crudelt del personale tedesco. 8) Sia pure non sempre, n in ogni aspetto, il lavoro degli ebrei era radicalmente, qualitativamente diverso da quello degli altri popoli soggetti. Nulla nel modo in cui i tedeschi trattavano i lavoratori ebrei corrisponde all'accezione comune di lavoratore, e nemmeno all'accezione di schiavo. Non venivano impiegati razionalmente nella produzione, non si tutelava la loro capacit produttiva, e veniva loro impedito di riprodursi (1). In qualsiasi societ sia i lavoratori sia gli schiavi valgono per quello che producono con il loro lavoro. Non cos gli ebrei: ci che producevano era irrilevante ai fini della loro sorte, tranne forse a brevissimo termine. I tedeschi li trattavano come criminali condannati a morte, costretti a spaccare qualche pietra prima dell'appuntamento con la forca. Per i lavoratori e gli schiavi il lavoro mezzo di vita e di riproduzione (e, per i lavoratori, fonte di dignit). Per gli ebrei il lavoro era un modo di morire. Il loro destino, come quello dei criminali condannati, era segnato: anzi, se la passavano peggio dei criminali comuni, perch i carcerieri si sentivano in dovere di tormentarli. Il lavoro degli ebrei in epoca nazista fu "oggettivamente" una grossolana violazione della logica e delle forme razionali del lavoro - senza eguali nella

societ industriale moderna, e anzi con ben pochi eguali anche nelle societ schiavistiche. Era parte integrante della grande distruzione: in sostanza, anzi, il lavoro degli ebrei era in s distruzione. Quali erano dunque l'apparato cognitivo, i presupposti, il contesto politico e sociale in cui il lavoro poteva diventare distruzione, producendo le diverse e caratteristiche aberrazioni che contraddistinguono il lavoro degli ebrei? In altre parole, qual era per i tedeschi la concezione "soggettiva" degli ebrei e del loro destino che li indusse a trasformare il lavoro - la normale attivit finalizzata a una produzione efficiente e razionale - in distruzione, e a trattare gli ebrei, anche sul posto di lavoro, non come lavoratori ma peggio dei criminali condannati a morte? Questa metamorfosi del significato e della pratica del lavoro derivavano dall'apparato cognitivo antisemita, il cui elemento portante era l'idea che la vita degli ebrei non meritava di essere vissuta. Erano esseri socialmente morti, che era giusto uccidere, nel duplice senso che era moralmente corretto, e di fatto legalmente lecito. Data la loro presunta natura satanica, non solo gli ebrei non erano degni dei diritti minimali che tutelano quantomeno la vita, ma la loro morte era un imperativo morale. Questa convinzione era diffusa tra chi controllava il lavoro degli ebrei nel sistema dei campi, e nei ghetti, prima ancora dell'esplicito avvio della politica genocida. Quando a Berlino fu deciso il genocidio, e le diverse istituzioni cominciarono a praticarlo, l'orientamento culturale preesistente, che corrispondeva grosso modo a indirizzi ufficiali impliciti o vaghi, si inser perfettamente nella nuova politica dello sterminio totale. Anzi, il nuovo indirizzo trasform il valore dell'uccisione degli ebrei attraverso il lavoro: non pi un evento positivo ma non obbligatorio, bens una vera e propria norma morale. Ammazzare gli ebrei, prima soltanto una buona azione, ora veniva ad assumere tutto il carattere dell'impellenza. Senza questa convinzione, senza l'approvazione morale che accompagnava l'uccisione degli ebrei, la generale debilitazione di una forza lavoro, gli arbitrari omicidi dei singoli ebrei e gli astronomici tassi di mortalit nei campi di lavoro non si sarebbero verificati, e non sarebbero stati tollerati a nessun livello di controllo amministrativo. In assenza di questo orientamento, la distruzione di una forza lavoro e di una produzione di cui c'era disperato bisogno non avrebbe semplicemente avuto alcun senso.

Il secondo elemento dell'apparato cognitivo che gli ebrei dovevano soffrire. Non erano soltanto vite indegne di essere vissute, non bastava che morissero: fino all'ultimo si doveva punirli e umiliarli, sicch le azioni dirette a questo scopo acquisirono forza normativa. L'ordine non scritto di picchiarli, di schernirli, di rendere un inferno la loro vita stava alla base della crudelt onnipresente nei campi di lavoro. Qui i tedeschi umiliavano e torturavano gli ebrei con una regolarit intesa non soltanto a storpiarne il fisico, ma a precipitarli in uno stato di terrore perpetuo. E non si trattava soltanto delle crudelt dei singoli tedeschi, o dell'insieme di tutte le crudelt individuali: la sofferenza degli ebrei era nell'ordito stesso della vita dei campi, dalla mancanza di acqua e fognature ai pestaggi resi inevitabili dalla qualit forzatamente bassa del lavoro, al costante terrore delle selezioni. Questo presupposto costituiva il requisito cognitivo della persecuzione indefessa, economicamente irrazionale, inflitta (tanto dalle condizioni generali del campo quanto dai singoli realizzatori) ai lavoratori ebrei. Occorre quindi ribadire, nell'analisi dell'apparato cognitivo che condizion le azioni dei tedeschi, che ogniqualvolta un singolo tedesco uccideva o tormentava un ebreo senza averne avuto l'ordine, si trattava di un'azione di tipo "volontario". Poich infliggere dolore era azione comune, con qualche eccezione, a tutto il personale dei campi (le fustigazioni continue e insistite, per esempio), parrebbe assodato che i tedeschi condividessero la convinzione generale, sia pure non codificata, che produrre sofferenza agli ebrei fosse un aspetto essenziale del loro compito. Senza una posizione soggettiva che attribuisse valore prioritario a quella sofferenza, le azioni che la provocavano, e che producevano anche un grave danno economico, non avrebbero avuto alcun senso per gli agenti, i quali non le avrebbero intraprese. Le istituzioni non le avrebbero tollerate, e men che meno promosse. Il piacere evidente e l'inventiva di cui i tedeschi davano prova nell'infliggere sofferenze fisiche e psicologiche agli ebrei non sono che l'ennesima perversione ideologica del ruolo del capoccia. Il terzo elemento dell'apparato cognitivo, legato al secondo, era la convinzione che gli ebrei fossero parassiti scansafatiche. Nella mente dei tedeschi costringere un ebreo al lavoro manuale, e anzi al lavoro onesto in genere, significava farlo soffrire, poich era l'antitesi della sua natura.

Se incise meno di altri sul trattamento "complessivo" degli ebrei, questo fattore determin comunque molti casi particolari, e merita quindi di essere posto in luce, per due ordini di motivi. I tedeschi costringevano spesso gli ebrei a lavori inutili; per l'analisi delle loro motivazioni si tratta di un fenomeno rivelatore che diversamente dalle altre forme di crudelt, non trova adeguata spiegazione nella sola convinzione che gli ebrei dovessero soffrire. Per comprendere in quale modo i tedeschi parlassero del lavoro degli ebrei, che a sua volta determinava il modo in cui essi venivano trattati, occorre porre al centro dell'analisi anche la convinzione, radicata nella cultura tedesca, che gli ebrei non volessero lavorare. L'ultimo elemento significativo dell'apparato cognitivo era dato dal fatto che i casi di trattamento razionale dei lavoratori ebrei si verificarono solo nel contesto locale di un campo o di uno stabilimento particolare, e rimasero comunque subordinati agli altri fattori. Nei limiti dei parametri imposti dalla grossolana irrazionalit economica della politica del lavoro per gli ebrei (sterminio generale, debilitazione generale, degradazione generale), in alcuni impianti particolari, ognuno con le proprie irrazionalit particolari, i tedeschi vollero comunque impiegarli sulla base di criteri apparentemente razionali; ma queste forme economiche passavano in second'ordine rispetto all'impulso allo sterminio e alla generale esigenza di rendere intollerabile l'esistenza degli ebrei. La fabbrica di spazzole negli impianti dell'Osti al "Flughafenlager" un buon esempio di questo genere di razionalit produttiva localizzata. I tedeschi avevano strappato gli ebrei da qualsiasi ambiente produttivo normale; le macchine che usavano in precedenza erano state distrutte o trasferite altrove; gli attrezzi mancavano quasi del tutto: la soluzione fu di imporre ritmi di lavoro brutali. Sapendo che gli ebrei sarebbero comunque morti, e non disponendo di impianti e macchinari adeguati a una produzione normale, era ragionevole, era razionale limitatamente a quel contesto, consumarli - in senso letterale e figurativo - nel lavoro. E' vero che vi furono casi in cui i tedeschi cercarono di incrementare la produzione e i profitti anche nelle condizioni economicamente irrazionali di impiego del lavoro degli ebrei; ma questa razionalit localizzata non pot prendere il sopravvento, avere la priorit sullo sterminio e sul tormento degli ebrei se non in via del tutto temporanea (2). Come spiegava a Himmler Oswald Pohl, capo del W.V.H.A. ("Wirtschaftsverwaltungshauptamt", ufficio centrale economicoamministrativo delle S.S.) e responsabile generale del lavoro nei campi di concentramento, con un eufemismo tipico del linguaggio di quel

periodo, gli ebrei abili, destinati all'emigrazione verso l'Est [lo sterminio], devono interrompere il viaggio per lavorare nel settore degli armamenti (3). Poi avrebbero ripreso il viaggio. Questa consapevolezza - che cio il contesto sociale e politico dello sfruttamento degli ebrei era dato da un programma di sterminio - fu il motivo principale per cui la brutalit e l'irrazionalit del trattamento di quei lavoratori acquisirono una parvenza razionale agli occhi degli amministratori locali tedeschi, inducendoli a adottarlo. Poich consumavano a morte gli ebrei anche quando non li usavano per produrre qualcosa, non sorprende che i tedeschi facessero lo stesso quando invece li sfruttavano a fini di profitto. L'apparato che rendeva comprensibile "ai tedeschi" la politica complessiva di sfruttamento della forza lavoro ebraica, e il modo in cui essi trattavano quei lavoratori, era dunque inquadrato dai ferrei principi dello sterminio e dell'abbrutimento, dei quali l'idea che in qualche modo occorresse far lavorare gli ebrei, e che la Germania potesse trarne un qualche vantaggio economico prima che morissero, non era che un orpello (4). Questo, e soltanto questo, apparato cognitivo, questo modello del lavoro degli ebrei, giustifica lo schema generale dell'azione dei tedeschi. Soltanto entro i parametri generali di comportamento derivati dai principi dello sterminio e dell'abbrutimento era consentita una minima considerazione per la razionalit economica - e solo per un periodo di tempo limitato. Tanto pi che nella sostanza anche le scelte concrete che si rivelavano razionali nei singoli contesti di un quadro generale contrassegnato dalla pi profonda irrazionalit economica - ritmi di lavoro massacranti in condizioni produttive primitive, per lavoratori che non occorreva tenere in vita, e che anzi erano destinati a morire presto comunque - finirono tutte, in linea di massima, per favorire il programma di sterminio. Il presupposto dello sterminio e dell'abbrutimento trasform la produzione stessa in ancella della distruzione genocida dei lavoratori. Nemmeno i bilanci dei profitti delle singole imprese parlano il linguaggio della razionalit economica, perch nascondono il costo immane della politica di sterminio. Costringere un operaio specializzato giovane e sano a intrecciare la corda e innalzare la forca sulla quale sar impiccato (con le mani piagate, gonfie e irrigidite, e attrezzi inadeguati) pu sembrare un uso economicamente razionale del suo lavoro solo a chi ha intenzione di impiccarlo ed indifferente alla perdita della sua preziosa produttivit.

Come risulta evidente da numerose dichiarazioni, indiscutibile che i tedeschi fossero consapevoli del catastrofico autolesionismo economico, dannoso soprattutto per lo sforzo bellico, di quella politica. Le poche argomentazioni addotte contro l'uccisione degli ebrei si riferiscono quasi sempre a calcoli utilitari, non morali. Nel dicembre 1941 un ispettore dell'industria degli armamenti in Ucraina scriveva in un rapporto: Ma chi, allora, produrr valore economico qui?. Quest'ottica, quando pure veniva espressa, era per incapace di convincere chi era in preda all'antisemitismo genocida: lo stesso rapporto, parlando dei 150-200 mila ebrei che i tedeschi avevano gi ammazzato nella regione, osservava che ovviamente la politica verso gli ebrei era una questione di principio, basata sui postulati dell'ideologia (5). I valori dominanti, rappresentati a tutti i livelli delle istituzioni tedesche che governavano il lavoro degli ebrei, tenevano conto s delle considerazioni economiche, ma solo in misura del tutto marginale. Il vero significato del lavoro degli ebrei fu spiegato da Heydrich alla Conferenza di Wannsee del 20 gennaio 1942, quando comunic ai rappresentanti riuniti dei ministeri e degli apparati burocratici le rispettive responsabilit nella soluzione finale della "Judenfrage": Gli ebrei verranno coscritti ai lavori forzati ... e indubbiamente molti di loro soccomberanno per estinzione naturale; i rimanenti sarebbero stati uccisi (6). In quell'occasione Heydrich enunci la fondamentale alterazione dell'apparato cognitivo che da allora avrebbe dettato l'accezione della parola lavoro quando riferita agli ebrei. In quell'occasione, in un certo senso, fu formalizzato il significato di quel lavoro nell'impero della Germania nazista: uno strumento di distruzione, parziale sinonimo di omicidio. In quell'occasione i rappresentanti di quasi tutte le maggiori istituzioni responsabili degli ebrei e del loro lavoro furono istruiti su quali dovessero esserne le finalit prioritarie. Nell'ottobre 1942 Himmler concludeva l'ordine di concentramento temporaneo degli ebrei delle regioni di Varsavia e Lublino in pochi grandi campi di lavoro industriale osservando: Naturalmente anche in questi luoghi gli ebrei prima o poi spariranno, secondo i desideri del Fhrer (7). Naturalmente. Il fenomeno del lavoro ebraico fu un totale trionfo della politica e dell'ideologia sull'interesse economico, non soltanto per lo sterminio di una forza lavoro insostituibile, ma anche in un senso pi profondo: condizionati com'erano dall'antisemitismo razziale, anche quando non li uccidevano i tedeschi trovavano difficilissimo impiegare gli ebrei nell'economia.

Le parole e i fatti di Heydrich, Himmler e di tanti altri rivelano il rapporto reale che sussisteva per i tedeschi tra il lavoro e la morte degli ebrei. Non si trattava solo della priorit dello sterminio sulla produzione. Il lavoro metteva in movimento degli esseri che i tedeschi avevano gi condannato a morte, esseri socialmente morti ai quali si regalava una temporanea parentesi di vita socialmente morta. In sostanza, il lavoro degli ebrei non era lavoro in un qualsiasi significato normale del termine, bens una forma di morte sospesa; in altre parole, era la morte stessa.

NOTE AL CAPITOLO 12 N. 1. Lo propose lo stesso Karl Jger, comandante dell'"Einsatzkommando" 3, nel suo famoso rapporto, pubblicato in Schne Zeiten cit., p. 59. N. 2. Per una analisi degli sforzi compiuti da taluni funzionari tedeschi per perseguire, sia pure temporaneamente, questo tipo di razionalit localizzata nei ghetti di Varsavia e Ldz', confronta Christopher R. Browning, Nazi Gettoization Policy in Poland, 19391941, in "The Path to Genocide" cit., pagine 28-56. N. 3. Citato in Albert Speer, "The Slave State" cit., p. 20. N. 4. L'esercito tedesco, disperatamente a corto di materiale bellico e forniture alimentari, fu la grande eccezione, insieme con alcune imprese industriali. Confronta Raul Hilberg, "The Destruction of European Jews" cit., pagine 332-45. N. 5. Norimberga, doc. 3257-P.S., in "Nazi Conspiracy and Aggression" cit., vol. 5, pagine 994-97. N. 6. "Nazism", p. 1131. Confronta pure "Eichmann Interrogated: Transcripts from the Archives of the Israeli Police", a cura di Jochen von Lang, Toronto, Lester & Orpen Dennys 1983, p. 91 (trad. it. "Il verbale. La registrazione degli interrogatori a un imputato della storia: Adolf Eichmann", Milano, Sperling & Kupfer, 1982). N. 7.

Norimberga, doc. No-1611, in U.S. vs. Pohl et al., in T.W.C., vol. 5, pagine 616-17.

Parte quinta LE MARCE DELLA MORTE: FINO AGLI ULTIMI GIORNI "... non avesse Iddio per qualche alto proposito indurito i cuori come acciaio, per forza si sarebbero commossi e avrebbero anche i barbari provato piet". William Shakespeare, "Riccardo Secondo", 5, 2, trad. di Mario Luzi, Milano, Mondadori, 1989.

Capitolo 13 SULLA VIA DELLA MORTE

I trasferimenti a piedi per lunghe distanze cominciarono, per gli ebrei e le altre vittime, gi negli ultimi mesi del 1939 e si conclusero solo un paio di giorni dopo la fine ufficiale della guerra. La maggioranza di quelle che venivano giustamente chiamate marce della morte ("Todesmrsche") (1) si svolse nell'ultimo anno, meglio ancora negli ultimi sei mesi, del dominio nazista. Per questo e altri motivi ci concentreremo qui soprattutto sulla fase finale. La vicenda delle marce pu essere ripartita in tre periodi distinti: il primo, in cui se ne verificarono poche, si estende dall'inizio della guerra all'avvio dello sterminio sistematico degli ebrei, nel giugno 1941; il secondo interessa gli anni dello sterminio, fino all'estate del 1944; il terzo il tempo del declino del Reich, quando la sua sorte era chiaramente segnata, i tedeschi potevano soltanto tener duro rinviando di poco la fine e il programma di sterminio si andava esaurendo (2). La logica che determin questa scansione molto semplice. Il primo periodo precede la formalizzazione dello sterminio, e dunque le marce avrebbero dovuto produrre pochi morti tra gli ebrei, non fosse stato per il fatto che i tedeschi che le guidavano erano animati da un sistema di convinzioni che li induceva a desiderare la loro morte. Il secondo periodo coincide con lo sterminio su vasta scala, quando l'uccisione degli ebrei in marcia non era che una scontata variante del massacro genocida.

Considerata la norma prevalente in quell'epoca di eccidi febbrili, del tutto probabile che le marce, come i campi, fossero teatro di continue crudelt e di morte. Il terzo periodo un'epoca storicamente ben diversa, in cui le prospettive dei tedeschi apparivano nere, rendendo vani tutti i loro sforzi. La Germania e i tedeschi si trovavano di fronte a un insieme ben diverso di considerazioni, e lo stesso regime nazista andava modificando le proprie politiche. Anche le istituzioni e i luoghi dello sterminio si modificarono in modo significativo: i campi della morte erano stati chiusi, o stavano per chiudere, e nelle zone controllate dai tedeschi sopravvivevano - ridotte a scheletri solo le vestigia dell'ebraismo europeo. Non era affatto facile prevedere in quale modo le nuove circostanze potessero modificare la sorte delle vittime, considerando la grave carenza di manodopera nell'economia tedesca e l'inedita esigenza, per i comandanti tedeschi e i loro sottoposti, di preoccuparsi del proprio futuro nel nuovo ordine, imminente ma ancora indefinito, in cui un attestato di buona condotta verso i detenuti poteva procurare una protezione, poteva salvare la pelle. I campi di sterminio erano stati chiusi, l'epoca nazista era giunta al tramonto; che avrebbero fatto i tedeschi? Avrebbero usato le marce per continuare l'opera genocida dei campi, o avrebbero optato, se non dall'alto almeno dal basso, per una condotta pi umana? Nei tre periodi di cui si detto, l'istituzione della marcia in s non si modifica in modo significativo. La struttura rimane pi o meno la stessa: gruppi di ebrei o di altri prigionieri che camminano nella campagna trasferendosi da un luogo all'altro, sorvegliati da un contingente di tedeschi, rinforzati a volte da ausiliari non tedeschi. Pur svolgendosi in contesti ben distinti sul piano della politica ebraica vigente, il carattere delle marce, cio il trattamento riservato agli ebrei, si modific di poco con il mutare delle circostanze e della politica generale nei diversi periodi. Anzi, le marce sembrano somigliarsi tutte, hanno tutte la medesima fisionomia letale (3). Le marce della morte erano l'equivalente appiedato dei carri bestiame; o viceversa, i carri bestiame erano l'equivalente su ruote delle marce della morte, un presagio di ci che sarebbero state le marce finali. In entrambi i casi i tedeschi mostrarono il pi assoluto disinteresse per il benessere, la dignit e la sopravvivenza degli ebrei.

A volte i carri restavano fermi per giorni, senza far uscire i reclusi eppure non sarebbe costato nulla - lasciati senza cibo n acqua, senza latrine, con prese d'aria insufficienti, senza nemmeno lo spazio per sedersi. Con questa logica i tedeschi organizzarono tutte le diverse forme di trasporto in massa degli ebrei. Diversamente dai primi due, nel terzo e pi significativo periodo delle marce della morte non furono i tedeschi a decidere, sulla base dei propri autonomi progetti, quando avrebbero deportato e ucciso i prigionieri. Le marce cominciarono e si moltiplicarono invece perch l'avanzata degli eserciti nemici minacciava di occupare i luoghi di detenzione degli ebrei. I tedeschi si videro costretti a scegliere fra trasferire i detenuti e rilasciarli; logisticamente, non erano pi padroni degli eventi. Questo periodo a sua volta suddiviso in tre fasi diverse. La prima inizi nell'estate 1944, mentre l'Armata rossa si avvicinava ai campi nelle regioni occidentali dell'Unione Sovietica e nella Polonia orientale. La seconda fase va dal gennaio al marzo 1945, nel pieno della grande migrazione verso occidente, verso la Germania, degli internati nei campi: prigionieri e guardie tedesche ritornavano insieme verso i rispettivi destini. Da Auschwitz, da Gross-Rosen e dagli altri campi principali della Polonia occidentale e della Germania orientale i detenuti sopravvissuti furono evacuati e avviati a piedi, nelle campagne gelate, verso nuove e infernali destinazioni, temporaneamente fuori dalla portata degli Alleati. Durante la terza fase, iniziata nel marzo 1945 e terminata insieme con la guerra, quando pi nessuno credeva davvero che si potesse ancora vincerla, i tedeschi trasferivano i prigionieri da un posto all'altro della Germania, senza alcuno scopo. I sorveglianti non stavano tornando a casa (e dunque non avevano alcun incentivo a partecipare al viaggio), come era avvenuto invece nel rientro dalla Polonia in Germania, durante la seconda fase; n esisteva alcuna ragione sensata che potesse indurli a tenere i prigionieri sempre un passo avanti rispetto all'incalzare degli Alleati. Diverse stime sui tassi di mortalit e sul numero totale dei morti durante le marce del terzo periodo indicano che le perdite furono comprese tra un terzo e la met dei 750 mila ex internati nei campi di concentramento - da 250 mila a 375 mila persone (4). Molti non erano ebrei, perch non c'erano solo ebrei nel sistema concentrazionario (5); nondimeno i dati dicono che, come nei campi, il tasso di mortalit degli ebrei nell'ultimo periodo di distruzione fu significativamente pi alto di quello dei non ebrei.

In genere gli ebrei al momento della partenza versavano in condizioni peggiori, e dunque a parit di privazioni non potevano che soccombere pi rapidamente dei non ebrei alla denutrizione, alle ferite, allo sfinimento, alla mancanza di protezione dalle intemperie, alle malattie. Inoltre i tedeschi li trattavano regolarmente in modo peggiore e li massacravano con maggiore frequenza. Il mondo venne a sapere di tutto questo solo negli ultimissimi giorni della guerra, quando una di quelle marce venne a concludersi presso il confine tra la Germania meridionale e la Cecoslovacchia. Il 7 maggio 1945 un capitano del Primo Battaglione medico, Quinta Divisione di fanteria dell'esercito degli Stati Uniti, ebbe l'ordine di recarsi con sei uomini a effettuare la disinfezione di un gruppo di persone sbandate, che si sospettava potessero avere bisogno anche di cure mediche. Due giorni dopo il capitano rifer ci che aveva trovato al suo arrivo a Volary, in Cecoslovacchia, in una testimonianza orale all'ufficiale americano che indagava sul caso. "Contattai il capitano Wi. a Lohora, poi andai a Volary, dove mi avevano detto che avrebbero trasferito in una scuola adibita a ospedale un gruppo di donne emaciate e debilitate, ritrovate in un fienile nei dintorni ... Al fienile incontrai il capitano Wi., e gli domandai che cosa avesse per le mani. Rispose che aveva un gruppo di 118 ebree, e che erano lo spettacolo pi orrendo che avesse visto in vita sua. Mi chiese di entrare nel fienile per dare un'occhiata alla situazione, e cos feci. Il fienile era una baracca a un solo piano. L'interno era molto buio, pieno di ogni sorta di sporcizia. La prima occhiata a quelle persone mi sconvolse, perch non avrei mai creduto che un essere umano potesse essere tanto degradato, tanto affamato, tanto scheletrico, eppure continuare a vivere. Fu una prima occhiata affrettata: in quella stanzetta parevano topi ammucchiati uno sull'altro, troppo deboli anche per alzare un braccio. Portavano abiti lerci, consunti, laceri e strappati, ed erano quasi completamente imbrattate di escrementi umani, sparsi ovunque anche sul pavimento. Il motivo era che quelle donne erano affette da diarrea grave, con scariche ogni due-cinque minuti, ed erano troppo deboli per recarsi a evacuare. Tra le cose che mi sorpresero entrando in quel fienile fu l'impressione di trovarmi di fronte a un gruppo di vecchi; sul momento avrei detto che avessero un'et compresa tra i cinquanta e i sessanta.

Rimasi esterrefatto quando domandai a una donna quanti anni aveva, e lei rispose diciassette; mi era sembrato che non potesse averne meno di cinquanta. Poi ritornai all'Ortslazarett [Lazzaretto] di Volary: a questo punto ricadeva su di me l'intera responsabilit dell'evacuazione di quelle persone dal vecchio fienile all'Ortslazarett, e qui del loro alloggio, alimentazione e assistenza medica. L'ospedale fu preparato per accogliere le pazienti al momento stesso del loro arrivo; erano in maggioranza casi da barella - direi che circa il 75 per cento fu trasportato con questo mezzo. Il 25 per cento rimanente riusc, con l'aiuto di altri, a trascinare quei corpi sfiniti dalla baracca all'ambulanza, e da questa all'ospedale. La prima cosa da fare era procurare a quelle donne qualcosa che somigliasse a un letto, e procedere agli interventi di soccorso immediato, che in quella fase consistevano soprattutto nella somministrazione endovenosa di sangue intero, di plasma, e nei soggetti pi sani di altre soluzioni. Nella fase iniziale della cura la condizione di quasi tutte le pazienti era critica, e lo ancora oggi, due giorni dopo. Nella mia qualit di ufficiale medico dell'esercito degli Stati Uniti mia opinione che il 50 per cento almeno di quelle 118 donne sarebbe morto entro ventiquattr'ore se non fosse stato individuato e sottoposto alle cure pi attente. Esaminando le pazienti, ho riscontrato i sintomi e le malattie che seguono: 1) denutrizione estrema; 2) disturbi da carenze vitaminiche nel 90 per cento delle 118 donne; 3) piedi edematosi, con gravi edemi depressibili; 4) grave congelamento delle dita dei piedi con presenza di cancrena secca; in una paziente in particolare la cancrena si estende bilateralmente alle gambe, il che render sicuramente necessaria al pi presto l'amputazione bilaterale del terzo inferiore delle gambe. Un'alta percentuale delle donne soffre di gravi piaghe da decubito. Il 50 per cento circa ha una forte tosse persistente, con patologia polmonare. Il 10 per cento circa stato ferito da schegge di granata, un paio di settimane fa in questi paraggi, e le ferite non sono state in alcun modo curate: attualmente presentano suppurazione, e con ogni probabilit si daranno molti casi di cancrena locale. All'ospedale stato notato che in molti casi la diarrea associata a melena e febbre alta. Nelle prime ore dopo il ricovero due pazienti sono morte.

Nelle quarantotto ore successive ne morta un'altra. Attualmente molte sono in condizioni critiche, in prognosi riservata" (6). Quelle donne ebree erano le sopravvissute di una marcia della morte partita solo tre settimane prima dal campo di Helmbrechts, proseguimento di una precedente marcia che le aveva portate dal campo di Schlesiersee a Helmbrechts (7). Furono fortunate, se si pu chiamare fortuna, perch molte loro compagne non vissero fino alla liberazione. Gli eventi e i maltrattamenti che le avevano precipitate in una condizione tanto spaventosa da lasciare incredulo un medico di fronte alla capacit di sopravvivenza di quegli organismi erano il prevedibile gran finale della guerra dei tedeschi contro gli ebrei. Le marce della morte per l'evacuazione dei sottocampi di Gross-Rosen avvennero nel gennaio 1945. Schlesiersee, uno dei quattro sottocampi femminili costruiti nell'ottobrenovembre 1944 lungo il confine nordorientale della Bassa Slesia, era un istituto di piccole dimensioni che conteneva circa 1000 donne trasferite qui, come le detenute degli altri tre campi, da Auschwitz. Il gruppo pi numeroso veniva dall'Ungheria e dalle regioni di lingua ungherese all'interno della Cecoslovacchia; al secondo posto per numero erano le polacche. Erano tutte giovani (8). Il loro lavoro principale durante la permanenza a Schlesiersee fu lo scavo di trincee anticarro. Le condizioni erano feroci: Dovevamo scavare trincee anticarro in pieno gelo, sprofondate nella neve. A molte ragazze si congelarono le gambe, perch non ci avevano dato scarpe, e molte erano scalze (9). A Schlesiersee la crudelt non si limitava comunque a esporre le donne alla furia degli elementi. Le guardie fustigavano quelle che tentavano di scaldarsi un po': "Allo Schlesiersee faceva un freddo terribile, e noi eravamo vestite leggere; qualche donna portava con s al lavoro l'unica coperta che possedeva. In tre o quattro occasioni tutte le donne di ritorno dal lavoro furono ispezionate, e tutte quelle che furono sorprese infagottate nelle coperte vennero punite con venticinque frustate; lo vidi con i miei occhi. Le donne con le quali lavoravo una volta ne avevano ricevute trenta.

Venivamo regolarmente picchiate se avevamo i vestiti un po' umidi o sporchi. Ma con il lavoro che facevamo era praticamente impossibile evitarlo: scavavamo trincee anticarro in mezzo alla neve" (10). Si tratta di un esempio tipico, in primo luogo, della priorit attribuita, a tutti i livelli istituzionali, alla sofferenza degli ebrei rispetto alla produttivit, in secondo luogo della brutalit che strutturava il modello stesso della loro esistenza. Come riferisce questa sopravvissuta, i tedeschi affidavano loro un compito nello svolgimento del quale era inevitabile che si sporcassero, e per questo venivano regolarmente fustigate, il che indubbiamente riduceva ancor di pi la loro produttivit. Insomma, quando le ebree portavano a termine il compito assegnato i tedeschi, mossi dalla loro bizzarra logica, le picchiavano per questo. Il fronte orientale si avvicinava e i tedeschi, probabilmente il 20 gennaio, evacuarono il campo (11). Non era la prima marcia della morte per quelle donne, gi sopravvissute al viaggio da Auschwitz. Delle circa 970 ebree che partirono nella marcia di evacuazione di Schlesiersee, che in otto o nove giorni percorse solo 100 chilometri di una tortuosa rotta verso Grnberg, circa 150 morirono lungo la strada. Di queste, 20 caddero per la fame e lo sfinimento - non si stenta a crederlo, considerata la debilitazione cui le avevano ridotte Auschwitz e Schlesiersee. Le altre 130 che non sopravvissero furono abbattute dai tedeschi; durante la marcia le guardie uccidevano sul posto chiunque fosse troppo stanco per proseguire (12). Un bracciante polacco, alle dipendenze di un contadino tedesco dal 1940, fu testimone di un'esecuzione in massa. Le guardie, che a suo dire erano soldati anziani dell'esercito - non S.S., non giovani nazisti ardenti di zelo - requisirono dei carri nel villaggio: il polacco ne conduceva uno. Davanti alla scuola sedevano delle donne completamente esauste. Vestite di stracci, quasi tutte senza scarpe, le teste infagottate nelle coperte ... [I soldati] le trascinarono gi dai carri, tirandole per i capelli, e intanto continuavano a sparare (13). Il campo di lavori forzati per ebree di Grnberg era stato fondato nel 1941 o nel 1942. Era a sudovest di Breslavia (oggi Wroclaw), in Polonia, presso la citt di Grnberg, e alla met del 1944 divenne sottocampo di Gross-Rosen.

Non ne sappiamo molto di pi. Nell'estate del 1444 era popolato da circa 900 ebree tra i sedici e i trent'anni, molte provenienti dalla zona orientale dell'Alta Slesia. Lavoravano soprattutto per un'azienda tessile privata con sede nei pressi del campo. L'arrivo della marcia della morte da Schlesiersee raddoppi temporaneamente la popolazione, portandola a circa 1800 unit. Ma l'Armata rossa avanzava, e il campo doveva essere immediatamente evacuato (14); un paio di giorni dopo, il 29 gennaio 1945, senza nemmeno il tempo per prendere il fiato, le donne di Schlesiersee, accompagnate ora dalle compagne di Grnberg, si rimisero in marcia. I tedeschi le divisero in due gruppi, con destinazioni diverse: una parte delle guardie part con 1000-1100 prigioniere dirette verso Helmbrechts, un sottocampo di Flossenbrg in Alta Franconia, Baviera, mentre un altro contingente di tedeschi puntava con le rimanenti verso Bergen-Belsen, a nord di Hannover (15). Cos una sopravvissuta ricorda quest'ultima marcia: "Molte crollavano esauste lungo la strada, oppure non riuscivano ad alzarsi la mattina. Queste prigioniere venivano uccise su due piedi dalle guardie ... Al seguito del nostro gruppo c'era un carro. Durante la marcia le prigioniere troppo deboli venivano buttate sul carro; quelle mezze morte venivano poi portate nella foresta e uccise. Ogni volta che il carro era pieno, si avviava verso la foresta. Secondo i miei calcoli a Bergen-Belsen arriv solo il 30% del nostro gruppo" (16). La marcia verso Bergen-Belsen, 400 chilometri a volo d'uccello, dur un mese; le prigioniere li percorsero quasi tutti a piedi, dormendo in fienili non riscaldati. Moltissime, non sappiamo esattamente quante, morirono o furono uccise dai tedeschi lungo la strada (17). Alla partenza da Grnberg i tedeschi caricarono le ebree pi malate su un carro, che assegnarono al gruppo diretto a Helmbrechts. Le altre andavano a piedi. Le detenute di Grnberg erano in condizioni migliori di quelle che avevano iniziato la loro odissea a Schlesiersee, che oltre al grave stato di debilitazione fisica erano prive dell'equipaggiamento pi elementare: Quasi nessuna di noi aveva scarpe decenti; molte camminavano scalze, o con i piedi avvolti negli stracci.

Al tempo della marcia il terreno era completamente coperto di neve (18). Anche altre testimoni confermano che alcune camminavano scalze (19). La marcia verso Helmbrechts copr circa 500 chilometri, in pieno inverno. Delle 1000-1100 donne che erano partite, circa cinque settimane dopo ne arrivarono a Helmbrechts 621. I tedeschi ne avevano depositate in altri campi circa 230, tra le quali molte ammalate, e qualcuna era fuggita. Da 150 a 250 non sopravvissero al viaggio (nota 20), in parte a causa delle condizioni spaventose: Dopo diversi giorni senza cibo n acqua passavamo le notti all'aperto nella neve, in condizioni estremamente dure molte morivano di sfinimento. Ogni mattina, quando ci alzavamo, pi d'una rimaneva stesa a terra senza vita (21). Nella maggioranza dei casi, per, furono ammazzate dai tedeschi, spesso perch non reggevano il passo del gruppo: in un unico eccidio ne furono fucilate 50 (nota 22). Anche questa marcia fu accompagnata dal consueto assortimento di violenze e sevizie: pestaggi brutali, alimentazione inconsistente, vestiario e alloggiamenti inqualificabili, uno stato di terrore costante. All'arrivo a Helmbrechts, il 6 marzo, due soli mesi prima del collasso militare totale e della resa senza condizioni dei tedeschi, le 621 ebree versavano in condizioni di salute disperate. Molte erano affette da dissenteria e presentavano gravi sintomi di congelamento. Alcune soffrivano di noma, una forma di cancrena che produce uno stato, e un aspetto, spaventosi: la membrana mucosa della bocca e la carne delle guance si decompongono al punto di lasciare esposte le ossa della mascella (23). Le cinque settimane trascorse da quelle donne a Helmbrechts prima di intraprendere una nuova marcia della morte portarono privazioni e sofferenze continue. Da tutti i punti di vista pi importanti - quelli cio che riguardavano la sopravvivenza - i carcerieri tedeschi le trattarono in modo diverso dalle detenute non ebree arrivate al campo prima di loro. Il "Lager" di Helmbrechts, un sottocampo ("Aussenlager") di Flossenbrg, era stato fondato nell'estate 1944. La citt di Helmbrechts circa 15 chilometri a sud di Hof, nell'Alta Franconia, molto vicino al punto in cui si intersecano la Cecoslovacchia e quelle che sarebbero divenute la Germania Est e la Germania Ovest.

Il campo non era molto grande e confinava con la strada principale ai margini della citt, dando alla gente - come a tanta altra gente in Germania la possibilit di vedere bene che cosa accadeva al suo interno. Comprendeva sette edifici a un piano: i quattro che fungevano da baracche per le detenute erano circondati da filo spinato non elettrificato (24). Il contingente di guardie era ridotto: a quanto risulta, vi prestavano servizio in 54. Erano arrivati in momenti diversi, spesso accompagnando nuovi prigionieri, e sarebbero rimasti nel campo fino alla fine, quando partirono per la marcia della morte. La suddivisione per sesso era esatta: 27 uomini e 27 donne. Gli uomini non avevano praticamente alcun contatto con le prigioniere ebree, perch di regola rimanevano fuori dal recinto, dal quale le ebree, a differenza delle altre, non uscivano mai. Qui le guardiane erano padrone assolute e determinavano in tutto la qualit della vita quotidiana nel campo, in particolare per le ebree, che tenevano d'occhio ventiquattr'ore al giorno. Il "Lager" era comandato da un uomo, Alois Drr, e le guardiane rispondevano a una caposquadra subordinata a Drr. Sappiamo poco delle loro biografie. Solo di due delle 54 guardie conserviamo i fascicoli personali, e le loro testimonianze autobiografiche dopo la guerra sono scarne. Non parrebbe, a prima vista, che fossero gente particolarmente temibile per essere tedeschi. I 27 uomini appartenevano a due categorie di provenienza diversa: il gruppo pi consistente era costituito da tedeschi anziani, che avevano superato l'et della leva militare e in genere non avevano alcuna affiliazione con le S.S. o il Partito nazista; gli altri, meno numerosi (8 o 10 in tutto), erano tedeschi dell'Europa orientale, tre dei quali avevano fatto parte, volontari o coscritti, dei reparti da combattimento delle S.S. Qualcuno di loro era un veterano del sistema dei campi. Di 20 guardie conosciamo la data di nascita: nel dicembre 1944 l'et media era alta, quarantadue anni e mezzo. Il pi vecchio del campo aveva quasi cinquantacinque anni; 7 di quei 20, un buon 35 per cento, ne avevano pi di cinquanta, e 12, il 60 per cento, pi di quaranta; tre soli avevano meno di trent'anni; il pi giovane era ventenne. Le vie che li avevano portati a Helmbrechts erano diverse e del tutto casuali, e non indicano in alcun modo un processo di selezione sulla base di

criteri legati alla disponibilit a sorvegliare, torturare e uccidere i nemici designati della Germania, e in particolare gli ebrei. Dei 27 uomini che sappiamo presenti al campo, solo due - il comandante e un altro - facevano parte delle S.S. (25): sul piano delle affiliazioni istituzionali, quindi, il gruppo era quasi completamente non nazista. Hartmut Reich, nato nel 1900 e veterano della prima guerra mondiale, racconta in che modo lui e un suo camerata arrivarono a Helmbrechts. Padre di numerosa prole, aveva ottenuto il rinvio del servizio militare fino al 1944; poi, nella situazione sempre pi disperata della Germania, era stato arruolato in un'unit d'assalto e trasferito per un breve addestramento militare a Parigi: troppo lontano da casa, per i suoi gusti e per quelli della moglie. Su insistente richiesta di mia moglie, nell'agosto 1944 fui rimandato a Wrzburg, dove rimasi fino a Natale. Vale la pena di sottolineare che era stata sua moglie a chiedere il trasferimento, e che l'aveva ottenuto. A Wrzburg conobbi un mio concittadino di Hof, Eberhard Vogel. Anche lui aveva molti figli. Insieme furono assegnati al campo di Sachsenhausen. Nel gennaio 1945 un contingente di 100 assaltatori, gente che probabilmente aveva la stessa tempra militare di Reich, fu distaccato a Flossenbrg con l'incarico, a suo dire, di sorvegliare i prigionieri che lavoravano all'esterno del campo. Qui rimasero tra la met di febbraio e marzo, quando per stare pi vicini alle nostre famiglie, ci offrimmo volontari per il sottocampo, Helmbrechts. Reich non era iscritto al partito, n faceva parte delle S.S. (26). A Helmbrechts portava anche una vicenda iniziata in Romania, patria di Martin Wirth, che con i suoi vent'anni era la guardia pi giovane del campo. Nel 1943, dopo un breve addestramento, Wirth era stato arruolato nella Divisione di linea S.S. Prinz-Eugen. Dichiarato inabile al combattimento per disturbi cardiaci, fu trasferito ai servizi di sorveglianza. Nell'estate del 1944 l'avevano mandato a Flossenbrg, e qualche mese dopo a Helmbrechts. Destinato inizialmente alle unit combattenti - in una divisione S.S. non molto diversa da una normale divisione dell'esercito -, questo tedesco romeno si era avviato, a causa di un semplice disturbo fisico, lungo una strada che probabilmente lui non aveva mai immaginato di intraprendere, che non aveva scelto, ma che avrebbe finito per dargli grande soddisfazione (27).

Anche nella carriera di un'altra guardia capitata a Helmsbrecht per caso nulla indica che si trattasse di un uomo ansioso di mettersi in luce al servizio della pi delicata impresa ideologica del nazismo, n che egli avesse la stoffa dei guerrieri dell'ideologia. Nato a Colonia nel 1905, Gerhard Hauer era stato richiamato nell'esercito nel 1940 e congedato dopo solo otto settimane per disturbi cardiaci. Non apparteneva al partito n alle S.S. Dopo il ritorno alla vita civile lavor per un grossista alimentare, poi, distrutta l'azienda in un bombardamento, per una cooperativa agricola, e infine in una fabbrica. Nel febbraio 1944 fu richiamato di nuovo, fece otto settimane di corso di addestramento nei Paesi Bassi e fu assegnato per qualche tempo a Mnster. Poi venne trasferito a Lublino, dove fu sottoposto a ulteriore addestramento. Con l'avanzata dell'Armata rossa fu assegnato all'evacuazione di un campo femminile della zona: con una trentina di altri soldati port alcune donne a Flossenbrg, dove per tre o quattro settimane fu addetto alla sorveglianza delle squadre di lavoro. Con qualche altro soldato fu poi mandato a Helmbrechts: furono i primi elementi maschili nel personale di quel campo (28). Le biografie di questi uomini sono tipiche delle guardie di Helmbrechts e di un'ampia percentuale del personale dei campi in genere, che contrariamente all'immagine prevalente, in larga misura mitica - non veniva selezionato e sottoposto a speciale addestramento, n era composto in genere da ferventi nazisti. Nelle vicende di questi tre sono significativi due elementi comuni, condivisi da molti loro camerati, ma non da tutti: erano stati giudicati inadatti al servizio militare, ed erano finiti a Helmbrechts non per qualche ben congegnato piano amministrativo che li avesse scelti quali uomini giusti per quel lavoro, ma soprattutto - risulta evidente - per caso, perch era capitato che si trovassero in un dato posto in un dato momento. Con l'eccezione dell'unico membro delle S.S., Michael Ritter, e del comandante Drr, nulla sta a indicare che qualcuno dei soldati di guardia a Helmbrechts fosse particolarmente tagliato per quell'incarico di netta impronta ideologica. N abbiamo motivo di credere che qualcuno di loro, escluso Drr, fosse finito l per aver dato prova di doti particolari che lo rendessero adatto, agli occhi delle autorit superiori, a torturare e uccidere gli ebrei. Nell'insieme, erano tutti tedeschi comuni, gente della classe operaia.

Le storie delle 27 guardiane erano diverse da quelle degli uomini, e si riassumono in poche parole. Erano molto pi giovani, esclusivamente tedesche; andavano dai venti a quarantacinque anni, ma l'et media superava di poco i ventotto, quattordici in meno rispetto agli uomini. Dodici, il 45 per cento, ne avevano meno di venticinque, e solo una pi di quaranta. Formalmente erano S.S., ma dalle biografie disponibili risulta che fossero entrate a far parte del corpo nella fase finale della guerra, tra il giugno e il dicembre 1944: un'adesione che comportava dunque poco pi dell'obbligo di indossare quella divisa. Met di loro dichiarano di essere state coscritte; l'altra met di essersi offerte volontarie, anche se i motivi addotti indicano soltanto che quelle donne preferivano sorvegliare le straniere al lavoro in fabbrica, l'attivit di quasi tutte fino a quel momento (29). Non avevano quasi nulla in comune con le vere S.S.: la caposquadra, nella sua deposizione, le definisce S.S. tra virgolette, dando alle virgolette un valore ironico. Erano tedesche di ceto operaio, non iscritte al Partito nazista, che alla fine delle guerra divennero guardiane dei campi. Il senso di appartenere a un corpo d'lite, e l'intenso addestramento militare e ideologico che caratterizzavano le S.S., non erano cosa per loro (30). I rapporti tra le guardie erano ottimi: anche se le donne erano parecchio pi giovani degli uomini, e nonostante il ruolo subalterno della donna nella societ tedesca, gli uni e le altre si consideravano pi o meno alla pari. Come ricorda un soldato: Tra le guardiane e il personale maschile del campo non esisteva alcun rapporto di superiorit o subordinazione. Rimanevano comunque del tutto estranee a quel genere di rapporto le amicizie intime che legavano certe donne agli uomini; erano note a tutti le relazioni di Drr con Helga Hegel, di Hirsch con Marianne, di Riedl con Emma Schneider, di Koslowski con Ida, di Wagner con la Schaffer, di Kemnitz con Irena (31): un numero impressionante di lunghe storie d'amore tra guardie che vivevano all'ombra della crudelt e della miseria del campo, che loro stesse concorrevano a generare. Va osservato che anche tre tedeschi originari di altri paesi intrattenevano quel genere di relazioni, il che dimostra che venivano considerati da tutti come tedeschi a pieno titolo. E' ovvio che parlassero molto tra loro, di quello di cui parlano i compagni di lavoro, gli amici, gli amanti.

C'erano, naturalmente, beghe istituzionali e personali, in particolare quella tra la caposquadra iniziale e la donna destinata a sostituirla, che era anche, non a caso, l'amante di Drr. Pare per che prevalesse l'armonia, soprattutto tra le donne: I rapporti tra noi guardiane erano ottimi. Tra le guardie, insomma, l'atmosfera era rilassata, anche quando si trattava del lavoro; le mogli, e persino i figli, dei soldati venivano in visita (32), e alcuni familiari, compreso un bambino, presenziarono a uno dei pi brutali episodi di tortura verificatisi al campo (33). L'indifferenza con cui mostravano a tutti il modo in cui trattavano le prigioniere, l'evidente assenza di vergogna per la vita che conducevano, il clima di armonia nei loro rapporti a fronte della brutalit che esercitavano sulle ebree (di cui ora diremo), tutto indica chiaramente che non esisteva dissenso tra le guardie circa le crudeli, letali condizioni di vita che loro stesse creavano e imponevano alle detenute. Regnava evidentemente tra loro il consenso sulla giustizia e l'opportunit di quella comunit, una comunit della ferocia. Nelle deposizioni rilasciate dopo la guerra non affiora mai un cenno di compassione per la sorte delle vittime, nemmeno quando parlano dell'operato di un'altra guardia. E' difficile stabilire in quale misura la figura di Drr fosse determinante per la vita del campo. I comandanti avevano la facolt di rendere migliori le condizioni, e alcuni se ne avvalevano (34): non cos Drr. Nazista della prima ora, entrato nel partito nel dicembre 1932 e nelle S.S. il 28 gennaio 1933, a pochi giorni dalla presa di potere di Hitler, Drr era un superiore esigente, crudele con le detenute. Il suo modo di lavorare viene descritto ben diversamente dai sottoposti e dalle vittime. Alcune lo definiscono un nemico giurato degli ebrei: una testimone racconta che prima di picchiare una detenuta, l'aveva apostrofata con un sarcastico Che cosa combiniamo, eh, ebreuccia ["du Judle"]? (35). Drr era l'unico uomo che potesse entrare nel recinto, e anche lui era sempre accompagnato da una donna; la sua crudelt poteva essere una fonte di ispirazione, ma il controllo che esercitava sulle guardiane era relativo. Esse infatti non lo temevano: Drr ci trattava bene (36). Degne figlie della nazione tedesca, le guardiane imperversavano nel campo a loro piacimento e godevano di una spaventosa discrezionalit sul trattamento delle detenute, che era brutale.

I tedeschi facevano l'amore nelle baracche, a ridosso di una realt in cui tutto era privazione e crudelt incessante. Di che parlavano, fumando una sigaretta appoggiati al cuscino, dopo aver soddisfatto le loro esigenze fisiche? Si raccontavano a vicenda di un pestaggio particolarmente divertente di cui lui o lei erano stati protagonisti o testimoni, o del senso di potenza che ti prendeva quando il sacrosanto pestaggio di un'ebrea diffondeva in tutto il corpo scariche di adrenalina? Pare improbabile che si dolessero delle feroci aggressioni contro le ebree, o che parlassero in tono compassionevole dello squallore, del dolore e della morbosit di cui loro stessi erano la causa, per poi svegliarsi la mattina pronti a infliggere una nuova dose quotidiana di abbrutimento. Non diedero certo alcun segnale in quel senso, n allora n mai: questa comunit di tedeschi, molti dei quali formavano coppie di amanti, prosperava a ridosso dell'inferno delle ebree, che loro stessi avevano creato e che sorvegliavano con entusiasmo. I tedeschi avevano potere assoluto sulle ebree, ma la posizione di predominio, il rapporto strutturale, non basta a spiegare il trattamento che a loro riservarono. Le detenute di Helmbrechts lavoravano per la Neumeyer, un'industria nel settore degli armamenti. Le prime 179 internate arrivarono il 19 luglio 1944. Gli impianti del campo, comprese le baracche, vennero costruiti nei primi mesi dopo l'apertura; all'inizio le donne dormivano in fabbrica. Quattro nuove deportazioni portarono la popolazione a circa 670-680 detenute, in buona parte polacche e russe non ebree, in custodia cautelare ("Schutzhftlinge"); c'erano anche circa 25 donne tedesche, rinchiuse per aver avuto commerci ("Umgang") con prigionieri di guerra o lavoratori stranieri, per aver diffamato ("Beleidigung") Hitler o per aver aiutato gli ebrei ("Judenbegnstigung") (37). Rispetto alla media dei campi, le condizioni di vita delle detenute non ebree, per quanto dure e brutali, erano relativamente buone. I turni di lavoro erano di 12 ore, e le razioni scarse, ma comunque pi generose di quelle normali: per colazione caff e pane, per pranzo zuppa di patate o di barbabietole, talvolta con pezzi di carne, e per cena un pezzo di pane con margarina e salsiccia o formaggio; chi era di turno in fabbrica aveva diritto anche a un altro panino durante la pausa. Razioni avare, che certo non dovevano levare la fame, ma comunque sufficienti a mantenere condizioni di salute accettabili (38). Lo dichiarano le stesse ex detenute tedesche: Il rancio era costituito per lo pi da rape, patate e a volte anche pezzi di carne.

A mio giudizio, per noi della fabbrica l'alimentazione era adeguata (39). Con l'eccezione di tre donne che furono uccise dopo un fallito tentativo di fuga, pare che a Helmbrechts non sia morta "alcuna detenuta non ebrea" (40). Una resistenza impensabile per le ebree, che fu possibile a dispetto della severit con cui venivano puniti i furti di cibo o di materiali (a volte la punizione consisteva nel digiuno totale per due giorni), e dei pestaggi per ogni violazione reale o immaginaria delle regole. L'assistenza medica riservata alle donne non ebree contribuiva a tutelarne le condizioni di salute, ed era l'aspetto pi importante della qualit sostanzialmente migliore (rispetto a quella delle ebree) della loro vita nel campo. Sino alla fine di febbraio l'infermeria ebbe a disposizione un medico con due assistenti, mentre un sanitario privato di Helmbrechts provvedeva ai casi pi gravi, facendo acquistare le medicine necessarie nella farmacia della citt. I tedeschi si prendevano cura persino dei denti delle detenute, portandole da un dentista del luogo (41). Le ebree non furono mai visitate dal medico, nonostante le condizioni ben peggiori in cui versavano. Lo videro una volta soltanto, poco dopo l'arrivo al campo, perch le autorit volevano evitare le epidemie: le ispezion, accert che non ci fossero rischi di epidemia e spar per sempre, senza prestare alcuna cura nemmeno alle ammalate pi gravi. Per le ebree non c'erano le medicine di cui le altre potevano disporre nell'infermeria; c'era una infermeria a loro riservata, indegna in tutto e per tutto di quel nome, ossia semplicemente un angolo in una delle baracche dove venivano depositate le ammalate pi gravi (42). All'arrivo a Helmbrechts le ebree, gi debilitate, vennero spidocchiate e assegnate alle due baracche riservate esclusivamente a loro, dove vivevano segregate dalle altre detenute. Per la disinfestazione dovettero spogliarsi e rimanere completamente nude per ore fuori della baracca, esposte al freddo dei primi di marzo. Finalmente entrarono una alla volta in una stanza dove una guardiana gettava tutti i loro abiti nel liquido, e li restituiva grondanti. Non era permesso di strizzare i vestiti. Si doveva immediatamente rimettersi indosso ognuno di quei capi gocciolanti, e procedere subito per le baracche. Non erano riscaldate. I vestiti si asciugavano col calore del corpo (43).

Come la visita del medico non era servita a curare le detenute - le loro piaghe suppurate, le tante malattie bens a salvaguardare il benessere dei non ebrei, anche la disinfestazione avvenne senza cura alcuna per la loro sorte, come forma di profilassi per i non ebrei nel campo e nei dintorni. La sopravvissuta che racconta nei dettagli l'episodio ne riassume gli effetti reali: A seguito di questa procedura, morirono diverse detenute. Le ebree subivano tutte le discriminazioni che si potessero immaginare. La separazione fisica nelle baracche riservate sanciva in quel piccolo campo una totale divisione sociale e simbolica tra ebree e non ebree. Mentre la paglia su cui dormivano le non ebree veniva sostituita prima delle feste, alle ebree non venivano forniti nemmeno letti (tavolacci) n paglia in quantit sufficiente per tutte, tanto che alcune furono costrette a dormire direttamente sul pavimento gelato (44). La miseria e lo squallore di quelle condizioni di vita abbrutivano e debilitavano, soprattutto nella baracca dove giacevano le ammalate pi gravi. Di notte i tedeschi chiudevano le baracche ebree e non ebree dall'esterno, ed era impossibile accedere alle latrine. Si usavano dei secchi, nelle baracche, ma quelli per le ebree erano troppo pochi, sicch traboccavano, insozzando la paglia e il pavimento; molte detenute ebree, peraltro, soffrivano di dissenteria, e spesso non riuscivano nemmeno ad arrivare al secchio: nelle baracche c'era un fetore terribile. Come se il fetore permanente non fosse una forma sufficiente di punizione, ogni giorno le guardiane picchiavano le ebree, anche le ammalate pi gravi, perch avevano sporcato la baracca (45); eppure rifiutavano di fornire i secchi che avrebbero modificato lo stato di cose che portava a quelle punizioni. Un'altra punizione consisteva nel costringere le ebree a rimanere in piedi per ore, esposte al freddo micidiale: Gli appelli punitivi avvenivano di regola quando, durante la notte, la baracca era stata sporcata. Ma non si poteva evitarlo, perch i contenitori che dovevano servire per la notte non bastavano per tutte le detenute. Durante gli appelli molte cadevano svenute; e alcune morivano (46). Il racconto di questa ex detenuta coglie l'essenza delle condizioni di vita che qui e altrove i tedeschi avevano creato per gli ebrei: li punivano per aver fatto cose che i tedeschi stessi li avevano costretti a fare. A differenza delle non ebree, le ebree erano vestite di stracci, e molte erano scalze; il comandante del campo aveva deciso di non dotarle adeguatamente di abiti e scarpe, nonostante le riserve inutilizzate nei magazzini.

L'alimentazione assegnata alle ebree era una porzione minima della normale razione: mangiavano una sola volta al giorno, a pranzo. In genere era una zuppa, di qualit cos misera che le non ebree del campo l'avevano battezzata "Judensuppe"; spesso non ce n'era a sufficienza per tutte, e per un giorno qualcuna veniva privata anche dell'unica, magrissima, possibilit di nutrirsi (47). Le ebree, attanagliate da una fame acuta e costante, e sapendo che il rancio preparato dai tedeschi era sempre insufficiente, spesso non attendevano in coda ordinata l'arrivo della "Judensuppe". La ex caposquadra delle guardiane ricorda uno di quegli episodi, e la propria brutale reazione alla pur comprensibile condotta delle ebree: "A Helmbrechts, poco dopo l'arrivo del gruppo di Grnberg, le ragazze si gettarono un po' troppo impetuosamente sul cibo preparato per loro. La distribuzione del rancio era sempre burrascosa, perch quelle donne avevano una fame disumana. Quella volta ne prendemmo otto, e per punizione ordinai che rimanessero in piedi nel cortile (rientravano solo di notte) senza cibo per tre giorni. Faceva estremamente freddo; mi pare nevicasse" (48). Le risse provocate dalla distribuzione del rancio offrivano alle guardie tedesche un altro pretesto per trasformare un momento di autoconservazione nell'ennesima fonte di sofferenza: A pranzo succedeva spesso un parapiglia. Avevamo sempre paura di prendere il cibo, perch piovevano botte (49). Persino l'idea del cibo - un pensiero ossessivo, perch sotto il giogo dei tedeschi il cibo era l'unica grande esigenza quotidiana degli ebrei, l'arma fondamentale della spaventosa lotta per la sopravvivenza - veniva accolta dalle ebree di Helmbrechts con inquietudine. I tedeschi dicevano di averle trascinate a Helmbrechts per farle lavorare ma, diversamente dalle detenute non ebree, non le utilizzavano: non c'era posto per loro nella fabbrica di armamenti. Era irrilevante, comunque, perch le avevano gi debilitate quasi tutte oltre i limiti della possibilit di lavoro produttivo (50). Le guardiane erano brutali con tutte le detenute. Anche le non ebree riferiscono dei pestaggi che patirono (51): una violazione delle regole del campo poteva scatenare su di loro, come sulle altre, le ire di una guardiana. Ma loro stesse osservavano che le sofferenze delle ebree erano incommensurabilmente maggiori, sia per le condizioni generali della vita nel campo sia per le crudelt cui le sottoponeva il personale. Un'ex detenuta russa ricorda:

"Le ebree venivano maltrattate pi di noi, e avevano poco, molto poco, da mangiare. Nessuna donna russa mor di fame. A noi, se non rispettavamo le regole del campo, negavano quel poco di cibo che c'era; ma le ebree venivano picchiate fino a perdere conoscenza; poi, quando rinvenivano, strappavano loro i vestiti di dosso e le costringevano a rimanere nude, all'aperto, fino alle 7" (nota 52). Un'ex detenuta russa descrive negli stessi termini la condizione delle ebree, sottintendendo sempre che quella delle non ebree era completamente diversa, e migliore. Le ebree "venivano stipate in baracche piccolissime, e dormivano sul pavimento gelato. Le avevano private di tutto. Dovevano affrontare i mesi invernali con indosso solo la camicia. Noi stavamo vicino alle loro baracche, e non riuscivamo a dormire per i gemiti, le urla, i lamenti: era un martirio. Il loro rancio era ancora peggio: solo rape, una volta al giorno. Se quelle poveracce si nascondevano addosso anche un nonnulla dei loro effetti personali, un portafortuna, una fotografia, venivano picchiate a sangue con il manganello dalle donne delle S.S., che poi le spogliavano e le costringevano a stare per giorni e giorni a piedi nudi sulla ghiaia grossa, nel freddo pungente. Avevano le gambe gonfie come zangole; quelle in condizioni peggiori crollavano a terra, gemendo per il dolore. E dopo un po' arrivarono altre ebree" (53).Il personale femminile tedesco faceva di tutto per spogliare le ebree delle ultime vestigia di umanit. Ignoravano le esigenze fondamentali per la loro sopravvivenza; le picchiavano a sangue senza motivo; proibivano loro di conservare il pi piccolo oggetto, il pi minuscolo contrassegno di un'identit personale (54). In tutti i modi possibili, le tedesche riservavano ben altro trattamento alle detenute non ebree, nelle quali, sia pure a malincuore, riconoscevano un'umanit condivisa. Tra ebree e non ebree la segregazione era assoluta; non potevano parlarsi (55). Le non ebree erano autorizzate a possedere oggetti personali, e venivano nutrite in misura sufficiente a mantenere le forze per il lavoro produttivo in fabbrica.

I pestaggi che subivano dalle guardiane erano ben diversi dalle violenze feroci e devastanti che venivano inflitte di continuo alle ebree. Le detenute russe, concepite dai tedeschi come le pi spregevoli tra le subumane non ebree, a confronto conducevano una vita di lussi. La misura di tutto questo, come sempre l'indicatore pi attendibile quando si tratta del periodo nazista, era data dal tasso di mortalit. Nel corso di parecchi mesi non una detenuta russa a Helmbrechts mor di fame, o di malattie derivate (56). Durante la loro breve permanenza nel campo, solo cinque settimane, morirono 44 ebree, che equivarrebbero in proiezione - assumendo che il tasso fosse rimasto costante, ma pi probabilmente sarebbe aumentato - pi o meno a una mortalit del 70 per cento all'anno (57). Il trattamento differenziato non era stato ordinato dall'alto: era responsabilit diretta del personale del campo. La fotografia 25 del nostro inserto mostra i cadaveri scheletriti di ebree che furono riesumati dagli americani il 18 aprile 1945, cinque giorni dopo l'evacuazione del campo. La pausa a Helmbrechts, con la distinzione simbolica e pratica tra ebree e non ebree e la costante distruzione fisica e morale delle prime, fu il preludio della marcia della morte che inizi il 13 aprile 1945, meno di quattro settimane prima della fine della guerra, quando ormai da lungo tempo la situazione militare dei tedeschi era chiaramente disperata, irrecuperabile. Pare che Drr avesse deciso di evacuare il campo di propria iniziativa, anche se i dettagli della decisione, della cronologia dell'evacuazione stessa, e degli ordini di Drr ai suoi sottoposti, risultano piuttosto confusi. Prima della partenza il comandante parl con alcune guardie, spiegando che avrebbero diviso le detenute in tre gruppi, ciascuno affidato a un contingente misto di uomini e donne; i gruppi si sarebbero messi in marcia verso destinazioni ancora non specificate; le malate pi gravi dovevano essere trasportate. Non risultano chiare le sue disposizioni sulle prigioniere troppo deboli per proseguire la marcia con la colonna; Drr disse comunque che non era opportuno lasciarle indietro vive, ed certo che non proib alle guardie di ucciderle (58). Difficilmente i tedeschi potevano contemplare la strada che li attendeva con spirito entusiasta. Stavano per affrontare un viaggio in cui avrebbero avuto alle calcagna un esercito conquistatore. Il mondo in cui erano vissuti negli ultimi dodici anni, che aveva visto i giorni inebrianti della conquista del continente e dell'apparente

realizzazione della promessa millenaria, si andava polverizzando sotto i loro passi. Un mondo nuovo, sconosciuto, incombeva sulla loro vita. I tedeschi stavano per ritrovarsi impotenti alla merc dei nemici, alcuni dei quali avevano a suo tempo subito per loro mano devastazioni, miserie e crudelt indescrivibili. C'era la possibilit, perduta la guerra e nell'imminenza della cattura, che prendessero atto della cessazione delle norme politico-culturali seguite fino a quel momento, e che finalmente ai loro occhi tutte le detenute divenissero uguali. Ma cos non fu: ed questo uno degli aspetti pi significativi delle marce della morte, compresa quella di Helmbrechts. Prima della partenza Drr ordin di distribuire i capi di vestiario rimasti nel magazzino del campo, ma soltanto alle non ebree. Anche prima di questa discriminazione i vestiti, o meglio gli stracci, delle ebree erano meno pesanti di quelli delle altre, lasciandole pi esposte alle intemperie; ma ora, a confronto con le non ebree, la loro vulnerabilit era ancora maggiore. Il pessimo stato di salute e la debilitazione generalmente pi grave delle ebree aggravavano le conseguenze di questo favoritismo sulla loro sopravvivenza; e come se ancora non fosse abbastanza, i tedeschi esercitarono un'ulteriore discriminazione, assegnando alle non ebree una razione di pane con salsiccia e margarina. Alle ebree non diedero nulla (59). In quelle condizioni generali, e senza ordini precisi, i tedeschi si misero in marcia con 580 prigioniere ebree e 590 non ebree. Approssimativamente eguali nei numeri, lungo la strada ebree e non ebree non avrebbero conosciuto altro che la diseguaglianza. Erano scortate da circa 47 guardie, 22 uomini e 25 donne; gli uomini portavano il fucile, con munizioni supplementari per la marcia, le donne impugnavano i manganelli (60). Come in tante altre fasi del terrorismo distruttivo praticato dai tedeschi in epoca nazista, durante questa marcia - e cos nelle altre marce della morte il trattamento delle ebree fu radicalmente diverso da quello riservato alle altre, pur trovandosi tutte le prigioniere nell'identica posizione strutturale a fronte dei sorveglianti: impotenti, senza difese, prive di ogni diritto o tutela, soggette al potere assoluto dei tedeschi e in bala dei loro capricci (61). Le non ebree si dividevano negli stessi due gruppi principali che avevano costituito a Helmbrechts.

Il primo, la stragrande maggioranza, era quello delle detenute non tedesche, soprattutto polacche e russe, che i tedeschi fecero marciare per pochi giorni soltanto, depositandole poi nel campo di Svatava (Zwotau), dove la marcia fece sosta dopo una settimana dalla partenza. Dalle testimonianze parrebbe che non una di loro morisse durante la marcia, e quasi tutte arrivarono a Zwotau in condizioni relativamente accettabili. Il secondo gruppo era costituito dalle tedesche non ebree, che parteciparono alla marcia fino all'ultimo: solo in parte, per, nel ruolo di detenute, perch furono utilizzate anche come carceriere. Le guardie le spostarono dal centro ai lati della colonna e, quanto meno per una certa parte della marcia, le impiegarono in funzione vicaria, per impedire la fuga delle ebree: E' vero, noi tedesche dovevamo camminare ai fianchi della colonna in marcia per tenere d'occhio le altre detenute (62). Le detenute tedesche, condannate per le loro azioni, per una violazione individuale dei precetti del regime, agli occhi delle guardie rimanevano comunque tedesche, gente del "Volk", affini per sangue; e come tali erano tanto al di sopra delle ebree, la cui unica colpa era di nascita, da meritare poteri delegati in quel momento intensivo, itinerante, del massacro. Ebree e non ebree partirono in numero uguale da Helmbrechts, ma per le seconde i tedeschi non tardarono a sospendere la marcia (che comunque aveva comportato sofferenze infinitesimali rispetto a quelle delle ebree), o a trasformarle in aguzzine. Quella di Helmbrechts fu una marcia della morte per le ebree, e per loro soltanto. Procedevano in tre gruppi separati, ognuno con il suo contingente di guardie; c'erano anche i carri ambulanza, sui quali le ebree pi deboli (da 180 a 200, secondo una sopravvissuta) viaggiavano stipate come sardine (63). In media coprivano 15 chilometri al giorno, con tratte quotidiane comprese tra 8 e oltre 20 chilometri (nota 64). La rotta fu relativamente diretta. Come nei campi, i tedeschi trasformarono ogni aspetto dell'esistenza durante la marcia in un momento di tormento o di morte per le ebree; come nei campi, quella sofferenza non era quasi mai necessaria. Le condizioni di vita generali - la marcia, i vestiti, il cibo, il sonno indicano che nella mente delle guardie, al di l delle intenzioni delle autorit superiori, il viaggio aveva come scopo la degradazione, la tortura, l'abbrutimento, la morte delle ebree.

I tedeschi che accompagnarono quella marcia operavano, in modo consapevole e costante, scelte che potevano essere motivate soltanto dal conseguimento di questi fini.Le ebree erano partite da Helmbrechts in condizioni di salute deplorevoli, senza ricevere alcun supplemento di cibo e vestiti; per tutta la marcia i tedeschi impedirono sistematicamente che ne venissero rifornite in modo adeguato. Di regola davano loro qualcosa da mangiare una volta al giorno, a pranzo o a cena (arrivati nel luogo di sosta per la notte); ma accadeva anche che non dessero loro nulla. Le razioni erano del tutto inadeguate: a volte un po' di pane, o un po' di minestra, o una misera porzione di patate. Sulla qualit dell'alimentazione e sulle condizioni di salute delle ebree abbondano le testimonianze - di sopravvissute, delle meglio nutrite detenute tedesche, di estranei, delle stesse guardie - e tutte dipingono lo stesso quadro agghiacciante: i tedeschi non davano loro praticamente nulla da mangiare, esse erano letteralmente consumate dalla fame; morivano di fame. La fame era tale che una volta si precipitarono su un mucchio di foraggio, divorandolo freneticamente anche se era tanto marcio da non essere pi adatto nemmeno per il bestiame (65); lo stato di privazione era tale che le ebree mangiavano persino l'erba (66). Negli ultimi due giorni, quando ormai le sopravvissute erano legate alla vita dal pi sottile dei fili, furono costrette a una giornata intera di marcia con poco o nulla da mangiare: a mezzogiorno di gioved 3 marzo, il penultimo giorno, le donne ricevettero, secondo la testimonianza della caposquadra tedesca, un bicchiere di minestra annacquata, dopo di che non ebbero pi nulla fino a mezzogiorno di venerd, quando mangiarono soltanto tre patate e mezzo bicchiere di latte (67). Tali pasti (come d'altra parte le razioni distribuite durante tutta la marcia della morte) erano evidentemente insufficienti per mantenerle in salute e anzi, in molti casi, per mantenerle in vita. Perch i tedeschi non fornirono alle ebree qualcosa di pi di quelle razioni da fame? Non certo a causa del caos generale e della generale penuria di cibo, n perch la cittadinanza non fosse disposta a dare qualcosa a quelle subumane. Se anche ci fosse stata abbondanza di tutto, se anche le ebree avessero marciato attraverso il giardino dell'Eden, le guardie tedesche avrebbero proibito loro di mangiare, nutrirsi e irrobustire il fisico contro le aggressioni dello sfinimento e delle malattie.

Per tutta la durata della marcia le guardie fecero il possibile per impedire alle ebree di accettare quel po' di cibo che pure c'era, e che veniva loro offerto spontaneamente. Fin dall'inizio i tedeschi si mostrarono determinati a trasformarle prima in scheletri ambulanti, poi in cadaveri.Le ebree erano gi tanto deboli da barcollare, e molte riuscivano a proseguire solo con l'aiuto delle altre. A pochi chilometri da Helmbrechts, ad Ahornberg, i civili risposero alle loro suppliche offrendo cibo e acqua, ma si scontrarono con il divieto delle guardie. Nell'ottavo giorno una parte della colonna sost brevemente nella citt di Sangerberg, e le ebree ne approfittarono per far sapere ai cittadini che stavano morendo di fame: "Alcune donne di Sangerberg tentarono di dar loro un po' di pane, ma subito quelle delle S.S. intervennero per impedirlo. Un soldato minacci una donna che portava il pane, avvertendola che le avrebbe sparato se avesse provato ancora a dar da mangiare alle detenute. Per due volte una guardia picchi col calcio del fucile le prigioniere che volevano accettare il cibo. Una guardiana gett alle galline il pane destinato alle detenute" (68). Il giorno prima le ebree non avevano avuto nulla da mangiare dopo la marcia; la fame e il freddo di una notte all'addiaccio ne avevano uccise una dozzina. Era questo il contesto in cui le guardie "scelsero" di dare il pane non alle donne fameliche, bens alle galline. La determinazione con cui le guardie riducevano al minimo l'alimentazione delle ebree fu una costante di tutta la marcia; il sedicesimo giorno, dopo 20 chilometri di cammino, le autorizzarono a prendere la minestra offerta dalla gente di Althtten, ma soltanto quella. Il ventunesimo giorno, quando gi gli americani incalzavano e la fine era ormai vicina, ancora le guardie impedirono ai civili, quelli di Volary questa volta, di dar loro da mangiare. Le guardiane picchiavano chi tentava di accettare un'offerta (69). Le ebree non soffrirono soltanto la fame, ma anche la sete e le conseguenze della disidratazione. I tedeschi impedivano loro di bere, nonostante l'abbondanza di acqua: Ogni volta che arrivavamo a un fiume, le guardie ci costringevano ad andare avanti senza bere (70). Le stesse guardie riconoscevano che le ebree erano al limite dell'esaurimento, che loro stessi, le guardie, non sarebbero mai riusciti a

marciare mangiando e bevendo cos poco, e che ci nonostante loro stessi, le guardie, non avevano fatto nulla per dar loro qualcosa di pi. La caposquadra, Hegel, ammette: Non una sola volta procurai dell'altro cibo per le donne, anche se sarebbe stato in mio potere farlo (71). Dopo una lunga giornata di marcia, senza una pausa sufficiente a riprendere fiato, arrivava finalmente il riposo notturno; ma anche la notte, l'occasione di un sonno ristoratore, offriva un magro riscatto alle fatiche del giorno, gravida com'era di altri pericoli per le ebree. Per tutto il viaggio l'alloggio pi confortevole fu qualche fienile non riscaldato, comunque preferibile all'alternativa spesso imposta dai tedeschi: dormire all'addiaccio, sotto le stelle di aprile. Oltre alla sofferenza fisica di una notte passata in quelle condizioni, le ebree erano tormentate dalla continua cacofonia di grida e gemiti che si levano inevitabilmente da una massa di persone affamate, ammalate, ferite e semicongelate; al mattino parecchie donne non si alzavano pi, vittime del freddo o di altri malanni (72). Per gli stessi motivi per cui i tedeschi non permettevano alle ebree di accettare cibo e acqua, Drr in pi occasioni le costrinse a passare la notte all'addiaccio anche quando si presentava la possibilit di alloggiarle al coperto. Quando arrivarono a Cist, alla fine del settimo giorno di marcia, il sindaco propose di sistemarle in una sala preparata per accogliere un gruppo numeroso di ausiliarie dell'esercito tedesco che non erano arrivate. Drr rifiut, costringendo le ebree a dormire all'aperto in un campo sportivo. La gente ricorda che fu una nottata molto fredda, che le donne erano completamente esauste e sfinite, e che si lamentarono per tutta la notte. Nella brina del mattino, 12 ebree furono trovate morte (73). Almeno altre tre volte, nel corso della marcia, Drr neg loro un ricovero al coperto (74). Non facile descrivere la miseria di quelle donne che si trascinavano, spesso scalze, sulle strade gelate, un tormentoso passo dopo l'altro, un inevitabile giorno d'incubo dopo l'altro: non conoscevano la loro destinazione, non avevano idea di quando sarebbe finita. Ogni passo, in quello stato di sfinimento morboso, richiedeva tutte le loro energie; ogni risveglio, all'alba, significava fame feroce, piedi gonfi e pieni di pus, membra anchilosate, piaghe aperte che non si rimarginavano. Sapevano di avere davanti una lunga giornata di marcia, durante la quale gli aguzzini avrebbero concesso ben poche pause di riposo; forse, a sera, avrebbero avuto qualche boccone di cibo.

Poi un dormiveglia pieno di brividi e dolori, e poi di nuovo un altro giorno e un'altra notte di orrori. Questa era la giornata normale; poi, ovviamente, c'erano quelle particolari: le arrampicate in salita, conficcando i piedi scalzi nel terreno gelato, gli attacchi aerei degli Alleati, le nuove ferite da sopportare. Le condizioni della marcia sarebbero potute essere frutto dell'immaginazione di Dante, il percorso che conduce da un girone infernale a quello inferiore. Evidentemente per la denutrizione, lo sfinimento e il freddo non erano tormenti sufficienti, in questo viaggio da incubo attraverso l'inferno in terra; erano soltanto una parte di ci che le ebree dovevano sopportare dalle guardie: l'orrore trovava degno coronamento nel ricorso continuo alle due forme di espressione preferite dai tedeschi, il bastone e il fucile. I manganelli delle guardiane avevano una funzione precisa e i fucili dei soldati, tanto abili nel maneggiarne il calcio, non servivano solo per le emergenze. Ispirandosi alla tacita regola che impone a chi tiene il bastone di usarlo, le guardie picchiavano le ebree di continuo e senza piet. Anche a questo proposito le testimonianze di tutte le parti interessate non lasciano spazio ai dubbi. Naturalmente i pestaggi iniziarono nel giorno stesso dell'evacuazione. Come spesso accadeva nel mondo infernale costruito dai tedeschi per gli ebrei, gli spostamenti fornivano l'occasione di una crudelt fisica con valenze simboliche, quasi ad annunciare alle vittime in quale stato di abiezione si accingessero a entrare. Il 13 aprile 1945, durante i preparativi per l'evacuazione, vidi Willi Rust che picchiava molte ebree malate con un'asse di legno (75). I guardiani dei morti civili si sentono spesso in dovere di riaffermare lo status quo, per evitare che le vittime si illudano di andare verso un significativo cambiamento della propria condizione sociale e delle condizioni in cui vivono (76). I tedeschi picchiavano le ebree per qualsiasi motivo, e senza alcun motivo. Le picchiavano perch erano ammalate; le picchiavano perch non si muovevano abbastanza in fretta (non certo la maniera migliore, in quelle condizioni, per fare in modo che tenessero il passo) (77). Abbiamo gi detto che quando qualcuno cercava di dar loro da mangiare, le guardie reagivano picchiando non i civili ma le ebree. E se appena le ebree tentavano di far qualche cosa, anche la pi insignificante, per migliorare la propria situazione, i tedeschi le

randellavano a sangue: Una volta mi fermai per raccogliere una buccia di patata marcia. Arriv subito una guardia che mi colp sulla testa con il calcio del fucile, provocando una ferita che cominci a sanguinare, e che non fu mai curata. Lo straccio sporco che mi ero avvolta sulla testa la fece subito infettare (78). Tutte le guardie, uomini e donne, senza quasi eccezione, picchiavano le povere ebree. Ricorda una sopravvissuta: Tutte le guardiane avevano un bastone o un manganello che usavano a discrezione, per un nonnulla (79). Lo conferm anche Hegel, poco dopo essere stata catturata dagli americani: Tutte le guardiane S.S. avevano un randello, e tutte picchiavano le ragazze (80). Un'altra guardiana confessa: Le picchiavo spesso, e duramente. Usavo le mani, e a volte un attrezzo di qualsiasi genere. Tra Zwotau [Svatava] e Wallern [Volary] ne picchiai una con grande brutalit, tanto che il giorno dopo mor (81). Quando l'interrogatore le chiese di descrivere qualche particolare episodio durante la marcia, la guardiana si mise a raccontare a ruota libera: "Jensen, Koslowski, Wagner e Riedl picchiarono a morte tre o quattro ragazze che si erano precipitate su un mucchio di radici marce (82) ... Ogni sera sentivo Koslowski vantarsi del numero di ragazze alle quali aveva sparato nel corso della giornata; non so quante fossero in tutto, ma in genere erano da due a quattro al giorno. Una volta Koslowski mi rifer che Wagner l'aveva aiutato a uccidere alcune donne. In pi occasioni vidi Drr picchiarle con brutalit estrema: ricordo che una volta una ragazza croll d'improvviso sotto i suoi colpi. Schmidt, Schfer e Reitsch erano particolarmente brutali; non l'ho visto con i miei occhi, ma ne parlavano tutte le guardie. Una volta vidi anche Hegel che picchiava una ragazza ferocemente con un randello. Non so per che cosa sia avvenuto di quella ragazza, perch in quel momento avevo da fare altrove" (83). Con questa testimonianza la guardiana incriminava personalmente 10 dei 41 tedeschi del contingente, compresa lei stessa. Come risulta dalla deposizione, le ebree non morivano soltanto a seguito delle privazioni e dei pestaggi, perch i tedeschi non risparmiavano certo le fucilate.

Alcune esecuzioni furono ordinate da Drr o da Hegel, la caposquadra, ma ogni guardia poteva uccidere le ebree a sua discrezione e come meglio credeva (anche se solo gli uomini avevano il fucile). Cos Hegel riassume la questione delle esecuzioni: "Erano le guardie stesse a decidere chi dovesse essere abbattuta, ma i responsabili di ogni colonna avevano il potere di impedire loro di sparare alle detenute; per non lo usarono mai. Drr non impart mai l'ordine di non sparare, anche se aveva l'autorit per darlo. Non conosco il numero esatto di quelle che vennero fucilate, ma a quel che mi risulta erano in media da 6 a 10 al giorno. Venivano uccise semplicemente perch troppo deboli per andare avanti, non avevano fatto nulla di male" (84). Le guardie sapevano che la marcia non sarebbe durata per sempre, ma ci nonostante in nessun momento decisero di por fine al massacro, e fino all'ultimo ammazzarono scrupolosamente le ebree. Anzi, nelle scene conclusive della marcia della morte i tedeschi, che continuavano caparbiamente a negare ogni cibo alle prigioniere, in luogo del pentimento inscenarono una serie di azioni emblematiche. Era il 4 maggio, e la trappola si stava chiudendo: in qualsiasi direzione andassero, presto i tedeschi si sarebbero imbattuti nelle forze nemiche. Sapendo che la cattura era imminente, decisero di abbandonare le ebree, ma solo dopo averle mandate oltre il confine, in quella parte della Cecoslovacchia che loro chiamavano Protettorato. Trascinarono quelle ancora in grado di camminare verso Prachatice, all'epoca citt di confine tedesca, circa 15 chilometri a nordest di Volary, caricando le pi malate su carri trainati da un trattore con il quale intendevano raggiungere la stessa destinazione. Durante il viaggio un aereo americano attacc i veicoli, uccidendo una guardiana incinta (il padre era uno dei soldati) e ferendone altre due. Gli eventi successivi risultano un po' confusi, perch le testimonianze sono contraddittorie e imprecise; comunque assodato che i tedeschi ammazzarono un buon numero di ebree, anche se non perfettamente chiaro come e quando. Quando l'aereo se ne fu andato, e si videro i danni che aveva inflitto a quei corpi di tedeschi, alcune guardie caddero in preda alla frenesia, e di loro iniziativa aprirono il fuoco sulla massa prostrata delle ebree. Le poverette, inermi, non avevano alcuna colpa.

Alcune approfittarono della confusione provocata dall'attacco aereo per fuggire. Le sopravvissute nei carri erano troppo deboli per afferrare questa occasione di libert, per beffare i loro carnefici; e poich non erano in grado di continuare a piedi, i tedeschi le rinchiusero per la notte in un vicino fienile. Queste donne ebbero la sfortuna di essere sorvegliate da tre dei peggiori assassini tra le guardie, che si incaricarono di commettere altri due eccidi: il primo cost la vita a 12 ebree. Del secondo, che avvenne il giorno dopo l'attacco aereo, quello in cui le altre ebree di Helmbrechts sopravvissute vennero liberate, la sentenza della corte d il resoconto che segue. Le tre guardie, tedeschi non nativi della Germania, fecero uscire le ebree dal fienile e le costrinsero a marciare in un bosco, in ripida salita, come se volessero consumarne gli ultimi barlumi di energia; in quella mezz'ora di arrampicata le donne cominciarono a crollare; le guardie sparavano a chi non riusciva a salire, finch non ne ebbero uccise, a una a una, 14 su 17. Poi lasciarono libere le tre che erano rimaste in piedi. Tutto questo avveniva il 5 maggio, il giorno prima che l'intera zona venisse occupata dall'esercito americano (85). Le ebree in grado di camminare che non erano fuggite durante l'attacco aereo avevano proseguito la marcia verso Prachatice. Lungo la strada una guardia spar in testa a una di loro. Il giorno dopo i tedeschi le mandarono avanti da sole, verso il confine ceco, a un paio di chilometri. Le ebree attraversarono barcollando quel confine politico e morale, e furono accolte dai contadini cechi: il loro atroce viaggio era finito. Solo una parte delle detenute ammalate era partita per Prachatice sui carri pi sfortunati; le altre, la maggioranza, furono liberate dalle truppe americane a Volary. Erano rimaste nel campo perch i tedeschi che le sorvegliavano quando avevano saputo dell'attacco aereo si erano rifiutati di correre altri rischi per portarle fino al confine. Tra il 3 e il 5 maggio a Volary morirono 20 ebree; altre due il 6 maggio, il giorno dell'arrivo degli americani e della liberazione, e 4 non sopravvissero ai giorni successivi, nonostante le cure mediche (86). Erano in condizioni disperate, incredibili, come dichiarava il medico americano: La prima occhiata a quelle persone mi sconvolse, perch non avrei mai creduto che un essere umano potesse essere tanto degradato, tanto affamato, tanto scheletrico, eppure continuare a vivere.

La spaventosa descrizione dettagliata che citiamo all'inizio di questo capitolo riguarda proprio queste donne. La marcia della morte di Helmbrechts si concluse dunque in modo diverso per i diversi gruppi: vi furono almeno due stragi in cui persero la vita almeno 26 donne, un colpo isolato ne uccise un'altra, alcune fuggirono verso la libert grazie a un attacco aereo americano, molte furono rilasciate e avviate verso la Cecoslovacchia, e le pi ammalate furono abbandonate a morire a Volary (87). La radicale discriminazione tra ebrei e non ebrei continu fino all'ultimo respiro del nazismo: Alois Drr, nemico giurato e orgoglioso assassino di ebrei, concluse con un gesto di sollecitudine il suo rapporto con le prigioniere tedesche di Helmbrechts, procurando loro dei documenti di identit presso l'Ufficio distrettuale di Prachatice (88). La marcia della morte di Helmbrechts cominci e fin con un eccidio. Il primo giorno i tedeschi fucilarono o picchiarono a morte 10 ebree, negli ultimi due giorni 27. Quante ebree morissero nei ventidue giorni della marcia (e in quelli immediatamente successivi) non pu essere determinato con precisione. Il numero ratificato dal tribunale della Repubblica federale tedesca fu 178;129 di fame, malattia e sfinimento, e 49 per i pestaggi e le fucilazioni (nota 89). E' probabile che il totale fosse alquanto superiore, circa 275 (nota 90). Anche accettando le stime riduttive del tribunale, in poco pi di tre settimane mor il 30 per cento delle ebree. Secondo il medico americano che visit alcune delle sopravvissute, il 50 per cento di loro sarebbe morto entro ventiquattr'ore se non fosse stato liberato e sottoposto a cure intensive di rianimazione (91). Possiamo ritenere con certezza che nel giro di qualche giorno sarebbero morte quasi tutte. Per questo tipo di marce non ha alcun senso parlare di tasso di mortalit (in genere calcolato su base annua): fu semplicemente una marcia della morte, a tutti gli effetti una marcia di sterminio che (anche sulla base delle cifre riduttive del tribunale) se fosse durata due mesi non avrebbe lasciato superstiti: un ritmo di eliminazione che supera quello di tutte le altre istituzioni tedesche, compresi i campi - a eccezione di quelli destinati esplicitamente allo sterminio.

NOTE AL CAPITOLO 13

N. 1. Confronta Ia voce Death Marches, in "Encyclopedia of the Holocaust" cit., p. 350. La trattazione complessiva sulle marce della morte consiste in tre articoli e due libri: Shmuel Krakowski, The Death Marches in the Period of Evacuation of the Camps, in "The Nazi Concentration Camps" cit., pagine 475-89; Yehuda Bauer, The Death Marches, January-May, 1945, in "The Nazi Holocaust: Historical Articles on the Destruction of European Jews", a cura di Michael R. Marrus, Westport, Meckler, 1989, vol 9, pagine 491511; Livia Rothkirchen, "The Final Solution in Its Last Stages", in Y.V.S., 8, 1970, pagine 7-29; Irena Mal e Ludmila Kubtov, "Pochody Smrti", Praha, Nakladatelstv politick literatury, 1965; Zygmunt Zonik, "Anus Belli: Ewakuacja I Wyzwolenie Hitlerowskich Obozw Koncentracyjnych", Warszaw, Panstwowe Wydawnictwo Navkave, 1988. Il Iibro di Irena Mal e Ludmila Kubtov poco pi che una serie di brevi sunti delle diverse marce; pi utile quello di Zonik, anche se il suo valore ai fini del nostro studio in parte inficiato dal fatto che non rivela sistematicamente i nomi delle vittime, e non tratta in modo abbastanza dettagliato le singole marce. Ogni analisi delle marce della morte dovrebbe essere preceduta da una serie di riserve. Sull'argomento sono state pubblicate poche ricerche sistematiche, sicch la comprensione del loro scopo complessivo e degli itinerari a dir poco approssimativa. La difficolt sta in parte nell'assenza quasi assoluta di documentazione sui loro diversi aspetti: sappiamo poco degli ordini ai quali facevano riferimento, e della loro struttura organizzativa; spesso difficile stabilire il numero delle persone coinvolte in ciascuna (per non dire della loro ripartizione per nazionalit), quello dei sopravvissuti, e quello dei morti lungo la strada. Quanto alle affiliazioni istituzionali e alla provenienza delle guardie, in genere tedesche, possiamo solo tirare a indovinare; e inoltre accade spesso di non poter disporre di alcuna informazione dettagliata sul modo in cui trattavano le loro vittime. N. 2. Questa periodizzazione non usata n da Shmuel Krakowski, The Death Marches in the Period of Evacuation of the Camps cit., n da Yehuda Bauer, The Death Marches, January-May, 1945 cit. N. 3.

Per un breve resoconto delle marce della morte prima di questo periodo, confronta Shmuel Krakowski, The Death Marches in the Period of Evacuation of the Camps, cit., pagine 476-77. Sulla marcia del primo dicembre 1939, che port diverse migliaia di ebrei polacchi da Chelm al confine dell' Unione Sovietica sul fiume Bug, uccidendo lungo il percorso - e il dato riguarda una soltanto delle colonne da 500 a 600 ebrei, confronta Ermittlungsbericht, in Z.S.t.L. 208 A.R.-Z 91/61, pagine 2076-82. N. 4. Secondo Martin Broszat, The Concentration Camps, 1933-1445, in "Anatomy of the S.S. State", a cura di Helmut Krausnick et al., London, Collins, 1968, p. 248, e la voce Death Marches in "Encyclopedia of the Holocaust" cit., p. 354, morirono in 250 mila. Yehuda Bauer, The Death Marches, January-May, 1945 cit., scrive che il numero dei morti nelle marce della morte e nei campi durante la fase finale fu alquanto maggiore - almeno il 50 per cento, se non molto di pi (p. 492). Confronta ci che egli sostiene (pagine 49294) circa la difficolt di accertare quanti fossero i detenuti nel sistema dei campi e nelle marce. N. 5. La maggioranza, in ogni caso, era formata da ebrei. Confronta Irena Mal e Ludmilla Kubtov, "Pochody Smrti" cit., p. 311. N. 6. A.C., in S.t.A. Hof 2 Js 1325/62, "Beiakte" J. Dopo aver trovato quelle donne, gli americani aprirono un'indagine per accertare che cosa fosse accaduto, intervistando e interrogando le sopravvissute e i realizzatori che erano riusciti a catturare. Le testimonianze di quelle guardie, rese nei momenti immediatamente successivi a una sconfitta cocente, sono caratterizzate da un'inconsueta sincerit (che in genere manca in quelle rese venti o venticinque anni dopo), e combaciano quasi perfettamente con quelle delle sopravvissute. N. 7. La marcia della morte di Helmbrechts, dei due casi quello analizzato pi a fondo, stata scelta perch (come chiariremo pi avanti) consente di isolare molte questioni analitiche fondamentali, e per la particolare abbondanza dei materiali empirici a essa riferiti. Nonostante gli aspetti peculiari, non si pu negare che fu tipica per il modo in cui i tedeschi trattarono le prigioniere; la discussione che segue lo dimostrer. In linea di massima il materiale sulle marce in Z.S.t.L. di qualit di gran lunga inferiore rispetto a quello sulle altre strutture della morte.

Si trattava, per cos dire, di bersagli mobili, e spesso non si conosce nemmeno l'identit dei sorveglianti. Pu darsi inoltre che non attirassero l'attenzione delle autorit giudiziarie perch non avevano una collocazione fissa, e spesso non rientravano in una struttura di comando ben identificabile. Il materiale cui si rif il principale dei casi qui analizzati deriva soprattutto dall'inchiesta e dal processo contro il comandante di Helmbrechts, Alois Drr, i cui verbali stanno in S.t.A. Hof 2 Js 1325/62 (d'ora innanzi Drr); alcuni di questi materiali sono citati nell'incartamento riguardante Helmbrechts in Z.S.t.L. 410 A.R. 1750/61 (Grnberg). N. 8. Schlussvermerk, in Grnberg, pagine 630-33. Sappiamo poco di questo campo. Solo nel 1969 l'Arolsen International Tracing Center ha stabilito definitivamente la sua esistenza. Non era nella citt di Schlesiersee, ma nella vicina Przybyszw (pagine 630-31). Poco sappiamo anche del contingente di guardie, 20 persone in tutto, in buona parte soldati dell'esercito non pi idonei al servizio in prima linea; c'erano poi alcune guardiane, e gli amministratori (di 8 dei quali conosciamo i nomi), provenienti dalla polizia (pagine 634-35). N. 9. B.B., in Grnberg, p. 63. Aggiunge che le ammalate erano molte, ma non le risulta che in questo campo venissero fucilate. Su questo punto, Schlussvermerk, in Grnberg, p. 637. Furono comunque numerosissime quelle che morirono di denutrizione, esaurimento, malattia, e a causa della brutalit dei sorveglianti. N. 10. Z.H., in Grnberg, p. 90. N. 11. Schlussvermerk, in Grnberg, pagine 637-38. N. 12. B.B., in Grnberg, p. 63. N. 13. F.D., in Grnberg, pagine 544-45.I tedeschi avevano bevuto e, mentre lui li trasportava alla prossima destinazione dopo il massacro, gli offrirono della grappa. Questi tedeschi pi anziani, cos crudeli nei confronti delle povere ebree, si comportarono in modo amichevole con il polacco.

N. 14. Schlussvermerk, in Grnberg, pagine 648-49. N. 15. Una stima del numero dei detenuti in ciascuna delle marce in Grnberg, pagine 647-48. Sappiamo poco dei tedeschi addetti alla sorveglianza (p. 649). N. 16. H.W., in Grnberg, p. 467. N. 17. Non chiaro se le sue stime si riferiscano all'intera marcia o soltanto al gruppo particolare del quale lei fece parte; comunque sia, il tasso di mortalit fu altissimo. Confronta ibid., p. 467. I pochi dettagli noti su questa marcia sono in Schlussvermerk, in Grnberg, pagine 661-65. N. 18. S.K., in Drr, vol. 4, p. 605. N. 19. Grnberg, p. 650. N. 20. Confronta Schlussvermerk, in Grnberg, pagine 654, 660-61, sulla sorte delle prigioniere in questa marcia; 34 delle 160 componenti di un gruppo di malate morirono nel corso del mese successivo. N. 21. C.L., in Grnberg, p. 401. N. 22. S.K., in Drr, p. 605; C.L., in Grnberg, p. 401; B.B., in Grnberg, pagine 63-64; M.S., in Grnberg, p. 84. Confronta pure Schlussvermerk, in Grnberg, p. 657. B.B. ricorda che i tedeschi ne destinarono 70 alla fucilazione, ma 20 riuscirono a fuggire. N. 23. Sentenza, in Drr, p. 23. N. 24. Ibid., pagine 6-8. N. 25. Un altro aveva tentato pi volte di ottenere l'iscrizione al partito, ma non era stato considerato idoneo. E' possibile che gli altri due fossero iscritti, ma i documenti non sono chiari in proposito.

N. 26. H.R., in Drr, "Zeugen", pagine 1109-19; Si noti che E.V. non compare nel ruolo (incompleto) delle guardie. N. 27. M.W., in Drr, "Zeugen", pagine 1142-49. N. 28. G.H. in Drr, vol. 4, p. 628. P.L. era con lui, e anche lui era stato a Lublino. Fu arruolato nell'aprile 1944 in un reparto di assaltatori ("Landesschtzeinheit"). Confronta Drr, vol. 3 pagine 610-31. N. 29. E' ovviamente difficile valutare le motivazioni addotte per la partecipazione volontaria alla sorveglianza da parte dei non coscritti. Confronta, quali esempi, O.K., in Drr, "Zeugen", e R.S., in Drr, vol. 3, p. 556. N. 30. Dei 12 sui quali possediamo informazioni, 8 non avevano ricevuto alcun addestramento, 3 erano stati addestrati per solo due settimane, e uno non ne parla. Quelli che prestarono servizio a Ravensbrck (e lo fecero quasi tutti, in genere per qualche settimana, ma uno fu l per sei mesi) prima di partire per Helmbrechts furono certo introdotti informalmente nella comunit dell'orrore dalla vecchia guardia del campo. Confronta H.P. e O.K., in Drr, "Zeugen". N. 31. W.J., in Drr, "Zeugen", p. 1068, nonch la sentenza, in Drr, pagine 12-13. N. 32. Confronta, per esempio, W.J., in Drr, "Zeugen", p. 1068, e P.K., in Z.S.t.L., 410 A.R. 750/61, p.690. N. 33. P.K., in Z.S.t.L., 410 A.R. 1750/61, p. 690, ed E.v.W., in Drr, "Zeugen", pagine 1320-22. N. 34. Confronta Hermann Langbein, Menschen in Auschwitz cit., pagine 59-64, sul miglioramento delle condizioni ad Auschwitz dopo che Arthur Liebehenschel sostitu Rudolf Hss come comandante del campo. N. 35. E.V., in Drr, "Zeugen", p. 1137. Per un punto di vista opposto, W.J., in Drr, "Zeugen", p.1068.

N. 36. Dichiarazione di E.M., 10/20/64, in Drr, pagine 506-12. N. 37. Sentenza, in Drr, pagine 6-8. N. 38. Sentenza, in Drr, pagine 10-11. N. 39. M.R., in Drr, "Zeugen", p. 1237. Confronta anche M.S., in Drr, "Zeugen", p. 1251. N. 40. Un resoconto della brutale tortura e uccisione della dottoressa russa e delle sue due compatriote dopo una temporanea fuga dal campo, nella sentenza, in Drr, pagine 14-22. N. 41. Ibid., pagine 10-12, e A.G., in Drr, "Zeugen", p. 1194. N. 42. Sentenza, in Drr, pagine 24-25. N. 43. S.K., in Drr, vol. 4, p. 606; confronta anche E.M., in Drr, vol. 3, p. 515. N. 44. M.F. e S.K., in Drr, vol. 4, rispettivamente a p. 623 e pagine 605-6. Una prigioniera non ebrea, anch'essa sottoposta a tremende sofferenze nel campo, esagera forse un po' quando dice che le ebree non avevano n letti n coperte. Confronta L.D., in Drr vol. 1, p. 195. N. 45. Sulle baracche del campo, confronta la sentenza, in Drr, p. 25, e A.G., in Drr, "Zeugen", p. 1195.N. 46. S.K., in Drr, vol. 4, p. 607. Degli appelli punitivi, nel corso dei quali i tedeschi costringevano gli ebrei a rimanere in piedi per ore, spesso nudi e senza scarpe, spesso nella neve, parlano sia i sopravvissuti ebrei sia i non ebrei. Questa testimonianza di una russa: Vidi che le ebree furono costrette a rimanere per tutto il giorno nella neve, senza mangiare e senza vestiti n scarpe. Vidi che le guardiane S.S. picchiavano con le mani o con i manganelli quelle che non stavano immobili. Confronta L.D. e M.H., in Drr, vol. 1, rispettivamente a p. 195 e p. 194. N. 47. Sentenza, in Drr, p. 26, e A.G., in Drr, "Zeugen", p. 1194.

L'ex caposquadra delle guardie di Helmbrechts afferma che le ebree ricevevano meno cibo delle non ebree (H.H., in Drr, vol. 3, p. 600). N. 48. H.H., in Drr, Beiakte J. N. 49. R.K., in Drr, "Zeugen", p 1224. Osserva che quelle tra loro che provenivano da Auschwitz erano particolarmente affamate. Confronta anche A.K., in Drr, vol. I p. 103. N. 50. Sentenza, in Drr, pagine 25-26. N. 51. Confronta, per esempio, la dichiarazione della donna russa, S.K., in Drr, vol. 1, p. 51. Anche N.K., in Drr, vol. 1, p. 203. Una descrizione generale delle crudelt, nella sentenza, in Drr, pagine 1112. N. 52. M.H., in Drr, vol. 1, p. 194. N. 53. V.D., in Drr, vol. 4, p. 701. N. 54. Un certo numero di ex prigioniere riferisce delle sofferenze inflitte a un'ebrea il cui crimine era quello di possedere una fotografia: fu costretta a stare in piedi nella neve, con i capelli rasati. Confronta S.K., in Drr, vol. 4, p. 607, e R.K., in Drr, "Zeugen", p. 1224. N. 55. L.D., in Drr, vol. 1, p. 195, e S.K., in Drr, vol. 4, p. 606. N. 56. M.H., in Drr, vol. 1, p. 194. N. 57. Sentenza, in Drr, p. 26. N. 58. Ibid., pagine 27-29. N. 59. Ibid, p. 29. N. 60. Ibid., pagine 28, 30. N. 61. Un resoconto di ciascun giorno di marcia in ibid., pagine 3889. N. 62.

M.R., in Drr, "Zeugen", p. 1240. N. 63. A.K., in Drr, vol. 1, p. 101, e la sentenza, in Drr, p. 210. Per una disamina pi completa dei carri infermeria, confronta pi avanti. N. 64. Queste cifre si rifanno a quelle contenute nella sentenza, in Drr, pagine 30-89. 65 E.M., in Drr, vol. 3, p. 516; B.B., in Grnberg, p. 64; e la sentenza, in Drr, pagine 50, 60-61, 208-09. N. 66. M.S., in Grnberg, p. 82. Per altre testimonianze sulla quantit e la qualit dell'alimentazione delle ebree durante la marcia, cfr H.H., in Drr, Beiakte J, e la sentenza, in Drr, pagine 208-9. N. 67. H.H., in Drr Beiakte J. N. 68. Sentenza, in Drr, p. 57. N. 69. Sentenza, in Drr, pagine 70-71, 194-95. N. 70. M.S., in Grnberg, vol. 1, p. 82. Confronta pure B.B., in Grnberg, vol. 1, p. 64. N. 71. H.H., in Drr, Beiakte J, e C.S., in Drr, p. 72. N. 72. Confronta Ia sentenza, in Drr, pagine 30-89, per una descrizione delle condizioni generali della marcia. N. 73. Sentenza, in Drr, pagine 55-56, 149-50. N. 74. Ibid, pagine 148-52. N. 75. N.K., in Drr, vol. 1, p. 203. N. 76. Un incidente del tutto simile raccontato sopra, l dove si parla del campo di Lipowa. Su questo punto, un esame complessivo in Orlando Patterson, "Slavery and Social Death" cit., pagine 51-62. N. 77.

Una guardia bastonava le donne cos deboli da non riuscire pi a camminare; andavano avanti a carponi. Sentenza, in Drr, pagine 3839. N. 78. M.R., in Drr, Beiakte J. N. 79. M.S., in Grnberg, p. 82. N. 80. H.H., in Drr, Beiakte J. Si noti l'uso ironico della definizione S.S.. N. 81. C.S., in Grnberg, p. 72. Per un altro esempio, confronta Grnberg, p. 82. N. 82. La caposquadra delle guardiane ricorda che quelle donne furono picchiate da un gruppo di cinque guardie. C'erano W., R. e K., e a suo dire anche S. e Z.; in questo episodio non parla di J. La donna aggiunge che Sia io che Duerr [sic] vi assistemmo, e nessuno dei due fece nulla per impedire il pestaggio. (H.H., in Drr, Beiakte J). N. 83. C. S., in Grnberg, p. 72. N. 84. H.H., in Drr, Beiakte J. N. 85. Sentenza, in Drr, pagine 73-75. N. 86. Ibid., pagine 73-74, 77. N. 87. Ibid, pagine 73-74. N. 88. Ibid., pagine 73, 197. N. 89. Ibid., pagine 77-79. N. 90. Chi prese parte alla marcia ritiene che le sopravvissute fossero meno numerose. Secondo alcune furono poco pi di 300, sicch ne sarebbero morte 275. La cifra corrisponde alla stima delle morti quotidiane indicata sia dalle guardie sia dalle ex detenute.

E' difficile che sbagliassero, dato che ogni mattina un appello accertava il numero delle morti avvenute durante la notte precedente. Su questo punto, confronta M.R., in Drr, vol. 2, p. 404. 91 A.C., in Drr, Beiakte J.

Capitolo 14 MARCIARE VERSO CHE FINE?

In che modo dobbiamo interpretare avvenimenti come la marcia di Helmbrechts, e come le marce della morte in genere? Perch i tedeschi condussero le ebree in quella folle corsa verso il nulla? Perch le trattennero fino all'ultimo, per torturarle e ammazzarle, anche se la guerra era chiaramente perduta, e quelle peregrinazioni non potevano in alcun modo favorire le sorti della Germania? Perch non rinunciarono a quell'impresa apparentemente insensata, invece di rischiare loro stessi di farsi catturare? Quale significato aveva tutto questo per loro? Le circostanze in cui si svolse, il modo in cui i tedeschi trattarono le detenute, e le loro stesse dichiarazioni indicano che la marcia della morte fu fine a se stessa. Ma l'interrogativo rimane: in che modo i tedeschi interpretavano ci che stavano facendo? Non risulta chiaro quali fossero gli ordini precisi, ma possiamo comunque fare qualche osservazione in proposito. Drr evacu il campo eseguendo un ordine permanente che gli ingiungeva di fare ci nel momento in cui fossero arrivati nei pressi gli americani. La destinazione prevista dall'ordine, Dachau, era irraggiungibile perch gi occupata dal nemico; nel corso della marcia Drr chiese di modificare la destinazione, dirigendosi verso l'Austria. Possiamo dare per scontato che avesse l'ordine di evitare la cattura. Le testimonianze sugli ordini che Drr "inizialmente" impart al contingente di guardie riguardo alle donne che non fossero pi in grado di marciare sono contraddittorie, ma probabile che abbia detto loro di sparare a chi rimaneva indietro (1); proib comunque espressamente ogni contatto tra le ebree e i civili. Dopo la partenza, Drr e le guardie tedesche non ebbero pi contatti regolari con alcuna struttura di comando; privi di una rotta prescritta, procedevano a tentoni verso una destinazione indeterminata: non avevano nemmeno una mappa (2).

Al di l degli ordini generali, all'atto pratico questi tedeschi furono abbandonati a se stessi: come dichiara uno di loro, per tutta la marcia, noi guardie non conoscevamo la destinazione verso la quale eravamo diretti (3). Dovevano improvvisare di continuo per far fronte al mutare della situazione; erano loro, e loro soltanto, a decidere quale comportamento tenere con le ebree, quanto nutrirle, e chi dovesse vivere o morire. Gli ordini del personale tedesco erano dunque per molti versi poco chiari; con una fondamentale eccezione, per: nel secondo giorno di marcia fu comunicato loro l'"ordine esplicito" delle massime autorit "di non uccidere altri ebrei". Erano obbligati da ordini vincolanti a dare alle ebree un trattamento umano. Fu un tenente delle S.S., staffetta di Himmler, che raggiunse la colonna per trasmettere a Drr una direttiva da Berlino riguardante le detenute. Dopo aver domandato a Drr quante ebree fossero gi state uccise (non conosciamo la sua risposta), la staffetta gli comunic che Himmler aveva "espressamente vietato" di uccidere altri ebrei: stava trattando con gli americani, e non voleva che la continuazione degli eccidi compromettesse i negoziati. La staffetta ordin poi alle guardiane S.S. di gettare i randelli. In caso di pericolo di cattura, si dovevano distruggere tutti i documenti del campo (4); i tedeschi, inoltre, "non" dovevano uccidere le ebree, ma rilasciarle nei boschi. Gli ordini furono comunicati al personale tedesco; secondo una guardia, fu l'emissario di Himmler stesso a parlare: "Noi guardie fummo radunate, e il tenente annunci di essere un aiutante di Himmler. Poi disse che erano in corso trattative con l'esercito americano e che le prigioniere dovevano essere trattate umanamente. Il tenente continu dichiarando che Himmler aveva ordinato la sospensione delle esecuzioni dei prigionieri. Proib inoltre alle guardie di portare i bastoni di legno, com'era nostra abitudine" (5). Le testimonianze non concordano sul fatto che a parlare fosse stato il tenente o Drr (6), ma i punti principali di quanto fu detto sono chiari: ai tedeschi fu "proibito" di uccidere altre ebree. Ma anche nel caso in cui i tedeschi non avessero ricevuto l'ordine esplicito e vincolante di Himmler di trattare le prigioniere in modo decente,

le loro azioni non possono in alcun modo essere interpretate come frutto di un insieme di considerazioni razionali. Stavano costringendo a marciare fino alla morte delle donne che riuscivano a malapena a camminare; non davano loro da mangiare, riducendole in uno stato tale che chi le vide si stup che fossero ancora vive; costringevano degli esseri umani vestiti di stracci e privi della protezione del grasso corporeo a dormire all'addiaccio nel clima invernale; picchiavano a sangue delle persone che stentavano ad alzare le braccia per difendersi. L'idea che le stessero trasferendo verso qualche luogo in cui le avrebbero messe al lavoro grottesca: le ebree di Helmbrechts erano gi troppo debilitate per poter lavorare nel campo, e le sopravvissute alle privazioni e alle brutalit della marcia erano mezze morte. Se non avessero contravvenuto all'ordine vincolante di non uccidere le ebree e di trattarle in modo umano, i mille atti di crudelt omicida dei tedeschi sarebbero rimasti soltanto l'espressione dei loro desideri pi profondi. Ma dopo l'ordine di Himmler omicidi e torture diventavano anche atti di insubordinazione: quei tedeschi decisero di agire contro gli ordini, contro l'autorit e contro la ragione. Erano agenti volontari. L'azione omicida prodotta da quel volontarismo non fu per distribuita in modo omogeneo. Le guardie trattavano bene le poche detenute tedesche, e le impiegarono persino per sorvegliare le ebree; al settimo giorno di marcia depositarono a Svatava tutte le non ebree, tranne le tedesche. Come osserva una guardia, quelle detenute erano in condizioni fisiche relativamente buone. Riuscivano a camminare (7). I tedeschi lasciarono indietro proprio le pi sane, quelle che avrebbero potuto lavorare, se ci fosse stata davvero l'intenzione (e una realistica possibilit) di fornire braccia al Reich vacillante. I tedeschi non torturavano n uccidevano alla cieca; non erano, le loro, espressioni di personalit sadiche o genericamente abbrutite che si sfogavano su ogni possibile vittima. La crudelt, la sete di sangue, erano mirate, erano specificamente riservate agli ebrei; si decideva di torturare e uccidere solo quando la vittima "era ebrea". Quale concezione dovevano avere delle ebree, delle vittime predestinate, per poter agire come agirono? Come dimostrano le fotografie scattate giorni dopo la liberazione (le illustrazioni n.n. 24 e 25 del nostro inserto, per

esempio), le detenute ebree non potevano certo costituire una minaccia: praticamente non riuscivano nemmeno a muoversi. Come pu un uomo aver guardato quelle ebree malate, immiserite, senza provare compassione e orrore di fronte all'abietta condizione fisica in cui erano state precipitate? Il peso medio di novantatr sopravvissute, registrato dal medico americano che le visit, era di 40 chili; ventinove pesavano meno di 35 chili; cinque meno di 30 (nota 8): erano ridotte a scheletri viventi.Ci nonostante, nulla sta a indicare che i tedeschi provassero la minima compassione nei riguardi delle donne ebree: tutto ci che sappiamo delle loro azioni dimostra, sotto quasi ogni aspetto, che erano del tutto incapaci di quel sentimento. Che cosa li rendeva tanto insensibili alla sofferenza di queste persone? Che cosa li spingeva a trattare gli ebrei in modo cos crudele da far ritenere impossibile a molti studiosi - che dunque l'hanno escluso a priori - che delle persone normali avessero commesso volontariamente quelle atrocit disumane? Occorreva una motivazione irresistibile, una motivazione la concezione che i tedeschi avevano delle ebree e dello scopo della marcia che non rimane del tutto inespressa: abbiamo infatti la registrazione di alcune espressioni rivelatrici. Come si detto nel capitolo precedente, una delle guardie, Koslowski, si vantava di continuo con gli altri tedeschi delle ebree che aveva ucciso durante la marcia (9); che quelle vanterie fossero continue dimostra che gli omicidi venivano giudicati moralmente positivi dalla comunit sociale di cui facevano parte le guardie tedesche. Ci che i carnefici dicono non soltanto ai camerati, ma anche alle vittime un attimo prima di sollevare la mannaia pu essere particolarmente rivelatore circa le loro motivazioni, perch quelli sono momenti di espressione spontanea, di un candore inusuale. Una sopravvissuta ricorda che durante una delle fredde notti della marcia uno degli aguzzini volle far precedere al dolore lancinante dei suoi colpi sulla vittima una nota di autocompiaciuta ironia: Lungo la strada ci fermammo una notte in un fienile; il pavimento era disseminato di cadaveri. Una donna cominci a urlare che stava morendo di freddo; quell'S.S. le ordin di distendersi sui cadaveri, dicendo "Adesso ti scalderai"; poi la picchi a morte (10). L'unico tipo di calore che un'ebrea potesse aspettarsi da quell'uomo era il gelo della tomba; non c'erano crematori a portata di mano. Un'altra frase rivelatrice fu pronunciata da Drr in persona.

Durante la marcia i cadaveri a volte venivano sepolti, altre volte lasciati a decomporsi all'aperto; una ex detenuta tedesca riferisce di un'occasione in cui le vittime ebree furono sotterrate. Si era accorta che un paio di donne davano ancora segni di vita, e disse a Drr che non poteva seppellire delle persone ancora vive. Al che lui rispose testualmente: Moriranno comunque. Pi ebrei muoiono, meglio ! Tanto stanno per crepare tutte (11). L'atto disumano di seppellire viva una persona turbava quella detenuta tedesca, ma non Drr - n, parrebbe, un gran numero di realizzatori tedeschi negli anni del genocidio, che a volte, nel corso degli eccidi, si risparmiava la fatica di controllare se tutti quelli che stava seppellendo fossero davvero morti (12). Con questa dichiarazione Drr esprimeva esplicitamente il proprio atteggiamento verso gli ebrei, e insieme rivelava che cosa fosse per lui quella marcia: pi ebrei muoiono, meglio . La reazione delle guardie dopo il primo dei due attacchi aerei subiti durante la marcia corrisponde in tutto a questo spirito. Nella confusione seguita all'attacco, alcuni soldati dell'esercito erano riusciti a portare almeno due prigioniere ferite in un ospedale militare, dove le stavano curando; le guardie si presero la briga di rintracciarle, impedirono ogni ulteriore medicazione e le costrinsero, nonostante le ferite, a rimettersi in marcia. E spiegarono al personale che le ebree non dovevano ricevere cure, che non dovevano essere in alcun modo aiutate (13): le cure mediche violavano l'essenza stessa della marcia della morte; anzi, ne erano l'antitesi. Esisteva qualche differenza nel comportamento delle guardie, si verificava qualche eccezione alla regola generale della brutalit assoluta, ma sono deviazioni dalla norma che proprio per questo evidenziano la diffusione della crudelt e, di conseguenza, il volontarismo di chi la praticava. Le ebree di questa marcia, come tutti gli ebrei in quelle circostanze, erano pronte a adattasi alla situazione: se un tedesco non dava prova di crudelt, sapevano approfittare di questo caso eccezionale. Una volta implorarono una delle guardie pi anziane: Lasciaci vivere; tu non fai parte di quella societ (14), la societ cio degli assassini di ebrei per eccellenza. Era uno dei vecchi, un tedesco abbastanza anziano da non essere stato allevato esclusivamente nella cultura del nazismo: I vecchi del contingente erano per lo pi brave persone, che non ci picchiavano n ci tormentavano. Le S.S. giovani erano molto pi brutali ["schon brutaler"] (15).

I giovani erano implacabili. Le guardie pi benevole erano un minoranza isolata, ed erano solo uomini (16): tutte le guardiane, senza eccezione (17), trattavano le ebree con ostilit, brutalit e crudelt. Poich operavano per lo pi senza alcun controllo (sia Drr sia la caposquadra non partecipavano alla marcia quotidiana della colonna, perch di regola andavano avanti in bicicletta per risolvere gli infiniti problemi logistici), le guardie potevano fare praticamente tutto ci che volevano. Qualcuno approfitt del lassismo del comando e abbandon il posto, prendendo definitivo commiato dalla marcia della morte; gi nel secondo giorno sei guardiane disertarono. Perch non lo fecero anche le altre? Il Reich era sconfitto; la fine stava davanti ai loro occhi; non era difficile tagliare la corda, soprattutto per chi era originario della zona. E perch non lasciarono andare le ebree che tentavano la fuga? Perch uccisero sempre quelle che portavano nei boschi, invece di dar loro la libert, visto che nessuno controllava? Durante la marcia una delle guardie rifiut esplicitamente di uccidere; la cosa fu discussa tra colleghi, e non risulta che venisse preso alcun provvedimento nei suoi confronti (18). Perch non rifiutarono anche gli altri? Vale la pena di sottolineare che la brutalit delle guardiane non aveva eccezioni. Sia a Helmbrechts (dove in genere gli uomini non avevano contatti diretti con le detenute), sia durante la marcia, le sopravvissute ricordano soprattutto la crudelt delle donne, sulle quali non hanno mai nulla di positivo da dire. Alla luce delle testimonianze dei sopravvissuti, e considerato che nulla ci induce a ritenere che le guardie avessero avuto l'ordine di maltrattare le detenute durante la marcia - e a questo proposito ci sono le deposizioni di molte delle stesse guardie - dobbiamo assumere come ultima e conclusiva parola sulla loro condotta, e sulla loro volontaria partecipazione, la dichiarazione della caposquadra: Tutte le guardiane S.S. avevano un randello, e tutte picchiavano le ragazze. I sei mesi di odissea iniziati nel sottocampo di Gross-Rosen e terminati con il provvidenziale intervento d'emergenza del medico americano sono, o appaiono, incomprensibili per pi di un verso. Anche senza tener conto di tutto ci che le ebree avevano gi subto prima di quest'ultimo atto della tragedia distruttiva messa in scena dai tedeschi - in altre parole, anche se avessero iniziato il viaggio come ritratti della salute, e non in condizioni di fragilit e denutrizione - risulterebbe comunque difficile capire come fossero riuscite a sopravvivere, fisicamente,

psicologicamente ed emotivamente, a quei sei mesi interminabili di peregrinazioni, di torture e pestaggi, di terrore continuo, e soprattutto di fame infinita. Non facile, sprofondati nelle nostre poltrone, comprendere il dolore e la sofferenza che sopportarono, immaginare che cosa fu per loro ogni singola drammatica ora di quel tormento. E non facile comprendere a quale scopo i tedeschi conducessero quelle marce: trascinare delle persone da un luogo a un altro senza una meta precisa, uccidendone una ogni tanto, cosa che esula da qualsiasi progettualit razionale. E infine, di fronte alle disperate condizioni delle ebree, difficile comprendere come fosse possibile sottoporre volontariamente il prossimo a un simile trattamento, ed esserne anche compiaciuti. Quelle peregrinazioni di mesi, che sfidano cos smaccatamente il nostro buonsenso, caratterizzarono gli ultimi mesi di guerra. Spostamenti insensati, privazioni, abbrutimento e morte erano il pane quotidiano degli ebrei, costituivano l'intero mondo costruito per loro dagli aguzzini tedeschi. La marcia di Helmbrechts, con i suoi evidenti eccessi e il suo carattere apparentemente incomprensibile, di fatto uno degli episodi pi emblematici dell'Olocausto e getta una luce forse senza uguali su tutte le marce della morte. La marcia di Helmbrechts fu caratterizzata da numerosi fattori particolarmente propizi a un trattamento quanto meno decente per le ebree. Se anzi si dovesse immaginare quali condizioni potessero indurre i tedeschi a trattarle bene, la marcia di Helmbrechts quanto di meglio avesse da offrire in questo campo una Germania votata al nazismo. La fine della guerra era imminente. Qualunque incentivo personale o istituzionale che fino a quel momento avesse prodotto la servile obbedienza dei tedeschi agli ordini, ora, con l'improvvisa fine del regime, non aveva pi alcuna forza; a giorni tutte le vecchie regole sarebbero state spazzate via. Nulla poteva indurli a credere che nell'imminente ristrutturazione del mondo postnazista, ancora indefinita ma certo radicalmente diversa dal passato, gli ebrei sarebbero stati considerati subumani, o peggio, l'elemento pi abietto e odioso della subumanit. Anzi, data la convinzione dominante che fossero gli ebrei la potenza che stava dietro sia al bolscevismo sia al capitalismo, che fossero gli ebrei i burattinai che tiravano i fili degli Alleati, i tedeschi avevano ogni motivo

per credere il contrario, che cio gli ebrei sarebbero diventati potenti e privilegiati. Queste considerazioni valevano ovviamente per tutto il personale tedesco che guidava le marce della morte (o presidiava i campi) negli ultimi mesi di guerra, e non soltanto per quelli di Helmbrechts; e a questo genere di considerazioni, se ne fossero stati anche minimamente condizionati, essi avrebbero dovuto conformare la propria condotta. Durante questa marcia (e in tante altre situazioni analoghe) i tedeschi agirono praticamente senza alcun controllo, nemmeno da parte dell'ufficiale comandante, operando in modo autonomo da qualsiasi autorit potenzialmente punitiva; avevano quindi la massima discrezionalit per agire come meglio credevano. Potevano disertare senza alcuna difficolt, anche perch i trasferimenti avvennero soprattutto in Germania - dove non avevano nulla da temere dalla popolazione locale - e anzi nell'ambito della regione stessa di cui molti di loro erano originari. Se dunque fossero stati contrari al maltrattamento e all'uccisione delle ebree, questi tedeschi avrebbero avuto mille incentivi e occasioni strutturali per trattarle meglio, o semplicemente per disertare. Tanto pi che - ed forse questo il fatto pi significativo - avevano ricevuto da Himmler l'ordine esplicito di non uccidere le detenute e di trattarle umanamente, e avevano dovuto persino rinunciare agli abituali strumenti di tortura. Sarebbero dovuti bastare questi ordini per modificare la loro condotta. Ritornando alle vittime, sarebbe difficile immaginare un gruppo di persone meno minaccioso. Erano donne, e nella cultura europea le donne conservavano ancora una certa immunit nella sfera militare, se non altro perch erano considerate meno bellicose e pericolose degli uomini. Inoltre erano debilitate a tal punto che nessuna persona dotata di raziocinio, nessuno che non fosse preda di un modello cognitivo gravemente distorto, poteva vedere in loro una minaccia. Non sussisteva quindi alcuna considerazione oggettiva di sicurezza o di autodifesa per trattarle come una fonte di pericolo. E poich le vittime erano tra le persone meno minacciose che si potessero immaginare, anche le guardie non sarebbero dovute essere pi propense alla severit di quanto non lo fossero ampi settori della popolazione tedesca: nulla le distingueva da un qualsiasi gruppo di tedeschi scelto a caso, e le poche che facevano parte delle S.S. avevano ricevuto un addestramento ideologico alquanto approssimativo.

Le ebree non erano quindi sorvegliate da gente particolarmente ideologizzata, particolarmente votata all'antisemitismo eliminazionista, rispetto alla norma nella Germania dell'epoca. Nella loro condotta, inoltre, le guardie dimostrarono di non essere "genericamente" brutali: dispensare dolore e sofferenza non era un loro tratto caratteriale irrinunciabile, perch trattavano assai meglio, se non proprio bene, le detenute non ebree. Nulla giustifica quindi la convinzione che le ebree fossero preda di individui indotti da una pulsione interiore, psicologica, a brutalizzare chiunque fosse in loro potere; anzi, molte testimonianze indicano il contrario. Ma queste condizioni insolitamente favorevoli, singolarmente e nel loro insieme, a un trattamento decente per le ebree ebbero invece il risultato opposto. La marcia della morte di Helmbrechts ci fa capire perch anche altre marce, e altre strutture tedesche che si occupavano degli ebrei, furono altrettanto letali, brutali e gravide di intenzionali crudelt. Le condizioni generali erano assai meno favorevoli di queste al benessere degli ebrei, ma non furono le condizioni esterne a motivare i tedeschi nelle strutture della morte: la marcia di Helmbrechts dimostra che le "condizioni" stesse potevano variare, potevano variare gli imperativi strutturali delle organizzazioni, e persino il contenuto degli ordini operativi, senza effetto alcuno sul trattamento degli ebrei. Nessuno di questi fattori, quindi, influ in modo determinante sulla brutalit dei tedeschi. La marcia della morte di Helmbrechts assume un'importanza "cruciale" in quanto dimostra che - fin tanto che la societ nazista rimase intatta - era tutt'altro che facile indurre i tedeschi, dopo gli anni della persecuzione eliminazionista e dei massacri, a trattare con benevolenza gli ebrei. Nel terzo periodo di questa fase, tra la fine del 1944 e il maggio 1945, centinaia di marce della morte simili a quelle partite da Schlesiersee e da Helmbrechts si trascinarono, spesso in modo insensato, attraverso i territori sempre pi limitati del dominio tedesco. Da una rassegna ampia, ma non certo esaustiva, emergono taluni modelli e aspetti ricorrenti che rispecchiano quanto avvenne nelle marce sinora descritte (19). Per quanto simili nelle linee generali, le marce della morte del terzo periodo furono un fenomeno caotico, a volte con caratteristiche significativamente diverse (20).

All'interno della Germania la struttura dell'autorit si andava frantumando, e le marce si svolsero in assenza di un controllo centrale; non sorprende quindi che i tedeschi addetti a sorvegliarle le conducessero come meglio credevano. Ed ancor pi degno di nota il fatto che - nonostante l'assenza di un comando centrale, nella situazione ingovernabile della sconfitta militare, mentre in tanti altri contesti si polverizzavano i modelli di condotta istituzionali - questi tedeschi continuassero in genere a conformare le loro azioni ai dogmi genocidi fondamentali dell'etica nazista. Le differenze furono tali da rendere difficile la costruzione di un modello generale convincente delle marce della morte. Erano diversi gli ordini ricevuti dai comandanti e dalle guardie sullo scopo delle marce, sulla loro destinazione, e sul modo in cui dovevano essere condotte. In alcuni casi i tedeschi trattarono con eguale brutalit gli ebrei e i non ebrei, anche se non avvenne mai, a quanto mi dato di sapere, che gli ebrei ricevessero un trattamento di favore: in generale, comunque, le marce furono della morte soprattutto per loro. In alcuni campi, compreso Auschwitz, i tedeschi abbandonarono alla morte o alla liberazione, secondo la fortuna di ciascuno, gli ebrei che non consideravano in grado di prender parte alla marcia (21); di solito, tuttavia, uccidevano gli ebrei (e talvolta anche i non ebrei) completamente inabili, o prima di evacuare dal campo quelli in grado di camminare, oppure durante la marcia, quando non riuscivano pi a tenere il passo della colonna. I prigionieri andavano soprattutto a piedi, anche se a volte furono caricati sui carri, o persino sui treni. L'identit delle guardie tra gli aspetti meno noti delle marce della morte. In maggioranza facevano parte del personale del campo evacuato, e dunque erano guardie di professione, esponenti delle S.S. Teste di Morto; ma molte non erano S.S., e appartenevano invece alle unit di difesa civile o ai diversi corpi della polizia o dell'esercito. I dati disponibili, alquanto disomogenei, indicano che le fasce d'et e di provenienza delle guardie coprivano l'intera gamma degli adulti abili alle armi. A volte, come per la marcia di Helmbrechts, delle tedesche comuni affiancavano quei comuni tedeschi contribuendo alla tortura peripatetica degli ebrei; anche i tedeschi non nativi della Germania passati dalla parte del Reich stavano al fianco dei compatrioti purosangue mentre le vittime crollavano ai loro piedi.

Vittime e scorte attraversavano a volte territori ostili ai tedeschi (in Polonia o in Cecoslovacchia, per esempio), altre volte regioni amiche; negli ultimi giorni della guerra la maggior parte delle marce si svolse in terra tedesca. Decine di migliaia di civili videro arrancare per la loro citt o villaggio quelle colonne disperate di scheletri distrutti, spesso coperti di ferite. A volte risposero con compassione; pi spesso riservarono a quei subumani soltanto ostilit e disgusto morale. Li schernivano, li prendevano a sassate: evidentemente per loro la liquidazione dei subumani, anche nelle ultime ore del nazismo, era impresa degna di lode. Si sa di civili tedeschi che aiutarono le guardie a riprendere dei prigionieri fuggiti (22). E se erano dell'umore giusto, i civili partecipavano anche agli eccidi di prigionieri, quando non erano loro stessi a provocarli (23). Preso atto delle differenze, conta soprattutto il fatto che per gli ebrei quelle furono tutte marce della morte secondo il modello di Helmbrechts; la stessa interminabile agonia si ripropone in tante altre marce. In questo ultimo periodo di guerra, gli ebrei subirono le peggiori discriminazioni che si possano immaginare (24): i tedeschi li ammazzavano con maggiore frequenza (25), e pi spesso esercitavano su di loro il proprio repertorio di atrocit; gli ebrei ricevevano il necessario alla sopravvivenza in misura quantitativamente e qualitativamente molto inferiore, e capitava che i tedeschi li costringessero ad altre marce debilitanti intorno ai campi in cui i prigionieri non ebrei venivano lasciati riposare (26). Il fatto di non distribuire ai detenuti il cibo e l'acqua che pure erano disponibili era ovviamente una dichiarazione eloquente, per quanto tacita, dello scopo delle marce nelle intenzioni delle guardie, di ci che le guardie tedesche si auguravano per le persone che erano state loro affidate: Passammo per una citt tedesca. Chiedemmo da mangiare. In un primo momento avevano creduto che fossimo profughi tedeschi. L'S.S. che ci accompagnava grid: "Non dategli niente da mangiare; questi sono ebrei". E cos non mi diedero niente. I bambini tedeschi ci presero a sassate (27). L'episodio avvenne sulla via da Neusalz a Bergen-Belsen; i bambini tedeschi, che degli ebrei sapevano solo quanto avevano appreso dalla societ in cui erano cresciuti, non avevano dubbi su come comportarsi.

Non soltanto il modo in cui i tedeschi trattavano gli ebrei nei rapporti diretti che induce a identificare come scopi esclusivi delle marce la morte e la sofferenza. La loro insensatezza totale e l'assurdit delle rotte che seguivano fanno pensare che, con il loro quotidiano, costante, tributo di debilitazione e di morte, esse trovassero in se stesse l'autentica ragione d'essere. Molte puntarono sulla destinazione in modo relativamente diretto, ma molte altre no. Una, da Flossenbrg a Regensburg, che distano in tutto 80 chilometri, part il 27 marzo: la rotta fu quella che segue (28). In tre settimane i detenuti percorsero 400 chilometri, cinque volte la distanza reale. Con una media di 20 chilometri al giorno, non stupisce che pochi siano riusciti a sopravvivere (nota 29). Un'occhiata alle mappe di alcune altre marce della morte dovrebbe bastare a convincere chiunque che quei vagabondaggi non potevano avere altro scopo che far marciare i prigionieri; con effetti calcolabili e calcolati. I tedeschi che guidavano le marce, isolati dai quartieri generali, erano quasi sempre padroni di se stessi, nessuno li obbligava a vagare senza scopo; avrebbero potuto decidere di fermarsi, dar da mangiare ai prigionieri e consegnarli agli Alleati, che comunque li avrebbero raggiunti in un paio di giorni, o settimane. A quanto sappiamo, non vi fu un solo caso in cui lo abbiano fatto (30). Le marce della morte non erano dei mezzi per trasferire gli individui: i trasferimenti attraverso le marce erano dei mezzi per ucciderli. E infine, la dedizione dei tedeschi all'impresa genocida fu tale da sfidare la comprensione: il loro mondo si stava disintegrando, ma continuarono la strage genocida fino all'ultimo. Un sopravvissuto della marcia dal campo di Dora-Mittelbau accusa non soltanto le guardie ma anche i civili tedeschi, che non avevano alcuna necessit di farsi coinvolgere: "Una notte ci fermammo vicino alla citt di Gardelegen. Ci sdraiammo in un campo, mentre diversi tedeschi andarono in citt per decidere sul da farsi. Ritornarono con un gruppo di giovanotti della Giovent hitleriana e con diversi poliziotti del luogo. Ci cacciarono a forza dentro un grande fienile. Poich eravamo 5000-6000 persone, la parete del fienile cedette alla pressione dell'affollamento, e molti riuscirono a fuggire.

I tedeschi cosparsero il fienile di benzina e appiccarono il fuoco; diverse migliaia di persone furono bruciate vive. Noi che eravamo riusciti a fuggire ci nascondemmo nel bosco vicino, ascoltando le grida strazianti delle vittime. Era il 13 aprile. Il giorno dopo il luogo fu occupato dall'esercito di Eisenhower; quando arrivarono gli americani i cadaveri stavano ancora bruciando" (31). Negli ultimi giorni di guerra Flossenbrg, Sachsenhausen, Neuengamme, Magdeburgo, Mauthausen, Ravensbrck, i campi satelliti di Dachau, e molti altri campi evacuarono tutti i detenuti avviandoli in marce senza una destinazione precisa (32). Che senso poteva avere, tutto questo, per gli aguzzini tedeschi? L'ultima marcia della morte, che fu forse anche l'ultimo degno rantolo del nazismo, part nella notte del 7 maggio, meno di ventiquattr'ore dalla resa ufficiale della Germania, che era gi praticamente tutta occupata (33). Gli ebrei sopravvissuti sono unanimi nelle descrizioni della crudelt omicida di cui i tedeschi si resero colpevoli fino all'ultimo (34). Non possono esservi dubbi sull'odio per le loro vittime che li animava: non erano freddi esecutori di ordini superiori, n burocrati cognitivamente ed emotivamente neutri, indifferenti alla natura delle loro azioni. I tedeschi decisero di fare ci che fecero senza essere sottoposti ad alcuna forma di controllo, guidati solo dal loro modo di concepire il mondo, dalla loro idea di giustizia, e andando contro il loro stesso interesse a non farsi catturare dal nemico con le mani ancora sporche di sangue. La dedizione a quella missione di sofferenza e di morte non era un comportamento imposto; veniva da dentro, era un'espressione del loro essere pi profondo (35). Nel vuoto di potere, nel caos istituzionale, logistico ed emotivo degli ultimi mesi e delle ultime settimane di guerra, non sorprende che un fenomeno incoerente come quello delle marce della morte sia diventato una delle strutture portanti della Germania nazista. Lo scopo dichiarato delle marce era il trasferimento dei detenuti "in quanto" lavoratori verso nuove sedi nelle quali avrebbero continuato a produrre per il Reich. Come abbiamo dimostrato parlando del lavoro degli ebrei, quando i tedeschi dicevano lavoro non si riferivano necessariamente a un impegno produttivo; nella loro comunit linguistica il lavoro degli ebrei veniva inteso per ci che realmente era: uno tra i tanti mezzi dello sterminio, lento e a volte pi soddisfacente per gli aguzzini.

Le marce, in effetti, non servivano ad alcuno scopo produttivo - quante delle guardie avrebbero potuto invece combattere al fronte, quanti treni avrebbero potuto invece trasportare truppe e rifornimenti? - al di l delle vuote parole dei tedeschi sul potenziale delle loro vittime. Cos come i tedeschi dei campi sapevano bene che la produttivit economica non era il motivo per cui costringevano gli ebrei a lavori inutili come a Buchenwald, dove il lavoro consisteva nel trasportare avanti e indietro dei sacchi di sale bagnato (36) - e che gli ebrei non erano rinchiusi in quello o in qualsiasi altro campo per svolgere un lavoro, anche le guardie di Helmbrechts e delle altre marce della morte sapevano che non c'erano impieghi produttivi possibili per quegli ebrei che essi costringevano a camminare. Al di l delle idee allucinate che chi ordin quelle marce poteva coltivare sul potenziale produttivo dei detenuti, i tedeschi comuni che sorvegliavano gli ebrei di Helmbrechts e delle altre marce non potevano certo illudersi, alla vista di quei cadaveri ambulanti, che il loro compito fosse quello di custodire preziose risorse economiche. Al di l dell'ideologia, chiunque avrebbe riconosciuto che quelle persone debilitate non erano in grado di lavorare; e nessuno con un minimo di raziocinio poteva credere che le marce servissero a qualcosa di utile che non fosse un'ulteriore punizione, un'ulteriore sofferenza e la morte delle vittime. Quando si trattava di ebrei, i tedeschi - dall'ultimo disgraziato a Hitler in persona - sapevano sempre a quale esito tendessero le proprie azioni. Ogni aspetto di quelle azioni comprometteva una o l'altra delle premesse della futura produttivit delle vittime. I tedeschi che avrebbero avuto qualcosa da dire sul trattamento riservato agli ebrei e sul loro destino erano quegli stessi, comuni tedeschi, che sorvegliavano gli ebrei e gli altri prigionieri. E costoro si comportarono in un modo che non lascia adito a dubbi sull'idea che si erano fatti dello scopo delle marce della morte; un'idea che coincide perfettamente con quella enunciata da una guardia di Helmbrechts: Se mi chiedete se l'obiettivo della marcia fosse, grosso modo, di far morire un po' per volta tutte le detenute ebree, devo ammettere che si poteva davvero avere questa sensazione.Non ne ho le prove, ma il modo in cui si svolse quel trasferimento parla da s (37). Le marce della morte non furono che la continuazione dell'opera iniziata nei campi di concentramento e di sterminio, l'opera di Hitler, l'opera di tutti i tedeschi che contribuirono alla distruzione di quel popolo innocente (38). Da bravi tedeschi comuni, le guardie di Schlesiersee, di Helmbrechts e delle altre marce sapevano di portare avanti la missione iniziata, e in larga

misura gi compiuta, dal sistema dei campi e dalle altre istituzioni omicide: lo sterminio del popolo ebraico. Definendole marce della morte, le vittime non facevano un esercizio retorico, n si riferivano soltanto a un tasso di mortalit particolarmente elevato; ogni aspetto del comportamento dei tedeschi indicava agli ebrei che il loro unico scopo era la morte. Fino all'ultimo, i tedeschi comuni che perpetrarono l'Olocausto continuarono di propria volont, con tutta la dedizione e lo zelo di cui erano capaci, a massacrare gli ebrei, anche quando loro stessi rischiavano la cattura; anche quando ebbero ricevuto nientemeno che da Himmler l'ordine di sospendere gli eccidi.

NOTE AL CAPITOLO 14 N. 1. Su questo punto le testimonianze sono contraddittorie: confronta G.H., in Drr, vol. 4, p. 637; H.H., in Drr, Beiakte J; e la sentenza, in Drr, p. 29. N. 2. Sentenza, in Drr, p. 54. N. 3. G.H., in Drr, vol. 4, p. 639. Confronta anche C.S., in Grnberg, p. 71, secondo la quale sul finire della marcia non avevano alcuna idea sulla destinazione delle ebree (p. 71). N. 4. Drr fece davvero bruciare i loro documenti: confronta la sentenza, in Drr, p. 49, e V.D., in Drr, vol. 4, p. 702. N. 5. M.R., in Drr, vol. 2, pagine 403-4. Che fosse necessario emettere un ordine per garantire un trattamento umano, basta di per s a indicare quali fossero allora le norme di condotta dei tedeschi verso gli ebrei. N. 6. E' possibile che la confusione sia dovuta al fatto che avessero parlato entrambi. Confronta M.R., in Drr, vol. 2, pagine 403-4, e la sentenza, in Drr, pagine 48-49. Pare che Drr preferisse non comunicare ai suoi ufficiali tutti i punti dell'ordine di Himmler, compreso quello che prescriveva di rilasciare gli ebrei se gli americani si fossero avvicinati troppo.

N. 7. M.R., in Drr, vol. 2, p. 403. N. 8. Il peso fu registrato l'11 maggio 1945 dal capitano W.W., in forza alla Sanit dell'esercito americano. Drr contiene una copia della relativa documentazione. N. 9. C.S., in Grnberg, p. 72. N. 10. S.S., in Drr, vol. 1, p. 117. N. 11. G.v.E. in Drr, "Zeugen", p. 1183. N. 12. Cos avvenne nel massacro perpetrato dal Battaglione di Polizia 101 a Lomazy: confronta la sentenza, in Hoffmann, pagine 347-48, e E.H., in Hoffmann, pagine 2724-26. N. 13. Sentenza, in Drr, pagine 212-13. N. 14. M.S., in Drr, "Zeugen", p. 256. Non accenna nemmeno al fatto che le ebree si erano fatte un'idea sbagliata delle guardie. N. 15. S.K., in Drr, vol. 4, p. 610. N. 16. Non basta che non si gloriassero della loro crudelt per ritenere che disapprovassero in generale il trattamento riservato alle ebree. Le manifestazioni di crudelt sono indici dell'approvazione di chi agisce, ma non ne consegue che la loro assenza segnali invece la disapprovazione. Anzi, sappiamo di zelanti carnefici di ebrei che erano convinti che non si dovesse uccidere con brutalit gratuita. N. 17. Sentenza, in Drr, p. 82. N. 18. G.v.E., in Drr, vol. 2, p. 350. N. 19. Oltre alla letteratura ricordata nel capitolo 13, nota 1, e ai resoconti delle marce della morte che compaiono in decine di memorie, ho compulsato in dettaglio i materiali delle indagini giudiziarie della Repubblica federale relativi a dodici di quelle marce.

N. 20. Questo vale anche per il trattamento dei prigionieri nei campi durante gli ultimi giorni di guerra. Yehuda Bauer, The Death-Marches, January-May, 1945 cit., afferma che andrebbero considerati come due fenomeni distinti (p. 495); non mi risulta chiaro il motivo della distinzione. N. 21. Molti di loro sarebbero poi morti, per la salute ormai compromessa e l'assenza di cure mediche, e perfino di cibo. Su Auschwitz, confronta Hermann Langbein, "Menschen in Auschzwitz" cit., pagine 525-29. N. 22. Cos fu, per esempio, per la marcia della morte dal campo di Sonnenberg in aprile o maggio 1945: confronta la sentenza contro Ottomar Bhme e Josef Brsseler, Marburgo 6 K.s. 1/68, p. 11. N. 23. E' ovviamente difficile definire i pensieri e le emozioni dell'enorme numero di persone che videro degli scheletri ambulanti, precipitati in quella condizione nel nome della Germania, sfilare davanti ai loro occhi in quei giorni di incertezza e paura. Quali tipi di atteggiamento i tedeschi ebbero nei confronti dei detenuti, e quanti furono ad averli? Quanti tentarono di alleviarne le sofferenze offrendo cibo e acqua? Quanti contribuirono invece al loro martirio, coprendoli di velenose invettive, prendendoli a sassate, scovandoli quando riuscivano a fuggire o uccidendoli con le loro stesse mani? L'impressione di Shmuel Krakowski (The Death Marches in the Period of Evacuation of the Camps cit.) - che ha utilizzato le testimonianze dei sopravvissuti in Yad Vashem, riferite a settanta marce della morte tra marzo e aprile 1945 - che anche senza alcun impulso o controllo da parte delle autorit la stragrande maggioranza del popolo si comport nel modo che sarebbe pi piaciuto ai pedagoghi nazisti (p. 484). Zygmunt Zonik, "Anus Belli" cit., pagine 198-99, conclude che se pure qualche tedesco cerc di aiutare i prigionieri, cos non fece la grande maggioranza, che invece li malediva al loro passaggio, e pi di una volta invit le guardie a ucciderli (pagine 198-99). I documenti da me esaminati mi inducono alla medesima conclusione. N. 24. Henry Orenstein e un amico si strapparono di dosso la stella gialla e si fecero passare per polacchi in una marcia che fu comunque abbastanza debilitante da produrre un tasso astronomico di mortalit.

Orenstein racconta nel suo libro di memorie, "I Shall Live: Surviving Against All Odds, 1939-1945", New York, Touchstone, 1989, p. 243, il senso di sicurezza che gli derivava dalla sua nuova identit polacca nonostante quelle condizioni disperate: "Stranamente, anche se era ormai chiaro che quella marcia sarebbe stata un macello, mi sentivo comunque pi sicuro di quanto non fossi mai stato nel campo. Questi non sapevano che ero ebreo, e se mi avessero ammazzato lo avrebbero fatto perch non riuscivo a camminare, non per il semplice fatto di essere ebreo ... Avendo vissuto per tanti anni sotto il tiro dei fucili, quando chiunque delle guardie godeva del diritto chiaro e indiscusso di assassinarmi in qualsiasi momento, a suo piacere, anche solo per divertimento, anche se non facevo nulla per provocarlo, per il solo motivo di essere nato ebreo, anelavo ormai al diritto di vivere giudicato in base ad altri criteri - anche solo alla mia capacit di camminare o no ... Pareva probabile che le S.S. non avrebbero ammazzato tanta gente, soprattutto perch sapevano che tra noi non c'erano ebrei". Orenstein sottovalutava le propensioni omicide dei tedeschi, ma quel ritrovato senso di sicurezza ontologica assai rivelatore. N. 25. Non si sottolineer mai abbastanza la capacit e la volont delle guardie di discriminare i prigionieri. Una versione ancor pi estrema della posizione di privilegio accordata alle detenute tedesche nella marcia di Helmbrechts, arruolandole come carceriere delle ebree, si verific nella marcia di Janinagrube. In questo caso le guardie tentarono di trasformare i prigionieri tedeschi in carnefici, armandoli e incoraggiandoli a partecipare al massacro di centinaia di ebrei. Confronta la sentenza contro Heinrich Niemeier, Hannover 11 K.s. 1/77, pagine 20-22, 92-97. Anche nella marcia della morte di Lieberose le guardie fucilarono un gran numero di ebrei, ma nessuno dei detenuti tedeschi; ed erano tra l'altro libere da ogni forma di controllo, perch il loro comandante non partecip alla marcia. Confronta l'atto di accusa contro E.R. e W.K., in S.t.A. Fulda 3 Js 800/63, pagine 48-56. N. 26. Cos fu per Buchenwald.

Confronta Shmuel Krakowski, "The Death Marches in the Period of Evacuation of the Camps" cit., pagine 484-85. Va sottolineato che non si pu certo dire che i tedeschi trattarono con maggiore sollecitudine quelli rimasti nei campi; tutt'altro. N. 27. Ibid., p. 489. Anche nella marcia di Janinagrube i tedeschi intervennero per impedire alla gente di dar da mangiare ai prigionieri. La colonna, costituita esclusivamente da ebrei, si era aggregata alle migliaia di persone in marcia da Auschwitz e dai sottocampi. Alla partenza da Auschwitz gli ebrei di Janinagrube ricevettere un pezzo di pane e marmellata da dividersi in due. Come al solito nel freddo di gennaio, chi rimaneva indietro veniva fucilato. Dopo qualche giorno, il comandante si volatilizz con il carro rifornimenti. Alcuni uomini delle S.S., accompagnati dai prigionieri con compiti speciali ("Funktionshftlinge"), andarono alla ricerca di cibo presso i contadini del luogo, perch ora nemmeno loro avevano da mangiare; gli altri si preccuparono di far s che gli ebrei non ne ricevessero nemmeno un boccone. Un ex detenuto ricorda la fame: Durante la marcia di evacuazione non ci diedero nulla da mangiare. In alcune localit i polacchi della Slesia, di propria iniziativa, ci diedero latte e pane; le S.S. arrivarono a rovesciare a calci le brocche di latte. Per fortuna di alcuni ebrei, i polacchi riuscirono a volte a passare loro qualcosa da mangiare, eludendo la sorveglianza dei tedeschi. Confronta l'atto di accusa contro Heinrich Niemeier, in S.t.A. Hannover 11 Js 1/77, p. 23, e la sentenza, Hannover 11 K.s. 1/77, pagine 16-20. Altri casi in cui i tedeschi negarono ai detenuti cibo e acqua di cui pure disponevano sono in Yehuda Bauer, The Death Marches, January-May, 1945 cit., pagine 500, 503, e Shmuel Krakowski, The Death Marches in the Period of Evacuation of the Camps cit., pagine 478-79, 484. N. 28. Le mappe dei percorsi apparentemente senza meta di molte altre marce della morte sono in Irena Mal e Ludmilla Kubtov, "Pochody Smrti" cit. N. 29. Yehuda Bauer, The Death Marches, January-May, 1945 cit., p. 499. N. 30. Yehuda Bauer tratta questo punto ibid., p. 497. N. 31.

Citato in Shmuel Krakowski, The Death Marches in the Period of Evacuation of the Camps cit., p. 485. N. 32. Ibid. N. 33. Ibid., p. 486. N. 34. Ibid., p. 489. N. 35. Bauer sbaglia quando scrive che i realizzatori tedeschi erano in genere freddi come il ghiaccio ("Eiskalt"), ma sostiene a ragione che nelle marce della morte essi uccidevano in modo tutt'altro che freddo e distaccato (anche se non si tratt, a suo dire, di un ritorno ai metodi delle S.A. negli anni Trenta). Confronta Yehuda Bauer, The Death Marches, January-May, 1945 cit., p. 502. Per riferire un altro esempio fra tanti, nella marcia di Janinagruber un tedesco aveva l'abitudine di scatenarsi in una danza indiana di aperta gioia ogni volta che uccideva un ebreo. Uno dei sopravvissuti ebbe la netta sensazione che questa guardia avesse in corso con un collega una gara omicida. Confronta la sentenza, Hannover 11 K.s. 1/77, pagine 26-27, 63. N. 36. Citato in Dieter Vaupel, "Spuren die nicht vergehen: eine Studie ber Zwangsarbeit und Entschdigung", Kassel, Verlag Gesamthochschulbibliothek Kassel, 1990, pagine 112-13. Queste scene si verificarono nell'ultimo anno di guerra, all'apice della mobilitazione della forza lavoro. N. 37. S.R., in Drr, vol. 3, p. 570. Si noti che in questo contesto sceglie di parlare degli ebrei, senza menzionare i detenuti non ebrei che erano partiti da Helmbrechts con loro. N. 38. Anche Yehuda Bauer affronta l'argomento in The Death Marches, January-May, 1945 cit., p. 499. Non furono soltanto le guardie assegnate alle marce della morte a uccidere gli ebrei fino all'ultimo. Anche chi non aveva alcuna responsabilit in proposito considerava naturale uccidere gli ebrei nei quali gli capitava di imbattersi.

Di ritorno in patria dall'Ungheria una compagnia manutenzione ("Werkstatt Kompanie") della Divisione S.S. Das Reich incontr in due occasioni dei gruppetti di ebrei disarmati ed evidentemente innocui. Dopo averne torturati alcuni, i tedeschi li uccisero tutti compreso un veterano della prima guerra mondiale con la Croce di ferro, e una bellissima ventenne che fucilarono, dietro sua richiesta, con la faccia rivolta verso il sole. Confronta la sentenza contro Reiter e altri, Mnchen 1,116 K.s. 1/67, pagine 10-14, 28-29.

Parte sesta L'ANTISEMITISMO ELIMINAZIONISTA: TEDESCHI COMUNI, VOLONTEROSI CARNEFICI "Di fantasie ci nutrimmo il cuore, e con simile dieta il nostro cuore ormai senza piet". William Butler Yeats, "Meditations in Time of Civil War", trad. di Roberto Sanesi, Milano, Mondadori, 1974 (1991). "Quando per anni, decenni, si predicato che la razza slava una razza inferiore, e che gli ebrei non sono nemmeno esseri umani, un'esplosione di questo tipo diventa l'esito inevitabile". Il generale S.S. Erich von Dem Bach-Zelewski durante i processi di Norimberga ai grandi criminali di guerra, a proposito del rapporto tra l'ideologia nazista e i delitti commessi dai tedeschi, compresi i massacri genocidi delle Einsatzgruppen in Unione Sovietica. "La morte un Mastro germanico". Paul Celan, Todesfuge, trad. di Giuseppe Bevilacqua, Poesie, Milano, Mondadori, 1997.

Capitolo 15 LA CONDOTTA DEI REALIZZATORI: INTERPRETAZIONI A CONFRONTO

Questo libro intende concentrare lo studio dell'Olocausto sui realizzatori e spiegarne le azioni. Cerca perci risposta a numerosi interrogativi, i pi importanti dei quali sono tre: i realizzatori dell'Olocausto uccisero di propria volont? Se cos fu, che cosa li indusse a uccidere e tormentare gli ebrei? E da che cosa fu prodotta quella motivazione? Questa ricerca iniziata con un'indagine sull'evoluzione dell'antisemitismo eliminazionista nella Germania moderna che ha dimostrato la persistenza di una diffusa e profonda animosit nei confronti degli ebrei che, a partire dall'eliminazionismo del primo Ottocento, ha assunto nel Novecento una dimensione ben pi micidiale.

L'analisi generale della politica antiebraica in Germania ha poi dimostrato che essa fu sempre espressione di un antisemitismo eliminazionista, e che la sua evoluzione coincise con quella delle possibilit reali di risolvere la "Judenfrage". Solo quando ebbero in proprio potere la maggioranza degli ebrei d'Europa, e grazie alla guerra sparirono i condizionamenti esterni, i tedeschi poterono finalmente mettere in pratica l'intenzione genocida gi da tempo decisa da Hitler; e cos fecero. Poi, dopo una rassegna generale della struttura paradigmatica dello sterminio, il campo, siamo entrati nel cuore fattuale di questo studio: l'analisi e la valutazione pi approfondite di tre tipi diversi di strutture della morte, che hanno offerto una cronaca dettagliata delle azioni dei realizzatori e ne hanno messo in luce il generale volontarismo, l'entusiasmo e la crudelt con cui svolsero i compiti assegnati, dai superiori o da loro stessi. Partendo dai risultati di questa indagine, ora possibile intraprendere un'analisi pi metodica e integrata dei realizzatori, collazionando quanto ci insegnano i casi particolari, sistematizzando il rendiconto delle azioni perpetrate e valutando in modo pi meditato le diverse interpretazioni dell'Olocausto, tanto quelle convenzionali nella letteratura quanto la mia. Qualunque ne sia l'esito, le conclusioni alle quali giunge questa analisi avranno rilevanti conseguenze sulla comprensione di quel periodo storico; di una di esse si fa cenno nell'Epilogo. Ognuna delle strutture della morte che ho scelto di studiare - i battaglioni di polizia, i campi di lavoro e le marce della morte costituisce a proprio modo un difficile terreno di verifica per la mia interpretazione e consente nel contempo di mettere in luce alcuni aspetti particolarmente importanti dell'Olocausto ai quali non stata dedicata sufficiente attenzione. La sequenza dei casi particolari conferma inoltre quanto si sosteneva nell'Introduzione a proposito delle quattro categorie generali che distinguono le azioni dei realizzatori dell'Olocausto. LE AZIONI DEI REALIZZATORI Crudelt organizzata e strutturata: S per ordini superiori; s per crudelt. Eccessi come la tortura: No per ordini superiori; s per crudelt. Stragi di massa e omicidi individuali: S per ordini superiori; no per crudelt. Atti di iniziativa personale come omicidi perpetrati per iniziativa del singolo realizzatore: No per ordini superiori; no per crudelt.

Ognuna di queste categorie corrisponde a un aspetto che era comune, tipico, addirittura regolarmente ricorrente del trattamento riservato agli ebrei. In primo luogo, nell'ucciderli i tedeschi prendevano sempre un'iniziativa personale, sia eseguendo con grande dedizione e creativit gli ordini ricevuti, sia incaricandosi spesso di uccidere anche quando non ne avevano l'ordine, o quando avrebbero potuto lasciarlo fare ad altri. L'iniziativa personale, l'omicidio non richiesto dagli ordini superiori, esige una spiegazione. In secondo luogo, le azioni intraprese per ordine diretto dei superiori categoria nella quale rientra la maggior parte dei contributi dei realizzatori al massacro degli ebrei - pretendono una spiegazione almeno quanto quelle commesse per iniziativa personale: questo studio, specie nella parte che riguarda i battaglioni di polizia, dimostra che, poich i tedeschi avevano la possibilit di esimersi dagli eccidi, l'idea di eseguire gli ordini costituisce un nodo psicologico e motivazionale pi complesso di quanto in genere non si riconosca. La terza e la quarta categoria di azione, che comprendono tipi diversi di crudelt, erano costanti pressoch immancabili nel trattamento degli ebrei. La terza, la crudelt per ordine superiore, poteva assumere due forme. In primo luogo, i tedeschi che avevano il potere decisionale ed esecutivo organizzavano le strutture destinate a contenere gli ebrei in modo da provocare sofferenze immense e oggettivamente superflue, ben oltre le condizioni di penuria materiale imposte dai tempi; nel caso dei campi di lavoro, la brutalizzazione degli ebrei era anche in assoluto contrasto con lo scopo ufficiale della struttura stessa. La seconda forma di crudelt delegata, altrettanto presente nella realizzazione dell'Olocausto, si dava quando gli ufficiali, o persino i sottufficiali, organizzavano squadre di uomini con l'incarico di torturare gli ebrei. Nel quarto tipo di azione si configurano le crudelt per iniziativa personale, una routine cos normalmente ricorrente nell'esistenza quotidiana, specie nelle strutture in cui il contatto diretto tra tedeschi ed ebrei era continuo, da poter essere considerate sul medesimo piano, per frequenza e rilevanza, degli stessi eccidi. La crudelt volontaria era la grammatica del linguaggio dei tedeschi nei campi di ogni ordine e grado, compresi quelli di lavoro, la cui forma pi colloquiale erano i pestaggi con l'immancabile ricorso a fruste e manganelli.

Cos un sopravvissuto al massacro di Jzefw, e ad anni di vita clandestina, riassume l'esperienza comune degli ebrei: I tedeschi arrivavano sempre con le fruste e con i cani (1). Questa crudelt, va sottolineato, non aveva alcuno scopo utilitaristico se non la sofferenza che gli aguzzini infliggevano e la soddisfazione che ne traevano. Spesso i tedeschi le attribuivano forme simboliche, da quelle fisicamente innocue degli scherni e delle rasature alla lancinante atrocit dei pestaggi di ebrei selezionati per le loro barbe fluenti, o dei roghi in massa nelle sinagoghe. Anche queste manifestazioni di crudelt, che esprimevano una valenza simbolica comprensibile a tutti, richiedono una spiegazione. La documentazione non ci consente, ovvio, di conoscere le azioni di ciascuno dei realizzatori, ma alcune considerazioni sono comunque possibili. Ognuno di loro contribu, per definizione, al programma di sterminio, e pochissimi si fecero esentare da quel compito, anche quando le strutture cui appartenevano offrirono loro la scelta. Laddove il contatto con gli ebrei era diretto, dove cio esisteva la possibilit di un comportamento brutale, la crudelt dei tedeschi fu pressoch universale; e questo vale per i campi in generale, che fossero di concentramento, di lavoro o ghetti. Le abbondanti testimonianze dei sopravvissuti non lasciano dubbi in proposito, confermate come sono dalle ammissioni degli stessi realizzatori. Si trattava di una crudelt quasi sempre del tutto volontaria, che veniva inflitta agli ebrei per iniziativa personale. Infine, gli eccidi furono quasi sempre effettuati con grande zelo e dedizione, in assenza dei quali il genocidio non sarebbe potuto procedere tanto speditamente. Con l'eccezione quindi di chi ebbe poche o nessuna possibilit di brutalizzare gli ebrei (perch non era in contatto diretto con loro), tutti, o quantomeno la stragrande maggioranza dei realizzatori, commisero le diverse azioni di cui stiamo dicendo. Ci sono numerosi altri fattori di cui occorre tener conto per spiegarsi le azioni comprese in queste quattro categorie. L'orrore degli eccidi, specie di quelli eseguiti direttamente dai battaglioni di polizia con le armi da fuoco, avrebbe dovuto costituire per molti uomini un forte incentivo a chiedere di esserne esentati. Anche quando non venivano insozzati dal sangue e dalla materia cerebrale delle vittime, le grida di dolore e di angoscia infinita degli ebrei

avrebbero dovuto indurre i tedeschi a rifiutarsi di infliggere loro ulteriori tormenti. Pare invece che l'orrore affatto straordinario della campagna di sterminio, la realt fenomenologica dei realizzatori, dissuadesse ben pochi di loro dal trattare gli ebrei nel modo abituale per i tedeschi in quegli anni. In alcune strutture pi che in altre, e in determinate circostanze nell'ambito di una data struttura, i profili dei ruoli - cio i margini di autonomia degli agenti nel decidere le proprie azioni erano piuttosto elastici, quasi permissivi. In altri termini, i tedeschi ebbero parecchie possibilit, talvolta assai fondate, di tirarsi fuori, sia dalle strutture della morte sia da certe attivit nell'ambito di quelle strutture; ma se ne avvalsero di rado. E avevano anche una voce, se non altro per esprimere le loro eventuali insoddisfazioni, ai superiori, ma soprattutto ai camerati. Le testimonianze non interessate di tale dissenso sono rare, quasi inesistenti. L'analisi delle azioni dei realizzatori non pu dunque prescindere dal fatto che essi rifiutarono di tirarsene fuori, e di esprimere qualsiasi dissenso. Non irrilevante nemmeno l'aspetto non omicida delle loro azioni, per certi versi del tutto straordinario. Organizzavano festose celebrazioni, portavano le mogli a vederli massacrare migliaia di ebrei, tenevano a conservare la memoria delle loro imprese genocide nelle fotografie che scattavano e per le quali posavano con evidente fierezza, esibendole e scambiandole con i camerati, per non dire delle vanterie che si comunicavano sulle crudelt commesse: tutto questo fornisce indicazioni sulla motivazione degli assassini e attribuisce a quel genocidio alcuni dei suoi tratti distintivi. Tutto questo esige una spiegazione. Le interpretazioni convenzionali non reggono il confronto con i dati raccolti da questo studio, con la documentazione relativa ai casi qui presentati: sono smentite, in modo lampante e irrefutabile, dalle azioni dei realizzatori. Occorre demolire punto per punto l'idea che essi contribuissero al genocidio perch costretti a farlo, per acritica obbedienza agli ordini dello stato, per le pressioni sociali che subivano, per favorire la propria promozione personale, perch non comprendevano ci che facevano e la presunta frammentazione delle operazioni faceva s che non se ne sentissero responsabili. Le interpretazioni convenzionali non bastano a spiegare le attivit omicide dei realizzatori, che sono in genere, va sottolineato, "l'unico tipo di

azione al quale esse si rivolgono"; gli altri tipi di attivit che abbiamo sin qui individuato e descritto, e in particolare la crudelt endemica, vengono praticamente ignorati. Basta uno sguardo superficiale per cogliere la loro inadeguatezza. E non si tratta soltanto di carenze fattuali: esse condividono anche una serie di errori concettuali e teorici. Ogni spiegazione fondata sull'idea che i realizzatori agissero per costrizione esterna, o persino per l'errato presupposto di non avere alternative, va subito scartata. Si detto, a proposito dei battaglioni di polizia, della documentata possibilit che avevano di rifiutarsi di uccidere. Pi in generale, si pu sostenere con certezza che mai una volta nella storia dell'Olocausto un tedesco fu giustiziato, internato in campo di concentramento, incarcerato o sottoposto ad altra grave punizione per essersi rifiutato di uccidere gli ebrei. Come possiamo esserne certi? (2). Tenuto conto delle incessanti, trite dichiarazioni degli imputati nei processi del dopoguerra, secondo cui quel rifiuto avrebbe avuto pesanti conseguenze, di per s significativo il fatto che le indagini giudiziarie su diverse migliaia di tedeschi abbiano prodotto soltanto 14 casi in cui si sosteneva che la punizione prevista per chi rifiutava di eseguire un ordine di esecuzione (e non soltanto di ebrei) era la morte (9 casi), l'internamento in un campo (4 casi), o il trasferimento a un reparto di punizione (un caso); nemmeno questi, peraltro, ressero alla prova delle indagini. Due vasti studi sulla possibilit di non obbedire agli ordini di esecuzione hanno entrambi dimostrato la falsit di quelle dichiarazioni (3); uno di essi conclude senza esitazioni che in nessun caso stato possibile dimostrare che il rifiuto di uccidere comportasse un pericolo di morte, o di altra grave punizione (4). Dai documenti dei tribunali delle S.S. e della polizia non risulta che nessuno venisse mai condannato a morte o al campo di concentramento per essersi rifiutato di uccidere gli ebrei: Himmler confermava personalmente le sentenze di morte per gli uomini delle S.S., il che esclude qualsiasi possibilit di esecuzioni sommarie. Ma soprattutto, nessuno mai riuscito a produrre un solo caso verificato di condanna a morte o all'internamento dovuta al rifiuto di un ordine di esecuzione, nonostante l'enorme impegno dedicato alla ricerca (a Norimberga la difesa fu autorizzata a entrare nei campi in cui erano detenute le S.S. per raccogliere testimonianze) e il forte incentivo che induceva ognuno dei realizzatori a tentare di dimostrarlo: da tutto questo

possiamo concludere soltanto che estremamente improbabile che anche un solo uomo delle S.S. abbia subto punizioni di quella portata per aver rifiutato di uccidere gli ebrei (5). Anzi, una ricca documentazione giustifica con forza la conclusione opposta. Incapaci di fornire al tribunale una sola prova a conferma di quanto sostenevano, molti assassini ripiegavano su una versione secondo la quale, indipendentemente da come stavano davvero le cose, essi avevano creduto in buona fede che il rifiuto di eseguire un ordine di esecuzione sarebbe stato suicida, e si erano comportati in conformit di questa convinzione; non era colpa loro, se li avevano male informati (6). Anche questa versione falsa, perch molti carnefici tedeschi sapevano bene di non essere costretti a uccidere, e che esisteva la possibilit di farsi trasferire dai reparti addetti agli eccidi. Su questo ci siamo gi soffermati a proposito del 101 e degli altri battaglioni di polizia: gli uomini di almeno nove di quei battaglioni non possiamo dire tutti solo perch mancano informazioni in proposito sapevano di non essere costretti a uccidere. Esistono indicazioni analoghe per l'altra grande struttura mobile della morte, le "Einsatzgruppen", per i campi di concentramento e per tutti gli altri settori del sistema dello sterminio (7). Un ordine scritto di Himmler autorizzava gli uomini delle "Einsatzgruppen" che ne avessero fatto richiesta a essere trasferiti ad altro incarico in patria, come si espresse un membro dell'"Einsatzgruppe" A (8); l'ordine era stato emesso a seguito dei problemi sorti in alcuni reparti nelle fasi iniziali del massacro. E' documentata l'esistenza di ordini analoghi anche per le unit di polizia, e dunque l'informazione sulla possibilit di rifiutarsi di uccidere era diffusa oltre l'ambito dei nove battaglioni per i quali disponiamo di prove concrete. Un membro del Battaglione di Polizia 67 dichiara che ci veniva ripetutamente comunicato, a mio avviso almeno una volta al mese, che per ordine di Himmler nessuno poteva imporci di sparare a nessuno (9). E' evidente che Himmler, gli ufficiali delle "Einsatzgruppen" e molti comandanti della polizia erano convinti che si dovesse chiedere di ammazzare gli ebrei solo a chi fosse veramente votato a quel compito (10). I casi di tedeschi che riuscirono a ottenere il trasferimento dalle strutture della morte sono peraltro numerosi; lo abbiamo gi documentato per i battaglioni di polizia, ma avveniva anche nelle "Einsatzgruppen". Il comandante dell'"Einsatzgruppe" D, l'allora colonnello delle S.S. Otto Ohlendorf, dichiar durante il processo di Norimberga: Ebbi sufficienti

occasioni per verificare che molti uomini del mio gruppo non erano d'accordo, nel loro intimo, con quell'ordine. Proibii quindi ad alcuni di questi uomini di prendere parte alle esecuzioni, e ne rimandai qualcuno in Germania (11). Un tenente, aiutante nell'"Einsatzgruppe" D, conferma che quei trasferimenti erano frequenti e che i carnefici sapevano della possibilit perch l'ufficiale comandante in persona annunci al gruppo che certi particolari individui non erano adatti a eseguire quei compiti, e dunque andavano trasferiti (12). Lo stesso avveniva nell'"Einsatzgruppe" C il cui comandante, il generale delle S.S. Max Thomas, aveva stabilito esplicitamente che chiunque non riuscisse a indursi a uccidere gli ebrei, per motivi di coscienza o per debolezza di carattere, sarebbe dovuto ritornare in Germania o essere assegnato ad altro incarico. Risulta effettivamente che Thomas rimand in patria parecchi dei suoi (13). Che nessun tedesco venisse giustiziato o incarcerato per aver rifiutato di uccidere gli ebrei documentato in modo irrefutabile. Altrettanto incontestabile che gli assassini fossero "diffusamente informati" della possibilit di non uccidere se preferivano non farlo, come dimostra quanto si detto dei battaglioni di polizia, e quanto si sa sulle "Einsatzgruppen" e le altre strutture della morte. I tribunali della Repubblica federale di Germania hanno coerentemente e giustamente contestato la buona fede dei realizzatori quando dichiarano di aver creduto che non ci fossero alternative, non soltanto perch gli assassini sapevano di non essere costretti a uccidere, ma anche perch chiunque si opponesse agli eccidi poteva ricorrere alle procedure ordinarie, minime rivolgersi a un superiore, chiedere il trasferimento - senza alcun rischio personale. I documenti indicano che quasi mai i realizzatori si avvalsero di quelle procedure. Poich gli assassini, o quantomeno un gran numero di loro, avrebbero potuto non uccidere, ogni spiegazione che non contempli questa possibilit di scelta deve quindi essere cassata. I tedeschi avrebbero potuto dire no al massacro; scelsero invece di dire s. Un secondo indirizzo interpretativo convenzionale parte dall'idea che gli uomini in generale, e i tedeschi in particolare, abbiano una forte o addirittura irresistibile propensione a obbedire agli ordini, indipendentemente dal loro contenuto.

In questa prospettiva i realizzatori furono i servitori ciechi e inflessibili dell'autorit, che agivano spinti da un imperativo morale e psicologico all'obbedienza. Esplicita o implicita, elaborata o seminconsapevole, una certa concezione dell'obbedienza ha un ruolo determinante in molte interpretazioni dell'Olocausto e dei suoi realizzatori. A proposito della Germania nazista e delle sue atrocit, si sostiene spesso, in modo a volte automatico, quasi si trattasse di un assioma, che i tedeschi sono particolarmente rispettosi dell'autorit dello stato. Si tratta di una tesi insostenibile. I tedeschi che sarebbero stati servilmente votati al culto dello stato e dell'obbedienza per l'obbedienza erano gli stessi tedeschi che avevano combattuto per le strade di Weimar contro l'autorit del governo di allora, spesso con l'obiettivo di rovesciarlo (14). Non quindi possibile sostenere che i nazisti, o i tedeschi in genere, considerassero qualsiasi ordine dello stato come un sacro comandamento al quale attenersi senza condizioni, indipendentemente dal suo contenuto. E' questa la conclusione ovvia, non il suo contrario, quando consideriamo i milioni di tedeschi apertamente ribelli all'autorit di Weimar. L'ordine legale e l'autorit statale della Repubblica di Weimar furono disprezzati, apertamente dileggiati e sistematicamente violati da un numero enorme di tedeschi, che coprivano l'intero spettro politico, dai cittadini comuni ai funzionari pubblici. E' il rispetto condizionato dei tedeschi per l'autorit che dovremmo dare per scontato. I tedeschi non sono caricature: come altri popoli, rispettano l'autorit e i suoi ordini quando li considerano legittimi; anche loro tengono conto della provenienza e del significato di un ordine, prima di decidere se e come eseguirlo. Un ordine che viola le norme morali vigenti - specie se sono quelle fondamentali - pu anzi contribuire in modo determinante a minare la legittimit del regime che lo emana; e cos sarebbe stato per l'ordine di massacrare una comunit dopo l'altra, decine di migliaia di uomini, donne e bambini indifesi, agli occhi di chiunque considerasse ingiusta la morte delle vittime. I tedeschi di ogni ordine e grado, anche i pi profondamente influenzati dal nazismo, disobbedirono agli ordini che non approvavano, che consideravano illegittimi. I generali che parteciparono di propria volont allo sterminio degli ebrei in Unione Sovietica cospirarono contro Hitler (15).

Soldati dell'esercito parteciparono di propria iniziativa agli eccidi di ebrei senza averne l'ordine, o anche contravvenendo all'ordine di tenersi a distanza dai massacri (16). A volte l'insubordinazione fu dovuta proprio all'impulso irrefrenabile di ammazzare gli ebrei: gli uomini del Battaglione di Polizia 101 contravvennero all'ingiunzione del loro comandante, il loro beneamato comandante, di non comportarsi con crudelt. Come si riferito all'inizio di questo libro, uno degli ufficiali del battaglione, uno zelante carnefice di ebrei, il capitano Wolfgang Hoffmann, mise per iscritto il suo energico rifiuto di obbedire a un ordine dei superiori che considerava moralmente criticabile: l'uomo che guidava la sua compagnia nel continuo e raccapricciante massacro genocida degli ebrei rifiutava di chiedere loro la firma di una dichiarazione che dava per implicita la possibilit che derubassero i polacchi, in quanto firmare significava ammettere come concepibile una tale violazione dell'onore di un soldato tedesco (17). Da sola, quella lettera ci fornisce pi informazioni sulla forma mentale genocida dei tedeschi, e sulla loro capacit di prendere decisioni di carattere morale, che non intere pile di verbali delle interessate deposizioni rese dopo la guerra dai realizzatori. I tedeschi che trascinarono quelle ebree smunte e malate nella marcia da Helmbrechts sono un altro significativo esempio di attiva insubordinazione a un ordine che disapprovavano: continuarono a ucciderle nonostante l'esplicita disposizione di Himmler, annunciata da una sua staffetta personale, di sospendere gli eccidi. Molti altri episodi di disobbedienza all'autorit si verificarono nel periodo nazista, nelle istituzioni militari e di polizia come nella societ civile - i frequenti scioperi, le vivaci proteste contro la politica religiosa del governo, la diffusa e dichiarata opposizione al programma cosiddetto di eutanasia. Quanto pi a fondo si procede nello studio delle azioni concrete dei tedeschi, comprese quelle compiute dai realizzatori dell'Olocausto, tanto pi appare fantasiosa la loro presunta propensione all'obbedienza cieca, e tanto pi evidente risulta che si tratta di un alibi morale, da denunciare e invalidare in quanto tale (18). Sostenere che i tedeschi obbediscono immancabilmente agli ordini - che cio rispondono come automi a qualsiasi ordine, indifferenti al suo contenuto - inammissibile. E lo anche, per estensione, la pretesa di Stanley Milgram e di molti altri che gli esseri umani obbediscano ciecamente all'autorit (19): ogni forma di obbedienza, ogni delitto commesso in suo nome (considerando soltanto le

situazioni in cui non viene applicata n minacciata la coercizione), dipendono dalla presenza di un contesto sociale e politico favorevole, in cui chi agisce considera legittima l'autorit che emette gli ordini e ritiene che gli ordini stessi non costituiscano una grave trasgressione ai valori pi sacri e all'ordine morale generale (20). In caso contrario, la gente cerca sempre - con maggiore o minor successo - il modo di non violare le proprie convinzioni morali pi profonde e di non intraprendere quelle azioni. La terza interpretazione convenzionale vuole che i realizzatori venissero indotti a partecipare al massacro dalla pressione sociopsicologica esercitata dal contesto e dai loro pari (21). E' vero che vi furono pressioni a conformarsi, per esempio nel caso delle guardie dei campi di lavoro e di concentramento che picchiavano o fingevano di picchiare gli ebrei soltanto in presenza di altri tedeschi. Nonostante la sua esplicita disapprovazione, anche il tenente Bachmann del Battaglione di Polizia 101 sub a quanto pare pressioni sufficienti a indurlo a prender parte a un eccidio. La stragrande maggioranza dei dati a nostra disposizione indica comunque che tale pressione esercitata dalle istituzioni e dai pari grado non fu decisiva nell'indurre i realizzatori al massacro, e non avrebbe mai potuto costituire il principale pilastro motivazionale del genocidio. L'idea che il desiderio di non deludere i propri camerati, o di non incorrere nella loro censura, possa indurre un individuo a compiere azioni che non approva o che persino aborrisce plausibile anche nel caso dei realizzatori tedeschi, ma solo per spiegare la partecipazione, appunto, di "un individuo" alla realizzazione dell'Olocausto. Non pu valere per pi di poche persone all'interno di un gruppo, specie quando si tratta di periodi di tempo prolungati; se una parte consistente del gruppo, per non dire la grande maggioranza, contraria a una data azione o la aborrisce, la pressione sociopsicologica tende non a incoraggiare, ma a "dissuadere" gli individui dall'intraprenderla. Se davvero i tedeschi avessero disapprovato il massacro, le insistenze dei pari grado non avrebbero indotto i singoli a uccidere contro la propria volont, bens avrebbero confermato la risoluzione individuale e collettiva a evitarlo (22). La pressione sociopsicologica alla conformit pu spiegare al massimo, e con ogni probabilit correttamente, le azioni di una piccola minoranza dei realizzatori; l'idea diventa autocontraddittoria se applicata al comportamento di un intero gruppo di tedeschi (23), il che limita gravemente la sua potenzialit interpretativa.

Le argomentazioni psicologiche, affini nel secondo e nel terzo indirizzo convenzionale - i tedeschi in particolare e gli uomini in generale tenderebbero a obbedire agli ordini, e la pressione sociopsicologica basterebbe per indurli a uccidere -, sono insostenibili. Come dimostra, in parte, la scelta di alcuni di esimersi dal genocidio, i tedeschi erano effettivamente "capaci" di dire no. La quarta interpretazione convenzionale vuole che i realizzatori, come tutti i piccoli burocrati, badassero ai propri interessi personali (fare carriera, o arricchirsi) nell'assoluta indifferenza per qualsiasi altra considerazione. Questa ipotesi stata avanzata per spiegare il comportamento di persone in posizioni di responsabilit all'interno di istituti coinvolti nell'elaborazione e nella realizzazione della politica antiebraica; ma anche nell'ipotesi (estremamente remota) che potesse motivare le azioni di questi realizzatori particolari, del tutto insostenibile quando si tratta di quelle dei fantaccini nella guerra contro gli ebrei. Gli uomini dei battaglioni di polizia, cos come tanti altri realizzatori, non avevano per lo pi interessi burocratici o di carriera da favorire con il proprio comportamento; non sgomitavano per ottenere promozioni, che non avrebbero avuto valore, perch erano coscritti anziani che presto sarebbero ritornati alle loro vite medio e piccoloborghesi, od operaie. Non erano molti nemmeno quelli che miravano ad arricchirsi, e ancor meno quelli che sappiamo vi riuscirono (24). Come motivazione al massacro, l'idea dell'interesse contraddice persino i dati di fatto pi elementari (25). Con qualche eccezione, i realizzatori non avevano incentivi di carriera, o comunque materiali, per continuare a uccidere, per non voler dire no al genocidio. La quinta spiegazione convenzionale presuppone che i compiti dei realizzatori fossero a tal punto parcellizzati da impedire la comprensione del significato reale delle azioni individuali, o altrimenti, se lo comprendevano, da far s che potessero scaricarne la responsabilit su altri. Come spiegazione generale del comportamento dei realizzatori - i tedeschi, per esempio, che uccidevano sparando a bruciapelo, dopo essere stati esplicitamente informati dell'ordine di annientamento totale del popolo ebraico - il ragionamento del tutto inconsistente. E' inconsistente anche come motivazione del comportamento dei cosiddetti assassini da tavolino, per i quali viene spesso proposto, senza alcun riscontro documentario. Poich risulta evidente che decine di migliaia di tedeschi erano disposti ad ammazzare gli ebrei sapendo fin troppo bene quel che facevano, non c'

alcun bisogno di architettare l'alibi (empiricamente insostenibile) dell'incomprensione per spiegarsi per quale motivo qualcuno di loro non fosse del tutto consapevole di quel che stava facendo, o non si rendesse conto di dover dire no. Erano quasi tutti perfettamente informati, e non c' alcun motivo per ritenere che chi non lo fosse avrebbe agito in modo diverso se lo fosse stato. Nessuna delle cinque interpretazioni convenzionali in grado di spiegare nemmeno gli eccidi di ebrei per ordine dei superiori, ed questa la categoria d'azione per la quale - tralasciando le loro abissali carenze anche in questo campo - esse riescono a presentare una certa plausibilit di superficie; nei confronti delle altre categorie, perdono anche questa parvenza di credibilit. E infatti quasi tutti i loro sostenitori non affrontano in modo diretto, esplicito o sistematico altre forme di azione dei realizzatori che non siano appunto gli omicidi per ordine dei superiori. Lo spirito d'iniziativa regolarmente manifestato dai realizzatori nel maltrattare e uccidere gli ebrei, lo zelo tipico dei tedeschi impegnati nella loro missione di vendetta e sterminio contro l'ebraismo in Europa non trovano spiegazione nelle interpretazioni convenzionali. Ognuna dichiara o presuppone che in linea di principio essi si opponessero (o si sarebbero opposti, si presume, se non fossero stati ridotti all'indifferenza, ottenebrati dalle circostanze istituzionali) al massacro degli ebrei, al programma genocida. Raul Hilberg, tra i portabandiera di questa linea di pensiero, si domanda: Come riusc la burocrazia tedesca a superare i propri scrupoli morali? (26) presupponendo che naturalmente la burocrazia tedesca avesse scrupoli morali riguardo gli ebrei che dovette faticosamente superare per procedere con la persecuzione. Hilberg e gli altri sostenitori di queste interpretazioni propongono una serie di motivi che avrebbero indotto al superamento di una presunta opposizione (o che avrebbero prodotto l'indifferenza), spingendo i tedeschi ad agire contro i propri desideri pi profondi, a uccidere gli ebrei. In questo genere di spiegazioni non possono rientrare per i tedeschi che prendevano l'iniziativa, che facevano pi del dovuto, che si offrivano volontari per le esecuzioni quando nessuno l'aveva richiesto - ed era la norma - n i casi in cui gli ebrei furono uccisi in violazione di un ordine esplicito. In questo genere di spiegazione non pu rientrare soprattutto la generale, quasi incredibile, linearit che caratterizz l'esecuzione di un programma di cos vasta portata, che coinvolse un cos gran numero di persone.

Persone che, con il sabotaggio o con la negligenza, avrebbero potuto provocare intoppi e disordini a non finire (27). L'iniziativa nell'uccidere e la devozione alla missione nazista trovano corrispondenza, quando non ne vengono superate, nella crudelt inflitta alle vittime, la crudelt costante e onnipresente che contraddistinse il trattamento degli ebrei, specie nei campi e nei ghetti. Una crudelt che i tedeschi esprimevano non soltanto internandoli in orrendi reclusori studiati per causare dolore e sofferenza, e poi uccidendoli nei modi pi raccapriccianti, ma anche con il comportamento personale, diretto e immediato. Con le fruste e i manganelli, attributi immancabili, con le mani nude, con gli stivali, i tedeschi bastonavano gli ebrei, li dilaniavano, li calpestavano, li costringevano ad atti assurdi e umilianti. E' emblematica la scena dell'uomo del Battaglione di Polizia 309 a Bialystok, che urin addosso a un ebreo davanti a tutti: per quel tedesco, un uomo comune, gli ebrei erano escrementi che andavano trattati come tali. Uno dei medici tedeschi di Auschwitz, Heinz Thilo, defin il campo anus mundi (28), l'orifizio attraverso il quale i tedeschi evacuavano il presunto escremento sociobiologico dell'umanit: gli ebrei. La crudelt ha un cuore umano: il primo verso di una delle grandi poesie di William Blake (29). Nella storia dell'uomo la crudelt di massa, organizzata e legittimata, una costante: mercanti e proprietari di schiavi, regimi tirannici, predatori coloniali, inquisitori ecclesiastici e poliziotti ricorrono da sempre alla tortura e alla repressione per conservare e aumentare il proprio potere, e per estorcere confessioni. Ma nei lunghi annali della barbarie umana le atrocit inflitte dai tedeschi agli ebrei nel periodo nazista risaltano per portata, variet, inventiva e, soprattutto, arbitrariet. Nel suo magistrale "Slavery and Social Death" Orlando Patterson analizza approfonditamente 58 societ schiaviste, rilevando che nell'80 per cento dei casi la maggioranza dei padroni trattava bene gli schiavi, e solo nel 20 per cento circa male o con brutalit. Patterson osserva inoltre che, pur non esistendo nel 29 per cento di quelle societ alcuna restrizione giuridica in proposito, il trattamento degli schiavi era comunque buono (30). Anche nella minoranza di societ in cui i padroni si comportavano in modo brutale, di rado vi fu una crudelt costante, sconfinata, diversificata e puntigliosamente programmata quanto quella che vigeva nei campi e nei ghetti.

L'universo di tormento e di morte in cui i tedeschi precipitarono gli ebrei trova approssimativo riscontro solo nelle immagini dell'inferno elaborate dal pensiero religioso o dall'arte di Dante e Hieronymus Bosch. A confronto con ci che vedeva ad Auschwitz, scriveva un medico tedesco del campo, Johann Paul Kremer, l'"Inferno" di Dante mi pareva quasi una commedia (31). Per i padroni tedeschi l'ebreo non era uno schiavo da frustare di tanto in tanto per costringerlo a lavorare ai limiti delle possibilit fisiche, il cui corpo per, essendo un bene di valore, andava conservato in buone condizioni; non era un sovversivo politico, da torturare per estorcergli i segreti del suo mondo clandestino; non era un sospetto eretico da mettere alla corda per costringerlo a confessare le sue convinzioni devianti. Bastava la vista di un ebreo, il solo fatto della sua esistenza, per scatenare nei padroni tedeschi l'impulso alla violenza. La crudelt volontaria, i pestaggi come pane quotidiano degli ebrei nei campi, i giochi a loro spese, le vessazioni simboliche erano componenti tipiche e strutturali del comportamento dei tedeschi. Spesso li usavano come trastulli costringendoli, come animali da circo, a esibirsi in pagliacciate, umilianti per loro quanto divertenti per i tormentatori. Parafrasando Re Lear, gli ebrei avrebbero potuto dire siam come mosche nelle mani di un monello, / ci uccide e ci tortura per diletto. In Polonia i tedeschi cominciarono a divertirsi fin dal loro arrivo, nel 1939. Racconta un ebreo sopravvissuto: "La vita divenne subito impossibile. I pestaggi erano la norma. Devastavano e saccheggiavano. Razziavano i villaggi vicini, e dopo ogni scorreria i muri erano coperti dalle famigerate liste grigie delle esecuzioni. Incitavano la feccia polacca a saccheggiare le case degli ebrei. Ci radunavano per ogni sorta di spettacoli sadici, e ci avvisavano che sarebbero rimasti l per un anno intero, durante il quale non avremmo avuto un minuto di pace: sicuramente la previsione pi grossolanamente errata per difetto di tutta la guerra" (32). Era di regola una brutalit volontaria, motivata soltanto dalle passioni individuali.

Tra i tedeschi che controllavano direttamente gli abitanti ebrei dell'impero della tortura e della morte, la crudelt aveva valore normativo e pressoch universale. La minoranza che nel suo intimo se ne sarebbe astenuta si sentiva costretta a fingersi brutale per conformarsi all'etica dominante. Gli ebrei sopravvissuti riferiscono di qualcuno che li picchiava solo quando era osservato, e lo faceva in modo da infliggere il minimo di danno e di sofferenza; un'eloquente dimostrazione del fatto che anche gli altri si sarebbero potuti comportare allo stesso modo, e invece scelsero di brutalizzare gli ebrei, quando erano osservati e quando non lo erano. Chaim Kaplan, lo straordinario diarista del ghetto di Varsavia, si prese cura di registrare i pochi casi in cui, tra i tanti tedeschi nelle diverse strutture che egli ebbe modo di osservare o di cui sent parlare, qualcuno si discost dalla norma della crudelt. Ci fu un caposquadra che, ben sapendo che se non avesse dichiarato esplicitamente la propria umanit gli ebrei, sulla scorta della vasta esperienza di dolore che avevano accumulato, lo avrebbero considerato uguale agli altri bruti, si premur di comunicare a un amico di Kaplan: Non abbiate paura di me. Io non sono toccato dall'odio per gli ebrei. Kaplan racconta un altro episodio, di un gruppo di soldati tedeschi che chiese cortesemente di poter prender parte a una competizione sportiva organizzata dagli ebrei; un atteggiamento amichevole che li lasci allibiti: Fu un miracolo (33). Qualsiasi descrizione della vita nei campi e nei ghetti dimostra quanto fossero rari i tedeschi che si comportavano in modo umano. Scrive Erich Goldhagen: I "tedeschi buoni", cos venivano chiamati, apparivano come solitarie isole di sobriet nel mezzo di un macabro e orgiastico carnevale; il loro semplice comportamento da gente per bene risultava raro e portentoso come in tempi normali la condotta dei santi. Gli ebrei narravano le imprese di quegli individui come si narrano le vite dei santi, con soggezione e meraviglia, e intorno ai loro nomi nascevano leggende (34). Non certo possibile pensare che i tedeschi le cui azioni facevano apparire come un miracolo i pochi esempi di comportamento umano, cio la stragrande maggioranza dei realizzatori, condannassero l'obiettivo ultimo della soluzione finale, al quale la loro crudelt offriva un significativo contributo. Quella crudelt di regola gratuita e priva di scopi pragmatici o strumentali se non la soddisfazione e il piacere di chi le dava sfogo (35) - invalida

qualsiasi interpretazione fondata sull'idea che essi disapprovassero le proprie azioni. Le atrocit commesse per ordine dei superiori - sia quelle sistematiche, strutturate, presenti in ogni fibra della vita nei campi, sia quelle improvvisate, organizzate al momento - forniscono indicazioni sul modo di pensare dei realizzatori. La crudelt dimostrava loro, e a un numero enorme di altri tedeschi che ne erano al corrente, che l'impresa in cui erano impegnati non poteva essere in alcun modo legittima - come pu apparire legittima l'esecuzione, anche in massa, dei propri nemici mortali - se non in qualche senso del tutto perverso. Dimostrava loro che il modo in cui la Germania trattava gli ebrei non poteva essere considerato morale in alcun senso tradizionale del termine, e certamente non nella sua accezione cristiana. Solo nel nuovo quadro morale della Germania nazista potevano convincersi che si trattava di un comportamento giusto. La crudelt come sistema smentiva inoltre le deboli e palesemente inadeguate giustificazioni del massacro degli ebrei che furono talvolta proposte all'epoca, e che da allora sono state ripetute in modo acritico dai realizzatori stessi e da alcuni studiosi. Smentisce quanto dichiararono dopo la guerra, di essere stati costretti a eseguire gli ordini perch gli ordini vanno eseguiti per definizione, o perch non erano in grado di valutarne la moralit e la legittimit. La crudelt come sistema dimostrava a tutti i tedeschi che i loro compatrioti trattavano cos gli ebrei non per necessit militare, n perch i civili in Germania morivano sotto i bombardamenti aerei (la pratica della crudelt, come buona parte del massacro genocida, inizi prima dei bombardamenti a tappeto), n per i motivi che inducono tradizionalmente a uccidere un nemico, bens per un insieme di idee la cui definizione degli ebrei imponeva loro un giusto castigo, un insieme di idee che comportava l'odio forse pi profondo che mai un popolo abbia nutrito nei confronti di un altro. Un'interpretazione del comportamento dei realizzatori deve poter trovare riscontro nei dati empirici, cio nelle quattro categorie di azioni di cui abbiamo dimostrato la tipicit. Nessuna interpretazione convenzionale in grado di spiegare perch i tedeschi non approfittassero delle occasioni di cui pure disponevano per evitare di uccidere o per alleviare le sofferenze degli ebrei.

Nessuna in grado di spiegare perch quasi tutti facessero invece il contrario, infliggendo inutili crudelt e svolgendo il loro micidiale compito con zelo, e molti con evidente compiacimento. Ogni interpretazione deve inoltre tener conto di una serie di requisiti concettuali, teorici e comparativi: un'altra dimensione assente in quelle convenzionali. Poich ognuna di queste interpretazioni presuppone, in modo pi o meno esplicito, taluni tratti universali nell'uomo, esse dovrebbero risultare valide per chiunque si fosse trovato nei panni dei realizzatori. Il che palesemente, e dimostrabilmente, falso. Le diversit nel trattamento riservato alle vittime dipesero in larga misura dall'identit e dall'atteggiamento di chi le sorvegliava. Un buon esempio ci viene dalla sostituzione del personale di guardia nei campi istituiti per gli ebrei dal ministero degli Interni slovacco: I campi erano sorvegliati dalle guardie Hlinka, ma il loro atteggiamento ostile verso gli internati indusse gli ebrei a supplicare le autorit slovacche perch venissero sostituite. Per questo la guardia Hlinka fu rimpiazzata da gendarmi slovacchi, e la situazione nei campi miglior (36). Le guardie vennero sostituite proprio perch l'odio per gli ebrei condizionava a tal punto le loro azioni che per migliorare le condizioni nei campi era pi conveniente rimpiazzarle con guardie meno ostili che non indurre degli antisemiti arrabbiati a un comportamento pi umano. Non tenendo conto dell'identit dei realizzatori, le interpretazioni convenzionali sostengono inoltre, per implicazione, che se per caso a ordinare il genocidio fosse stato, a titolo d'esempio, il governo italiano, gli italiani comuni - per una presunta soggezione universale all'autorit, o per la forza irresistibile delle pressioni esterne, o per un'altrettanto presunta tendenza a curarsi solo dei propri interessi personali - avrebbero massacrato e brutalizzato uomini, donne e bambini ebrei pi o meno alla stessa stregua dei tedeschi. E' una pura fantasia, smentita dai fatti storici: la maggioranza degli italiani, persino i militari, non obbed agli ordini di Mussolini sulla deportazione degli ebrei in Germania, dove sapevano che i tedeschi li avrebbero uccisi (37). Poich fuor di dubbio che non tutti i popoli agirono, o avrebbero agito, allo stesso modo dei tedeschi trovandosi nelle medesime situazioni strutturali - come guardie nei campi o come esecutori di altri ordini genocidi - non possibile che quelle azioni fossero ispirate da fattori psicologici e sociopsicologici di carattere universale.

Quali erano dunque, alla met del secolo ventesimo, le particolarit dei tedeschi (38) - della politica, della societ e della cultura in Germania - che li indussero a fare ci che non vollero fare gli italiani? Un altro problema concettuale, ancor pi grave, che inficia le interpretazioni convenzionali che, oltre a ignorare l'identit dei realizzatori, esse non tengono conto nemmeno di quella "delle vittime". Proviamo a fare qualche ipotesi. I tedeschi avrebbero eseguito l'ordine di eliminare l'intero popolo danese, i loro cugini nordici, come fecero con gli ebrei? Avrebbero sterminato, fino all'ultimo uomo, tutta la popolazione di Monaco? Se Hitler l'avesse ordinato, avrebbero ucciso le proprie stesse famiglie? Ammettere che i tanti tedeschi che contribuirono alla persecuzione e al massacro degli ebrei non avrebbero eseguito ordini del genere - e non riesco a immaginare quale storico tedesco, e in generale quale contemporaneo onesto, potrebbe essere disposto ad affermare il contrario - significa riconoscere che "la concezione che avevano delle vittime" fu per i realizzatori un fattore fondamentale nella disponibilit a uccidere. Se questo vero, dovremo specificare quali fossero gli attributi imputati agli ebrei che inducevano i tedeschi a considerarli degni dell'annientamento totale (39). La generale efficienza con cui i tedeschi attuarono il programma di sterminio un altro dei suoi aspetti straordinari. Le burocrazie, le amministrazioni responsabili dell'esecuzione di un dato progetto e i sottoposti che devono obbedire agli ordini di superiori lontani possono sabotare, rallentare o paralizzarne la realizzazione se non concordano con gli obiettivi. Soprattutto le imprese su vasta scala richiedono da parte di chi le porta avanti un'adesione ben pi che formale, se le cose devono procedere a passo spedito; tanto pi se si tratta di un genocidio su scala continentale, che impone ai suoi molteplici snodi istituzionali e individuali, soggetti a innumerevoli pressioni ed esigenze contraddittorie, grande inventiva e spirito d'iniziativa, e che come se non bastasse deve spesso procedere a rotta di collo. Il successo di un'impresa del genere dipende dall'energia con cui la gente vi si applica, e che solitamente deriva dall'entusiasmo per il progetto. Da dove traeva quell'energia, quell'impulso al genocidio, il popolo tedesco? Oltre a spiegare i diversi tipi di azione che abbiamo riscontrato nei singoli casi, ogni interpretazione dell'Olocausto deve dunque tener conto della specifica identit sia dei realizzatori sia delle vittime; e anche della variet delle persone, delle strutture e dei contesti coinvolti.

Deve identificare nei realizzatori i tratti comuni capaci di spiegare sia perch la loro condotta sia stata cos relativamente uniforme, sia perch "quelle particolari azioni" siano state compiute da gruppi di individui eterogenei nei contesti pi diversi. Deve spiegare il funzionamento perfetto del meccanismo generale. E inoltre deve integrare i diversi livelli di analisi, cio la straordinaria convergenza tra la politica generale, la sua applicazione, spesso non coordinata, a livello locale - compreso il carattere delle strutture della morte - e le azioni dei singoli individui, di cui l'intera questione del lavoro degli ebrei presenta l'esempio pi efficace. Sino a ora, la macroanalisi del nazismo e dell'Olocausto stata in generale separata dalla meso e dalla microanalisi (40) Del genocidio si deve inoltre dar conto in una prospettiva comparata; le spiegazioni convenzionali non la affrontano nemmeno, e d'altronde non sarebbero attrezzate per farlo. L'interpretazione, insomma, deve essere in grado di individuare una molla motivazionale che corrisponda a tutti questi requisiti; e, per finire, deve spiegare la genesi di tale motivazione. Le spiegazioni convenzionali non riescono a rispondere nemmeno ai pi limitati tra questi quesiti interpretativi. Per quanto fantasioso, ingegnoso o tortuoso sia il ragionamento, impossibile costruire una lettura anche lontanamente plausibile dei fatti fondamentali dell'Olocausto mettendo insieme i dati a mo' di collage, ricorrendo a un'interpretazione per dar conto di un aspetto, a un'altra per un altro, e cos via; anche perch certi comportamenti dei tedeschi le contraddicono tutte. Oltre alle abissali carenze empiriche, che di per s basterebbero a squalificarle, queste letture soffrono anche di fatali difetti concettuali. Sono interpretazioni astratte, astoriche (41) - una di esse stata concepita in un laboratorio di psicologia sociale. Talmente astratte anzi, e di respiro cos universalistico, da assumere come implicito presupposto l'idea che spiegare 1) la disponibilit dei tedeschi 2) al massacro 3) dell'intero popolo ebraico non sia diverso dallo spiegare in quale modo 1) qualcuno possa essere indotto 2) a fare una qualsiasi cosa contro la propria volont 3) a un qualsiasi oggetto o persona. Non tengono conto della specificit storica dei realizzatori e della societ che li form, n del carattere esplicitamente straordinario delle loro azioni, n dell'identit delle vittime. Sono strutturate in modo tale da considerare tutti questi aspetti dell'Olocausto, compreso il suo essere genocidio, come epifenomeni irrilevanti per la comprensione.

Chi le sostiene potrebbe presentare le proprie tesi decidendo di non dire che i realizzatori erano tedeschi, che si resero colpevoli di stragi e di brutalit sistematiche e che le vittime erano ebree, senza modificare in nulla il carattere e la forza della spiegazione. Le interpretazioni convenzionali partono dal presupposto che la partecipazione di un uomo comune al genocidio e la disponibilit di un altro a imporre in modo un po' troppo rigoroso la politica fiscale del governo siano fenomeni del medesimo genere. La coercizione, l'obbedienza all'autorit, le pressioni sociopsicologiche, l'interesse personale, la responsabilit scaricata su altri sono motivazioni che, in base alla loro stessa logica, possono spiegare anche, per intenderci, la disponibilit di un odierno burocrate a imporre una politica sulla qualit dell'aria che pure ritiene sbagliata. Le carenze concettuali delle interpretazioni convenzionali sono profonde: non riconoscono, e anzi negano, l'umanit dei realizzatori, che cio essi fossero agenti, esseri morali capaci di scelte morali; non riconoscono la disumanit delle loro azioni se non come epifenomeno rispetto all'oggetto della spiegazione; e non riconoscono l'umanit delle vittime perch, a loro dire, non conta che gli oggetti di quelle azioni fossero persone (piuttosto che animali o cose), persone con la propria particolare identit. Dobbiamo quindi rifiutarle tutte, scegliendo invece un'interpretazione che in primo luogo sappia corrispondere ai requisiti esplicativi di cui si appena detto, tenga conto cio delle azioni dei realizzatori, della loro identit e di quella delle vittime, e che in secondo luogo sia capace di riconoscere i realizzatori come agenti in proprio, la natura straordinariamente particolare delle loro azioni e l'umanit delle vittime (42). L'unica interpretazione adeguata quella secondo cui un antisemitismo demonologico, violentemente razzista, fu la struttura cognitiva comune dei realizzatori, e della societ tedesca in genere; in questo senso i realizzatori furono consenzienti carnefici di massa, uomini e donne devoti alle proprie convinzioni eliminazioniste, fedeli al proprio antisemitismo culturale, che consideravano giusto il massacro. Che fossero le convinzioni personali dei realizzatori a indurli a uccidere fu confermato dai comandanti delle "Einsatzgruppen" in quello che forse il pi significativo e illuminante tra i documenti del dopoguerra, un documento che, stranamente, passato quasi inosservato. L'abile promemoria per la difesa presentato da Reinhard Maurach al processo di Norimberga contro le "Einsatzgruppen" dichiarava alla corte la pura e semplice verit: gli "Einsatzkommandos" erano sinceramente convinti che il bolscevismo, con il quale la Germania aveva ingaggiato uno

scontro apocalittico, fosse un'invenzione degli ebrei, asservita agli interessi dell'ebraismo. Secondo Maurach era una sufficiente giustificazione soggettiva dello sterminio degli ebrei, in quanto i tedeschi, realizzatori o no, a torto o a ragione, ritenevano che da questo dipendessero le sorti della Germania. Sostenendo la sua tesi, Maurach cos spiegava l'origine di quella convinzione: Non si pu dubitare che il nazionalsocialismo fosse pienamente riuscito a persuadere l'opinione pubblica, ma anche "la stragrande maggioranza del popolo tedesco", dell'identit tra bolscevismo ed ebraismo [il corsivo mio]. In quell'immediato dopoguerra Maurach, come gli stessi realizzatori, era ancora preda dell'ideologia, e dunque difendeva quella posizione. Ci che i tedeschi sapevano degli ebrei in Unione Sovietica, cio la loro presenza predominante nel partito, nello stato e nelle organizzazioni di sicurezza, conferma[va] la correttezza dell'ideologia nazionalsocialista. La potenza maligna degli ebrei, secondo Maurach, era tanto evidente da riuscire a convertire all'antisemitismo anche i pochi non antisemiti all'interno dell'esercito. Il promemoria si concludeva riassumendo la duplice motivazione che aveva convinto i realizzatori della necessit di uccidere gli ebrei: "Gli imputati, mossi dalla teoria nazionalsocialista ma anche da convinzioni ed esperienze personali, erano ossessionati da un delirio psicologico fondato su un'idea errata degli obiettivi del bolscevismo e del ruolo politico degli ebrei in Europa orientale. Da questa convinzione ... gli imputati furono portati a concludere che il pericolo per la futura esistenza del Reich e del popolo tedesco sarebbe venuto soprattutto dalla popolazione ebraica nei territori russi occupati" (43). Maurach non lascia adito a dubbi: i realizzatori erano davvero in preda a quel delirio. Otto Ohlendorf, ex comandante dell'"Einsatzgruppe" D, conferm la correttezza dell'analisi di Maurach esponendo spontaneamente nel 1947, in una lettera che invi per vie clandestine alla moglie dalla prigione, le opinioni che avevano indotto lui e migliaia di altri a massacrare gli ebrei. Anche dopo la guerra, scriveva, l'ebraismo continua a seminare odio; e ancora una volta raccoglie odio. In che altro modo si pu vederlo se non come l'opera di demoni votati a combatterci? (44).

Ohlendorf non era certo un sadico, e per altri versi era noto come una bravissima persona, un idealista del movimento nazista che credeva nella visione di un'armoniosa utopia. Quando si trattava degli ebrei per anche quest'uomo di grande cultura condivideva la concezione demonologica comune alla societ tedesca, e del loro operato si chiedeva con sincera enfasi retorica: In che altro modo si pu vederlo se non come l'opera di demoni? (45). Al pari di Ohlendorf, i realizzatori erano certi che gli ebrei non avessero lasciato loro scelta; e non pu esservi dubbio sul fatto che le loro convinzioni sugli ebrei fossero abbastanza intense e virulente da poterli indurre ad accettare il genocidio come soluzione adeguata, se non finale, della "Judenfrage" (46). In qual modo da queste convinzioni derivarono tutti gli aspetti caratterizzanti dell'Olocausto? Le idee dei tedeschi sugli ebrei, a differenza di quelle sui danesi o sui bavaresi, rendevano "giusto" e "necessario" il loro annientamento. Che si trattasse di convinzioni sufficienti a motivare lo sterminio totale del popolo ebraico non pu essere messo in dubbio. La loro logica interna veniva esplicitamente formulata dalla stampa tedesca per l'edificazione di tutti: "Nel caso degli ebrei non si tratta semplicemente di pochi criminali (come in tutti gli altri popoli); l'intero giudaismo nasce da radici criminali, ed criminale per sua stessa natura. Gli ebrei non sono un popolo come gli altri, bens uno pseudopopolo tenuto insieme dalla sua congenita criminalit ['eine zu einem Scheinvolk zusammengeschlossene Erbkriminalitt'] ... L'annientamento degli ebrei non una perdita per l'umanit, ma un fatto utile, come sono utili per gli altri criminali la pena di morte e la custodia preventiva" (47). In quale modo queste idee giustificano la portata delle azioni dei tedeschi? E come regge l'ipotesi che i realizzatori ne fossero convinti quando la si confronta con le scelte che essi fecero? Furono queste convinzioni a indurli, a livello collettivo e individuale, a scegliere di eseguire gli ordini genocidi invece di evitare di uccidere, o farsi congedare dalle strutture della morte. Per chi credeva che l'ebraismo avesse ingaggiato un apocalittico scontro con la germanit, l'annientamento degli ebrei era giusto e necessario; consentire l'esistenza, la crescita e la suppurazione di quella piaga mortale equivaleva a tradire la patria e i propri cari.

Un popolare libro per bambini - "Il fungo velenoso", una rassegna illustrata delle perfidie degli ebrei che, come i funghi, sembrano buoni ma sono mortali - comunicava ai piccoli tedeschi tutto il senso di questa logica, cio la necessit di purgare il mondo dagli ebrei, nel titolo del suo ultimo capitolo: Se non risolveremo la "Judenfrage", non ci sar salvezza per l'umanit! (48). La fede nella giustizia di quella causa induceva i tedeschi a prendere regolarmente l'iniziativa nello sterminio degli ebrei, dedicandosi ai compiti assegnati con l'ardore dei veri credenti o uccidendo anche in assenza di ordini espliciti, e spiega non soltanto perch non si rifiutassero di uccidere, ma anche perch molti di loro, come gli uomini del Battaglione di Polizia 101, si offrissero volontari per gli eccidi. Il desiderio di uccidere gli ebrei che animava tanti tedeschi comuni trov espressione particolarmente efficace in occasione di uno dei massacri del Battaglione 101. Una sera di novembre del 1942 fu comunicato alla truppa che il giorno dopo avrebbero liquidato gli ebrei di Lukw. "Quella sera ospitavamo un'unit di poliziotti di Berlino, musicisti e attori del cosiddetto servizio di intrattenimento per il fronte. Anche loro sentirono parlare dell'imminente esecuzione degli ebrei, e si offrirono, anzi supplicarono con insistenza, di potervi prendere parte. Il battaglione soddisfece la bizzarra richiesta" (49). Quegli artisti tedeschi, il cui compito ufficiale era tutt'altro che l'uccisione degli ebrei, non ebbero alcun bisogno di pressioni, ordini o coercizioni; in perfetta sintonia con il generale volontarismo dell'impresa, furono loro stessi a supplicare l'autorizzazione a uccidere. E il loro desiderio di massacrare gli ebrei non fu considerato un sintomo patologico o aberrante, tanto che il giorno dopo i plotoni d'esecuzione furono in buona parte costituiti proprio da loro. Come per tanti altri realizzatori, volontari o no, la loro trasformazione in alacri carnefici di ebrei avvenne senza alcun trauma. La convinzione che lo sterminio fosse giusto spiega anche il volontarismo che contraddistinse sempre il modo in cui i tedeschi presero parte alla distruzione degli ebrei d'Europa; lo coglie perfettamente un sopravvissuto, che li accusa di non aver rispettato gli ordini perch nessuno poteva aspettarsi che un tedesco disobbedisse a un ordine. Era proprio il volontarismo, espresso in tanti modi diversi, a renderli cos micidiali; e sul volontarismo quel sopravvissuto fondava il suo giudizio: La loro azione era sempre fatale, perch approvavano in tutto il programma ufficiale [dello sterminio], e ne erano anzi compiaciuti, estendendolo

tacitamente ben al di l degli ordini, nel modo pi attivo, personale e volontaristico (50).Il desiderio di uccidere si manifest in un eccidio dopo l'altro: a Uscilug, per esempio, dal versante ucraino della frontiera polacca. Un sopravvissuto racconta che dopo aver deportato o fucilato tutti gli ebrei che erano riusciti a rastrellare senza difficolt, i tedeschi cominciarono "la caccia a tutti quelli che si erano nascosti. Una caccia che non aveva uguali nella storia dell'umanit. Intere famiglie si nascondevano negli 'skrytkas', come quelli che avevamo a Wlodzimierz; ma loro, inesorabili, instancabili, finivano sempre per scovarli. Strada per strada, casa per casa, centimetro per centimetro, dalla soffitta alla cantina; erano diventati esperti nel trovare i nascondigli. Quando perquisivano una casa battevano sulle pareti alla ricerca del suono sordo che indicava un doppio muro, e perforavano soffitti e pavimenti ... Non erano pi azioni limitate; era l'annientamento totale. Squadre di S.S. battevano le strade, frugando nei fossi, nei magazzini, nei cespugli, nei fienili, nelle stalle, nei porcili. Scovavano e uccidevano gli ebrei a migliaia, poi a centinaia, poi a decine; e infine, uno per volta" (51). La caccia che non aveva uguali nella storia dell'umanit fu tipica di tutte le operazioni dei tedeschi nei ghetti, come le cacce all'ebreo condotte sia nei ghetti sia nelle campagne dai tedeschi comuni di molti battaglioni di polizia, compreso il 101. L'impressione indiscutibile che lasciarono nei testimoni delle operazioni non fu certo quella di uomini riluttanti a eseguire gli ordini: c'erano in loro tutta la passione, tutta la determinazione, tutta l'instancabilit, tutto l'entusiasmo dei fanatici religiosi impegnati in una sacra missione di redenzione. Cos come in tutte le epoche tanti giovani si sono offerti volontari per combattere in difesa della patria, i tedeschi erano pronti a offrirsi volontari per distruggere quel nemico mortale nato da un modello culturale. Che fossero pienamente consenzienti spiega anche perch i battaglioni di polizia potessero permettersi di costituire le squadre di esecuzione esclusivamente su basi volontarie: gli ufficiali sapevano che gli uomini sostenevano a spada tratta quell'impresa teutonica, e dunque affidarsi ai volontari per un compito cos macabro non comportava alcun rischio; erano convinti, a ragione, di poter contare su un numero pi che sufficiente di assassini ansiosi di entrare in azione.

L'idea che gli ebrei avessero gi gravemente danneggiato la Germania, e che avrebbero sempre operato in quella direzione, riesce almeno in parte a spiegare la spaventosa crudelt dei tedeschi. Nelle parole di un ex funzionario di polizia che prest servizio nella zona di Cracovia - secondo il quale i suoi sottoposti con poche eccezioni erano ben felici di prender parte alle fucilazioni di ebrei. Per loro era una festa! -, essi uccidevano per un grande odio verso gli ebrei; era una vendetta... (52). Le atrocit commesse per ordine dei superiori, quelle programmate come quelle organizzate spontaneamente, non venivano percepite come illegittime o immorali dalla grande maggioranza dei tedeschi che operavano nelle strutture della morte. Quella crudelt, finalizzata soltanto alla sofferenza degli ebrei, non delegittimava il regime, non minava l'autorevolezza delle istituzioni che la ordinavano, come sarebbe avvenuto invece se i tedeschi fossero stati convinti che il trattamento degli ebrei dovesse rispondere a qualche giustificazione razionale, a un provvedimento legittimo, a una ragion di stato intesa in senso tradizionale. Il loro antisemitismo demonologico contribu anche alla crudelt su vasta scala, la cui perpetrazione divenne la norma senza eccezione nei contesti in cui avevano contatto continuo e diretto con le vittime. Quelle convinzioni furono la causa necessaria di una brutalit diffusa, frequente, profonda e spietata, perch per esse gli ebrei venivano "del tutto" esclusi dall'ambito del codice morale che tutelava i membri non ebrei della societ. La sospensione di quel codice bastava quantomeno a "consentire" una crudelt verso gli ebrei che nessuno di loro avrebbe concepito di poter infliggere a un tedesco. Quell'antisemitismo esigeva inoltre un giusto castigo la cui forma ultima era l'annientamento: un castigo che per molti tedeschi significava imporre agli ebrei di soffrire, e che le vittime riuscivano a comprendere soltanto come forma di patologia comune a tutti i loro tormentatori. La bestia che sta dentro il nazista integra, perfettamente sana, sempre pronta ad attaccare e depredare il prossimo; ma l'uomo che in lui patologicamente malato. La natura l'ha colpito col morbo del sadismo, e il morbo penetrato fino all'ultima fibra del suo essere. Non esiste nazista che non abbia l'anima malata, che non sia un tiranno, un sadico... (53).

L'idea che avevano degli ebrei scatenava nei tedeschi le pi profonde e feroci passioni distruttive, di regola addomesticate e controllate dalla civilt; e insieme generava la logica morale e l'impulso psicologico che imponevano loro di riversare quelle passioni sugli ebrei. Se gli assassini non fossero stati antisemiti animati dalla convinzione che gli ebrei meritassero di morire, ma soltanto ciechi e insensibili esecutori di ordini, allora davvero sarebbero stati freddamente indifferenti alle vittime (54). Non sarebbero riusciti a capire perch gli ebrei dovessero morire, ma se l'infallibile Fhrer, nella sua infinita saggezza, aveva ordinato il massacro, doveva esserci per forza una buona ragione, una qualche misteriosa e profonda ragion di stato. Si sarebbero comportati un po' come i cavalleggeri della carica dei seicento di Balaclava; parafrasando Tennyson, avrebbero detto: Non spetta a noi di chiedere il perch / Dobbiamo solo agire e poi morire (55). Se per i tedeschi gli ebrei fossero stati soltanto rei di un delitto capitale, per quanto orrendo, sarebbero rimasti freddamente indifferenti come deve essere un boia moderno. Dopo tutto, i realizzatori furono i carnefici di un'intera nazione, che lo stato tedesco aveva condannato a morte. Il boia ufficiale di uno stato moderno tenuto a impartire la morte in un modo preciso, quasi clinico - rapidamente, senza tormenti, con il minimo dolore possibile, come nel rispetto della massima del Bruto shakespeariano: Lo uccideremo con coraggio, ma senz'ira (56). I tedeschi, pur favorevoli alla pena di morte, si sarebbero ribellati se l'esecuzione di un assassino comune fosse stata accompagnata da torture o umiliazioni per il condannato. Dopo il fallito attentato del 20 luglio 1944 Hitler ordin che i cospiratori venissero strangolati con una corda di pianoforte, appesi come quarti di bue ai ganci da macellai; un filmato della scena fu mostrato nel circuito delle forze armate, ma gli spettatori ne furono cos indignati da uscire dalla sala (57). E' possibile che ci fosse tra loro qualche simpatizzante dei cospiratori, ma tutti - compresi quelli convinti che si fossero macchiati del pi grave dei delitti, e che quindi meritassero di morire - concordavano sul fatto che ammazzarli in quel modo barbaro era indegno di una nazione civile. Erano freddamente indifferenti i tedeschi che uccisero i malati di mente e gli handicappati gravi nel cosiddetto programma di eutanasia, quasi tutti medici o infermieri che liquidavano le vittime con il distacco del chirurgo che taglia dal corpo del paziente un'orribile e pericolosa escrescenza. (58).

E invece gli eccidi degli ebrei erano rabbiosi, preceduti e accompagnati da crudelt, umiliazioni, derisioni e mefistofelici sghignazzi. Perch? Perch i carnefici del popolo ebraico non si comportarono come veri carnefici? Perch quei tedeschi comuni diventati boia quasi senza preavviso diedero prova di tanta crudelt gratuita, spontanea e non richiesta? La risposta sta nel modo in cui concepivano gli ebrei. Ai loro occhi "der Jude" non era soltanto reo di un orrendo delitto capitale; era un demone in terra, il demone plastico della caduta dell'umanit, una frase coniata da Richard Wagner che in tedesco - der plastische Dmon der Verfalls der Menschheit - assume un suono particolarmente feroce e minaccioso (59). Sono infiniti i mali di cui "der Jude" colpevole; lui l'autore principale del disordine, del caos, delle sanguinarie convulsioni che da sempre agitano il mondo, lui l'essere astuto e crudele per antonomasia. Parlando di lui, scrittori e predicatori si scatenavano in un fiume di iperboli, come chi troppo infuriato per controllare il crescendo indiscriminato delle sue invettive: "Loro [gli ebrei, in particolare i responsabili delle associazioni sportive] sono peggiori del colera, della peste polmonare, della sifilide ... peggiori di un'esplosione, della carestia, del crollo di una diga, della siccit estrema, delle locuste, del gas avvelenato peggiori di tutto questo, perch quelle calamit distruggono soltanto il popolo tedesco, mentre loro [gli ebrei] distruggono invece la stessa Germania" (60). Tra i realizzatori vigeva la massima inespressa che la morte non fosse pena sufficiente per quei malfattori su scala mondiale: bisognava vendicare i danni che avevano provocato; dovevano subire una harte Shne, un duro castigo; dovevano pagare il fio delle loro infinite malefatte. Dopo millenni di parassitismo, saccheggi, rapine e sfruttamento, ora venivano costretti a una fatica micidiale; dopo aver approfittato del loro immenso potere segreto per umiliare le nazioni e le classi sociali, ora venivano degradati e costretti a rotolarsi nel fango; dopo le sofferenze inflitte al popolo dalle loro macchinazioni, ora pagavano con l'incessante tortura dei loro corpi. Nei ghetti e nei campi, mentre li portavano all'esecuzione, e fin sul ciglio della fossa comune, i tedeschi brutalizzavano gli ebrei, scaricando su di loro la rabbia collettiva per le sventure, reali o immaginarie, che avevano colpito la Germania. Era una vendetta.

La rabbia violenta nei confronti degli ebrei era simile alla passione che spingeva Achab a cacciare Moby Dick. La memorabile descrizione delle motivazioni di Achab forse il migliore apologo delle crudelt incessanti, indicibili, insuperabili, che i tedeschi inflissero agli ebrei: "Tutto ci che pi fa impazzire e tormenta, tutto ci che risveglia la feccia delle cose, ogni verit in cui vi sia malizia, tutto ci che schianta i nervi e stordisce il cervello, tutti i sottili demoni della vita e del pensiero, ogni male, per il folle Achab era visibilmente personificato e reso praticamente attaccabile in Moby Dick. Egli accumulava sulla bianca gobba della balena la somma di tutte le furie e gli odi genericamente sentiti dalla sua schiatta, da Adamo in poi, e allora, come se il suo petto fosse stato un mortaio, gli esplodeva addosso la bomba ardente del proprio cuore" (61). La brutalit dei tedeschi rimane in parte imperscrutabile, ma l'antisemitismo pu servire a spiegare la loro infinita crudelt verso gli ebrei, che fu quasi sempre volontaria, su iniziativa personale dei singoli individui (62). L'antisemitismo pu dunque spiegare le quattro categorie di azioni dei realizzatori individuate dalla matrice dell'autorit e della crudelt. Spiega cio la loro disponibilit a eseguire gli ordini, l'iniziativa che presero nell'uccidere e tormentare gli ebrei, nonch la brutalit generale, sia quella istituzionalmente strutturata sia quella generata a livello individuale. Spiega lo zelo dei realizzatori, spiega la perfetta efficienza con cui pot procedere un'operazione di cos vasta portata, perch dalla convinzione della necessit e della giustizia del genocidio derivarono l'energia e la devozione indispensabili a questo genere di impresa. Spiega perch, a tutti i livelli delle diverse strutture della morte, i tedeschi fecero cos poco per alleviare le sofferenze degli ebrei, come poteva fare senza difficolt chi, pur considerando inevitabili gli eccidi, volesse risparmiare alle vittime angosce e sofferenze inutili. Spiega perch furono cos pochi i realizzatori che si avvalsero delle possibilit di esimersi dagli eccidi. Spiega perch tanti tedeschi che non erano ardenti sostenitori del nazismo, o ne erano persino oppositori, parteciparono comunque allo sterminio degli ebrei (63); come ha dimostrato la nostra analisi dell'evoluzione dell'antisemitismo in Germania, le convinzioni sugli ebrei non erano necessariamente legate al loro giudizio sul nazismo.

Poich l'antisemitismo eliminazionista era un modello cognitivo culturale nato ben prima della presa di potere nazista, il pi acceso antinazista poteva essere anche un acceso, e appassionato, antisemita. Per molti ammazzare gli ebrei significava rendere omaggio non al nazismo, ma alla Germania (64). La consonanza era a tutti i livelli, dal vertice alla base, perch le medesime convinzioni che muovevano chi prendeva le decisioni politiche ispiravano e informavano a s le strutture della morte, e motivavano i realizzatori ultimi del genocidio. Come un unico uomo di fronte al comune nemico, i tedeschi in contatto diretto con gli ebrei rispecchiavano il pensiero di chi determinava l'indirizzo generale. Nulla di strano se di tanto in tanto prendevano iniziative che anticipavano il programma emanante dalle autorit centrali, perch gli amministratori affrontavano i problemi a livello locale (e il problema tipico era costituito da tutti gli ebrei che vivevano nel loro raggio d'azione) nello spirito dell'epoca e della loro cultura. Ispirati com'erano da una comune concezione degli ebrei, e dunque da una comune linea d'azione, non sorprende che tanti tedeschi di diverso ceto e provenienza, all'interno di strutture istituzionali diverse, con diversi rapporti con le vittime, e nell'ambito dei pi diversi contesti - nei campi rigidamente organizzati, nelle procedure in parte spontanee e in parte regolate delle operazioni di rastrellamento e fucilazione, nelle cacce all'ebreo relativamente incontrollate, che richiedevano iniziativa, e nell'autonomia virtualmente assoluta delle marce della morte commettessero le azioni che abbiamo individuato come comuni a tutti i realizzatori. L'invisibile coordinamento imposto dalle convinzioni e dai valori condivisi produceva una relativa omogeneit, nonostante l'assenza di controllo centrale e nonostante le differenze altrimenti inevitabili nel comportamento di persone che si limitassero a reagire ai contesti e alle circostanze. L'antisemitismo eliminazionista, la comune struttura cognitiva posta al servizio del programma di sterminio avviato e coordinato dallo stato, era una motivazione tanto forte da limitare drasticamente l'influenza sulle loro azioni di ogni altro fattore, anche strutturale. Proprio perch tutte le altre variavano, solo questa struttura cognitiva comune in grado di spiegare la sostanziale coerenza del comportamento dei tedeschi verso gli ebrei.

Molte azioni che in altre circostanze sarebbero apparse inconsuete, irrazionali e persino bizzarre, erano invece il prodotto perfettamente ragionevole e razionale dell'antisemitismo. I tedeschi sceglievano di brutalizzare gli ebrei (ovvero, in altri termini, non riuscivano a trattenersi dal farlo) piuttosto che impiegarli in qualche attivit produttiva. L'eccesso spropositato di violenza fu una componente costante del rapporto tra i tedeschi e gli ebrei nel periodo nazista. L'atmosfera autocelebrativa che talvolta regnava nelle strutture della morte, le vanterie, l'elevazione della ferocia pi selvaggia a norma nel duplice significato di consuetudine e di imperativo - erano i corollari del loro odio (65). E infine, fu la dedizione al genocidio instillata nei tedeschi comuni dall'antisemitismo a generare in molti di loro - a giudicare dalla provenienza e dall'addestramento, non pi portati di altri a trasformarsi in assassini genocidi - la determinazione a persistere nonostante l'orrore e la repulsione materiale che avevano provato al momento dell'iniziazione. La sfrenata brutalit dei rastrellamenti nei ghetti, la vista degli ebrei affamati, emaciati, ammalati e feriti che cadevano a terra morti durante la marcia o sotto i colpi selvaggi delle guardie, il raccapriccio di fronte alle fucilazioni in massa: tutto questo non bast a far demordere quella determinazione. E nelle rare circostanze in cui qualcuno esit, o protest, o fu disturbato dalla ferocia di un camerata, non dobbiamo ritenere, in assenza di conferme esplicite, che questo indicasse disapprovazione morale, di principio, del massacro, che indicasse cio qualcosa di diverso da ci che quasi sempre era: repulsione estetica di fronte all'orrore della scena. Un realizzatore con responsabilit di comando durante un eccidio, per esempio, ebbe da ridire sui metodi impiegati da uno dei suoi sottoposti: "Nel frattempo il Rottenfhrer Abraham sparava ai bambini con la pistola. Mi pare fossero cinque; direi bambini tra i due e i sei anni. Abraham li uccideva in modo brutale: li afferrava per i capelli, li sollevava da terra, sparava loro un colpo alla nuca e poi li gettava nella fossa. Dopo un po' non ce la feci pi e gli ordinai di smettere. Intendevo dire che non doveva pi prenderli per i capelli; doveva ucciderli in modo pi pulito" (66). Per lui dunque la brutalit non stava nell'uccisione dei bambini, ma nel modo in cui venivano ammazzati: non riusciva a sostenere quella vista.

Che mancanza di decoro! Dobbiamo presumere che se Abraham avesse ammazzato i bambini costringendoli a distendersi a terra prima di sparar loro nella testa, quella sarebbe stata un'esecuzione pulita, che il nostro tedesco avrebbe osservato con animo sereno. L'orrore, l'atrocit della realt fenomenologica in cui vivevano furono del tutto insufficienti, salvo rare eccezioni, a fermare la mano genocida dei tedeschi. Dopo tutto, i demoni vanno distrutti. Per citare Ohlendorf: In che altro modo si pu vederlo [l'ebraismo] se non come l'opera di demoni?. Alla luce di tutto questo, possibile porre ancor pi in evidenza gli aspetti comuni e quelli individuali delle strutture della morte sulle quali ci siamo soffermati: ciascuno a proprio modo, i battaglioni di polizia, i campi di lavoro e le marce della morte pongono in netto rilievo aspetti importanti della realizzazione dell'Olocausto, e ciascuno a proprio modo dimostrano tanto il carattere volontaristico di quella condotta quanto la centralit dell'antisemitismo razziale eliminazionista nella motivazione dei realizzatori (67). La condotta dei battaglioni di polizia induce a chiedersi che cosa motivasse le azioni di quei tedeschi non preparati da esperienze precedenti, operanti nell'ambito di strutture che non li indottrinavano, n esercitavano su di loro pressioni irresistibili, e anzi lasciavano la possibilit di non uccidere e torturare gli ebrei. A giudicare dalla provenienza, questi tedeschi comuni erano tra i membri adulti della popolazione meno portati a trasformarsi in assassini genocidi, e operavano all'interno di strutture che concedevano uno spazio inconsueto al volontarismo; la loro condotta, invece, si conform a quanto avrebbe potuto fare il pi accanito degli antisemiti. La costituzione dei battaglioni di polizia - come dimostrano i criteri di reclutamento, e come conferma il campione demografico da noi preso in esame - indica che le conclusioni sul carattere complessivo della condotta di chi ne fece parte possono, e anzi devono, essere generalizzate e comprendere "il popolo tedesco in generale". Le azioni di questi tedeschi comuni sarebbero potute essere commesse anche dagli altri tedeschi comuni. La questione del lavoro, nei campi dichiaratamente destinati allo sfruttamento della manodopera ebraica, indica se e in quale misura l'antisemitismo eliminazionista determinasse la condotta dei realizzatori anche quando era controbilanciato dalla motivazione e dalla logica, di solito

nettamente prioritarie, della razionalit economica, razionalit alla quale pure l'economia della Germania si conformava. Pi di ogni altra, questa dimensione del trattamento degli ebrei denuncia l'enorme potenza dell'antisemitismo, capace di pervertire strutture e pratiche che, soprattutto in tempo di guerra, avrebbero dovuto continuare a funzionare in base ai dettati impersonali e inflessibili della produttivit economica. A tutti i livelli organizzativi - nelle modalit generali dell'impiego della loro forza lavoro, nel carattere delle strutture che lo gestivano, nel trattamento dei singoli lavoratori - i tedeschi si rapportavano agli ebrei in modo sostanzialmente diverso che agli altri popoli soggetti, andando contro il loro stesso interesse che imponeva con la massima urgenza la produzione di materiali e forniture per lo sforzo bellico. Questo conferma decisamente l'ipotesi che nella loro mente gli ebrei occupassero una posizione cognitiva del tutto particolare. E' importante sottolineare che l'idea degli ebrei quali parassiti scansafatiche, fondamentale per la comprensione dell'impiego della loro manodopera, aveva profonde radici nella cultura tedesca. La forza dell'ideologia antisemita come "generatrice" di azione, come "causa" di un comportamento altrimenti anormale, trova forse l'espressione pi efficace proprio nella dimensione del lavoro. Le marce della morte sono un altro fenomeno che lascia alquanto perplessi, e dunque un altro momento di difficile verifica per qualsiasi interpretazione. Nello spaventoso caos dei mesi, delle settimane e dei giorni finali della guerra, in condizioni ben diverse dai trionfi imperiali del 1939-1942, quando pareva possibile che l'intera Europa marciasse per sempre al passo imposto dalla Germania nazificata, i tedeschi avevano tutto da perdere continuando a uccidere e torturare gli ebrei. Tanto pi che in molti casi il personale di sorveglianza non era soggetto ad alcun controllo, non era guidato dall'autorit centrale: i tedeschi che accompagnavano gli ebrei erano padroni di se stessi. Le interpretazioni che negano l'esistenza e la funzione decisiva dell'antisemitismo demonologico come motivazione dei realizzatori indurrebbero a ritenere che le diverse condizioni psicologiche e la nuova struttura degli incentivi producessero una diminuzione, o la cessazione, delle attivit genocide. E invece lo zelo e la dedizione di quei tedeschi- nel caso della marcia di Helmbrechts, l'inflessibile brutalit omicida nei confronti degli ebrei, "e

soltanto degli ebrei" - denunciano la motivazione interiore, l'odio incontenibile per gli ebrei, che li spingeva a uccidere. Li ammazzarono e li torturarono anche dopo aver ricevuto da Himmler in persona l'ordine di smettere. Era un comportamento autistico che, una volta scatenato il programma genocida, rispondeva quasi soltanto a impulsi interiori governati in tutto dalla concezione che essi avevano delle loro vittime. Ognuna di queste tre strutture rappresenta in forma pressoch pura un aspetto centrale della perpetrazione dell'Olocausto: i battaglioni di polizia indicano in quale misura l'antisemitismo avesse infettato la societ tedesca, tanto da trasformare degli uomini comuni in efferati carnefici; le marce della morte mostrano la profonda interiorizzazione della necessit di massacrare gli ebrei, e lo zelo con cui i tedeschi vi si dedicavano; la questione del lavoro fa capire l'enorme potenza dell'antisemitismo, capace di indurre la Germania al pi madornale autolesionismo economico. Uno degli aspetti pi impressionanti del genocidio, che vale per i battaglioni di polizia come per i campi di lavoro, gli "Einsatzkommandos" e tutte le altre strutture della morte, costituito dalla facilit con cui i tedeschi - realizzatori diretti o no - "compresero" per quale motivo si chiedeva loro di ammazzare gli ebrei. Proviamo a immaginare che cosa accadrebbe se un qualsiasi governo occidentale di oggi comunicasse a un gruppo numeroso ed eterogeneo di cittadini la propria intenzione di sterminare un altro popolo: a parte le reazione morale, per la gente questo annuncio sarebbe semplicemente incomprensibile: verrebbe accolto come il delirio di un pazzo. L'antisemitismo dei tedeschi era invece tale che quando fu loro comunicato, ai realizzatori come agli spettatori, che si dovevano uccidere gli ebrei, la risposta non fu la sorpresa, l'incredulit, bens la comprensione. Al di l delle considerazioni morali o utilitaristiche, ai loro occhi l'annientamento degli ebrei "aveva senso". L'aspetto pi interessante delle testimonianze dei realizzatori sul momento in cui appresero dell'imminente distruzione degli ebrei, e del ruolo che essi vi avrebbero avuto, l'assenza di qualsiasi manifestazione di incredulit o sorpresa: nessuno domandava, ai comandanti o tra commilitoni, perch si dovesse farlo, nessuno si disse indignato per dover eseguire gli ordini di un pazzo. Un ebreo sopravvissuto riferisce quanto pensava nell'ottobre del 1942, acquattato in un nascondiglio a Hrubieszw, una citt a sudest di Lublino, mentre intorno a lui imperversava il massacro: Pi volte mi pass per la

mente che era tutto incredibile: gente che braccava assoluti sconosciuti che non avevano fatto loro nulla di male. Il mondo era impazzito (68). Erano cose che passavano per la mente agli ebrei, queste, non ai tedeschi; l'antisemitismo potenzialmente omicida era penetrato cos a fondo e si era cos largamente diffuso nella loro societ che quando vennero a sapere dei desideri di Hitler riuscirono davvero a comprenderne le ragioni. Un membro del "Sonderkommando" 4a, in una lettera del settembre 1942 alla moglie (Mia cara Soska), esprimeva con la massima chiarezza, non soltanto a nome proprio ma anche dei camerati e di tutti i soldati tedeschi, le convinzioni da cui derivava quella capacit di capire e approvare: "Oggi stiamo combattendo una guerra per decidere l'esistenza stessa ['Sein oder Nichtsein'] del nostro 'Volk'. Ringrazio Dio che tu, in patria, non debba soffrirne troppo. I bombardamenti, comunque, dimostrano che cosa avrebbe in serbo per noi il nemico se appena ne avesse la possibilit. Per quelli al fronte un'esperienza quotidiana. I miei camerati stanno combattendo per la sopravvivenza del 'Volk'; fanno al nemico ci che lui farebbe [a noi]. Credo che tu mi capisca: poich siamo convinti che questa sia la guerra degli ebrei, sono gli ebrei per primi a subirne le conseguenze. In Russia, ovunque sia un soldato tedesco, non ci sono pi ebrei" (69). Per i tedeschi non si trattava di realizzare quelli che per tutti erano i folli piani di un pazzo criminale; in perfetta buonafede, riuscivano a capire (nonostante il timore del fallimento, e della vendetta ebraica) il perch di un'azione cos radicale, il motivo per cui la salvaguardia della sopravvivenza del "Volk" imponeva lo sterminio degli ebrei come progetto nazionale della Germania. Il fatto che i realizzatori fossero convinti dell'immodificabile natura demoniaca degli ebrei consentiva agli ufficiali di proporre (in tutta sincerit) le loro assurde attribuzioni di responsabilit agli ebrei per i bombardamenti e gli attacchi partigiani, sapendo che gli uomini le avrebbero trovate comprensibili e ragionevoli, e anzi ne avrebbero tratto motivo per una maggiore determinazione. L'idea di massacrare tutti i bambini ebrei di Polonia come vendetta, o come rappresaglia, per i bombardamenti inglesi o americani delle citt tedesche sarebbe apparsa pura follia a qualsiasi mente razionale, non nazificata.

Non cos, invece, ai tedeschi comuni del Battaglione di Polizia 101 e di altri reparti. Ai loro occhi era un argomento logico: il nesso che collegava gli ebrei delle miserabili citt della provincia polacca con i bombardamenti di Berlino e Amburgo era perfettamente comprensibile. Impregnati di antisemitismo demonologico, quei tedeschi erano convinti che dietro ai bombardamenti delle loro citt si nascondesse il grande orco, "das Weltijudentum" (il giudaismo mondiale), ovvero "der Jude", e che gli ebrei di Polonia, gli ebrei di Jzefw, ne fossero i tentacoli. Mozzando i tentacoli avrebbero contribuito alla distruzione di quella potenza mostruosa, fonte di tutti i mali, che faceva piovere bombe sulle loro citt. Per superare ogni inibizione che li dissuadesse dall'ammazzare i bambini ebrei, il maggiore Trapp invitava i suoi uomini a evocare l'immagine delle nostre donne, dei nostri figli in patria morti sotto i bombardamenti, ed era certo che essi avrebbero subito compreso e raccolto quell'invito. Non occorrevano ulteriori spiegazioni: l'invito si basava sul buonsenso, sulla comune concezione degli ebrei. Nessuno si fece avanti per domandare: Che cosa c'entrano i bambini ebrei di Jzefw con i bombardamenti anglo-americani delle citt tedesche?. Il nesso risultava ovvio per tutti (70). Conoscendo il radicale antisemitismo dei loro uomini i comandanti tedeschi potevano anche esentare dalle esecuzioni chi non si sentiva in grado di affrontarle, nella certezza che pochi soltanto si sarebbero avvalsi di questa opportunit; per lo stesso motivo, anche Himmler autorizzava tanta permissivit (71). Quella certezza generava la fiducia necessaria per lasciare che gli uomini svolgessero i loro compiti - nelle cacce all'ebreo, nei rastrellamenti, nei campi di lavoro, nelle marce della morte - con ben poco controllo da parte dei superiori. Persuasi com'erano tutti della giustizia dell'impresa, non c'erano pelandroni n imboscati, nemmeno alla fine della guerra. Durante una conferenza a Minsk, nell'aprile 1943, Eduard Strauch, ex comandante dell'"Einsatzkommando" 2, a nome dei suoi uomini e di tutti i realizzatori del genocidio si dichiar indignato all'idea che qualcuno potesse dubitare dello zelo degli assassini, per quanto duri e spiacevoli fossero gli eccidi. Signori ... sappiamo bene che qualcuno deve pure occuparsi di queste cose.

Posso affermare con orgoglio che i miei uomini ... sono fieri di agire per convinzione, e per fedelt al Fhrer (72). A ogni livello istituzionale i realizzatori erano in sintonia con la missione genocida: lo sapeva Himmler, lo sapeva Strauch, lo sapevano gli altri comandanti e lo sapevano, con qualche eccezione, tutti i tedeschi coinvolti. I realizzatori dell'Olocausto andavano fieri di quelle imprese e dello zelo con cui si dedicavano al mestiere del genocidio. Lo proclamavano di continuo nell'azione, e nel flusso ininterrotto delle scelte che li portavano sul fronte dei massacri e che guidavano la loro condotta sul campo. Lo proclamavano anche in ci che dicevano e facevano quando non erano impegnati a uccidere. Se davvero fossero stati contrari per principio al genocidio, perch avrebbero ripreso quelle immagini evidentemente encomiastiche degli eccidi e della loro vita di carnefici, per poi distribuirle e permettere che altri ne facessero copie? (73). La fotografia (n. 31 del nostro inserto) che ritrae un soldato tedesco mentre ammazza una madre ebrea e il suo bambino, fu spedita a casa dell'interessato per posta. Sul retro reca scritto: Ucraina 1942, Azione contro gli ebrei, Ivangorod. Perch mai vollero mogli e amiche, e persino i figli, come testimoni dei massacri e delle atrocit? Perch celebravano come feste i massacri, gli eccidi e gli eventi pi significativi? Perch - se davvero erano cos fortemente contrari - non si comunicavano a vicenda l'insoddisfazione per quanto erano costretti a fare? Perch, quando parlavano tra loro, invece di dolersi del proprio destino e di quello delle vittime si vantavano dei propri eroismi? Nel momento in cui si mettono a fuoco gli aspetti della vita dei realizzatori che esulano dall'atto puro e semplice dell'uccidere, diventa insostenibile la falsa immagine unidimensionale dei tedeschi che li astrae dai loro rapporti sociali. E' difficile ricostruire per intero l'esistenza sociale e culturale dei realizzatori, ma comunque sbagliato dipingerli come esseri esitanti, isolati, spaventati, incapaci di pensare (74). I carnefici tedeschi, come tutti gli altri uomini, agivano in base a scelte coerenti; scelte che producevano con altrettanta coerenza morte e infinite sofferenze per gli ebrei; scelte individuali e compiaciute di chi si sentiva membro a pieno titolo di una comunit consapevolmente genocida, che nell'uccisione degli ebrei vedeva la propria norma, e spesso anche un motivo di celebrazione. - Il massacro degli ebrei: un esame comparato.

L'interpretazione deve essere in grado di reggere anche una serie di confronti. Il primo, interno al genocidio, paragona le diverse tipologie di personale, strutture e contesti in cui fu perpetrato l'Olocausto con la sostanziale uniformit delle azioni compiute dai tedeschi anche quando i fattori variavano. E' uno degli argomenti centrali di questo libro, gi abbondantemente trattato; qui ci soffermeremo quindi sugli altri confronti. Il secondo - che per i motivi esposti nell'Introduzione non tra i temi portanti del mio studio - allarga l'indagine sui realizzatori a comprendere, oltre ai tedeschi, le azioni contro gli ebrei commesse da gente di altre nazionalit. Il terzo riguarda il trattamento del tutto diverso accordato dai tedeschi agli ebrei e agli altri popoli soggetti o disprezzati; un confronto istruttivo, al quale abbiamo gi pi volte accennato. Il quarto fissa le caratteristiche che distinguono l'Olocausto da altri genocidi e programmi di massacro su vasta scala. Il confronto tra il rapporto con gli ebrei dei tedeschi e dei non tedeschi richiede due precisazioni preliminari. In primo luogo occorre stabilire se vi fossero o no altri gruppi nazionali che in circostanze analoghe non li trattarono, o non li avrebbero trattati, come fecero i tedeschi. Se per caso un battaglione di danesi comuni, o di italiani comuni composto da uomini della stessa fascia sociale e con lo stesso addestramento dei tedeschi del Battaglione di Polizia 101 e di tanti altri reparti - si fosse trovato nella regione di Lublino e avesse ricevuto quegli stessi ordini dal proprio governo, "con la stessa possibilit di farsi esentare", avrebbe massacrato, deportato, braccato con la stessa efficienza e brutalit uomini, donne, bambini? Se fossero state danesi o italiane, le guardie avrebbero trattato i lavoratori ebrei nei campi e negli stabilimenti allo stesso modo feroce e micidiale dei tedeschi, cos contrario alla razionalit economica? Danesi o italiani che avessero dovuto accompagnare la marcia di una colonna di donne ebree emaciate, malate e affamate avrebbero negato loro il cibo, i vestiti e il riparo che pure erano disponibili, le avrebbero picchiate senza piet? L'idea che i danesi o gli italiani comuni avrebbero agito come i tedeschi comuni sfida qualsiasi immaginazione, ed per di pi contraddetta dai fatti storici. I danesi misero in salvo i loro ebrei, e ancor prima avevano opposto resistenza ai provvedimenti antisemiti dei tedeschi.

Gli italiani, come abbiamo gi detto, e persino i militari italiani (in Croazia), disobbedirono quasi sempre all'ordine di Mussolini di deportare gli ebrei, sapendo che li avrebbero mandati incontro alla morte per mano dei tedeschi (75). Che altri si rifiutassero, o non fossero disposti a fare ci che facevano i tedeschi, dimostra che questi ultimi non erano "uomini" comuni, nel senso di esseri transstorici e aculturali; in loro c'era qualcosa di particolare, una peculiarit del patrimonio culturale politico, che informava a s l'idea che avevano delle vittime a un punto tale da disporli, perfino con entusiasmo, a torturare e ammazzare gli ebrei, convinti della legittimit delle loro azioni e di tutta quell'impresa. Una volta stabilita la differenza tra i tedeschi e i non tedeschi, possiamo procedere all'importante questione delle nazionalit che affiancarono i tedeschi nella persecuzione e nella strage degli ebrei. Gli esiti possibili sono due: il fatto che vi siano stati dei non tedeschi che agirono allo stesso modo impone di cercare che cosa essi avessero in comune con i realizzatori tedeschi, o alternativamente di prendere in considerazione la possibilit che la via che portava ai massacri non fosse una sola. Dopo tutto c'erano enormi differenze tra le condizioni di vita dei tedeschi e, per fare un esempio, degli ucraini che dipendevano dalle loro istituzioni. I tedeschi avevano sconfitto, represso e disumanizzato gli ucraini, sui quali esercitavano inoltre pressioni ben diverse da quelle riservate ai connazionali: la permissivit e la comprensione del comandante del Battaglione 101 e di altri ufficiali nei confronti dei propri uomini che non riuscivano a imporsi di uccidere, o di continuare a uccidere, ben difficilmente caratterizzavano la condotta dei tedeschi verso gli scherani dell'Est europeo, in genere draconiana. Le vicende e il carattere dei non tedeschi che parteciparono allo sterminio degli ebrei devono comunque essere studiati a fondo. Allo stato attuale, di loro sappiamo ancor meno che dei realizzatori tedeschi. I gruppi nazionali che li affiancarono pi numerosi nell'eccidio furono gli ucraini, i lettoni e i lituani, popoli di cultura radicalmente antisemita (76); il poco che sappiamo degli uomini che parteciparono direttamente ai massacri indica che molti di loro erano animati da un odio violento per gli ebrei (77). Molto rimane ancora da fare, prima di trarre conclusioni sulle loro motivazioni - e su quanto la loro condotta possa insegnarci circa i realizzatori tedeschi - occorre un'attenta analisi dei contesti (spesso

enormemente diversi) delle loro azioni, oltre che delle analogie e delle differenze nell'idea che essi avevano delle vittime (78). La strategia comparativa fondamentale nella valutazione della condotta dei tedeschi e dei non tedeschi impone di stabilire innanzitutto se nelle loro azioni vi fosse qualcosa di non puramente strutturale (cio, l'"identit" dei realizzatori e delle vittime vi ebbe un qualche peso?). Poich altri popoli non trattarono gli ebrei allo stesso modo dei tedeschi, e poich, come ho dimostrato, evidente che le azioni dei tedeschi non trovano spiegazione negli aspetti strutturali non cognitivi, lo studio di altri gruppi (nazionali) di realizzatori deve necessariamente rifuggire da ogni interpretazione riduttivistica che attribuisca delle azioni complesse ed estremamente variabili a fattori strutturali o a processi sociopsicologici dati per universali; si tratta dunque di specificare quale combinazione di fattori cognitivi e contingenti inducesse i realizzatori, indipendentemente dalla loro identit, a contribuire in tanti e diversi modi all'Olocausto. Cos abbiamo gi fatto per i realizzatori tedeschi; un lavoro analogo sui non tedeschi deve tener conto delle diverse considerazioni che potrebbero aver influenzato gruppi diversi di realizzatori. Qualunque sia l'esito di tale studio, scopo principale del confronto con gli altri gruppi nazionali rimane l'interpretazione delle motivazioni dei tedeschi, perch, come ho gi detto nell'Introduzione, furono essi i motori primi e gli unici realizzatori necessari dell'Olocausto. Le cognizioni e i valori dei tedeschi, in particolare la concezione degli ebrei, che ne spiegano il comportamento verso di loro dovrebbero gettar luce anche sul loro rapporto con i popoli non ebrei: un'altra questione comparativa di grande rilievo (79). Senza avere la pretesa che quanto segue costituisca un'analisi approfondita ed esauriente di un tema cos vasto, un abbozzo della logica cognitiva comparata dell'ideologia tedesca relativamente ad altri due gruppi pu fornire una griglia interpretativa. Una schematizzazione delle idee predominanti in Germania, gi prima che iniziassero gli eccidi e la barbarie su vasta scala, a proposito di tre gruppi - gli ebrei, i malati di mente e gli slavi (si veda Appendice 2) - che subirono sofferenze indicibili per mano dei tedeschi, chiarisce subito due cose: lo stretto rapporto tra le loro convinzioni preesistenti e le loro azioni il fatto, cio, che l'azione era governata dalla convinzione - e l'efficacia del contenuto specifico del loro antisemitismo nel fornire un'interpretazione comparata del modo in cui trattarono gli ebrei. Gli ebrei in sostanza erano visti come un popolo potentissimo, biologicamente programmato per distruggere la Germania, che per

costituzione e per scelta aveva rinunciato alla tutela della moralit tradizionale. La sicurezza imponeva di ucciderli, e la morale lo permetteva (anzi, lo incoraggiava). I malati di mente e gli handicappati gravi venivano concepiti come minorati biologici che minacciavano l'igiene organica del popolo tedesco: per chi accettava fino in fondo la visione biologistica dell'esistenza propugnata dal nazismo, bocche inutili da sfamare nella migliore delle ipotesi, nella peggiore focolai di contaminazione della razza. Un'idea che in Germania suscit contestazioni, come del resto l'applicabilit a essi della morale tradizionale. Per i nazisti pi accesi, era gente da uccidere, in modo indolore; ma molti tedeschi la percepivano come una violazione di principi profondamente radicati, e di qui le proteste (80). Gli slavi, razza inferiore, erano considerati buoni come bestie da soma; la minaccia che costituivano per i tedeschi si configurava nei termini del darwinismo sociale, come lotta per la conquista di territori e risorse. Le considerazioni che ne determinavano il trattamento erano utilitaristiche, nel senso esclusivo dell'utile dei tedeschi: andavano soggiogati e sfruttati nella misura in cui l'economia della Germania poteva trarne un utile. Ci significava uccidere i capi, reprimere spietatamente qualsiasi opposizione e ridurre tutti gli altri alla condizione di iloti. Chi aveva la fisionomia giusta, indice del ceppo razziale superiore, sarebbe stato germanizzato; il che com' ovvio era invece impossibile per un ebreo, indipendentemente dal suo aspetto. A grandi linee anche i vertici del nazismo condividevano la concezione di quei gruppi nei termini sinora delineati (in modo forse meno omogeneo per quanto riguardava i malati di mente), e dunque il nostro quadro riesce a spiegare da che cosa fossero determinate le loro intenzioni, e "insieme" la misura in cui riuscirono a realizzarle. L'ideologia tedesca governava il trattamento degli ebrei, ma anche quello degli altri popoli. Su un piano pi generale, la concezione nazista dell'umanit, penetrata e condivisa in ampi settori della societ, informava a s i rapporti dei tedeschi con i popoli sconfitti e assoggettati. Gli esseri umani erano divisi in una gerarchia di razze, intese in termini puramente biologici. In cima stavano i popoli nordici (alti, biondi, occhi azzurri), seguiti dai diversi rami razziali dell'Europa occidentale.

Prima venivano gli europei del Sud, poi, parecchio pi in basso, gli slavi; ancora pi in basso i popoli asiatici. Sul fondo, nei pressi del confine che separa gli esseri umani dai primati, i neri (81). La concettualizzazione della sequenza si perdeva in un'infinit di idee nebulose, ma il criterio era comunque fornito dalle capacit presunte: doti come l'intelligenza si sarebbero riscontrate in misura progressivamente inferiore in base alla posizione occupata da ciascun popolo nella gerarchia. Il carattere dell'occupazione tedesca nei diversi paesi rispecchia quasi alla perfezione questa concettualizzazione - e ovviamente ne deriva. Gli scandinavi furono trattati nel modo pi tollerante e permissivo; l'Europa occidentale, meno fortunata, ebbe comunque sorte migliore del Meridione. Quanto ai popoli slavi, la forza di quell'ideologia delirante era tale che la ferocia assassina dell'occupazione port grave danno allo stesso sforzo bellico della Germania, suscitando ostilit anche dove, inizialmente, c'era stata disponibilit alla collaborazione. Come ho dimostrato a proposito del lavoro degli ebrei, anche i modi diversi in cui venivano trattati dalla popolazione tedesca i forzati stranieri che lavoravano in Germania rispecchiavano la gerarchia razziale. Una gerarchia, questa, che sottolinea anche la particolarit della posizione occupata dagli ebrei nell'immaginario dei tedeschi: non comparivano nemmeno nella sequenza. Come spiegava un libro per l'infanzia del 1936: "Il Diavolo padre dell'Ebreo. Quando Dio cre il mondo Invent le razze: Gli indiani, i negri, i cinesi, E l'essere malvagio che l'Ebreo" (82). Walter Buch, giudice supremo del Partito nazista, metteva bene in chiaro in un suo articolo del 1938 per la prestigiosa rivista Deutsche Justiz che quell'essere malvagio non era in alcun modo imparentato nemmeno con le razze inferiori: Il nazionalsocialista riconosce che l'ebreo non un essere umano (83). Gli ebrei non rientravano nella gerarchia del genere umano, erano una razza sui generis, un'antirazza ("Gegenrasse"). Il termine subumano ("Untermensch"), usato abbondantemente dai tedeschi, veniva riferito alle presunte razze inferiori, gli slavi per esempio, per indicarne le minori capacit; ma gli ebrei non erano subumani in quanto di capacit limitate: anzi, i tedeschi li consideravano nemici estremamente intelligenti e astuti.

Secondo Hitler le doti mentali dell'ebreo si sono affinate nel corso di molti secoli. Oggi passa per "furbo", e tale, in un certo senso, sempre stato (84). L'astuto ebreo che congiura perfidamente per derubare e imbrogliare i tedeschi, il machiavellico finanziere internazionale come il bottegaio dell'angolo, era un personaggio di primo piano nel panorama mentale della Germania; la presunta capacit di nutrirsi come un parassita dell'onesto lavoro dei tedeschi era a un tempo la strategia e la vittoria di quel pericoloso nemico. La subumanit degli ebrei aveva carattere diverso da tutte le altre: erano moralmente depravati, di una depravazione cos sconfinata che Himmler pot affermare nel 1938, a un'assemblea di generali delle S.S., che gli ebrei erano il principio di tutto ci che negativo ("Urstoff alles Negativen") (85). La convinzione che negli ebrei si combinassero da un lato grande astuzia e intelligenza, dall'altro un'implacabile malignit, li configurava come il pi mortale dei nemici, come un popolo che i tedeschi non potevano non annientare. Con qualche eccezione (il genocidio perpetrato in Cambogia dai khmer rossi ne , in parte, un esempio) tutti gli altri massacri su vasta scala si sono verificati nel contesto di qualche conflitto realistico preesistente (territoriale, di classe, etnico o religioso) (86). Gli ebrei di Germania invece, non occorre sottolinearlo ancora, volevano soltanto essere dei buoni tedeschi; gli ebrei dell'Europa dell'Est non avevano alcuna ostilit preconcetta verso i tedeschi, anzi, ampi segmenti dell'ebraismo nei paesi orientali erano germanofili (87). L'immagine degli ebrei e le convinzioni che ne derivavano erano totalmente fantastiche, il tipo di idea degli altri che in genere si fanno soltanto i pazzi; quando si trattava degli ebrei, la propensione dei tedeschi i capi del nazismo come i realizzatori - al pensiero folle, magico, e la loro incapacit di verifica sulla realt li distinguono in genere dai realizzatori di altri eccidi in massa. L'estensione geografica della campagna di sterminio contro gli ebrei non ha riscontri, certamente non nel secolo ventesimo. I tedeschi braccavano e uccidevano gli ebrei ovunque ne trovassero, anche fuori dal loro paese e dai territori che controllavano, in tutto il mondo, se fosse stato possibile. Oltre all'estensione, occorre sottolineare anche la sistematicit dello sterminio: gli ebrei dovevano morire tutti, fino all'ultimo bambino.

Hitler aveva formulato i termini di questa logica gi all'inizio degli anni Venti: "Questo il punto: anche se non fosse mai esistita una sinagoga, o una scuola ebraica, o il Vecchio Testamento e la Bibbia, lo spirito giudaico esisterebbe comunque, con tutti i suoi effetti. Esiste fin dall'inizio, e non c' ebreo, non uno, che non ne sia l'incarnazione" (88). Anche gli ebrei che avevano rinunciato per scelta a essere tali convertendosi al cristianesimo, anche chi non aveva mai avuto un'identit ebraica (in quanto figlio battezzato di genitori ebrei), persone che, in altre parole, non si consideravano tali, venivano trattati come ebrei, perch erano di quel sangue e dunque di quello spirito. Pur considerando i polacchi subumani, i tedeschi ne sequestravano i bambini con la giusta fisionomia razziale germanica per allevarli come membri della razza padrona (89). I turchi, per citare uno dei tanti altri esempi di genocidio, risparmiarono molti bambini armeni abbastanza piccoli da poter dimenticare la propria nascita, crescendo cos da buoni turchi e musulmani; e a volte risparmiarono anche le donne armene disposte a convertirsi all'Islam (90). E infine, furono particolari anche la qualit e la quantit della violenza diretta che i tedeschi inflissero agli ebrei. Lo evidenzia il confronto con il modo in cui trattarono gli altri popoli soggetti; lo dimostrerebbe anche il confronto con altri genocidi e altri sistemi concentrazionari (91). I tratti distintivi dell'Olocausto derivavano organicamente dall'antisemitismo razziale demonologico, che produceva la volont di sterminio "totale" degli ebrei "ovunque" fossero, nonostante l'obiettiva assenza di qualsiasi "conflitto preesistente"; un antisemitismo che, con la sua immagine "fantastica" dell'ebraismo, esigeva a differenza degli altri genocidi l'annientamento "assoluto" degli ebrei, per evitare che qualche cellula germinale potesse rigenerare quell'eterno nemico; un antisemitismo che forn ai tedeschi l'energia per coordinare e perseguire un immenso progetto di sterminio "su scala continentale"; un antisemitismo che impregnava i realizzatori di rabbia e sete di vendetta, scatenando una "crudelt senza precedenti". Perch degli uomini possano uccidere un gruppo numeroso di loro simili, occorre che si sciolgano le costrizioni che di norma li inibiscono dal compiere azioni tanto radicali; deve accadere qualcosa nel profondo di un uomo per trasformarlo in volontario realizzatore di uno sterminato eccidio.

Quanto pi apprendiamo circa la portata e il carattere delle azioni dei realizzatori tedeschi, tanto pi ci appare insostenibile l'idea che essi non fossero in sintonia con la visione hitleriana del mondo. Questo breve esame comparativo conferma che l'interpretazione cognitiva dell'Olocausto risponde a tutti i requisiti di una spiegazione convincente. Essa non si limita a dar conto delle azioni dei realizzatori - cos difficili da valutare appieno -, degli aspetti comparativi interni al genocidio nazista e della diversa condotta verso gli ebrei dei tedeschi e di altri gruppi nazionali, come i danesi o gli italiani. Poich anche in grado di spiegare sia il modo in cui i tedeschi trattarono i popoli soggetti non ebrei, sia i tratti distintivi dell'Olocausto a fronte degli altri genocidi, essa dimostra di essere compatibile con le affini interpretazioni di altri fenomeni analoghi.

NOTE AL CAPITOLO 15 N. 1. Rachel Luchfeld, intervista dell'autore, 8 settembre 1995. Si noti che non era in grado di affermare con certezza che nell'eccidio di Jzefw gli uomini del Battaglione di Polizia 101 usarono le fruste, perch riusc a sopravvivere nascondendosi, e dunque non pot vederli. I suoi genitori, nascosti in un altro angolo della stanza, furono scoperti dai tedeschi e uccisi sul posto. Lei sent le grida e gli spari. N. 2. La sezione che segue riproduce in parte Daniel Jonah Goldhagen, "The Cowardly Executioner" cit., pagine 20-21. N. 3. Herbert Jger, "Verbrechen unter totalitrer Herrschaft" cit., pagine 79-160; Kurt Hinrichsen, Befehlsnotstand, in "N.S.-Prozesse" cit., pagine 131-61. L'articolo di Hinnchsen si fonda su uno studio pi completo, ma inedito, Zum Problem des sog. Befehlsnotstandes in N.S.G.-Verfahrens (1964), da lui condotto per conto di Z.S.t.L. come consulente sui processi intentati dai tribunali della Repubblica federale. Confronta anche David H. Kitterman, "Those Who Said No!" cit., pagine 241-54. Il taglio interpretativo di Kitterman e i suoi calcoli statistici sono inficiati dalla sua evidente disponibilit ad accogliere le versioni (ovviamente interessate) dei realizzatori.

N. 4. Herbert Jger, "Verbrechen unter totalitrer Herrschaft" cit., p. 120. N. 5. Per un esame pi particolareggiato della questione, confronta Kurt Hinrichsen, Befehlsnotstand cit., pagine 143-46,149-53,156-57. Non una delle 77 condanne per insubordinazione emesse dai tribunali di S.S. e polizia si riferisce al rifiuto di un ordine di esecuzione di ebrei. E non si trovato un solo magistrato S.S. che giudicasse un caso in cui l'accusa riguardava il rifiuto di uccidere un ebreo. N. 6. Questo argomento difensivo noto come presunta coercizione a causa di ordini superiori ("putativer Befehlsnotstand"). N. 7. Sugli "Einsatzkommandos" in generale, confronta per esempio l'atto di accusa contro Alfred Filbert e altri, in Z.S.t.L. 202 A.R. 72/60, pagine 8384,162-63. Sull'"Einsatzgruppe" C, confronta Albert Hartl, in Z.S.t.L. 207 A.R.-Z 15/58, pagine 1840-45; sull'"Einsatzgruppe" D, H.S., in Z.S.t.L. 213 A.R. 1902/66, pagine 9596. Per Sachsenhausen, confronta Z.S.t.L. Sammelband 363, pagine 1517; per la "Sicherheitspolizei" a Starnopol, l'atto di accusa contro Paulraebel e altri, in S.t.A. Stoccarda 12 Js 1403/61, pagine 117-18. N. 8. Schne Zeiten cit., p. 82. N. 9. P.K., in Z.S.t.L. 208 A.R.-Z 5/63, p. 503; anche Vermerk, in Z.S.t.L.. 208/2 A.R.-Z 1176/62, p. 732. N. 10. Daniel Jonah Goldhagen, "The Cowardly Executioner" cit., p. 31, nota 11. N. 11. "Official Transcript of the American Military Tribunal" cit., p. 593. N. 12. Herbert Jger, "Verbrechen unter totalitrer Herrschaft" cit., p. 147. N. 13. Questa testimonianza stata resa da Albert Hartl, intendente capo dell'"Einsatzgruppe" C: confronta Z.S.t.L. 207 A.R.-Z 15/58, p. 1840. Confronta altres Robert M.W. Kempner, "S.S. im Kreuzverhr", Mnchen, Rtten & Loening Verlag, 1964, p. 82. Perch mai le S.S. e gli organi di sicurezza furono tanto permissivi, considerato che i loro capi concepivano gli ebrei come i grandi nemici della Germania e dell'umanit, come una razza maligna determinata a distruggere

tutte le altre? Himmler stesso fornisce la probabile spiegazione dichiarando che lo sterminio degli ebrei pu essere portato avanti solo ... dagli individui pi solidi ... nazionalsocialisti fanatici, impegnati fino in fondo. E in un'altra occasione ebbe a spiegare che se un uomo ritiene di non dover rispondere dell'obbedienza a un ordine ... voi pensate: gli sono saltati i nervi, un debole. E allora direte: bene, ora che tu vada in pensione. Come dimostrano gli esempi a adotti sopra, e come confermano le parole di Himmler, era ammissibile che un tedesco non eseguisse gli ordini per debolezza: non era pi un superuomo nazista, vero, ma non per questo diventava un criminale. Confronta Hans Buchheim, Command and Compliance cit., p. 366; Norimberga, doc. 1919-P.S., in "Nazi Conspiracy and Aggression" cit., vol. 4, p. 567; e Kurt Hinrichsen, Befehlsnotstand cit., p. 161. N. 14. Confronta Robert G.L. Waite, "Vanguard of Nazism: the Free Corps Movement in Postwar Germany, 1918-1923", New York, W.W. Norton, 1969, sul movimento che avrebbe poi fornito a Hitler gran parte delle sue truppe d'assalto. Una rassegna a livello locale dell'opposizione aperta e violenta a Weimar in William S. Allen, "The Nazi Seizure of Power" cit., pagine 23-147. N. 15. Questa azione paradossale part dai pi alti livelli, dal capo di stato maggiore dell'esercito generale Franz Halder, sotto i cui auspici l'esercito divenne compartecipe a pieno titolo dello sterminio degli ebrei sovietici. Halder, un convinto avversario di Hitler, fu tra coloro che considerarono l'ipotesi di assassinarlo. Confronta Helmuth Groscurth, "Tagebcher eines Abwehroffiziers, 19381940", Stuttgart, Deutsche Verlags-Anstalt, 1970, diario personale, in data 1 novembre 1939. N. 16. Esempi in Norimberga, doc. 3257-P.S., in I.M.G., vol. 32, pagine 73-74, e Helmut Krausnick e Hans-Heinrich Wilhelm, "Die Truppe des Weltanschauungskrieges" cit., p. 229. Se per questo, l'esercito si adoper con energia contro l'ordine di uccidere i commissari sovietici (agenti reali del bolscevismo), ma non contro quello che riguardava gli ebrei (la fonte presunta del bolscevismo). L'opposizione all'ordine sui commissari derivava dalla convinzione dei comandanti sul campo che servisse soltanto a rafforzare la resistenza delle truppe sovietiche.

Confronta Jrgen Frster, "Hitler's War Aims Against the Soviet Union and the German Military Leaders", in Militrhistorisk Tidskrift, 183,1979, pagine 88-89, e Hans-Adolf Jacobsen, The "Komissarbefehl" and Mass Executions of Soviet Russian Prisoners of War, in "Anatomy of the S.S. State" cit., pagine 505-35, 521-23. N. 17. Lettera del 30 gennaio 1943, in Hoffmann, pagine 523-24. Per una discussione sui contenuti della lettera, confronta la prima parte dell'Introduzione di questo volume. Browning dedica a Hoffmann un breve capitolo in cui fa cenno alla lettera, ma inspiegabilmente si astiene dal discutere e interpretare nel dettaglio il fondamentale contenuto di un documento che mette in luce la mentalit di un assassino genocida (un personaggio chiave, tra l'altro, nella vita del proprio battaglione di polizia), documento che svela la sua valutazione all'epoca delle intenzioni e delle motivazioni degli uomini, e che merita senza dubbio di essere analizzato, almeno quanto le dichiarazioni autoassolutorie rilasciate dagli assassini dopo la guerra. Sulla lettera e gli eventi che seguirono, confronta Christopher R. Browning, "Ordinary Men" cit. pagine 119-20. N. 18. Confronta, per esempio, Richard Evans, In Pursuit of the "Untertanengeist": Crime, Law and Social Order in Germany History, in "Rethinking German History: Nineteenth-Century Germany and the Origins of the Third Reich", London, Allen & Unwin, 1987, pagine 156-87. E' sorprendente che si possa ancora affermare che i tedeschi obbediscono acriticamente all'autorit, di fronte alle abbondanti attestazioni di insubordinazione e disprezzo per tanti tipi di autorit ai tempi di Weimar, per non dire di tutte le rivoluzioni e insurrezioni avvenute nella storia della Germania moderna. N. 19. Stanley Milgram, "Obedience to Authority" cit. Lo stesso esperimento di Milgram smentisce l'idea di una sua rilevanza per la spiegazione della condotta dei realizzatori, sebbene Milgram non arrivi a questa conclusione. Modificando le condizioni dell'esperimento, egli verific che quanto pi le persone che somministravano le scosse si trovavano di fronte all'apparente sofferenza di chi le subiva, tanto pi decidevano di sfidare la sua autorit di ricercatore dell'Universit di Yale, sicch un buon 70 per cento rifiut di somministrare le scosse quando dovevano essere loro stessi a collocare la mano della vittima sulla piastra (pagine 33-36).

Don Mixon, che rifece l'esperimento di Milgram utilizzando la teoria del gioco, sostiene in modo convincente che la questione centrale non l'obbedienza all'autorit, bens la fiducia. Confronta "Instead of Deception", in Journal for the Theory of Social Behaviour 2,1972, n. 2, pagine 145-77. N. 20. Herbert C. Kelman e V. Lee Hamilton, "Crimes of Obedience" cit. Gli autori trattano anche questioni attinenti al nostro tema, ma la loro analisi risulta inficiata, specie a proposito dei realizzatori dell'Olocausto, perch parte dall'idea che chi agisce riconosca la criminosit delle proprie azioni. N. 21. La pi recente ed energica esposizione di questo tema in Christopher R. Browning, "Ordinary Men" cit., pagine 159-89. N. 22. Ibid., pagine 184-85, Browning sostiene che gran parte degli uomini del Battaglione di Polizia 101 non aveva intenzione di uccidere gli ebrei, ma poich il lavoro andava comunque fatto, ognuno di loro si sent in dovere di non lasciare ad altri quel compito ingrato. E' una spiegazione psicologicamente insostenibile, tenendo conto di ci che si chiedeva loro di fare, cio massacrare uomini, donne e bambini che, in questa prospettiva, i realizzatori avrebbero dovuto considerare come vittime del tutto innocenti. Ci sono limiti a ci che un uomo pu fare per il bene della patria. L'argomentazione resa ancor pi problematica dal fatto che nella documentazione relativa alle parole e alle azioni degli uomini del Battaglione 101 non esiste praticamente nulla che la confermi. E se si passa a esaminare le testimonianze dei tedeschi di altri battaglioni o altre strutture della morte, l'inattendibilit di questa interpretazione risulta ancora pi chiara. Nelle mie estese letture delle testimonianze, non mi sono mai imbattuto in un tedesco il quale dichiarasse che i camerati si opponevano al massacro, ma si sentivano in obbligo di non lasciare ad altri il lavoro sgradevole. Se cos fosse stato, nel Battaglione 101o in qualsiasi altra struttura della morte, le esplicite testimonianze in proposito sarebbero cos numerose da rendere la cosa quasi ovvia. N. 23. La spiegazione potrebbe valere per un intero gruppo di persone soltanto se ognuna fosse convinta che le altre avessero opinioni contrarie alla sua, il che richiederebbe un livello di atomizzazione pari a quello immaginato da

Hannah Arendt in "Le origini del totalitarismo" cit., per la Germania nel periodo nazista. Secondo la Arendt, il potere totalitario non distrugge soltanto la dimensione pubblica, distrugge anche la vita privata: si fonda sulla solitudine, sull'esperienza di non appartenere al mondo, che tra le esperienze pi estreme e disperate che un uomo possa provare. E invece i realizzatori non erano esseri atomizzati, solitari: appartenevano a pieno titolo al loro mondo e avevano ampia possibilit - e ne fecero ovviamente uso - di discutere e riflettere su quanto facevano. N. 24. Per alcuni casi, compreso quello di Karl Koch, che fu messo a morte dai nazisti per i suoi furti, confronta Tom Segev, "Soldiers of Evil" cit., pagina 142 e seguenti, 210. N. 25. In una certa misura la plausibilit della spiegazione proposta dipende dal modo in cui ciascuno di noi percepisce il cinismo della gente. Gli studiosi convinti che in cambio di una promozione, o di una nota di merito, questi tedeschi fossero disposti ad ammazzare migliaia di ebrei dovrebbero essere convinti anche che tutti i loro colleghi, e loro stessi, in cambio di una cattedra universitaria o di un piccolo aumento di stipendio sarebbero disposti a mitragliare migliaia di innocenti. E i medici dovrebbero sottoscrivere l'idea che tutti o quasi i loro colleghi sarebbero lieti di somministrare iniezioni letali a migliaia di persone, di fronte alla prospettiva di un miglioramento della propria posizione istituzionale. N. 26. Raul Hilberg, "The Destruction of European Jews" cit., p. 649. N. 27. Ibid. (ed. orig. pagine 643-49), sull'efficienza del massacro anche se il personale che lo gest non era in definitiva sufficiente alle dimensioni dell'operazione. Dissento in gran parte da Raul Hilberg, ma la sua conclusione sulla vicenda del genocidio rimane indiscutibile: Nessun problema morale si rivel insormontabile. Quando per tutti i partecipanti venne il momento della verifica, pochi esitarono e quasi nessuno disert. In nessun punto della catena il vecchio ordine morale riusc a far breccia: si tratta di un fenomeno di proporzioni straordinarie (p. 649). N. 28. Citato in Robert Jay Lifton, "The Nazi Doctors" cit., p. 147.

N. 29. William Blake, A Divine Image, da "Canti dell'esperienza". N. 30. Orlando Patterson, "Slavery and Social Death" cit., p 198. N. 31. Citato in Hermann Langbein, "Menschen in Auschwitz" cit., p. 389. N. 32. Oskar Pinkus, "The House of Ashes", Cleveland, World Publishing Co., 1964, pagine 24-25. N. 33. Chaim A. Kaplan, "The Warsaw Diary of Chaim A. Kaplan", a cura di Abraham I. Katsh, New York, Collier Books, 1973, pagine 155-56. Come molti altri sopravvissuti, Henry Orenstein, "I Shall Live" cit., p. 131, rimase colpito dalle pochissime brave persone che conobbe tra i tedeschi: Arriv a Hrubieszw un nuovo giovanotto della Gestapo; un sempliciotto, con una risata da cavallo, ma almeno non fece mai del male a nessuno: era l'unico membro della Gestapo di cui nessuno aveva paura. Forse fu proprio la bonariet di quel sempliciotto a fare di lui un'eccezione in quel mondo di crudelt. N. 34. Erich Goldhagen, "The Mind and Spirit of East European Jewry During the Holocaust", The Beiner-Citrin Memorial Lecture, Cambridge (Mass.), Harvard College Library, 1979, pagine 8-9. N. 35. L'idea di Christopher R. Browning, "Ordinary Men" cit., p. 95, che la brutalit dei tedeschi fosse una risposta strumentale alle difficolt oggettive poste, per esempio, dalla scarsit di personale per le operazioni di rastrellamento nei ghetti, o quella affine di Raul Hilberg che nella pi parte dei casi essa fosse una manifestazione di impazienza nel corso della regolare conduzione degli eccidi ("Perptrators Victims, Bystanders: The Jewish Catastrophe, 1933-1945", New York, Asher Books, 1992; trad. it. "Carnefici, vittime, spettatori. La persecuzione degli ebrei, 19331945", Milano, Mondadori, 1994, p. 55), sono insostenibili. Senza dubbio entrambi i casi si verificarono, ma tentare di spiegare la sequela praticamente illimitata delle crudelt dei tedeschi - in gran parte verificatesi non durante gli eccidi ma nel contatto quotidiano con gli ebrei all'interno e all'esterno dei campi - appellandosi al pragmatismo o all'impazienza significa ignorare o fraintendere uno degli aspetti costituitivi dell'Olocausto, la cui natura non pragmatica, anche e soprattutto negli

eccidi, viene attestata di continuo e quasi senza eccezione nei molti diari contemporanei delle vittime, e nella vasta memorialistica dei sopravvissuti. N. 36. Aharon Weiss, Categories of Camps cit., p 129. N. 37. Confronta Susan Zuccotti, "The Italians and the Holocaust: Persecution, Rescue, Survival", New York, Basic Books, 1987 (trad. it. "L'Olocausto in Italia", Milano, Mondadori, 1988), e Daniel Carpi, The Rescue of Jews in the Italian Zone of Occupied Croatia, in "Rescue Attempts During the Holocaust: Proceedings ot the Second Yad Vashem International Conference", a cura di Israel Gutman ed Efraim Zuroff, Jerusalem, Ahva Cooperative Press, 1977, pagine 465-506. N. 38. Non si vuole in alcun modo sostenere che esista un carattere tedesco eterno. La struttura caratteriale e i modelli cognitivi comuni dei tedeschi hanno avuto un'evoluzione storica, e soprattutto dopo la sconfitta nella seconda guerra mondiale hanno vissuto spettacolari cambiamenti. N. 39. Vanno dunque specificati anche gli attributi assegnati ad altri popoli, che permisero ai tedeschi di trattarli come fecero: uccidendoli, asservendoli, brutalizzandoli. Lo faremo nel prossimo capitolo. N. 40. Per una discussione su questo tema generale nelle scienze sociali, confronta "The Micro-Macro Link", a cura di Jeffrey C. Alexander et al., Berkeley, University of California-Press, 1987. N. 41. Una possibile eccezione (secondo i termini in cui viene formulata) data dall'interpretazione fondata sulla tendenza dei tedeschi a obbedire all'autorit. N. 42. Se inoltre esiste un unico elemento interpretativo - specie se capace di indicare il fattore motivazionale comune - che possa dar conto della grande maggioranza dei fenomeni in questione, esso comunque preferibile a qualsiasi spiegazione strutturata a mosaico. N. 43. Dottor Reinhard Maurach, Expert Legal Opinion Presented on Behalf of the Defense, in U.S. vs. Ohlendorf et al., in T.W.C., vol. 4, pagine 339-55, in particolare le pagine 351, 350, 353, 354.

Fino all'ultimo la relazione di Maurach oscilla tra la proclamazione dell'erroneit delle idee dei realizzatori sugli ebrei e la convinzione che esse avessero basi reali. Non lascia comunque dubbi sul fatto che quelle convinzioni fossero sincere. N. 44. Otto Ohlendorf, lettera del 7 agosto 1947, copia in mio possesso. L'attendibilit del quadro dipinto da Maurach delle convinzioni degli "Einsatzcommandos" sull'ostilit degli ebrei verso la Germania trova abbondante conferma nelle testimonianze dei realizzatori, non soltanto nel processo di Norimberga alle "Einsatzgruppen", ma anche nelle indagini successive. Confronta, per esempio, W.K., in Z.S.t.L. 207 A.R.-Z 15/58, pagine 2453-54. N. 45. Per una analisi di questo complesso personaggio, confronta Daniel Jonah Goldhagen, The "Humanist" as a Mass Murderer: the Mind and Deeds of S.S. General Otto Ohlendorf, tesi di laurea, Harvard College, 1982. N. 46. Questa spiegazione andrebbe accettata non solo perch (come si dimostra pi avanti) riesce a dar conto delle azioni dei realizzatori melio di ogni altra - il che non lascia alternative all'adottarla - ma anche perch risponde straordinariamente bene al ben pi arduo criterio di dar conto dei diversi fenomeni (fatte le inevitabili eccezioni). E inoltre resa tanto pi credibile dalle sue basi teoriche e storiche. N. 47. Deutscher Wochendienst, 2 aprile 1943: Norimberga, doc. N.G.4713, citato in Raul Hilberg, "The Destruction of European Jews" cit., p. 656. N. 48. Ernst Hiemer, "Der Giftpilz", Nrnberg, Verlag Der Strmer, 1938, p. 62. N. 49. H.G., in H.G., p. 456. N. 50. Oskar Pinkus, "Thi House of Ashes" cit., p. 119. Viveva nella citt di Losice, immediatamente a nord della zona alla cui decimazione partecip il Battaglione di Polizia 101. N. 51. Henry Orenstein, "I Shall Live" cit., pagine 86-87. N. 52. Citato in Schne Zeiten cit., p. 78.

Parla anche delle frequenti occasioni di bottino, ma evidente che quello era un gradito sovrappi, non la fonte del loro odio per gli ebrei e della gioia che provavano nell'ucciderli. N. 53. Chaim A. Kaplan, "The Warsaw Diary of Chaim A. Kaplan" cit., p. 87. Kaplan usa nazisti, ma dovremmo leggere tedeschi, perch in tutto il diario definisce sempre nazisti tutti i tedeschi che conosceva o di cui sentiva parlare - molti dei quali non erano nazisti per affiliazione istituzionale. E' una sineddoche significativa. N. 54. Cos li caratterizza Michael R. Marrus in "The Holocaust in History" cit., p. 47. N. 55. Questi versi furono citati anche nella sentenza del processo di Norimberga alle "Einsatzgruppen", che confut le argomentazioni autoassolutorie degli imputati. Confronta U.S. vs. Ohlendorf et al. in T.W.C., vol. 4, pagine 483-88. N. 56. William Shakespeare, "Giulio Cesare", 2, 1,172. N. 57. Confronta John Wheeler-Bennett, "The Nemesis of Power: the German Army in Politics, 1918-1945", New York, St. Martin's Press, 1953, pagine 683-84 (trad. it. "La nemesi del potere. Storia dell'esercito tedesco dal 1918 al 1945", Milano, Feltrinelli, 1957), e Allen Dulles, "Germany's Underground", New York, The Macmillan Co., 1947, p. 83.N. 58. Sulla ricerca di un metodo umano per uccidere i malati di mente e gli handicappati gravi, confronta Henry Friedlander, "The Origins of Nazi Genocide" cit., p. 86. N. 59. Alfred Rosenberg, "Die Protokolle der Weisen von Zion und die jdische Weltpolitik", Mnchen, Deutsche Volksverlag, 1933, p. 132. N. 60. Bruno Malitz, "Die Leibesuebungen in der nationalsozialistischen Idee", Mnchen, Verlag Frz. Eher Nacht., 1934, p. 45. N. 61. Herman Melville, "Moby Dick", trad. it. C. Minoli, Milano, Mondadori, 1995, p. 232. N. 62.

Per quanto fosse alla base del loro profondo odio per gli ebrei e dell'impulso a farli soffrire, l'antisemitismo dei tedeschi non basta ovviamente a spiegare la predisposizione degli individui alla crudelt, n la gratificazione che molti ne traggono. La crudelt dei tedeschi verso gli ebrei fu tanto immensa da risultare quasi imperscrutabile.N. 63. La tenacia del modello cognitivo culturale degli ebrei si riscontra in una lettera di un comune soldato tedesco del giugno 1943, quando ormai da qualche tempo la guerra andava male per la Germania. Scrive che a nessuno importa pi del regime nazista. Come lo sa? Tra camerati possiamo dire ci che vogliamo. E' finito il tempo del fanatismo e dell'intolleranza delle opinioni altrui, e il cambiamento si riassume in una maggiore sobriet: Un po' per volta si comincia a pensare in modo pi chiaro e sereno. Se vogliamo vincere la guerra dobbiamo diventare pi ragionevoli, non possiamo respingere tutto il mondo con la magniloquenza e la spacconeria. Tu stesso ti sei accorto durante l'appello che oggi si parla in modo diverso da tre anni fa. Cos egli descrive il nuovo e diffuso atteggiamento critico nei confronti del regime, la consapevolezza di dover trovare il modo di vivere in armonia con gli altri, e l'assoluta libert di esprimere queste opinioni tra camerati. Ma nei confronti degli ebrei, rimanevano nazisti: E' vero che dobbiamo vincere la guerra per non rimanere esposti alla vendetta degli ebrei, ma i sogni di dominio sul mondo si sono dileguati. Citato in "Das andere Gesicht des Krieges: deutsche Feldpostbriefe, 19391945", a cura di Ortwin Buchbender e Reinhold Sterz, Mnchen, C.H. Beck, 1982, pagine 117-18. L'antisemitismo virulento, ossessivo, delle lettere di soldati comuni raccolte in questo volume porta in piena luce l'idea assolutamente fantastica, demonologica, che essi avevano degli ebrei. N. 64. Non quindi strano che l'adesione alle convinzioni culturali e quella al nazismo potessero rimanere due cose distinte, e che chi avversava il nazismo in altri contesti potesse marciare al suo fianco contro gli ebrei. L'autonomia delle due dimensioni esisteva in Germania nel periodo nazista come esiste in Germania o negli Stati Uniti oggi, dove i pi duri oppositori del partito al governo possono nondimeno sostenere, magari con entusiasmo, certi aspetti della sua politica. N. 65.

I festeggiamenti e le vanterie dei realizzatori non possono certo sorprendere, perch i soldati celebrano sempre le grandi vittorie e si vantano delle proprie gesta eroiche; dopo tutto, per l'antisemita demonologico una vittoria contro gli ebrei assumeva valore epocale. Salvo l'immane crudelt, tutte le azioni dei tedeschi si sarebbero potute prevedere se qualcuno avesse preso sul serio la natura e la portata dell'antisemitismo dei tedeschi, e si fosse reso conto degli effetti che poteva avere se inquadrato in un programma governativo di sterminio. Pur ammettendo che facile, col senno di poi, fare tali dichiarazioni, per quanto riguarda i festeggiamenti l'analogia con i soldati vittoriosi avrebbe dovuto dare da pensare. N. 66. Citato in Schne Zeiten cit. p. 185. N. 67. Per ciascuna struttura della morte si sono studiati a fondo due o tre casi fondamentali, in modo da fornire la descrizione dettagliata necessaria a comunicare il carattere della struttura e della condotta dei suoi membri. A questo si aggiunge un'analisi pi ampia della struttura, che dimostra come i tratti essenziali dei casi approfonditi erano anche aspetti generali del quadro d'insieme. Queste specifiche strutture della morte sono state scelte proprio perch, ciascuna a suo modo, avrebbero dovuto sottoporre alla pi severa verifica l'idea che l'antisemitismo eliminazionista motivasse i realizzatori a uccidere gli ebrei, e che esso fosse abbastanza forte da travolgere ogni altra considerazione che avrebbe potuto temperare l'impulso allo sterminio. N. 68. Henry Orenstein, "I Shall Live" cit., p. 112. N. 69. Lettera di Karl Kretschemer del 27 settembre 1942, in Z.S.t.L. 204 A.R.Z 269/60, Sonderband K.A., p. 13. N. 70. La presunta responsabilit degli ebrei per i bombardamenti in Germania, per la guerra partigiana, per gli attentati all'economia tedesca non veniva usata dai comandanti tedeschi al pari di giustificazione, come se queste presunte azioni degli ebrei fossero la causa del genocidio che avrebbe spinto quegli uomini a massacrare fino all'ultimo bambino ebreo. Essi ne parlavano invece, quasi senza darvi importanza, solo come significativo esempio della presunta malignit e delle macchinazioni degli ebrei, per richiamare alla mente dei loro uomini l'essenziale malvagit della minaccia mortale che gli ebrei avrebbero rappresentato per la Germania.

N. 71. Confronta sopra, la nota 13. N. 72. Citato in Helmut Krausnick e Hans Heinrich Wilhelm, "Die Truppe des Weltanschauungskrieges" cit., p. 557. N. 73. Per il caso di un uomo delle S.S., un assassino eccezionalmente brutale di ebrei che fu condannato da un tribunale di S.S. e polizia, tra le altre cose, per aver scattato fotografie degli eccidi e per averle mostrate alla moglie e agli amici, confronta Schne Zeite cit., pagine 183-192, in particolare la p. 188. Il tribunale lo elogi comunque esplicitamente per il sincero odio per gli ebrei, che motiv le azioni dell'imputato (p. 201). N. 74. La maggiore responsabile della promozione di questa immagine , naturalmente, Hannah Arendt, "La banalit del male. Eichmann a Gerusalemme", Milano, Feltrinelli, 1964, e "Le origini del totalitarismo" cit. Persino la ricostruzione, assai pi sfumata, di Christopher R. Browning in "Ordinary Men" cit. cade a volte in questi toni (confronta esempi in "Ordinary Men" cit., alle pagine 74, 185). N. 75. Valutando i vari fattori che contribuirono al tasso di sopravvivenza degli ebrei italiani, che fu tra i pi alti in assoluto (fatta eccezione per l'eroica Danimarca) nei paesi occupati dai tedeschi, Susan Zuccotti, "The Italians and the Holocaust" (trad. it. "L'Olocausto in Italia" cit., p. 285) scrive: Ovviamente, i fattori immediatamente favorevoli all'aiuto agli ebrei durante l'Olocausto vanno collocati nel contesto delle consuetudini e delle tradizioni dei singoli paesi. La tradizione pi importante, chiaro, l'esistenza o l'assenza dell'antisemitismo. Per molte ragioni, l'Italia moderna non aveva una tradizione antisemita. Confronta anche Daniel Carpi, The Rescue of Jews, cit., pagine 465-506. Sul salvataggio degli ebrei danesi, confronta Leni Yahil, "The Rescue of Danish Jewry: Test of a Democracy", Philadelphia, Jewish Publication Society of America, 1969. Un esame complessivo dell'influenza cruciale dell'antisemitismo presente in ciascun paese per la sopravvivenza dei suoi ebrei durante l'occupazione tedesca, in Helen Fein, "Accounting for Genocide: National Responses and

Jewish Victimization During the Holocaust", New York, Free Press, 1979, in particolare p. 82. N. 76. Una lituana annota nel suo diario: Tutti i lituani, e soprattutto gli intellettuali, con un piccolo numero di eccezioni, sono uniti nell'odio per gli ebrei ... Non riesco a credere ai miei occhi; rabbrividisco di fronte alla cieca forza dell'odio. Citato in "Lite", a cura di Mendl Sudarski, Urivah Katzenelbogen, Y. Gisin, New York, Futuro Press, l95l, p 1666. Confronta pure L. Garfunkel, "Kovna Hay'udit b'khurbanah", Jerusalem, Yad Vashem, 1959; "Ukrainian-Jewish Relations in Historical Perspective", a cura di Peter J. Potichny e Howard Astor, Edmonton CIUS, 19902; "Alliance for Murder: the NaziUkrainian Nationalist Partnership in Genocide", a cura di B.F Sabrin, New York, Sarpedon, l99l; Shmuel Spector, "The Holocaust and Volhynian Jews, 1941-1944", Jerusalem, Yad Vashem, 1990. N. 77. Confronta, per esempio, l'atto di accusa e la sentenza contro Viktor Arajs, rispettivamente Amburgo 141 Js 534/60 e Amburgo (37) 5/76, nonch la sentenza contro Karl Richard Streibl e altri, Amburgo 147 K.s. 1/72. N. 78. E' strano che si sappia cos poco dei realizzatori di altri genocidi. Una rassegna della letteratura in proposito non dice molto sulla loro identit, sul carattere delle loro vite di assassini, sulle loro motivazioni. Ne un esempio Frank Chalk e Kurt Jonassohn, "The History and Sociology of Genocide" cit. N. 79. E' un confronto istruttivo, perch tra l'altro ci consente di esaminare le differenze nella condotta dei tedeschi verso popoli di altre razze, e nazionalit in situazioni strutturalmente simili, e soprattutto nei campi. Un esame che conferma la conclusione che le variabili strutturali e situazionali non possono dar conto di quelle differenze, poich se la variabile indipendente non varia (la struttura rimane costante), essa non pu causare la variazione di quella dipendente (il diverso trattamento riservato ai diversi gruppi di detenuti); il confronto sostanzia senza alcun dubbio la conclusione che non furono le cause strutturali e situazionali a generare la disponibilit dei tedeschi a uccidere e torturare gli ebrei. Persino Wolfgang Sofsky, che in "Die Ordnung des Terrors" sostiene energicamente la spiegazione strutturale della condotta delle guardie nei

campi di concentramento, deve riconoscere le enormi differenze nel trattamento che essi riservavano ai diversi gruppi di detenuti (pagine 13751). Il che, naturalmente, mette in dubbio la sua prospettiva strutturale, per quanto egli eviti di trarne le adeguate conclusioni. Una rassegna delle aggressioni naziste contro non ebrei in "A Mosaic of Victims: Non-Jews Persecuted and Murdered by the Nazis", a cura di Michael Berenbaum, New York University Press, New York, 1990.N. 80. E' significativo che l'lite medica e scientifica fosse pi sensibile a queste idee sui malati che non il contadino medio. Confronta Robert Proctor, "Racial Hygiene" cit. Chi sostiene che gli assassini erano uomini di scarse doti mentali, individui incapaci di pensare che sono presenti in tutte le societ e che, si presume, possono essere indotti senza fatica alla brutalit, si vede costretto a presentare quella lite intellettuale (e i laureati all'interno del "Sicherheitsdienst", l'S.D.) come un gruppo di supernazisti, se vuole spiegarsi come fu possibile che delle persone intelligenti perpetrassero quei crimini. Perch considerarli dei supernazisti? Erano un'lite intellettuale che elabor in ragionamento pseudoscientifico le correnti comuni all'immaginario tedesco, portandole a logica conclusione. Si limitarono dunque a dare forma scientifica alle opinioni della strada che non circolavano soltanto per le strade, ma anche nelle case borghesi e nelle universit tedesche - traendone implicazioni pratiche che, semmai, concedevano meno spazio alla variazione. Chi non riconosce la prospettiva nazificata comune ai realizzatori deve trovare un tipo di spiegazione per le presunte anime semplici, e un altro per i supernazisti, dichiarando come dogma che chiunque stesse nel mezzo aveva un altro atteggiamento nei confronti del massacro sistematico dei gruppi designati. Ha molto pi senso cercare i fili comuni che trasformarono i tedeschi di ogni ceto e grado in agenti consenzienti della morte. N. 81. Gli aspetti portanti della teoria razziale nazista sono in Hans Gnther, "Rassenkunde des deutschen Volkes" cit.; confronta anche Hans Jrgen Lutzhft, "Der Nordische Gedanke in Deutschland", 1920-1940, Stuttgart, Ernst Klett Verlag, 1971. N. 82.

Christa Kamenetsky, "Children's Literature in Hitlter's Germany: The Cultural Policy of National Socialism", Athens (Ohio), Ohio University Press, 1984, p. 166. N. 83. Max Weinreich, "Hitler's Professors: The Part of Scholarship in Germany's Crimes Against the Jewish People", New York, YIVO, 1946, p. 89, nota 204. N. 84. Adolf Hitler, "Mein Kampf", ed. cit., p. 329. N. 85. Josef Ackermann, "Heinrich Himmler als Ideologe", Gttingen, Musterschmidt, 1970, p. 160. N. 86. Cos fu per il massacro turco degli armeni, per quello dei comunisti indonesiani, per quello tutsi degli hutu in Burundi, per la strage dei kulaki e le misure genocide di Stalin in Ucraina, per il massacro pakistano dei bengalesi in Bangladesh, per citarne soltanto alcuni. Su questi e altri genocidi, confronta Franck Chalk e Kurt Jonassohn, "The History and Sociology of Genocide" cit.; Leo Kuper, "enocide: Its Political Use in the Twentieth Century", New Haven, Yale Universitv Press, 1981; Robert Conquest, "Harvest of Sorrow: Soviet Collectivization and the Terror-Famine", New York, Oxford University Press, 1986. Esistevano certo dei conflitti oggettivi, ma questo ovviamente non giustifica il genocidio, n attribuisce alcuna responsabilit alle vittime per le azioni degli assassini. N. 87. In un primo momento, quando ancora non si erano resi conto che questi tedeschi erano diversi da tutti i tedeschi che essi avevano conosciuto, gli ebrei sovietici accolsero l'esercito occupante senza prevenzioni n ostilit. Un tedesco, ispettore per gli armamenti, riferiva invece in un rapporto al generale Georg Thomas che ovvio, n pu sorprendere, l'odio che [gli ebrei] nutrono dentro di s per l'amministrazione e l'esercito tedesco (Norimberga 3257-P.S., I.M.G., vol. 32, p. 73). Ancora le lenti deformanti dell'antisemitismo tedesco. N. 88. Citato in Steven E. Aschheim, "The Jew Within": The Myth of "Judaization" in Germany, in Jehuda Reinharz e Walter Schatzberg, "The Jewish Response to German Culture: From the Enlightenment to the Second World War", Hanover, University Press of New England, 1985, p. 240. N. 89.

Confronta Georg Lilienthal, "Der Lebensborn e.V.: Ein Instrument nationalsozialistischer Rassenpolitik", Stuttgart, Gustav Fischer Verlag, 1985, pagine 218-34. N. 90. Confronta Leo Kuper, "Genocide" cit., p. 110. N. 91. Senza dubbio le condizioni nel Gulag erano spesso letali, e le guardie trattavano i detenuti in modo brutale e assassino, ma la loro crudelt non era per nulla paragonabile a quella inflitta dai tedeschi agli ebrei. Confronta Robert Conquest, "The Great Terror: A Reassessment", New York, Oxford University Press, 1968, pagine 308-40 (trad. it. "Il grande terrore", Milano, Mondadori, 1970); lo conferma anche Aleksandr Solzenicyn, "Arcipelago Gulag", trad. it. Milano, Mondadori, 1978 e ristampe.

Capitolo 16 L'ANTISEMITISMO ELIMINAZIONISTA COME MOTIVAZIONE AL GENOCIDIO

Che i realizzatori approvassero lo sterminio, e che acconsentissero con zelo a prendervi parte, assodato. Quasi altrettanto assodato che in linea di massima questo consenso derivasse dalla concezione che avevano degli ebrei, perch nessun'altra motivazione pu dar conto plausibile delle loro azioni. Ci significa che se non fossero stati antisemiti, e antisemiti di un tipo particolare, non avrebbero partecipato alle stragi, e la storia della campagna antiebraica di Hitler sarebbe stata sostanzialmente diversa. L'antisemitismo per di pi, e dunque la motivazione a uccidere, non derivava da alcuna altra origine non ideativa. E' una variabile indipendente; non riducibile ad alcun altro fattore. Bisogna sottolineare che la nostra non una ricostruzione monocausale della perpetrazione dell'Olocausto: molti fattori dovevano concorrere perch Hitler e i suoi concepissero il programma genocida, perch salissero alla posizione dalla quale potevano promuoverlo, perch l'impresa divenisse una possibilit realistica, e perch alla fine venisse realizzata. Di tali elementi, buona parte ci nota.

Questo libro si concentrato su una delle numerosissime cause dell'Olocausto, la meno considerata, cio l'indispensabile elemento motivante in assenza del quale non sarebbe potuto accadere che i tedeschi, uomini e donne, si dedicassero con il corpo, con l'anima e con l'intelligenza a quell'impresa. E per quanto riguarda la causa "motivante" dell'Olocausto, per la grande maggioranza dei realizzatori, una spiegazione monocausale di fatto sufficiente. Se l'obiettivo limitato alla causa motivante dell'Olocausto, possibile proporre le considerazioni che seguono. Vogliamo sostenere che "nel contesto storico in questione" il virulento antisemitismo razziale dei tedeschi fu la causa sufficiente non solo delle decisioni dei capi del nazismo, ma anche della motivazione che indusse i realizzatori a partecipare volonterosamente al massacro degli ebrei. Ci non significa per forza che qualche altra serie di fattori (indipendenti o collegati con l'antisemitismo dominante in Germania) non avrebbe potuto in alcun modo condurre allo stesso risultato; significa soltanto che cos non avvenne. Non v' dubbio che alcuni dei meccanismi indicati dalle spiegazioni convenzionali contribuissero davvero a determinare le azioni di alcuni "individui". E' certo che alcuni tedeschi si trasformarono in realizzatori pur essendo contrari in linea di principio allo sterminio: non a tutti fu offerta la possibilit di tirarsi indietro, non tutti erano comandati dal buon pap Trapp del Battaglione di Polizia 101. E' altrettanto probabile che, in un "clima di consenso generale", gli individui che erano contrari venissero indotti dalla pressione del gruppo a commettere azioni che consideravano delittuose, mettendo forse a tacere la coscienza con qualche comoda razionalizzazione. N si pu escludere che qualche individuo non personalmente votato all'antisemitismo pi virulento potesse finire per uccidere perch mosso da un cinismo che lo portava ad anteporre un vantaggio ambito, materiale o no, alla vita di tanti innocenti. La coercizione, la pressione sociopsicologica dei camerati consenzienti e le occasionali opportunit di promozione personale furono a volte, e in diversa misura, fattori importanti; per tutti i motivi gi detti, per, non sono in grado di spiegare "tutte" le tipologie delle azioni commesse dai realizzatori "in quanto categoria", ma soltanto quelle di qualche individuo che avrebbe potuto uccidere pur non essendo d'accordo, o di altri che

avevano forse bisogno di incoraggiamento per superare la propria riluttanza, qualunque ne fosse la causa. Nessuno dei fattori non ideologici influ in modo determinante sulla vicenda generale dell'Olocausto: se anche non fossero stati presenti - nella misura in cui lo furono - l'Olocausto sarebbe avvenuto comunque. Va sottolineato peraltro il loro scarso significato anche sul piano analitico: tutti i tedeschi rappresentativamente comuni che non subirono alcuna forma di coercizione, che non cercavano alcun vantaggio materiale o di carriera, che costituivano la maggioranza consenziente che avrebbe potuto esercitare pressione a favore del dissenso individuale e che nondimeno uccisero, tutti questi tedeschi comuni dimostrano che i fattori non ideologici furono in linea di massima irrilevanti nella perpetrazione dell'Olocausto (1). Dimostrano che l'antisemitismo razziale eliminazionista fu una causa sufficiente, una motivazione abbastanza potente da spingere i tedeschi a uccidere con zelo gli ebrei; e che in assenza di quei fattori marginali, i realizzatori, una volta mobilitati da Hitler per la grande impresa nazionale, avrebbero agito pi o meno allo stesso modo. Una seconda considerazione si rivela altrettanto convincente. In quel momento storico, l'antisemitismo dei tedeschi non fu soltanto causa sufficiente, ma anche "necessaria" della loro cos vasta adesione alla persecuzione e al massacro degli ebrei, e "insieme" della spietata ferocia con cui li trattarono. Se i tedeschi comuni non avessero condiviso gli ideali eliminazionisti dei capi, avrebbero opposto all'aggressione sempre pi violenta contro i compatrioti e confratelli ebrei quantomeno la stessa resistenza, o non collaborazione, con cui reagirono ai provvedimenti anticristiani del governo e al cosiddetto programma di eutanasia. Come abbiamo gi detto, soprattutto a proposito della politica religiosa, i nazisti arretravano di fronte a una seria e diffusa opposizione popolare; se avessero dovuto confrontarsi con un popolo tedesco che considerava gli ebrei come normali esseri umani, e gli ebrei di Germania come compatrioti, difficile immaginare che avrebbero voluto, o potuto, procedere allo sterminio. E se in qualche modo fossero riusciti ad andare avanti, sarebbe stato comunque estremamente improbabile che l'aggressione si svolgesse come invece avvenne, e che i tedeschi ammazzassero tanti ebrei; quanto alla probabilit che generasse la ferocia e lo zelo sterminatore di cui essi diedero prova, essa quasi uguale a zero.

Se la popolazione si fosse mobilitata contro l'eliminazione e lo sterminio degli ebrei, avrebbe certo fermato la mano del regime. In termini pi generali, si pu affermare che determinati tipi di convinzioni disumanizzanti relative a certe categorie di persone (2), o il fatto di imputare loro una particolare malevolenza, sono necessari, e possono essere sufficienti, per indurre gli altri a prender parte al massacro genocida di quelle persone, purch si diano le condizioni e il coordinamento - da parte dello stato, in genere adeguati all'impresa (3). Da sole, per, queste convinzioni non sono sempre sufficienti a produrre un genocidio, poich possono sussistere altri fattori di inibizione, come un codice etico e una sensibilit morale contrari a questa forma di azione omicida. Sono piuttosto le condizioni abilitanti necessarie perch uno stato mobiliti grandi numeri di cittadini e li faccia partecipare al massacro genocida. Si pu ipotizzare un'eccezione a questa necessit laddove lo stato pu esercitare una coercizione su vasta scala, costringendo i cittadini a diventare realizzatori; ma anche se indubbio che qualche individuo potrebbe esserne indotto a uccidere, mi pare improbabile che possa spingere decine di migliaia di individui ad assassinare centinaia di migliaia, o milioni, di loro simili per un periodo di tempo prolungato. L'eccezione peraltro, a quanto mi dato di sapere, non si mai verificata: n in Cambogia, n in Turchia, in Burundi, in Ruanda o nell'Unione Sovietica, per citare i pi noti genocidi del secolo ventesimo (4). I capi del nazismo, come i promotori degli altri genocidi, non fecero mai ricorso, n probabilmente avrebbero voluto farlo, alla massiccia coercizione che sarebbe stata necessaria per indurre decine di migliaia di tedeschi non antisemiti ad ammazzare milioni di ebrei. Sapendo che i tedeschi comuni condividevano le loro convinzioni, non ne avevano alcun bisogno. L'Olocausto fu un evento "sui generis", con una spiegazione storicamente specifica: le condizioni che lo produssero derivavano dall'antisemitismo antico, onnipresente, virulento, razzista ed eliminazionista della cultura tedesca, mobilitato da un regime criminale ispirato da un'ideologia genocida, e guidato e stimolato da un capo, Hitler, adorato dalla stragrande maggioranza del popolo, un capo che tutti sapevano votato fino alla morte al pi brutale programma di sterminio. Nel periodo nazista l'antisemitismo eliminazionista fu l'origine motivazionale della volont di uccidere gli ebrei, per il vertice come per la base della nazione tedesca; e fu l'origine di tutte le azioni non strettamente omicide che furono parte altrettanto integrante dell'Olocausto.

Proprio perch l'antisemitismo da solo non bast a produrre l'Olocausto, non essenziale individuare in che cosa quello tedesco fosse diverso da quello di altri popoli (5). Qualunque fosse la tradizione antisemita nel resto d'Europa, solo in Germania conquist il potere - fu anzi eletto al potere - un movimento apertamente e rabbiosamente antisemita, deciso a trasformare quelle fantasie in un massacro genocida organizzato dallo stato. Bast questo per far s che le conseguenze dell'antisemitismo tedesco fossero qualitativamente diverse rispetto ad altri paesi, sostanziando la tesi della Sonderweg: l'evoluzione della Germania segu una propria strada, che la distingueva dalle altre nazioni dell'Occidente. Al di l dunque della diffusione e intensit dell'antisemitismo dei polacchi o dei francesi, per esempio, esso non ha alcuna rilevanza nella "spiegazione" del genocidio degli ebrei compiuto dai tedeschi; potr servire a spiegare la reazione dei polacchi o dei francesi all'aggressione genocida dei tedeschi, ma non di questo che ci stiamo occupando (6). Sebbene un'analisi comparata dell'antisemitismo tedesco non sia essenziale, ai fini dell'interpretazione, vale comunque la pena di affermare che in nessun altro paese europeo quella convinzione arriv a raccogliere in s "tutte" le componenti che manifest in Germania (e anzi, in nessun altro paese "ognuna" di esse si espresse con uguale intensit). Solo in Germania l'antisemitismo fu cos largamente diffuso da divenire assioma culturale, cos saldamente collegato con il razzismo, fondato su un'immagine cos fortemente distorta degli ebrei da considerarli una minaccia mortale per il "Volk", e cos micidiale nei contenuti, ispiratore, gi nel secolo diciannovesimo, di appelli cos frequenti ed espliciti allo sterminio, appelli che esprimevano nella sua essenza la logica eliminazionista prevalente. Basterebbero la vastit senza eguali e l'aggressivit omicida della letteratura sul tema nei secoli diciannovesimo e ventesimo per dimostrare come l'antisemitismo tedesco fosse davvero "sui generis". La nostra interpretazione ha una specificit storica, ma pu aiutarci a capire anche gli altri genocidi, e i motivi per cui essi non furono ancor pi numerosi: nel corso della storia, e ancora oggi, i rapporti tra i gruppi sono caratterizzati da gravi conflitti o da guerre, ma perch gli uomini abbiano la volont e la capacit di sterminare altri gruppi di uomini occorre la presenza contemporanea di un'ideologia genocida e di opportunit per il genocidio. L'ideologia genocida generalmente mancata, e anche laddove era presente, motivando l'uomo ad ammazzare i propri simili, il suo "contenuto", che comprende sempre un'immagine della presunta natura

delle vittime, ha indotto i realizzatori a trattarle in modo significativamente diverso da quella che fu, nella sua singolare brutalit, la sistematica e micidiale persecuzione degli ebrei operata dai tedeschi. Poich le azioni dei tedeschi furono condizionate da diversi fattori oltre l'antisemitismo, occorre comprendere in quale modo interagissero le varie influenze, comprese le necessit strategiche e materiali. Come gi stato precisato in precedenza, si pu considerarlo il livello decisionale dell'evoluzione della politica eliminazionista tedesca verso lo sterminio a mano a mano che le opportunit e i vincoli si rendevano pi favorevoli alla soluzione finale. Sullo sfondo costante degli "ideali" eliminazionisti di Hitler e dei capi del nazismo, le "intenzioni" e le "decisioni" antiebraiche dei tedeschi attraversarono tre fasi distinte (7), ognuna caratterizzata da diverse occasioni concrete di risolvere la "Judenfrage" che derivarono - sia le opportunit sia i vincoli - dalla posizione geostrategica della Germania in rapporto al continente europeo e al resto del mondo. La prima fase va dal 1933 all'inizio della guerra. I tedeschi imposero radicali misure tendenti a trasformare gli ebrei in esseri socialmente morti e a cacciarli dalle case e dalla patria: incessante violenza verbale, sporadicamente ma ferocemente anche fisica; privazione delle tutele e dei diritti civili e legali; progressiva esclusione da tutte le sfere della vita sociale, economica e culturale. Poich allora la maggioranza degli ebrei d'Europa non era alla merc dei tedeschi - il che rendeva impossibile una soluzione letale della "Judenfrage" - e la Germania, relativamente debole, aveva obiettivi rischiosi in politica estera e si stava armando per la guerra imminente, erano queste le soluzioni pi finali possibili, le uniche che si potessero adottare impunemente. La seconda fase va dall'inizio della guerra ai primi mesi del 1941. La conquista della Polonia e poi della Francia e le prospettive di resa o di accettazione della pace da parte della Gran Bretagna aprivano nuove possibilit ai tedeschi, ma sussistevano ancora certi vincoli fondamentali. Ora avevano in loro potere non semplicemente centinaia di migliaia di ebrei, ma pi di due milioni e dunque potevano pensare a una soluzione alla "Judenfrage" pi efficace di quanto fosse stato possibile nel 1939 entro i confini della Germania. Ma ancora non era opportuno ammazzarli, perch buona parte della presunta sorgente dell'ebraismo rimaneva fuori dalla portata dei tedeschi, in Unione Sovietica, e perch l'incerto patto di non aggressione con i giudeobolscevichi rischiava di disintegrarsi prematuramente a danno della

Germania, se questa avesse iniziato il genocidio degli ebrei sotto gli occhi delle truppe sovietiche di stanza nel cuore della Polonia. Fu in quel periodo comunque che i tedeschi elaborarono piani apocalittici e cominciarono a realizzarli. Fin dall'inizio avevano messo in chiaro che la vita degli ebrei era senza valore; che contro di loro tutto, letteralmente tutto, era lecito. I tedeschi isolarono gli ebrei dall'economia della Polonia occupata, li ghettizzarono in condizioni disumane, micidiali, con un tasso altissimo di mortalit per fame. Tutti gli ebrei erano "vogelfrei", fuorilegge per i quali la caccia era sempre aperta; i tedeschi potevano ammazzarli a loro piacere, e cos facevano. Il terreno era pronto per procedere allo sterminio o per escogitare per le vittime qualche altra sorte quasi-genocida. In queste circostanze pi propizie, i nazisti presero in considerazione soluzioni pi radicali, equivalenti incruente del genocidio. Dapprima esaminarono la possibilit di deportare quella parte consistente dell'ebraismo europeo ora in loro potere in qualche landa dimenticata da Dio, una discarica dove rinchiudere gli ebrei e lasciarli languire e morire. Nel novembre 1939, durante una riunione dedicata appunto alle espulsioni, Hans Frank, governatore tedesco della Polonia, cos enunciava il sottaciuto obiettivo di sterminio che gi era parte integrante dei progetti di deportazione: Non sprecheremo altro tempo con gli ebrei. E' magnifico poter finalmente fare i conti con quella razza. Quanti pi ne moriranno, meglio sar (8). Nella seconda fase furono dunque perseguite le soluzioni pi radicali consentite dalla prudenza in quelle circostanze. Le scelte proto-genocide per gli ebrei dei territori occupati attribuivano una nuova potenzialit letale alla politica ebraica dei tedeschi. Tuttavia la soluzione genocida incruenta delle deportazioni in massa si rivel chimerica - caso unico, tra le principali iniziative dei tedeschi contro gli ebrei -, ma i capi del nazismo non ebbero motivo di dolersene, ora che l'imminente conquista dell'Unione Sovietica offriva finalmente la possibilit di superarla per adottare una soluzione veramente e irrevocabilmente finale. La terza fase inizi con i piani per l'attacco all'Unione Sovietica e prosegu con l'invasione. Solo ora l'eliminazione degli ebrei in loro potere costituiva, nella prospettiva allucinata dei tedeschi, una scelta efficace e non controproducente.

Solo ora la soluzione finale della strage sistematica divenne praticabile; solo ora i tedeschi si affrancarono dai vincoli politici e militari che l'avevano impedita. Non sorprende quindi che la realizzazione della politica gi da tempo decisa da Hitler, lo sterminio di tutti gli ebrei d'Europa, sia iniziata subito dopo l'attacco all'Unione Sovietica. In questa fase, con l'eccezione di qualche tentativo tattico di usarli per ottenere concessioni dagli Alleati, ogni azione dei tedeschi che interessasse gli ebrei ne produsse la morte immediata, o fu un mezzo per prepararla o affrettarla, o ne fu un surrogato temporaneo (9). Scomparsi, salvo qualche ostacolo logistico minore, i vincoli del passato, la pulsione eliminazionista al massacro degli ebrei assunse la priorit su ogni altro obiettivo: i tedeschi vi tennero fede, con le fucilazioni in massa e le marce della morte, letteralmente fino all'ultimo giorno di guerra. L'aspetto pi rilevante della politica antiebraica fu che in ognuna delle tre fasi essa mir "alla massima opzione eliminazionista possibile" dati i vincoli e le opportunit esistenti. Non vi fu alcuna radicalizzazione cumulativa "non intenzionale" della politica decisionale per motivi di prassi burocratica o di qualsiasi altro genere (10). La diffusione e l'intensit della violenza verbale con cui gli ebrei furono presi di mira dai loro compatrioti non hanno uguali nella storia moderna, cos come la rapidit con cui fu imposta una legislazione discriminatoria, inabilitante e disumanizzante: un gruppo di cittadini agiati, relativamente ben integrati sul piano economico e culturale, furono privati all'improvviso di tutti i diritti e trasformati, con l'approvazione della stragrande maggioranza dei loro compatrioti, in lebbrosi sociali. Ci che sappiamo del genocidio che segu tende a offuscare ai nostri occhi quanto fu drastica la politica antiebraica negli anni Trenta: quei provvedimenti, la morte sociale degli ebrei e il tentativo di costringere mezzo milione di persone a emigrare dalla Germania costituirono una campagna la cui radicalit non aveva precedenti, da secoli, nella storia d'Europa. Chi sostiene che la radicalizzazione della politica antiebraica si verific soltanto negli anni Quaranta ne minimizza la durezza nel decennio precedente (riconosciuta invece come tale dai contemporanei), e non coglie l'elemento di continuit che lega le tre fasi. L'evoluzione della politica antiebraica dei tedeschi, a partire dall'ideologia eliminazionista, fu invece del tutto logica, collegata com'era alla comparsa

di nuove opportunit che Hitler fu ben felice di sfruttare fino in fondo con ardore e tempestivit. Nelle prime due fasi l'avevano trattenuto i vincoli pratici costituiti dalla limitata capacit dei tedeschi di risolvere la "Judenfrage" - del tutto autonomi da ogni altra considerazione -, e da altri richiami alla prudenza legati alla posizione militare e geopolitica della Germania (11). Il 25 ottobre 1941, qualche mese dopo l'avvio del genocidio, Hitler ricord a Himmler e Heydrich - in una lunga disquisizione aperta da un riferimento alla sua profezia del gennaio 1939, che la guerra sarebbe finita con l'eliminazione degli ebrei - ci che essi gi sapevano bene: che cio, avendo spesso operato sotto pesanti condizionamenti, lui si era mostrato capace di attendere il momento giusto per mettere in pratica i suoi apocalittici ideali. "Sono costretto ad accumulare in me un peso tremendo; non significa per che dentro di me si estingua ci di cui prendo atto senza reagire immediatamente. Viene segnato in un registro, e un giorno quel registro verr fuori. Anche di fronte agli ebrei sono dovuto rimanere a lungo inattivo. Non ha senso crearsi ulteriori difficolt con le proprie mani; sempre meglio procedere con astuzia" (12). Hitler si presentava come il prudente politico che spesso era capace di essere, che prende tempo in attesa del momento buono per colpire. Era rimasto a lungo inattivo di fronte agli ebrei: inattivo ("tatenlos") nel solo senso di essersi astenuto dagli eccidi in massa, perch di fatto, da otto anni, si era dato molto da fare, perseguitandoli, umiliandoli, bruciando le sinagoghe, espellendoli dalla Germania, ammassandoli nei ghetti e anche, sia pure sporadicamente, facendoli ammazzare. Per lui tutto questo era inazione, perch ancora non equivaleva all'unico atto adeguato a quella missione, l'unico adeguato all'entit della minaccia: l'atto finale cos pazientemente atteso, quello che per Hitler corrispondeva davvero all'azione, era l'annientamento fisico degli ebrei (13). In nessun senso possibile intendere, come hanno fatto alcuni, la monumentale, davvero epocale, decisione di Hitler di sterminare gli ebrei d'Europa come un accidente storico verificatosi perch non esistevano alternative, o per un motivo effimero come gli umori del Fhrer. Hitler non aveva esitazioni nell'uccidere: l'omicidio, la pulizia biologica erano i suoi metodi naturali, i preferiti, per risolvere i problemi; si pu dire che per lui uccidere era un riflesso automatico. Massacr i membri del proprio movimento che considerava pericolosi; uccise gli avversari politici; uccise i malati di mente; gi nel 1929 si

trastullava pubblicamente con l'idea di uccidere tutti i bambini tedeschi con malformazioni congenite, che in un momento di megalomania assassina calcolava nell'ordine di 700-800 mila all'anno (14). Senza dubbio la morte era la pena pi adatta per gli ebrei; una nazione di demoni non meritava nulla di meno. E' difficile immaginare che, dopo l'attacco all'Unione Sovietica, Hitler e i capi del nazismo potessero accontentarsi di qualsiasi altra soluzione. Chi sostiene che furono solo le circostanze, dell'uno o dell'altro tipo, a "creare la motivazione" che port i tedeschi a optare per la soluzione genocida non tiene conto, ingiustificatamente, dell'intenzione determinata e pi volte annunciata da Hitler di sterminare gli ebrei. E per implicazione dichiara anche, pur contraddetto dai fatti, che se queste circostanze motivanti non si fossero verificate - se i presunti umori bizzarri del Fhrer non avessero preso quella presunta piega, e se il trasferimento di milioni di ebrei fosse riuscito - Hitler e i suoi avrebbero preferito un'altra soluzione, e quei milioni di ebrei sarebbero sopravvissuti alla guerra. Il ragionamento appare del tutto implausibile (15). Si sarebbero dovute verificare, nel corso della "Vernichtungskrieg", la dichiarata guerra di sterminio, circostanze che inducessero i tedeschi a risparmiare il loro anticristo, l'Ebreo, proprio mentre Hitler e Himmler progettavano la spoliazione e il massacro di milioni di slavi per creare un Eden germanico in Europa orientale (prima dell'attacco all'Unione Sovietica Himmler aveva fissato in trenta milioni la previsione del tributo di morti di quel paese) (16). Il 25 gennaio 1942 Hitler in persona, dopo aver affermato che la politica da seguire era lo sterminio totale degli ebrei, fece notare a Himmler, al capo della Cancelleria Hans Lammers e al generale Kurt Zeitzler che non ammazzare gli ebrei sarebbe stato un nonsenso: Perch dovrei guardare un ebreo con occhi diversi da quelli con cui guardo i prigionieri russi? Nei campi stanno morendo molti prigionieri di guerra, perch gli ebrei ci hanno portati in questa situazione. Che cosa posso farci? Perch gli ebrei hanno voluto questa guerra? (17). Al di l della sua generale implausibilit, il ragionamento speculativo secondo cui Hitler e Himmler, dopo aver scatenato le loro forze contro l'Unione Sovietica, avrebbero preferito un'alternativa non genocida viene contraddetto dai fatti. Una volta avviato il programma di sterminio, i tedeschi che l'avevano concepito e che lo mettevano in pratica non presero in considerazione

alcuna soluzione, alternativa (18); nessuno si rammaric che la "Judenfrage" non potesse essere risolta con l'emigrazione o il trasferimento. Tutto indica che per loro il massacro genocida fosse il modo naturale, e dunque adeguato, per sbarazzarsi degli ebrei ora che quella scelta era divenuta praticabile. L'idea che la morte, e solo la morte, fosse la giusta punizione per gli ebrei era stata pubblicamente annunciata da Hitler agli esordi della carriera politica, in un discorso del 13 agosto 1920 interamente dedicato all'antisemitismo, "Perch siamo antisemiti?". Nel bel mezzo del discorso quel politico ancora quasi sconosciuto si era soffermato sulla pena di morte, e sui motivi per cui doveva essere irrogata agli ebrei. Gli elementi sani di una nazione, aveva dichiarato, sanno che i criminali rei di delitti contro la nazione, cio i parassiti della comunit nazionale non possono essere tollerati, e in certe circostanze vanno puniti solo con la morte, perch alla detenzione manca l'elemento dell'irrevocabilit. Il pi pesante dei catenacci non pesa abbastanza, la prigione pi sicura non lo abbastanza da garantire che "qualche milione di persone" alla fine non riesca ad aprirne le porte. Un solo catenaccio non si riapre pi - "quello della morte" [il corsivo mio] (19). Non fu un'affermazione casuale, ma il riflesso di un'idea e di una determinazione gi radicate e maturate nella sua mente. Nel dibattito con il pubblico che segu il discorso Hitler rivel di aver considerato a lungo le possibili soluzioni della "Judenfrage", e di aver deciso per la pi radicale: Abbiamo comunque deciso di lasciar perdere i se e i ma; quando arriver il momento di risolverla andremo fino in fondo (20). Nel testo del discorso enunciava, con una franchezza dalla quale si sarebbe prudentemente astenuto dopo la sua affermazione sulla scena nazionale, che cosa intendesse per andare fino in fondo. Significava che la punizione pi giusta ed efficace, l'unica soluzione definitiva, consisteva nel mettere a morte l'intera nazione ebraica. L'internamento sarebbe stato una pena troppo clemente per quei criminali internazionali, e per di pi era pericoloso, perch un giorno gli ebrei sarebbero potuti riemergere dalle carceri per ritornare alle loro perfide abitudini. La concezione maniacale che aveva degli ebrei, l'odio che lo consumava e la sua naturale propensione all'omicidio lo rendevano incapace di accettare in modo permanente una soluzione della "Judenfrage" che non fosse l'estinzione.

La strada che portava ad Auschwitz fu tutt'altro che contorta. Concepita dalla mentalit apocalittica di Hitler come un progetto urgente, sia pure da procrastinare, rimase in attesa delle condizioni propizie. Nell'istante in cui esse si presentarono, Hitler incaric i suoi architetti, Himmler e Heydrich, di progettarla e realizzarla sulla base dello schizzo appena abbozzato. E gli architetti, a loro volta, non faticarono ad arruolare decine di migliaia di tedeschi comuni, che la costruirono e la lastricarono con la sconfinata dedizione nata dal loro odio per gli ebrei che erano destinati a percorrerla. Quando la strada fu pronta, Hitler, i suoi architetti e i loro volontari collaboratori non la videro come un esito indesiderato, bens con la pi profonda soddisfazione; in nessun senso la scelta di quella strada fu dettata dall'assenza di alternative preferibili. Secondo i tedeschi era la migliore, la pi sicura e diretta della strade possibili, l'unica che conducesse a una destinazione dalla quale si poteva stare assolutamente certi che i diabolici ebrei non sarebbero mai ritornati. Il convergere dei diversi fattori che determinarono a tutti i livelli istituzionali la condotta dei tedeschi verso gli ebrei rilevabile anche, in un quadro ancora pi complesso di quello dell'evoluzione dell'eliminazionismo genericamente inteso, nella dimensione del lavoro. Qui, come nella sfera generale della politica antiebraica, la forza dell'antisemitismo eliminazionista fu tale da indurre i tedeschi a mettere da parte ogni altra considerazione o vincolo materiale (in questo caso, esigenze economiche di urgenza estrema), anche se a prima vista risulta difficile ricostruire la logica delle loro azioni. Non v' dubbio che il motivo principale per cui occorreva far lavorare gli ebrei fosse un'esigenza economica oggettiva, ma all'"esigenza" razionale non corrispose una "risposta" altrettanto razionale, e dobbiamo fare attenzione a non confondere i due aspetti. L'esigenza pot trasformarsi in forza lavoro solo in modo distorto, atrofizzato, perch entrava in conflitto con imperativi ideologici assai pi potenti. La creazione di una dimensione economica speciale per gli ebrei, del tutto isolata dall'economia generale, port a un drammatico calo della loro produttivit complessiva, recando notevole danno a una Germania fagocitata dalla guerra. I campi di Lublino sono un esempio particolarmente efficace perch rientravano nel contesto della generale mobilitazione della manodopera di tutta l'Europa continentale, e perch allora Himmler aveva gi dato l'ordine di trattare meglio i lavoratori non tedeschi.

Essi dimostrano che le fondamenta ideologiche della Germania nazista la rendevano costituzionalmente incapace di creare le condizioni per il trattamento adeguato e l'impiego razionale della manodopera ebraica. A causa delle fantastiche convinzioni dei tedeschi sulla loro malvagit, gli ebrei "dovevano" essere segregati, "dovevano" essere isolati dall'economia generale, nella quale si sarebbero invece dovuti integrare se si fosse voluto utilizzare in modo razionale il loro talento e le loro braccia. La politica che port milioni di altri lavoratori in Germania, sia occidentali sia subumani dell'Est - e che li indusse a evaderne, nel 1943, al ritmo di 30 mila al mese (21) -, non poteva applicarsi agli ebrei; in quel momento in Germania non era immaginabile nemmeno l'ipotesi, per quanto non intenzionale, che gruppi consistenti di ebrei potessero vagare senza controlli per le campagne. Dovevano essere incarcerati negli unici luoghi che loro si addicevano, lebbrosari infestati dalle malattie e dalla morte. I risultati economici furono ancor pi deleteri: l'economia stessa degli ebrei era organizzata e gestita in modo del tutto irrazionale, ed era spaventosamente improduttiva. Nell'Europa devastata dalla guerra i tedeschi trovavano difficile trasferire in quelle bizzarre e macabre colonie ai confini metaforici dell'umanit gli impianti, le attrezzature e le condizioni di lavoro indispensabili per qualsiasi tipo di produzione razionale. La potenzialit stessa del resto perdeva porzioni consistenti ogni volta che i tedeschi decidevano, per ragioni extraeconomiche, di eliminare un dato gruppo o comunit di ebrei. In questa situazione la dimensione politica e quella dei rapporti sociali procedevano affiancate verso lo stesso obiettivo. L'imperativo politico-ideologico di separare gli ebrei dai tedeschi, di punirli e ucciderli, insieme con le molteplici forme di violenza inabilitante e mortale che i capisquadra infliggevano ai lavoratori nei rapporti diretti, impedivano alla Germania di soddisfare le sue pressanti esigenze economiche. Le esigenze erano obiettive, ma i tedeschi non erano in grado, ideologicamente e psicologicamente, di rispondere in modo adeguato. Se avessero usato gli ebrei come schiavi - e non avrebbero avuto difficolt a farlo - ne avrebbero tratto un importante profitto economico; ma non lo fecero. Erano come schiavisti che, in preda al delirio, ammazzassero la maggioranza dei loro schiavi per poi mettere al lavoro i pochi sopravvissuti in modo cos sconsiderato e crudele da annullarne le capacit produttive.

L'irrazionalit economica, la crudelt e la distruzione fisica facevano parte integrante della natura organizzativa, materiale e psicologica delle strutture (compresi i sorveglianti diretti) del lavoro ebraico. Non soltanto perch, come altri hanno correttamente sostenuto, lo sterminio aveva priorit politica sull'economia e sul lavoro, a seguito di una scelta consapevole del vertice tra possibilit alternative (22); ma perch nel periodo nazista l'evoluzione della Germania segu un percorso, dettato dalla logica delle convinzioni che l'animavano, che la rendeva, probabilmente gi nel 1941 e sicuramente nel 1943, del tutto "incapace" di utilizzare in modo economicamente razionale gli ebrei, se non a volte su scala locale. I nazisti erano a tal punto in preda alle barbare implicazioni della loro ideologia che anche quando tentavano di applicare agli ebrei le forme linguistiche e pratiche normali del lavoro riuscivano in genere a creare soltanto inutili e incapacitanti approssimazioni. Che l'antisemitismo fosse tanto forte da far deragliare la razionalit economica, la dimensione della societ industriale moderna in cui la razionalit ha la precedenza su tutto - e cos era per i non ebrei -, dimostra che rispetto agli ebrei l'ideologia aveva disegnato per i tedeschi una mappa cognitiva singolare, che li guidava in direzioni che ai loro stessi occhi sarebbero parse sbagliate e pericolose - in contrasto con la realt e la razionalit - se si fosse trattato di altri popoli (23). Come l'antisemitismo operava in convergenza con altri fattori al livello delle decisioni e della pratica istituzionale, cos avveniva a volte anche al livello individuale, dove risulta chiaro che, pur essendo motivazione sufficiente per i realizzatori, esso non produsse pratiche del tutto uniformi; com' ovvio, altri fattori di convinzione e di personalit generavano variazioni nella condotta individuale. E' vero che la misura dell'entusiasmo con cui i tedeschi si confrontavano con gli ebrei, e della crudelt di cui davano prova, non fu sempre uguale, perch in ogni realizzatore erano diversi il grado di inibizione, il carattere e, soprattutto per quanto riguarda la crudelt, il gusto della barbarie, il piacere che traeva dalla sofferenza degli ebrei, il sadismo. Tutti gli uomini del Battaglione di Polizia 101 svolgevano i loro compiti omicidi con competenza e partecipazione, ma come riferisce un tenente che conosceva bene l'esemplare rendimento di base dei suoi compatrioti, qualcuno si metteva in particolare luce nelle missioni: e questo valeva anche per le azioni contro gli ebrei (24). Rispetto al pur ottimo rendimento del battaglione come coorte genocida, alcuni, anzi molti uomini si mettevano in luce.

Analogamente, nei campi di concentramento tutti i tedeschi brutalizzavano gli ebrei: era il tratto comune del sistema. Ma alcuni lo facevano pi spesso, con maggior vigore o inventiva degli altri; una variazione che di fatto, essendo la crudelt pressoch universale uno degli aspetti costitutivi dell'Olocausto, soltanto questione di sfumature. Non sorprende nemmeno che un numero ristretto di tedeschi evitasse di uccidere o maltrattare gli ebrei. In Germania c'era chi dissentiva dalla concezione nazificata predominante, e altri che, pur condividendola, aderivano ancora a un modello etico restrittivo in contrasto con quello disinibito del nuovo credo: convinzioni minoritarie che ispirarono a questa gente, una percentuale esigua del popolo tedesco, l'urgenza di nascondere e salvare gli ebrei in Germania (25), e quando si trovavano sui campi della morte a non prendere parte al genocidio. Avevano la possibilit di ottenere quanto desideravano, evitando di uccidere: a ci si deve l'esistenza del piccolo gruppo dei renitenti. Il virulento antisemitismo razziale che motiv i tedeschi di ogni ordine e grado a realizzare il programma eliminazionista va inteso come un principio che muoveva persone comunque condizionate da talune limitazioni, sia di carattere esterno sia generate dal concorrere di altri obiettivi; fu cos per Hitler come per la pi umile guardia in un campo di lavoro. Ma nonostante le circostanze moderatrici, l'antisemitismo eliminazionista fu abbastanza forte da avviare Hitler e il popolo tedesco verso lo sterminio, da porre in assoluto secondo piano la razionalit economica, da produrre in tante persone uno zelo, un volontarismo e una crudelt personali cos pronunciati. L'antisemitismo eliminazionista, con il suo travolgente potenziale, risiedeva in definitiva nel cuore della cultura politica, nella societ stessa della Germania. Poich alla "Judenfrage" veniva apertamente assegnata la massima priorit politica, ed era argomento discusso di continuo nella sfera pubblica, non si pu dubitare che il popolo tedesco comprendesse appieno lo scopo e la radicalit dei provvedimenti antiebraici che vide dipanarsi di fronte ai suoi occhi negli anni Trenta. Come avrebbero potuto non accorgersene? Il grido Gli ebrei sono la nostra disgrazia riecheggiava da tutti i tetti di Germania (26); la scritta Ebreo, crepa si leggeva in quegli anni su tutti i muri del paese.

I realizzatori, da Hitler al pi umile funzionario, erano apertamente fieri delle loro imprese, dei loro successi; negli anni Trenta li strombazzavano e se ne vantavano con tutti, tra la generale approvazione del "Volk". Se i tedeschi comuni non condividevano con Melita Maschmann l'idea nazificata degli ebrei come forza attiva del male, la cui malvagit era rivolta contro la prosperit, l'unit e il prestigio della nazione tedesca, se non condividevano quel senso di repulsione, quella demonizzazione, che cosa credevano, dunque? Che gli ebrei fossero comuni esseri umani di religione diversa? Che avessero s qualche lato criticabile, ma nulla a che vedere con la perfidia che il tanto beneamato Hitler e i nazisti attribuivano loro in modo enfatico e incessante, come articolo di fede? O si identificavano forse con gli ebrei come vittime innocenti di un regime delirante? E consideravano deliranti tutti i gruppi e i singoli individui nella loro societ che accorrevano numerosi per prendere parte alla persecuzione? Se i tedeschi avessero dissentito dalla concezione hitleriana degli ebrei, dalla loro identificazione con una potente entit malvagia destinata per eredit razziale a danneggiare e distruggere il "Volk", se fossero stati mossi da una qualsiasi concezione pi benevola, non ne avremmo forse qualche prova? La Gestapo e i suoi informatori perseguivano chi si dichiarava in disaccordo con l'antisemitismo nazista con zelo tale da indurre il maggior esperto dell'argomento a concludere che tutti i casi diedero seguito a denunce e accertamenti. Ebbene, nell'intera Bassa Franconia, regione che nel 1939 contava 840.663 abitanti e che, come tante altre, seppe esprimere un fortissimo dissenso su molti aspetti della politica nazista, compreso il trattamento dei lavoratori stranieri, nei "dodici anni" del regime solo "cinquantadue casi", quattro all'anno, furono portati all'attenzione della Gestapo! Nella giurisdizione di Monaco, ancor pi estesa, tra il 1933 e il 1944 solo "settanta" persone furono processate per aver criticato il progetto eliminazionista. Le critiche erano talmente rare da poter essere considerate quasi insignificanti (27). In nessun momento del periodo nazista una parte significativa, ma nemmeno una minoranza identificabile, del popolo tedesco espresse un dissenso rispetto alla concezione dominante degli ebrei, n una disapprovazione di principio degli obiettivi e dei provvedimenti eliminazionisti perseguiti dal suo governo e da tanti compatrioti. Dopo la guerra molti tedeschi, e molti studiosi, hanno asserito il contrario, adducendo per ben poche prove concrete. Quanti ecclesiastici tedeschi negli anni Trenta non credevano nella perniciosit degli ebrei? Quali "prove" sostengono l'ipotesi che furono in

molti a rifiutare l'idea degli ebrei imposta dall'antisemitismo eliminazionista? Quanti generali tedeschi, presunti guardiani dell'onore nazionale e della rettitudine morale, non aspiravano a una Germania mondata dagli ebrei? Himmler parl dello sterminio in un discorso rivolto a una nutrita rappresentanza dei vertici delle forze armate, trecento generali e ufficiali di stato maggiore riuniti a Posen il 25 gennaio 1944. Il genocidio non era certo un mistero per i militari, perch milioni di ebrei erano gi stati uccisi, e l'esercito aveva partecipato in forze al massacro di quelli sovietici. Himmler conosceva bene i vertici militari - che, com' dimostrato da documenti abbondanti e irrefutabili, erano assolutamente d'accordo sullo sterminio degli ebrei (28) - e parl con la franchezza di chi si rivolge a un pubblico consenziente; quando annunci che la Germania stava spazzando via gli ebrei dalla faccia della terra, i militari proruppero in un applauso. E non furono applausi sparsi, ma pressoch unanimi: un generale dissidente si guard intorno per verificare quanti non applaudissero. Ne cont cinque (29). Quali prove giustificano la convinzione che questa gente, e tanti altri come loro, considerasse gli ebrei come concittadini a pieno diritto? Persino quelli che odiavano i nazisti e complottavano per uccidere Hitler erano antisemiti eliminazionisti. Quanti erano i giuristi, quanti i medici, quanti gli altri professionisti che consideravano una pura assurdit quell'antisemitismo plateale e allucinato? Quali prove lo dimostrano? Quanti degli oltre otto milioni di iscritti al Partito nazista, e quanti altri tedeschi comuni pensavano che l'antisemitismo ossessivo di Hitler fosse il delirio di un pazzo - e dunque che Hitler fosse pazzo -, che i provvedimenti eliminazionisti e l'aggressione collettiva contro gli ebrei degli anni Trenta fossero criminali, e che l'intera politica dovesse invertire la marcia, restituendo agli ebrei il posto che avevano occupato nella societ tedesca? Quali prove lo dimostrano? E' vero che non tutti gli ecclesiastici, i generali, i giuristi volevano lo sterminio: alcuni favorivano la deportazione, altri la sterilizzazione, altri ancora si sarebbero accontentati di privare gli ebrei dei diritti fondamentali. Alla base di tutte le opinioni c'era comunque l'ideale eliminazionista. Quali prove giustificano qualsiasi altra conclusione? Ci fu un uomo, il pastore Walter Hchstdter, nell'estate del 1944 cappellano in un ospedale in Francia, che seppe porre in forte rilievo la ferrea presa del modello cognitivo antisemita sull'intera Germania, anche sugli oppositori di taluni aspetti del programma eliminazionista.

Hchstdter stamp clandestinamente mille copie della sua dichiarazione d'accusa e la sped con la posta militare ai soldati al fronte. "Viviamo in un'epoca dilaniata da idee folli e demoniache, come nel Medioevo. Invece di immergersi nell'orgia delirante della caccia alle streghe, la nostra epoca illuminata si concede un'orgia di maniacale odio per gli ebrei. Oggi questa follia, che gi impervers spaventosa nel Medioevo, entrata nella fase acuta. La chiesa, la comunit di Ges Cristo, non pu non riconoscerlo; se non lo far, avr mancato, cos come manc allora, al tempo della caccia alle streghe. Oggi il sangue di milioni di ebrei massacrati, uomini, donne, bambini, grida vendetta al cielo. Alla chiesa non consentito di tacere. Non le consentito affermare che la soluzione della 'Judenfrage' affare dello stato, al quale la 'Lettera ai Romani' [13] conferisce questa funzione. Non le consentito altres di affermare che quella di oggi la giusta punizione per i peccati degli ebrei ... Non esiste un antisemitismo moderato cristiano; nemmeno quando viene proposto in modo a prima vista convincente, con argomenti ragionevoli (quelli nazionali, per esempio) o perfino scientifici (o meglio pseudoscientifici). Anche la caccia alle streghe fu giustificata scientificamente dai massimi luminari delle facolt teologiche, giuridiche e mediche. La guerra contro gli ebrei nasce dalla stessa melma che gener la caccia alle streghe. L'umanit contemporanea non ha superato la propensione a cercare il capro espiatorio, ed quindi sempre alla ricerca di colpevoli - gli ebrei, i massoni, i poteri sovrastatali. Questa la scena che fa da sfondo agli inni all'odio della nostra epoca. ... Chi ci d il diritto di incolpare soltanto gli ebrei? Il cristianesimo lo proibisce; a un cristiano non consentito essere antisemita, nemmeno antisemita moderato. L'obiezione secondo cui senza la risposta [difensiva] dell'antisemitismo moderato la giudaizzazione della vita popolare ['Verjudung des Volkslebens'] diverrebbe una minaccia spaventosa deriva da una visione miscredente e puramente secolare, che il cristianesimo dovrebbe saper superare. ...

La chiesa vive per l'amore. Guai a lei se cos non fosse! Guai a lei se per il suo silenzio si rendesse complice, con ogni sorta di dubbiose giustificazioni, delle esplosioni d'odio del mondo! Guai a lei se adottasse parole e motti che emanano dalla sfera dell'odio" (30). Negli annali della Germania nazista la lettera di Hchstdter, con il suo rifiuto esplicito e profondo del modello eliminazionista, un documento estremamente raro e luminoso; quasi tutte le poche proteste di tedeschi che deploravano o criticavano il trattamento riservato dalla loro nazione agli ebrei sono a loro volta impregnate di antisemitismo, un antisemitismo irrazionale nelle convinzioni e duro nelle proposte pratiche, ma che pu essere considerato moderato a fronte di quello ben pi letale praticato dai nazisti e da tutti i tedeschi comuni che li aiutavano. Tutte o quasi le critiche alla violenza fisica inflitta agli ebrei danno per scontata l'effettiva esistenza di una "Judenfrage": gli ebrei sono una trib malvagia che danneggia la Germania, e occorre trovare una soluzione per ridurre drasticamente quella presenza corrosiva e la sua influenza. I dissidenti volevano comunque una soluzione, ma civile, incruenta, ordinata, non violenta e crudele come quella dei nazisti. Volevano limitare la presunta potenza degli ebrei, escluderli da molte sfere della vita sociale, impedire loro l'accesso ai pubblici uffici, imporre altre restrizioni che li rendessero incapaci di danneggiare i tedeschi. L'antisemitismo doveva essere buono, moderato, spirituale, etico, sano, come si addiceva a una nazione civile. In una lettera pastorale diffusa nel 1933, il vescovo di Linz Johannes Maria Gfoellner cos esortava i nazisti: Se il nazionalsocialismo ... vuole incorporare nel suo programma solo questa forma spirituale ed etica dell'antisemitismo, nulla pu impedirglielo (31). Siate antisemiti buoni, moderati, spirituali, etici; eliminate gli ebrei, ma non massacrateli: era questa la massima, dichiarata o sottaciuta, cui si informavano quasi tutte le poche obiezioni dei tedeschi al massacro sistematico perpetrato dai loro compatrioti. L'oscuro pastore Hchstdter era sconcertato da questa sorta di moderazione.Per lui la persecuzione degli ebrei nasceva dalla stessa forma di disturbo mentale che aveva generato la caccia alle streghe. Le accuse che i tedeschi, dentro e fuori dalla chiesa, muovevano agli ebrei erano deliri allucinatori. Hchstdter rifiutava con energia l'idea, diffusa nelle chiese e nei circoli antinazisti, che occorresse un antisemitismo pi moderato e sano.

Qualsiasi forma di antisemitismo, dichiara con una semplicit e una chiarezza del tutto singolari in epoca nazista, maligna alla radice, un tessuto di perfide falsit. In questo sta l'estrema rarit del suo angosciato appello: conosco ben poche altre dichiarazioni di oppositori del nazismo che condannassero come del tutto prive di verit, come ossessioni deliranti e mostruose, le folli convinzioni antisemite onnipresenti in Germania. Hchstdter invita il clero a ritornare in s, a risvegliarsi da quel delirio, a rompere il silenzio di fronte ai milioni di ebrei massacrati. Rinsavite dunque, l'ammonizione che intitola il suo appello. Com' stranamente saggio, com' anormale, com' vano il grido che erompe dal cuore di Hchstdter a fronte delle dichiarazioni antisemite dei vescovi, delle gerarchie e di altri autorevoli esponenti della chiesa - a fronte anche di quella di Martin Niemller, il famoso ecclesiastico antinazista, secondo il quale gli ebrei avvelenano qualsiasi cosa intraprendano; a fronte della speranzosa dichiarazione (documentata) del vescovo Sibelius che la comunit ebraica si estinguesse per i bassi tassi di natalit, liberando la Germania dalla sua dannosa presenza; a fronte dell'assicurazione del vescovo Wurm di non voler dire una sola parola sul diritto dello stato di combattere nell'ebraismo un elemento pericoloso che corrodeva la religione, la morale, la letteratura, l'economia e la politica (32); a fronte della testimonianza del vescovo August Marahrens il quale, nella confessione di colpa per non aver parlato in favore degli ebrei resa dopo la guerra, nell'agosto 1945, affermava che sebbene molti di loro avessero causato un grande disastro ("ein schweres Unheil") al popolo tedesco, non si sarebbe dovuto aggredire gli ebrei in quel modo disumano (33). Come tutti coloro che condividevano la sua concezione etica dell'antisemitismo, il buon vescovo ne era tanto contaminato che ancora dopo la guerra pareva voler dire che un castigo pi umano sarebbe stato sufficiente. Particolarmente stridente risulta il contrasto tra la lettera di Hchstdter e la dichiarazione collettiva in cui i capi delle chiese evangeliche nazionali del Meclemburgo, della Turingia, della Sassonia, dell'Assia-Nassau, dell'Anhalt e di Lubecca invitavano a cacciare dalla chiesa i convertiti al cristianesimo e a adottare le pi rigorose misure contro gli ebrei, che dovevano essere banditi dai territori tedeschi (34). Considerando che il massacro su vasta scala degli ebrei sovietici era gi in corso, questo proclama costituisce un documento affatto unico nella storia della cristianit: la ratifica ecclesiastica di un genocidio.

Se anche questi autorevoli uomini di Dio non avessero saputo che i deportati erano destinati al macello (il che estremamente improbabile, perch la notizia dei massacri era ormai assai diffusa, anche nei loro ambienti), il proclama rimarrebbe comunque un documento raro e forse unico nella storia moderna delle chiese cristiane: un appello ufficiale della gerarchia a uno stato tirannico, spaventosamente brutale, perch trattasse un intero popolo con ferocia ancora maggiore, perch la persecuzione procedesse senza attenuazioni. Non si trattava infatti di acconsentire tacendo; di loro iniziativa quegli ecclesiastici incitavano il governo a adottare misure non rigorose, ma le pi rigorose, intendendo con questo misure ancor pi severe di quelle fino ad allora applicate, e destinate soltanto ad aggravare l'umiliazione degli ebrei e aumentarne le sofferenze. La voce ufficiale di un settore influente della gerarchia protestante tedesca si distingueva a malapena da quella dei nazisti; senza dubbio Hchstdter pensava a questo tipo di opinioni quando formul il suo avvertimento alla chiesa: Guai a lei se adottasse parole e motti che emanano dalla sfera dell'odio (35). Agli occhi dei posteri, immersi nell'oscurit della Germania nazista, quella lettera risplende come un raggio luminoso, un po' come nel "Mercante di Venezia": Fin qui arriva il chiarore di quel lumicino. Cos splende una buona azione in un mondo maligno (36). Ma nell'immensa oscurit antisemita che era discesa sulla Germania, avvolgendo anche le chiese, l'appello di Hchstdter era come una minuscola ed effimera fiammella di ragione e umanit che ardeva invisibile, segretamente attizzata in un remoto angolo della Francia occupata. L'isolamento del dissenso di principio proclamato da Hchstdter indica quanto sia importante dedicare particolare attenzione alle chiese cristiane quando si studia la natura dell'antisemitismo nella Germania nazista. Le chiese e il clero forniscono indicazioni preziose perch costituivano una grande rete di istituzioni non naziste, e perch conserviamo un'abbondante documentazione sulla loro posizione nei confronti degli ebrei durante la persecuzione e lo sterminio. Le dottrine morali e le complesse tradizioni del cristianesimo concorrono peraltro a rendere ancora pi illuminanti e rivelatrici quelle testimonianze. Le chiese cristiane sono portatrici di un'antica ostilit verso gli ebrei, considerati il popolo colpevole non soltanto di aver rifiutato la divinit di Cristo, ma anche di averlo crocefisso; ma nel contempo sono istituzioni che si considerano tenute per ordine divino a predicare e praticare la

compassione e l'amore, ad alleviare la sofferenza, a condannare il delitto, la crudelt gratuita e l'omicidio in massa. Per questi motivi il loro atteggiamento rappresenta una fondamentale verifica della presenza ubiqua e profonda dell'antisemitismo eliminazionista in Germania. Se gli ecclesiastici, che per vocazione dovevano predicare l'amore ed essere i tutori della compassione, della piet e della morale, accettavano o accoglievano con dichiarato favore l'eliminazione degli ebrei dalla societ tedesca, avremmo un'ulteriore e decisiva riprova di quella presenza, talmente forte non soltanto da inibire il flusso naturale del sentimento di piet, ma anche da scavalcare gli imperativi morali di un credo che imponeva di ergersi a difesa di chi cade nelle mani degli assassini. Come dimostrano gli studi in proposito, non possono esservi dubbi sul fatto che l'antisemitismo riuscisse a rivolgere la comunit cristiana - la gerarchia, il clero e i fedeli - contro le proprie stesse tradizioni fondamentali. Il massimo storico della chiesa protestante tedesca in quel periodo, Wolfgang Gerlach, intitol il suo libro "Quando i testimoni tacevano", e Gnther Lewy conclude la sua analisi del rapporto con la "Judenfrage" della chiesa cattolica tedesca, la cui gerarchia ebbe verso l'impresa eliminazionista un atteggiamento ben poco pi critico di quella protestante, citando la domanda che nell'"Andorra" di Max Frisch la ragazza pone al suo prete: Dove eravate voi, padre Benedetto, quando portarono via nostro fratello come una bestia al macello, come una bestia al macello, dove eravate voi? (37). Le chiese accolsero con favore l'ascesa al potere dei nazisti, in quanto erano istituzioni conservatrici convinte, come la maggioranza dei conservatori tedeschi, che cos la Germania sarebbe uscita da quello che consideravano il pantano spirituale e politico della Repubblica di Weimar, con la sua cultura libertina, il disordine democratico, il predominio dei socialisti e dei comunisti che predicavano l'ateismo e minacciavano di privarle della loro influenza. Le chiese auspicavano un regime autoritario che riscattasse le virt ingiustamente disonorate dell'obbedienza e della sottomissione incondizionate all'autorit, ripristinando i valori morali tradizionali e imponendone il rispetto. Certo, agli occhi dei cristiani il Partito nazista non poteva dirsi del tutto senza pecca; anzi, manifestava tendenze inquietanti. Alcuni dei suoi ideologi erano apertamente anticristiani, altri promuovevano una nebulosa versione del paganesimo teutonico, e

l'adesione al cristianesimo nel programma del partito era espressa in termini vaghi, con sconcertanti riserve. Ma in genere le chiese interpretarono questi elementi poco ortodossi con lo stesso ottimismo della volont che si riscontrava in tanti che accolsero con favore il nazismo pur disapprovandone taluni aspetti, mere escrescenze estranee e transitorie sul corpo del partito che Hitler, nella sua infinita saggezza e benevolenza verso la religione, avrebbe al pi presto amputato. Quanto al feroce antisemitismo dei nazisti, esso non era fra gli elementi sui quali le chiese avessero da obiettare; anzi, lo apprezzavano, perch antisemite anch'esse. Anche le chiese ritenevano necessario limitare e cancellare la presunta potenza degli ebrei: per decenni quasi tutte le opinioni, le dichiarazioni e gli annunci degli organismi e dei singoli esponenti ecclesiastici, di ogni ordine e grado, erano stati informati a una profonda ostilit verso gli ebrei. Un'ostilit in buona parte extrareligiosa, di carattere laico - un'eco dell'avversione affatto temporale che scorreva in tutta la societ tedesca. Non derivava soltanto da ragioni teologiche; non era semplicemente l'ennesima reiterazione dell'eterna e radicata condanna cristiana del popolo esecrabile, che aveva crocefisso Ges ignorando con alterigia la rivelazione cristiana. All'antica accusa si aggiungeva ora, ponendola del tutto in ombra, la nuova condanna degli ebrei quali forza motrice principale dell'irresistibile ondata di modernismo che andava erodendo i valori e le tradizioni onorate dal tempo. Gli ebrei promuovevano il culto di Mammone, il capitalismo senz'anima, il materialismo, il liberalismo e soprattutto quel clima scettico e iconoclasta che era la vera maledizione dell'epoca. Riflettendo la tendenza dell'antisemitismo secolare, i moderni denigratori cristiani degli ebrei predicavano che la loro malvagit non derivava dalla religione bens dagli istinti razziali, da un immutabile e innato impulso distruttivo che li portava ad agire come erbacce infestanti in un giardino fiorito. Anche nelle chiese cristiane, quindi, l'antisemitismo razzista si sovrapponeva, in larga misura sostituendosi, alla tradizionale avversione religiosa per gli ebrei; si faticava sempre pi a distinguere le denunce antiebraiche degli ecclesiastici cristiani dalle diatribe razziste degli antisemiti laici militanti. Ci vero soprattutto per gli ambienti protestanti: un osservatore contemporaneo rileva che il periodico di una chiesa, intitolato con involontaria ironia Vita e luce, descrive con zelo incessante gli ebrei come

un corpo estraneo di cui il popolo tedesco deve sbarazzarsi, un pericoloso avversario contro il quale occorre lottare fino all'ultimo respiro (38). Persino un pastore che pure invitava alla moderazione nelle opinioni e nella condotta verso gli ebrei concordava tuttavia con la comune convinzione che essi fossero un nemico mortale: E' indiscutibile: gli ebrei oggi sono per noi una piaga nazionale dalla quale dobbiamo proteggerci (39). Infatti, dell'indiscutibile si discuteva di rado. E non si trattava di sentimenti antisemiti limitati a una minoranza: nelle chiese protestanti erano pressoch universali, senza alcun percepibile dissenso. Metterli in discussione richiedeva coraggio intellettuale. Chi avrebbe osato proporsi nel disdicevole ruolo di difensore di quella razza detestabile, la cui natura maligna era una verit assiomatica? Nelle sue memorie un ecclesiastico ricorda che negli ambienti clericali l'antisemitismo era talmente diffuso che non si potevano azzardare obiezioni esplicite (40). Per tutta la durata dell'era nazista, mentre il governo e il popolo imponevano agli ebrei di Germania e dei paesi conquistati una persecuzione sempre pi pesante che culmin nello sterminio fisico, le chiese protestante e cattolica, le loro gerarchie, i vescovi e buona parte dei teologi guardarono quelle sofferenze in silenzio. Nessuna parola pubblica di simpatia per gli ebrei, nessuna condanna o protesta esplicita fu proferita da alcun autorevole personaggio o da alcun organismo di governo delle chiese. A parlare, o meglio a gridare disperatamente la propria solidariet per gli ebrei, e un amaro rimprovero alle gerarchie per il loro silenzio, fu soltanto qualche pastore o prete isolato. Tra tutti i vescovi protestanti di Germania, uno solo, il vescovo Wurm, in una lettera riservata a Hitler protest contro il massacro. Gli altri rimasero impassibili in privato quasi quanto lo erano in pubblico, e almeno uno (Martin Sasse della Turingia) pubblic un libello trasudante l'antisemitismo pi virulento, che giustificava i roghi delle sinagoghe e la violenza antiebraica su vasta scala. Riassumendo, di fronte alla persecuzione e all'annientamento degli ebrei le chiese, la protestante e la cattolica, in quanto istituzioni manifestarono un'evidente e sconcertante impassibilit. A tutti i livelli del clero si levavano voci che insultavano gli ebrei in termini analoghi a quelli dei nazisti, coprendoli di contumelie e acclamandone la persecuzione per mano del governo.

Nessuno storico degno di questo nome pu contestare il verdetto stilato dal teologo antinazista Karl Barth nella sua lettera di addio, mentre emigrava dalla Germania nel 1935: Per i milioni che soffrono ingiustamente, la chiesa confessante non ha ancora un cuore (41). Avrebbe potuto aggiungere: E non ne dar mai prova finch durer il nazismo. L'impassibilit delle chiese e il loro silenzio ufficiale acquisiscono particolare rilievo nel confronto con le singole voci di condanna e di protesta, rarissime, disperse e addolorate quanto a malapena udibili e del tutto inefficaci, che si levarono al loro interno. La condanna forse pi appassionata, esplicita e dettagliata del silenzio delle chiese cristiane venne da una funzionaria relativamente sconosciuta di una delle organizzazioni collaterali, la presidentessa del Servizio evangelico di assistenza nel distretto di Berlino-Zehlendorf, Marga Meusel. E' costituita da un lungo promemoria preparato per il sinodo della chiesa confessante che si tenne a Steglitz tra il 26 e il 29 settembre 1935, al quale la Meusel aggiunse alcune integrazioni prima dell'8 maggio 1936, dovute al peggioramento delle condizioni degli ebrei dopo le Leggi di Norimberga. Il promemoria descrive efficacemente la persecuzione, fornendo esempi delle umiliazioni, dei tormenti e delle brutalit inflitte agli ebrei dai tedeschi; perfino i bambini, cresciuti nella cultura antisemita, li diffamavano e li insultavano. Eppure sono bambini cristiani, come cristiani sono i genitori, gli insegnanti e gli ecclesiastici che li lasciano fare. In termini chiari e diretti la Meusel afferma che non un'esagerazione parlare di un tentativo di annientamento degli ebrei. Di fronte a questo uragano di odio e spaventosa sofferenza, la chiesa rimane muta e inerte: Che cosa dobbiamo rispondere a quelle domande e a quelle accuse cos amare e disperate? Perch la chiesa non fa nulla? Perch consente che accada questa indicibile ingiustizia?. E' particolarmente significativa la sua denuncia del favore con cui la chiesa aveva accolto il regime nazista, votandosi persino alla fedelt a Hitler; la Meusel cita con approvazione il verdetto di un rapporto svedese, secondo il quale i tedeschi hanno un nuovo Dio, la Razza, al quale offrono sacrifici umani. Com' possibile che la chiesa professi a ogni pi sospinto la sua fervida lealt allo stato nazionalsocialista? si domanda, e poi, alludendo alla dottrina nazista che condannava come vile e spregevole ogni sentimento di umanit: Significa forse che tutto ci che incompatibile con l'umanit, oggi tanto disprezzata, invece compatibile con il cristianesimo?.

Con dure parole dal violento tono accusatorio, la Meusel avverte la chiesa: Che cosa risponderemo, un giorno, quando ci chiederanno dov' tuo fratello Abele? L'unica risposta che potremo dare, noi stessi e la chiesa confessante, sar quella di Caino. Le chiese sono una questione centrale nello studio della diffusione, della natura e della forza dell'antisemitismo eliminazionista nella Germania moderna, perch si sarebbe indotti a credere, per una serie di motivi, che sia la gerarchia sia i fedeli fossero tra i tedeschi che pi vi si sarebbero dovuti opporre. Le chiese conservavano un ampio margine di autonomia istituzionale, comprendevano molte persone che in altre materie coltivavano opinioni non naziste, o antinaziste, e le dottrine e le tradizioni umanistiche che le governavano erano in palese contrasto con i precetti centrali del progetto eliminazionista. L'abbondante documentazione sul modo in cui clero e fedeli concepivano gli ebrei, e sulla loro posizione rispetto alla persecuzione eliminazionista, non fa che confermare e anzi - poich si tratta di un caso particolarmente significativo - rafforza la conclusione che nel popolo tedesco la concezione nazificata degli ebrei e l'adesione al progetto eliminazionista fossero estremamente diffusi, se non assiomatici. Non soltanto le gerarchie ecclesiastiche, ma l'intera lite tedesca intellettuale, professionale, religiosa, politica e militare abbracci e fece proprio il credo eliminazionista. Sia l'lite sia i tedeschi comuni non dichiararono alcun dissenso contro la concezione nazista dell'ebraismo, nel 1933, nel 1938, nel 1941 e nel 1944, pur essendo quello in Germania uno dei temi discussi con attenzione pi ossessiva. E' ampiamente dimostrato che il programma di sterminio, eccettuati i suoi aspetti pi brutali e gratuiti, suscit soltanto critiche isolate e del tutto insignificanti. Nemmeno nelle pi violente controversie antinaziste l'antisemitismo e le sue conseguenze compaiono mai tra i motivi di avversione per il regime (42). E i tedeschi non si limitavano a tacere sull'ingiustizia del trattamento criminale (agli occhi di un non nazista) riservato agli ebrei; non si limitavano a rifiutare il loro aiuto a compatrioti perseguitati (per non dire degli ebrei stranieri): molti parteciparono direttamente all'impresa eliminazionista di propria spontanea volont, presero l'iniziativa, aggredirono gli ebrei con le parole e le vie di fatto, oppure accelerarono il

processo che li escludeva dalla societ, trasformando gli individui in esseri socialmente morti e l'intero ebraismo tedesco in una comunit di lebbrosi. Si detto spesso che il popolo tedesco fu indifferente alla sorte degli ebrei (43). Chi lo afferma non tiene conto del numero enorme di tedeschi comuni che contribuirono al programma eliminazionista, e persino allo sterminio, e di quelli ancor pi numerosi che in varie occasioni dimostrarono di condividere il modello cognitivo dominante, o si mostrarono entusiasti dei provvedimenti contro gli ebrei - come i centomila che si radunarono a Norimberga il giorno dopo per celebrare gli eventi della Notte dei cristalli. Chi postula l'indifferenza ragiona come se il numero dei tedeschi che aderirono apertamente al programma eliminazionista o ne furono complici fosse irrilevante, come se le loro azioni non avessero nulla da dirci sul carattere del popolo tedesco in generale. Anche ignorando, per il momento, i fondamentali e insormontabili problemi empirici e analitici di quel postulato, la pretesa che i tedeschi fossero indifferenti al progetto nazionale di persecuzione e sterminio degli ebrei non regge nemmeno sul piano concettuale. Per poter utilizzare il concetto di indifferenza occorre porsi almeno due interrogativi preliminari. Il primo riguarda il significato: com' possibile che i tedeschi rimanessero indifferenti - nel senso di non avere opinioni o preferenze in materia, nel senso di non provare alcuna emozione, e di assumere un atteggiamento morale del tutto neutro - di fronte al macello di migliaia di persone, bambini compresi, che loro stessi o i loro compatrioti stavano perpetrando in nome della Germania? Come sarebbero potuti, allo stesso titolo, rimanere indifferenti di fronte alla politica eliminazionista del periodo precedente, che tra l'altro aveva cacciato con la forza i loro stessi vicini (ebrei) dalle case che abitavano da generazioni? La denigrazione pubblica degli ebrei era talmente diffusa da escludere la possibilit che un tedesco non avesse opinioni in merito, o in merito alla loro eliminazione dalla societ, allo stesso modo in cui era impossibile, per i bianchi del Sud americano al tempo del movimento per i diritti civili, non avere opinioni sui neri o sull'auspicabilit della fine della segregazione. Sul piano psicologico l'indifferenza era virtualmente impossibile (44). Se indifferenza vi fu, se in qualche modo molti tedeschi riuscirono a non avere opinioni sugli ebrei e sulla giustizia di ci che altri tedeschi stavano loro infliggendo, si tratta comunque di una condizione cognitiva che richiede una spiegazione, il che non risolverebbe i problemi legati al concetto e ci porterebbe invece al secondo quesito.

Come tutti, i tedeschi non erano indiscriminatamente indifferenti a qualsiasi cosa. Perch mai, dunque, furono indifferenti al massacro degli ebrei e non a tanti altri avvenimenti che pure, in confronto ai provvedimenti eliminazionisti culminati nell'omicidio in massa, non sembravano avere altrettanta capacit di ridestarli da quella condizione di totale neutralit? Perch il concetto abbia qualche significato occorre spiegare la struttura e i contenuti cognitivi e di valore, e il carattere dei rapporti sociali che avrebbero prodotto l'indifferenza di fronte a un fenomeno drammatico e sconvolgente come il programma antiebraico, in tutti i suoi aspetti; altrimenti si tratta soltanto di un'etichetta frettolosamente applicata al popolo tedesco, che impedisce ogni analisi ragionata di un problema cos complesso. E' sbagliato proiettare questa indifferenza psicologicamente implausibile sui tedeschi che vissero (per non dire di quelli che vi presero parte) il processo che trasform gli ebrei in esseri socialmente morti, che in tutta la Germania rimasero a guardare con curiosit i roghi delle sinagoghe nella Notte dei cristalli (per non dire di quelli che applaudivano), che videro altri tedeschi deportare i loro vicini ebrei (per non dire di quelli che li schernivano), e che furono testimoni, o seppero, dello sterminio. Sarebbe meglio, invece, ricordare dei versi di W. H. Auden che parrebbero scritti appositamente per i milioni di tedeschi che furono osservatori di quegli eventi: "Intellectual disgrace stares from every human face, and the seas of pity lie locked and frozen in each eye" (45). (La condanna dell'intelletto / volge lo sguardo da ogni volto umano / e gli oceani della piet / son fissi e congelati in tutti gli occhi.) I fatti parlano di spietatezza, non di indifferenza (46); sostenere che i curiosi che rimasero a guardare le infernali distruzioni della Notte dei cristalli, come le migliaia, forse decine di migliaia, di cittadini di Francoforte (47), provassero solo indifferenza equivale a ragionare per ossimori. In genere la gente fugge le scene e gli eventi che considera orrendi, criminali o pericolosi; i tedeschi, invece, accorrevano a frotte per godersi le aggressioni contro gli ebrei e le loro case, come nel Medioevo gli spettatori accorrevano a frotte alle esecuzioni, come i bambini corrono a frotte a uno spettacolo del circo.

A quanto mi dato sapere, le conferme della presunta indifferenza si riducono all'assenza di opinioni dichiarate (e registrate) in merito a uno dei numerosi provvedimenti antiebraici. In mancanza di altre indicazioni, assai pi probabile che quel silenzio equivalesse alla tacita approvazione di eventi che noi, ma non a quanto pare gli indifferenti tedeschi, consideriamo criminali. Dopo tutto, le persone che subiscono gravi torti generano di norma un flusso di simpatia. A giudicare dalla definizione della piet data da Thomas Hobbes, i tedeschi avrebbero dovuto provare grande compassione per gli ebrei: Piet quell'immagine o prefigurazione di una futura nostra calamit che deriva dal percepire la calamit di un altro. E quando accade a chi pensiamo non l'abbia meritata, tanto pi proviamo compassione, poich allora appare pi probabile che lo stesso accada a noi; perch il male che capita a un innocente pu capitare a chiunque (48). Che cosa, nei tedeschi, bloccava il flusso naturale della compassione? Qualcosa doveva ben essere. Non sarebbero forse stati sopraffatti dalla piet, sarebbero rimasti cos indifferenti e silenziosi, se avessero assistito alla deportazione di migliaia di tedeschi non ebrei? Evidentemente se la stessa cosa avveniva agli ebrei non evocava quella prefigurazione di una futura calamit; evidentemente essi non erano gli innocenti, di cui parla Hobbes. Mentre guardavano in silenzio o con aperta approvazione i propri compatrioti perseguitare, abbrutire e uccidere gli ebrei, molti di quegli stessi tedeschi esprimevano dissenso per tante scelte del governo verso le quali erano tutt'altro che indifferenti, come il cosiddetto programma di eutanasia, e spesso anche il trattamento delle razze straniere inferiori. In questi casi essi si riferivano a una mappa cognitiva affatto diversa, con la volont di opporsi attivamente per bloccare o sovvertire quelle decisioni politiche, anche quando rischiavano punizioni identiche a quelle previste per chi aiutava gli ebrei. Ci sono fior di tomi sul malcontento e la resistenza nella Germania nazista, con gran copia di esempi, ma nulla emerso che dia credibilit, e ancor meno sostanza, all'idea che i tedeschi si dissociassero da qualche aspetto essenziale della concezione nazista degli ebrei, che considerassero immorale la loro persecuzione, e di conseguenza criminale il regime che la perpetrava (49). Ci non pu stupire, in quanto non esisteva un'immagine pubblica istituzionale alternativa degli ebrei alla quale rifarsi, che li definisse come esseri umani.

Non c'era istituzione di qualche rilievo in Germania che non ne promuovesse l'immagine pi malevola, e tutte, o quasi, parteciparono attivamente al programma eliminazionista; molte anche allo stesso sterminio. Ancora una volta chiediamo a chi sostiene che un gran numero di tedeschi non era ispirato dall'antisemitismo eliminazionista di spiegare dove e come - in quali istituzioni, in quali sermoni religiosi, in quali opere letterarie, in quali testi scolastici - costoro avrebbero potuto trovare un'immagine positiva degli ebrei. E' un'idea confutata dall'intera conversazione pubblica nella Germania nazista, e da buona parte di quella nel periodo precedente, oltre che dalla confessione di uno dei carnefici degli "Einsatzkommandos", che spiega perch lui e tutti i suoi compatrioti fossero antisemiti: Ci veniva inculcato a forza, in anni di propaganda continua, che gli ebrei erano la rovina di ogni "Volk" in cui si annidassero, e che la pace avrebbe regnato in Europa solo quando la razza ebraica fosse stata sterminata. Nessuno poteva sfuggire del tutto a quella propaganda... (50) - che era soltanto la parte pi clamorosa della conversazione sociale sugli ebrei. Anche prima dell'intenso fuoco di sbarramento pubblico scatenato dal regime, l'antisemitismo dei tedeschi era talmente pernicioso che un profugo ebreo, fuggito dalla Germania con largo anticipo sulle peggiori misure isolazioniste ed eliminazioniste, concludeva il suo resoconto della vita nei primi mesi del periodo nazista spiegando con grande perspicacia: Me ne andai dalla Germania di Hitler per ritornare a essere un uomo (51). Un altro ebreo, che invece rimase, riassume in modo definitivo l'atteggiamento del popolo tedesco verso quegli esseri socialmente morti: Ci evitavano come lebbrosi (52). Di fronte alla presenza ubiqua, nella sfera pubblica, nelle comunit e nella popolazione in genere, di un antisemitismo razziale demonizzante; di fronte - ed altrettanto rilevante - alla lunga e intensa storia dell'avversione e dell'odio culturale per gli ebrei; di fronte all'annosa adesione, "ben prima del nazismo", delle maggiori istituzioni politiche, sociali e culturali tedesche alla prospettiva antisemita eliminazionista; di fronte a tutto questo diventa difficile giustificare, teoricamente o empiricamente, una conclusione che non presupponga nel popolo tedesco il consenso pressoch universale agli aspetti fondamentali dell'immagine nazista degli ebrei. L'antisemitismo razziale eliminazionista era cos vastamente diffuso e radicato che nei primi anni dopo la seconda guerra mondiale, quando gli orrori che aveva prodotto (e le conseguenze per la Germania, cio la perdita dell'indipendenza e la condanna del resto del mondo) erano davanti agli

occhi di tutti, i sondaggi e le testimonianze indicano che un numero enorme di tedeschi coltivava ancora profondi sentimenti antisemiti (53). Se ampiamente dimostrato che nel periodo nazista la Germania fu permeata dall'antisemitismo eliminazionista, altrettanto chiaro che esso non comparve dal nulla, materializzandosi soltanto, gi conformato alla perfezione, il 30 gennaio 1933. Il grande successo del programma antiebraico degli anni Trenta e Quaranta fu dunque dovuto soprattutto all'antisemitismo eliminazionista, razziale e demonologico, preesistente nel popolo tedesco, che Hitler si limit in sostanza a scatenare, pur preoccupandosi continuamente di attizzarlo. Gi nel 1920 aveva proclamato in pubblico che erano questi il carattere e il potenziale dell'antisemitismo in Germania. In un discorso del 13 agosto, di fronte a un pubblico entusiasta, Hitler dichiar che per le grandi masse tedesche quello era un sentimento istintivo ("instinktmssig"); il suo compito consisteva nel risvegliare, mettere alla frusta, infiammare l'antisemitismo emotivo ("gefhlmssig") della gente fino a quando il popolo decider di aderire al movimento che gi pronto a trarne le necessarie conseguenze (54). Con queste profetiche parole Hitler dava prova di un'acuta percezione del carattere del suo popolo e del modo in cui gli sarebbe riuscito di mobilitare quell'antisemitismo istintivo verso le necessarie conseguenze, che pi avanti nel discorso indic chiaramente essere una condanna a morte collettiva condizionata dalle circostanze. Hitler e i nazisti scatenarono, e dunque mobilitarono, l'antisemitismo precedentemente accumulato dai tedeschi. Lo dimostra, tra i tanti altri episodi, una lettera dell'Ufficio della chiesa evangelica di Kassel al Comitato esecutivo nazionale, che denuncia sia la chiesa sia i tedeschi comuni per la nuova esplosione di ardore eliminazionista nella persecuzione dei cristiani nati ebrei: "Alla chiesa evangelica bisogna muovere il grave rimprovero di non aver fermato la persecuzione dei suoi figli nella fede [gli ebrei battezzati], anzi, di aver implorato dal pulpito la benedizione [di Dio] sull'opera di chi agiva contro i suoi figli nella fede; alla maggioranza dei fedeli quello di aver consapevolmente fatto guerra ai loro confratelli nella fede. Sia la chiesa sia i fedeli hanno cacciato dalle comunit, dalle chiese, persone unite a loro nel culto, cos come si caccia dalla porta di casa un cane rognoso" (55).

Le ripetute aggressioni dei tedeschi comuni e dei loro pastori morali contro i "convertiti" rivelano tutta la forza della concezione razziale che si facevano degli ebrei, sufficiente a indurli a negare e ignorare la fondamentale dottrina cristiana della salvezza in virt del battesimo. Anche pi significativo forse il fatto che tutto ci avvenisse nei primi mesi del regime nazista (la lettera del maggio 1933), che ancora non aveva avuto molta possibilit di indottrinare chicchessia. Quei tedeschi agivano consapevolmente sulla base di antiche convinzioni culturali, con la legittimazione e persino l'incoraggiamento del nuovo credo politico. Il modello cognitivo culturale degli ebrei dominante nella Germania nazista aveva radici storiche profonde, a Weimar e oltre, e non era che una variante pi intensa dello stesso modello che aveva assunto la sua forma moderna nell'Ottocento. Nonostante l'evoluzione continua del contenuto esplicito, nel modello non mutava l'idea fondante degli ebrei quali esseri irrimediabilmente diversi dai tedeschi: maligni, potentissimi, una minaccia costante al benessere della societ tedesca. L'idea era intessuta nella trama morale e sociale della Germania, e da questo traeva la propria centralit culturale e politica, nonch una persistenza tenace. Il modello dell'ebreo, anzi, da lungo tempo era parte integrante della cultura tedesca quasi allo stesso titolo della fede ossessiva, virtualmente indiscussa, nelle virt del tanto decantato "Volk". E' ovvio che nel periodo nazista, con un capo di immensa popolarit che soffiava, esperto e instancabile, sul fuoco delle idee allucinatorie preesistenti, quell'antisemitismo non poteva che intensificarsi (56). Va sottolineato che il potenziale operativo dell'ideologia antisemita eliminazionista era suscettibile di esiti multipli, in quanto rimaneva da determinare, a grandi linee, quali delle soluzioni sostanzialmente intercambiabili della "Judenfrage" sarebbero state scelte dal vertice nazista, e quali sarebbero risultate accettabili per quali settori del popolo tedesco. Appare ovvio che il modello cognitivo culturale imperante in Germania fosse compatibile con soluzioni di diverso tipo, pi o meno radicali, poich Hitler e i suoi optarono per politiche eliminazioniste diverse nelle diverse fasi della loro vicenda al potere, anche se la concezione degli ebrei rimaneva immutata. Le alternative logicamente compatibili per la soluzione della "Judenfrage" sono riassunte nella conferenza del teologo Gerhard Kittel (1933), di cui si gi detto, sull'auspicabilit e la praticabilit di quattro opzioni, comunque

eliminazioniste: lo sterminio, la separazione degli ebrei da tutti gli altri popoli in uno stato a loro riservato, la loro scomparsa attraverso l'assimilazione totale, o una efficace ghettizzazione su vasta scala (57). Kittel evidenziava l'affinit logica e sostanziale delle diverse soluzioni, ricostruendo nel modo pi aperto e trasparente il processo mentale che ne informava la formulazione, anche se non tutti gli antisemiti, ispirati com'erano da considerazioni diverse (comprese quelle di natura etica), concordavano sulla medesima soluzione. Non erano che variazioni - distinte per il grado di accettabilit, per il radicalismo e la praticabilit derivanti dai principi e dagli obiettivi dell'antisemitismo eliminazionista. Nonostante le sue multiple potenzialit, l'ideologia antisemita, fondata sulla concezione degli ebrei quale si era configurata nel Novecento, tendeva con forza a generare metastasi della sua variante pi estrema, lo sterminio, che prometteva una soluzione politica commisurata all'entit della presunta questione. L'affinit elettiva tra chi sottoscriveva un antisemitismo eliminazionista razziale virulento e chi arrivava a concludere l'auspicabilit dello sterminio come soluzione gi riscontrabile negli ultimi anni dell'Ottocento, in epoca pregenocida. I due terzi abbondanti delle proposte avanzate in quel periodo dai pi autorevoli polemisti antisemiti auspicavano esplicitamente un'aggressione genocida contro gli ebrei (58). Le convinzioni che spinsero i nazisti a cancellare dapprima ogni influenza dei cittadini ebrei sulla societ, e poi la loro stessa presenza, raccoglievano a parte alcuni casi che comportavano danni materiali per gli interessi dei tedeschi - l'entusiastica adesione del popolo. Ogni aspetto principale dell'evoluzione del programma eliminazionista, dalla violenza verbale alla ghettizzazione, agli stessi eccidi, fu spontaneamente avallato da un numero enorme di tedeschi comuni, senza provocare alcun sintomo di insoddisfazione o di dissenso di principio. Da quella diagnosi, e da quella prognosi, delle condizioni della Germania - se non si fosse riusciti a sradicare la presunta minaccia del presunto morbo ebraico dal suo corpo sociale derivarono sia le misure discriminatorie, che finirono per essere considerate temporanee e insoddisfacenti, sia l'impulso allo sterminio. Per i tedeschi queste convinzioni bastavano a giustificare lo sterminio quale soluzione adeguata e definitiva alla presunta patologia sociale costituita dagli ebrei.

Come spiega un medico che fu per qualche tempo ad Auschwitz, il nesso tra pensiero e azione - tra l'antisemitismo e il massacro volontario degli ebrei, considerati, per citare le sue parole, gli arcinemici della Germania era estremamente stretto. Il passo, osserva acutamente, che separava le mostruose accuse mosse agli ebrei dalla decisione dell'annientamento lungo un solo millimetro. Ritornando alla nostra analisi dimensionale dell'antisemitismo, non v' dubbio che i tedeschi individuassero nella razza l'origine dell'estrema perniciosit che attribuivano agli ebrei. Nel caso dei realizzatori, l'antisemitismo risulta ovviamente manifesto, poich al tempo delle azioni genocide esso costituiva un momento centrale nel loro universo mentale ed emotivo; nel caso dei tedeschi comuni invece, e soprattutto negli anni Trenta, quello stesso antisemitismo risultava meno palese. Il salto verso lo sterminio di massa non fu dovuto a una loro iniziativa n, in linea generale, a una loro richiesta, nonostante le violente convinzioni eliminazioniste che indussero molti a intraprendere altri tipi di azione meno micidiali. La cosa non sorprende, a dispetto delle loro potenzialit genocide, e con ogni probabilit i fattori che vi concorrevano furono pi d'uno. Essi sapevano bene, per esempio, di poter affidare tranquillamente la soluzione della "Judenfrage" a Hitler e al governo nazista, che vi si erano pubblicamente votati, e che gi si dirigevano a grandi passi verso la realizzazione dei loro obiettivi. Dopo tutto, il timone dello stato era retto dai pi violenti e convinti antisemiti nella storia dell'umanit. La relativa latenza dell'antisemitismo tedesco, in assenza di contatti costanti con gli ebrei, in un momento in cui tutti gli sforzi della Germania erano concentrati sulla ricostruzione della sua potenza in politica interna ed estera, e non si davano le condizioni adeguate - un precedente storico, una forza militare sufficiente, o il semplice fatto che la grande maggioranza degli ebrei d'Europa ancora non era in loro potere -, escludeva la possibilit che essi compissero, di propria iniziativa, il salto morale e interpretativo necessario per pensare e promuovere una strage in massa di quelle proporzioni, al di l della pronta disponibilit a adeguarsi non appena altri ebbero mostrato loro la strada. Date le condizioni, negli anni Trenta la loro massima aspirazione poteva essere soltanto l'eliminazione degli ebrei dalla vita pubblica, tenendoli alla dovuta distanza e cancellando con l'emigrazione la loro presunta presenza corrosiva.

Hitler si era gi dato anima e corpo al conseguimento di quell'obiettivo, e dunque molti tedeschi potevano mettersi il cuore in pace, convinti che il governo si comportasse gi nel modo migliore possibile. Molti altri, intanto, applaudivano quella politica e operavano attivamente per portarla avanti. Il medesimo antisemitismo eliminazionista che non aveva prodotto tra i tedeschi una diffusa richiesta di sterminio bast a indurre quegli stessi tedeschi, "nelle circostanze favorevoli", a trasformarsi in volonterosi assassini. La cosa meno curiosa di quanto potrebbe apparire a prima vista: questo paradosso della societ tedesca si spiega con l'attivazione di un antisemitismo latente. Per fare un esempio, nemmeno la propensione degli americani a combattere i giapponesi nel caso fosse scoppiata la guerra - un'eventualit ben pi normale e probabile del genocidio - fu tra gli argomenti di conversazione pi scottanti negli Stati Uniti degli anni Trenta. Se oggi cercassimo riprove di una disponibilit preesistente degli americani comuni a prendere le armi contro il Giappone, non ne scopriremmo in misura sufficiente a convincere uno scettico. Ma quando si presentarono le circostanze, gli americani combatterono con valore, pienamente convinti della giustizia della causa. I realizzatori dell'Olocausto seguirono la medesima strada, anche se la sostanza delle convinzioni era di gran lunga diversa e anche se, diversamente dall'interpretazione realistica che gli americani davano del conflitto con il Giappone, la loro concezione del nemico era allucinata. Sul piano analitico ci che pi conta che la valutazione morale fornita dai soldati americani dell'impegno contro il Giappone non era diversa da quella che ne davano i civili, n da ci che sicuramente credevano i soldati stessi prima ancora che la possibilit di una guerra con il Giappone si affacciasse all'orizzonte - se cio avessero riflettuto su quale dovesse essere la giusta risposta all'aggressione e all'espansionismo imperiale dei giapponesi. Anche l'antisemitismo dei realizzatori e quello della grande maggioranza del popolo tedesco erano identici, nei contenuti e nella valutazione del carattere e della gravit della minaccia ebraica. I tedeschi comuni divennero realizzatori volonterosi perch il loro antisemitismo preesistente, moneta corrente in quella societ - nel 1927 un cattolico liberale attestava senza peli sulla lingua che in Germania il cittadino medio un antisemita latente (59) -, fu "attivato" nel duplice senso

di divenire pi manifesto, pi rilevante per i suoi portatori, e di veder realizzata, trasformata in azione, la sua potenzialit letale. Perch ci avvenisse furono indispensabili le nuove circostanze e l'intervento dello stato. Hitler varc con impeto l'abisso morale che i tedeschi comuni non potevano varcare di propria iniziativa; e fu lui a manovrare le condizioni che consentirono alla versione dell'ideologia eliminazionista votata allo sterminio di trasformarsi in una guida pratica all'azione. Organizzando nelle strutture della morte quegli eliminazionisti convinti, potenzialmente capaci di sterminio, e sanzionando le loro azioni con gli ordini e anzi la benedizione di un popolarissimo capo carismatico, lo stato tedesco riusc senza difficolt ad arruolare i tedeschi comuni nel suo programma, anche se, prima di contribuire a realizzarlo, la maggior parte di loro non avrebbe certo mai immaginato di doversi trasformare in massacratori. Dopo anni di torbidi, disordine e privazioni che i tedeschi consideravano causati dagli ebrei, Hitler offriva loro una soluzione veramente finale salirono quindi sul carro dello sterminio, operando come un sol uomo per concretizzare la visione e la promessa del Fhrer, perfettamente compatibili con la loro visione del mondo, con gli imperativi morali pi profondi (60). La simbiosi tra l'intenzione appassionata e tenace di Hitler di cancellare con qualsiasi mezzo la potenza degli ebrei e la concezione razzista ed eliminazionista che di essi aveva il popolo tedesco produsse le condizioni e lo stimolo per intraprendere i provvedimenti degli anni Trenta e Quaranta (61). Hitler e i vertici nazisti sapevano che il popolo tedesco la pensava come loro. Il 12 novembre 1938, durante una riunione di vertice sulla "Judenfrage" dopo la Notte dei cristalli, Heydrich spieg a Gring perch il controllo degli ebrei in Germania sarebbe stato pi facile se non si creavano i ghetti, luoghi in cui essi sarebbero vissuti tra loro e che, nella visione allucinata dei tedeschi, sarebbero stati eterni covi di criminali, e soprattutto [un terreno di coltura] di epidemie e cose analoghe. Heydrich aveva una soluzione migliore: contare sull'antisemitismo del popolo tedesco. Oggi accade che la popolazione tedesca ... costringa i giudei a concentrarsi in certi isolati o palazzi. Controllare il giudeo attraverso l'occhio attento della popolazione meglio che mettere insieme migliaia e migliaia di giudei in un solo quartiere

della citt, dove con i soli agenti in uniforme non posso tenere sotto controllo la loro vita di ogni giorno (62). Heydrich sapeva che quando si trattava di ebrei la sua polizia era il popolo tedesco, che in questo campo era ancor pi efficace della Gestapo. Heydrich e i capi del nazismo non avevano l'abitudine di illudersi sul popolo tedesco; sapevano bene che su molte questioni il popolo non era con loro. Pur essendo profondamente anticristiani, per esempio, e intenzionati a distruggere il cristianesimo dopo la guerra, sapevano che fino ad allora il popolo lo avrebbe impedito. Secondo Goebbels, che gi progettava lo smantellamento delle chiese dopo la vittoria militare, i provvedimenti anticristiani, ancora relativamente blandi, intrapresi dal segretario del partito Martin Bormann avrebbero portato pi danno che vantaggi per la loro impopolarit. Nel suo diario prendeva atto della differenza tra la reazione della gente a quei provvedimenti e all'aggressione contro gli ebrei. Perseguitando e sterminando gli ebrei il regime non correva alcun rischio che si aprisse un secondo fronte interno, ma Goebbels temeva che cos sarebbe avvenuto se i nazisti avessero agito con troppa decisione contro le chiese. L'appunto di Goebbels va a ulteriore conferma di due affermazioni da noi gi prese in esame: che opponendosi all'eliminazione e allo sterminio degli ebrei il popolo e le gerarchie cristiane avrebbero potuto fermare il regime, e che pi volte, posti di fronte a vincoli oggettivi, Hitler e i nazisti rinviarono a momenti pi propizi la realizzazione dei loro obiettivi programmatici. Goebbels - nell'intimit del diario, e dunque esprimendo le sue convinzioni pi sincere - indica anche il motivo per cui il popolo tedesco lasci mano libera al regime con gli ebrei, ma non con le chiese: perch in questo le loro opinioni coincidevano, perch oggi tutti i tedeschi sono contro gli ebrei (63). La simbiosi tra Hitler e il razzismo eliminazionista del popolo produsse anche la sintonia che abbiamo gi dimostrato, nei pi diversi contesti, tra tutti i livelli dell'azione, dalla politica nazionale alla struttura istituzionale, all'azione individuale. L'iniziativa della persecuzione e dell'eliminazione degli ebrei, emanata soprattutto dalla persona di Hitler, dallo stato e dal partito, venne per anche da individui e gruppi in tutte le sfere e a tutti i livelli sociali, sicch l'evoluzione stessa della Germania fu caratterizzata dall'esclusione, sempre pi massiccia nonostante l'andamento non lineare, degli ebrei dalla societ, accompagnata da livelli sempre maggiori di violenza.

Questo era chiaro per tutti (64). Hitler e i nazisti furono ovviamente la forza motrice della persecuzione e poi del massacro, ma l'antisemitismo che gi animava il popolo tedesco costituiva la "condizione abilitante necessaria" del programma eliminazionista, che quel popolo, purtroppo con poche eccezioni, condivideva in linea di principio, se non con entusiasmo (65). Le convinzioni, e in particolare il modello cognitivo culturale degli ebrei, sulle quali poggiavano l'adesione e il consenso al programma genericamente eliminazionista erano le stesse che sostennero lo sterminio. Prima ancora dell'avvio del genocidio, esse erano patrimonio comune dei tedeschi, realizzatori e no, in quanto i realizzatori erano solo comuni tedeschi che riversavano appunto quel patrimonio ideale nel proprio lavoro (66). A questo faceva riferimento l'ebreo tedesco che nel maggio 1942 annot nel suo diario il motivo per cui quasi tutti lo evitavano, motivo nel quale si riassumevano evidentemente anche le convinzioni dei tedeschi sugli ebrei: Dopo tutto, non stata una sorpresa. Per quasi dieci anni si sono gridate l'inferiorit e la perniciosit degli ebrei in tutti i giornali, mattina e sera, in ogni trasmissione radio, in tanti manifesti eccetera, senza consentire a una sola voce di levarsi in loro favore (67). In Germania il genocidio era immanente nella conversazione sociale, immanente nel linguaggio e nelle emozioni, immanente nella struttura cognitiva (68); ed era immanente nei comportamenti protogenocidi degli anni Trenta. Quando si crearono le circostanze adatte, l'antisemitismo eliminazionista gener le sue pi virulente metastasi genocide, e i tedeschi comuni si trasformarono in volonterosi assassini. Sciolte le briglie, la forza autonoma di quell'antisemitismo bast a indirizzare le loro azioni, a indurli volontariamente, di propria iniziativa, a trattare nel modo pi barbaro gli ebrei, al punto che anche per chi non era ufficialmente impegnato nella persecuzione e nello sterminio l'aggressione fisica, per non parlare di quella verbale, divenne un'abitudine. Un diarista riferisce un episodio paradigmatico. Alcuni giovani soldati, veterani del fronte occidentale, arrivarono a Losice, una cittadina di ottomila anime nella regione di Lublino, in Polonia. In un primo momento si comportarono con grande cortesia; poi vennero a sapere che gli abitanti erano per la grande maggioranza ebrei, e immediatamente si trasformarono.

Il "Sie" divenne "Du"; ci costringevano a lucidar loro gli stivali, e ci bastonavano quando non eravamo abbastanza lesti a levarci il cappello (69). Non era cambiato nulla: quella gente era esattamente la stessa di prima, non aveva fatto niente di diverso. Ci nonostante, tutto era cambiato, perch i tedeschi avevano scoperto la loro identit, e come tutti i loro compatrioti in Europa orientale si erano subito trasformati, passando allo sprezzante tu dal normale e rispettoso lei, pretendendo gesti simbolici di obbedienza e picchiando degli innocenti. L'antisemitismo era talmente profondo e pressoch universale che alle vittime ebree pareva che la sua presa sui tedeschi potesse essere colta e comunicata soltanto in termini organici: Il veleno di un odio morboso impregna il sangue dei nazisti (70). Una volta attivato, quell'odio che negli anni Trenta era rimasto per forza di cose relativamente latente si impossess di loro al punto che pareva trasudare da ogni poro. Kaplan, l'attento cronista del ghetto di Varsavia, aveva avuto modo di osservare molti tedeschi, dal settembre 1939 al marzo 1940, quando annot la conclusione cui l'avevano portato i loro atti e le loro parole: "La gigantesca catastrofe che si abbattuta sull'ebraismo polacco non ha paralleli, nemmeno nei momenti pi bui della storia degli ebrei. Prima di tutto, la profondit dell'odio. Non l'odio banale che prende origine dalla piattaforma di un partito, inventato a scopo politico. E' un'emozione, che nasce da qualche forma di disturbo psicopatico. Nelle sue manifestazioni esteriori agisce come un odio fisiologico, che percepisce il suo oggetto come fisicamente immondo, un lebbroso che non pu aver posto entro le mura. Le masse [tedesche] hanno assorbito questa qualit di odio ... Hanno assorbito gli insegnamenti dei loro padroni in forma concreta, corporea. L'ebreo lurido; l'ebreo imbroglione e malfattore; l'ebreo il nemico che minaccia l'esistenza stessa della Germania; l'ebreo il primo motore del trattato di Versailles, che ha ridotto a nulla la potenza della Germania; l'ebreo Satana, che semina zizzania tra una nazione e l'altra, spingendole allo scontro per trarre profitto dalla loro distruzione. Sono concetti facili da capire, con effetti immediati sulla vita di ogni giorno" (71). Va ricordato che queste considerazioni, cos come l'episodio dei giovani soldati a Losice, si riferiscono al comportamento dei tedeschi - S.S.,

poliziotti, soldati, amministratori, operatori economici "prima" dell'avvio formale del programma di genocidio sistematico.Kaplan denuncia le masse, i tedeschi comuni, non gli ideologi e i teorici del nazismo. Il nesso causale tra la convinzione e l'azione palpabile, tanto che gli ebrei risentono degli effetti di quei concetti nella loro vita di ogni giorno. Negli oltre due anni e mezzo in cui ebbe ulteriore e costante occasione di osservare i tedeschi a Varsavia, Kaplan non trov alcun motivo per modificare la sua valutazione. La concezione degli ebrei che indusse il popolo tedesco a consentire e a partecipare alle politiche eliminazioniste degli anni Trenta, e che a Losice o a Varsavia produsse comportamenti cos barbari prima ancora dell'avvio formale del programma di genocidio, era la stessa che lo prepar a condividere le parole rivolte a Minsk da un ufficiale del Battaglione di Polizia 3 ai suoi uomini, mentre si accingevano al primo dei loro spaventosi massacri: Nessun male ricadr sul nobile sangue tedesco per il suo impegno a distruggere i subumani. Questa gente comune aveva una visione del mondo secondo cui lo sterminio di migliaia di ebrei era un'ovvia necessit, che suscitava preoccupazione solo per il benessere del nobile sangue tedesco. La concezione degli ebrei preparava un campione rappresentativo di quel popolo ad ascoltare impassibile l'offerta di esenzione per chi non si sentiva all'altezza del compito che l'ufficiale fece seguire al proprio discorso, scegliendo invece di spontanea volont di procedere al massacro di uomini, donne e bambini (72). Furono queste convinzioni a generare nei tedeschi comuni le micidiali fantasie razziali che ispiravano le loro lettere alle famiglie e agli amici sulle imprese genocide della nazione e sui loro protagonisti. Il 7 agosto 1941 un membro del Battaglione di Polizia 105 scriveva alla moglie dall'Unione Sovietica, riferendo in termini esplicitamente compiaciuti dell'annientamento totale degli ebrei, e concludendo con queste parole: Cara H., non perderci il sonno. Cos dev'essere. Testimone di un massacro genocida costante e interminabile, di cui scriveva apertamente alla moglie nell'evidente certezza che lei avrebbe capito (al di l delle eventuali riserve che poteva nutrire), un mese dopo quell'uomo si sarebbe dichiarato fiero di essere un soldato tedesco, perch posso partecipare anch'io, e vivere tante avventure. Furono queste convinzioni a indurlo, pieno d'orgoglio per i trionfi dei tedeschi nella loro marcia genocida attraverso l'Unione Sovietica, a scattare fotografie (non specifica i soggetti), come facevano legioni di suoi camerati,

per conservare il ricordo di quei tempi, estremamente interessante per i nostri figli (73). Furono queste convinzioni a ispirare quanto scriveva con candida fierezza nel giugno 1943 un sergente dell'aeronautica, Herbert Habermalz, a proposito di quella che considerava una grande impresa nazionale: la totale e definitiva distruzione della pi grande comunit ebraica d'Europa, il ghetto di Varsavia, che aveva contenuto quasi 450 mila persone: Abbiamo fatto parecchi giri sopra la citt. Con grande soddisfazione abbiamo constatato lo sterminio completo del ghetto ebraico. I nostri hanno fatto davvero un lavoro fantastico: non c' una casa che non sia rasa al suolo (74). Habermalz, come tanti soldati, indirizz questa e altre lettere al suo vecchio posto di lavoro, un'azienda che produceva attrezzi agricoli; i corrispondenti sapevano che il contenuto delle lettere veniva spesso comunicato agli operai, per consolidare il senso dello sforzo comune con i compagni al fronte. Habermalz, evidentemente certo - e a ragione - che le convinzioni genocide sugli ebrei da cui egli era ispirato fossero condivise dai colleghi, voleva comunicare a chi era rimasto a casa la propria eccitazione di fronte a una visione cos rara e gratificante degli effetti di quel fantastico lavoro. Furono queste convinzioni la base delle vanterie degli ufficiali del Reggimento di Polizia 25 nonch di molti altri tedeschi impegnati nel massacro, certi di aver compiuto degli atti di eroismo con gli eccidi. Furono queste convinzioni a indurre tanti tedeschi comuni a uccidere per il solo piacere di farlo, e non cercando di nasconderlo ma davanti agli occhi di tutti, perfino delle donne, mogli e fidanzate, alcune delle quali, come a Stanislaww, ridevano mentre i loro uomini sparavano agli ebrei che stavano sul balcone come alle ochette di un tiro a segno (75). Furono queste convinzioni a ispirare gli uomini della la compagnia del Battaglione di Polizia 61, che sorvegliavano il ghetto di Varsavia abbattendo con gioia chiunque tentasse di uscire o entrare senza autorizzazione, a trasformare un luogo di riunione in un santuario del massacro degli ebrei. Quei riservisti attrezzarono a bar una stanza dei loro quartieri, adornandola di caricature e motti antisemiti e appendendo sopra al banco una grande stella di Davide luminosa. A evitare che qualcuna delle loro gesta passasse inosservata, accanto alla porta del bar c'era un aggiornato tabellone del numero di ebrei fucilati dalla compagnia.

Dopo ogni eccidio, quei tedeschi avevano l'abitudine di premiarsi con una "Siegesfeier", una festa della vittoria (76). Le stesse convinzioni sugli ebrei che avevano determinato l'adesione e la partecipazione del popolo tedesco al programma eliminazionista degli anni Trenta trasformarono gli uomini del Battaglione di Polizia 101 e tanti loro commilitoni in assassini sempre pronti a offrirsi volontari per le cacce all'ebreo, gente che giocava sul nome di Miedzyrzec, citt che fu scena di ripetuti rastrellamenti, eccidi e deportazioni, chiamandola "Menschenschreck" (orrore degli uomini) perch popolata da migliaia di ebrei (77). Fu per queste convinzioni che i tedeschi, per citare le parole di Herbert Hummel, responsabile amministrativo del distretto di Lublino, accolsero con gratitudine nel 1941 l'ordine di sparare per uccidere a tutti gli ebrei sorpresi fuori dai ghetti (78). Fu per queste convinzioni che i tedeschi comuni di un'altra unit di polizia sparavano a tutti gli ebrei in cui si imbattevano senza ordini espliciti, in modo assolutamente volontario. Spiega uno di loro: Devo ammettere che provavamo una certa gioia quando mettevamo le mani su un ebreo che potevamo uccidere. Non ricordo un solo caso in cui ci fosse bisogno di dare l'ordine di esecuzione. A quanto ne so, si sparava sempre di propria iniziativa; si aveva quasi l'impressione che diversi poliziotti si divertissero un mondo. Perch la gioia, perch l'entusiasmo volontaristico? Ovviamente per la concezione che essi avevano degli ebrei, che questo testimone riassume nella sua espressione definitiva: Non riconoscevamo l'ebreo come essere umano (79). Basta questa semplice osservazione, la confessione di un ex carnefice, per strappare tutti i veli che offuscano l'immagine della molla principale dell'Olocausto. Furono queste convinzioni il motivo per cui i tanti tedeschi comuni che umiliarono, brutalizzarono e torturarono gli ebrei nei campi e altrove - e nei campi la crudelt fu pressoch universale - lo fecero per libera scelta: non scelsero (come fece l'esigua minoranza che dimostra che era possibile tirarsi indietro) di non colpire o, quando erano sorvegliati, di colpire nel modo meno doloroso possibile, e preferirono invece immancabilmente il terrorismo, la tortura, i pestaggi devastanti. Furono queste convinzioni a indurre gli uomini del Battaglione di Polizia 309, anch'essi tedeschi comuni, a non odiare il capitano che li guid nell'orgia di fuoco e sangue di Bialystok, ma a conferirgli la stessa stima

che il Battaglione 101 nutriva per pap Trapp, una stima che trova riscontro nei sentimenti provati per i loro ufficiali da tanti soldati nelle strutture della morte. Secondo i suoi uomini, questo capitano era molto umano [sic]; un superiore inappuntabile (80). Dopo tutto nella Germania nazista si era verificata una trasmutazione di valori, sicch i tedeschi comuni consideravano l'uccisione degli ebrei un atto benefico per l'umanit. Furono queste convinzioni che li indussero a contrassegnare e celebrare tante festivit ebraiche, come lo Yom Kippur (il Giorno dell'espiazione), organizzando stragi (81). Furono queste convinzioni a ispirare a un poliziotto del Battaglione 9, distaccato all'"Einsatzkommando" 11a, due poesie, una per il Natale 1941 e l'altra per una serata di festa, dieci giorni dopo, per celebrare le loro gesta in Unione Sovietica. Con grande divertimento generale, riusc a inserire nei versi un riferimento ai colpi spaccacranio ("Nsseknacken") che essi avevano senz'altro inferto con gioia alle loro vittime (82). Furono queste convinzioni a consentire ai tedeschi di celebrare con grande allegria il genocidio degli ebrei. Cos avvenne con la festa ("Abschlussfeier") di chiusura del campo di sterminio di Chelmno, nell'aprile 1943, organizzata come riconoscimento dell'ottimo lavoro svolto dal personale tedesco: a Chelmno erano stati uccisi pi di 145 mila ebrei (83). I tedeschi ritennero di celebrare con orgoglio l'annientamento degli ebrei anche alla fine di un massacro pi concentrato, 12 mila ebrei ammazzati nella domenica di sangue del 12 ottobre 1941 a Stanislaww, dove offrirono una festa per la vittoria (84). Ancora un'altra celebrazione fu organizzata nell'agosto 1941, nei giorni inebrianti all'apogeo della campagna di sterminio degli ebrei lettoni. In occasione dell'eccidio di Cesis i tedeschi della polizia di sicurezza locale si riunirono con i militari per un banchetto di morte ["Totenmahl"] degli ebrei; durante i festeggiamenti, i partecipanti brindarono pi volte allo sterminio (85). Se la costante umiliazione delle vittime, la celebrazione degli eccidi e le gesta genocide immortalate nelle fotografie attestano in modo inequivocabile questa transustanziazione di valori, la sua dimostrazione forse pi efficace viene dal gesto di commiato di un uomo che sarebbe dovuto essere la coscienza morale della Germania.

Come buona parte delle gerarchie della chiesa protestante evangelica, che in un proclama dichiaravano gli ebrei nemici per nascita del mondo e del Reich, non suscettibili di salvezza nel battesimo e responsabili diretti della guerra, e che in preda all'antisemitismo razziale demonologico avevano esplicitamente auspicato provvedimenti pi rigorosi contro gli ebrei mentre gi il programma genocida procedeva a pieno ritmo, anche il cardinale Adolf Bertram di Breslavia ebbe occasione di esprimere chiaramente la propria interpretazione dello sterminio, salvandone soltanto chi si era convertito al cristianesimo. Le stesse convinzioni per cui il popolo tedesco sosteneva il programma eliminazionista e i realizzatori lo mettevano in pratica indussero Bertram - il quale come tutta la gerarchia ecclesiastica, protestante e cattolica, era perfettamente al corrente dello sterminio e dell'antisemitismo del suo gregge - a rendere l'ultimo omaggio all'uomo che era stato l'assassino del popolo ebraico, nonch per dodici anni il faro dell'intera nazione tedesca. Ricevuta la notizia della morte di Hitler, nei primi giorni di maggio del 1945, il cardinale Bertram ordin a tutte le chiese della sua arcidiocesi di celebrare una solenne messa di requiem in memoria del Fhrer (86), perch il suo gregge e quello hitleriano potessero pregare insieme l'Onnipotente, nel pieno rispetto della liturgia, di concedere a quel suo figlio un posto in paradiso (87). Le convinzioni che erano gi patrimonio comune del popolo tedesco quando Hitler assunse il potere, e che avevano prodotto il consenso e la partecipazione all'eliminazionismo degli anni Trenta, non riguardavano soltanto coloro che furono trasformati dalle circostanze, dal caso o dalla scelta in realizzatori, ma anche la grande maggioranza della popolazione che capiva, approvava e quand'era possibile faceva la sua parte per promuovere lo sterminio totale del popolo ebraico. L'ineluttabile verit che, riguardo agli ebrei, l'evoluzione della cultura politica tedesca era arrivata al punto di trasformare un numero enorme e rappresentativo di tedeschi comuni nei carnefici volonterosi di Hitler. Quanto alla grande maggioranza degli altri loro compatrioti, manc loro non la predisposizione, ma soltanto l'occasione.

NOTE AL CAPITOLO 16 N. 1.

Il nodo analitico semplice: se una persona gi disposta ad agire, presupporre che l'inazione possa essere punita non serve a spiegare il suo atto. Per la persona in questione la prospettiva della punizione - quand'anche ne faccia oggetto di riflessione - non ha alcun peso sul suo atto volontario. Lo stesso vale per i vantaggi materiali: per chi disposto a fare qualcosa gratuitamente, l'offerta di un premio pu apparire come un gradito sovrappi, ma non spiega il suo atto volontario. N. 2. Non basta disumanizzare, perch gli schiavi, in molte culture disumanizzati in misura straordinaria, non vengono per uccisi. Perch si giunga a uccidere delle persone, deve subentrare una particolare serie di credenze che comprende anche la convinzione che il gruppo disumanizzato sia fonte di grave pericolo. N. 3. Se non sono appoggiate o addirittura incanalate da parte istituzionale, tali credenze non generano forme di violenza che oltrepassino le rivolte o i pogrom. Gli stati stessi reprimono spesso gli impulsi violenti che queste convinzioni generano nella gente, come fece la Germania nel secolo diciannovesimo. Otto Stobbe, studioso degli ebrei in Germania nel Medioevo, rifletteva nel 1866 su quanto poco fosse cambiato rispetto ad allora nel latente odio dei tedeschi: Sebbene in molti luoghi la recente legislazione abbia dichiarato l'emancipazione completa degli ebrei, l'attuazione della legge ancora assai carente. Se lo stato non lo proteggesse dalle ingiustizie pi grossolane, oggi l'ebreo sarebbe alla merc delle persecuzioni e delle aggressioni della canaglia. Citato in Guido Kisch, "The Jews in Medieval Germany: A Study of Their Legal and Social Status", Chicago, University of Chicago Press, 1949, p. 10 (romano). N. 4 Sui principali casi di genocidio, confronta Franck Chalk e Kurt Jonassohn, "The History and Sociology of Genocide" cit. N. 5. Confronta Jacob Katz, "From Prejudice to Destruction" cit., per un esame comparato dell'evoluzione dell'antisemitsmo in diverse regioni d'Europa. N. 6. Lo conferma Helen Fein, "Accounting for Genocide" cit., che dimostra come in tutta l'Europa occupata la misura dell'antisemitismo presente in

ciascun paese prima della guerra contribuisca in modo determinante a spiegare gli alterni successi dei tedeschi nell'eliminazione dei rispettivi ebrei (confronta pagine 64-92). Si dovrebbe aggiungere che per i tedeschi la capacit di influenzare o bloccare il regime era assai maggiore di quella di cui disponevano gli altri popoli dell'Europa occupata. N. 7. La periodizzazione subisce una lieve modifica secondo che si riferisca alle "intenzioni" o alle "decisioni". Quella che abbiamo scelto d la priorit alle decisioni. Se dovessimo basarci sulle intenzioni di Hitler, l'inizio della seconda fase potrebbe essere segnato dalla Notte dei cristalli; quello della terza dalla decisione di Hitler di annientare gli ebrei. Eberhard Jackel, "Hitler's World View: a Blueprint of Power" cit., p. 61, individua delle fasi analoghe, ma la sua interpretazione della loro genesi e natura fondamentalmente diversa. N. 8. "Nazism", p. 1055. N. 9. Sull'uso degli ebrei come pedine di scambio per ottenere vantaggi materiali o politici nelle trattative internazionali, confronta Yehuda Bauer, "Jews for Sale? Nazi-Jewish Negotiations, 1933-1945", New Haven, Yale University Press, 1994. Bauer osserva che in quanto eccezioni tattiche, temporanee, queste iniziative non contrastavano con l'intenzione dei nazisti di distruggere gli ebrei fino all'ultimo. N. 10. Confronta David Bankier, "Hitler and the Policy-Making Process of the Jewish Question", cit., pagine 1-20, e specialmente pagine 1617. N. 11. Il peso fondamentale delle considerazioni geostrategiche nella direzione della politica eliminazionista fu al centro di un promemoria sul problema degli ebrei consegnato il 3 giugno 1940 dal capo dell'Ufficio ebraico del ministero degli Esteri tedesco Franz Rademacher al suo superiore, Martin Luther. Lo caratterizza la certezza assiomatica della capacit degli ebrei di manipolare le potenze straniere (in questo caso gli Stati Uniti), e dunque del valore strategico di tanti ostaggi nelle mani dei tedeschi; entrambe le cose influirono sull'indirizzo strategico di Hitler.

Rademacher afferma esplicitamente la comune convinzione che la guerra avesse due scopi interconnessi: l'espansione imperialistica della Germania e la liberazione del mondo dalle catene del giudaismo e della massoneria. Un lungo estratto del promemoria in Christopher R. Browning, "The Final Solution and the German Foreign Office" cit., pagine 36-37. N. 12. Werner Jochmann, "Adolf Hitler" cit., p. 108. N. 13. In un discorso del giugno 1944 a Norimberga Goebbels si vant che i nazisti non avessero reso noti al pubblico i loro obiettivi ultimi, confermando cos per implicazione che avevano dovuto attendere il momento pi opportuno per mettere in atto quelle intenzioni: Sarebbe stato molto imprudente se avessimo dato esatte spiegazioni agli ebrei, prima della presa di potere, su ci che intendevamo fare di loro ... Fu un'ottima cosa che non prendessero il movimento nazionalsocialista con tutta la seriet che in realt esso meritava. Citato in Hans-Heinrich Wilhelm, "The Holocaust in National-Socialist Rhetoric and Writings" cit., p. 112, nota 23. N. 14. Vlkisher Beobachter, 7 agosto 1929, citato in Erich Goldhagen, "Obsession and Realpolitik in the Final Solution" cit., p. 10. Poco dopo la presa di potere nel 1933, Hitler durante una riunione di vertice parl dell'ipotesi di uccidere i malati di mente. Confronta Michael Burleigh, "Death and Deliverance" cit., p. 97. N. 15. Per fare un esempio, se i tedeschi avessero deportato gli ebrei che tenevano in loro potere a Lublino, in Madagascar o in qualsiasi altro posto, nulla sta a indicare che poi avrebbero continuato a lasciarli in vita. La decisione dello sterminio totale degli ebrei sovietici, decisione organica alla visione nazista del mondo, sarebbe stata indubbiamente applicata anche a quelli precedentemente trasferiti in qualche riserva, come di fatto avvenne per gli ebrei polacchi ghettizzati e per gli ebrei francesi, e com'era previsto avvenisse per quelli inglesi e turchi. Se ne avesse davvero avuto l'intenzione, nella primavera, estate e autunno del 1941, con la prospettiva di diventare il nuovo padrone d'Europa e dell'immensa massa continentale russa, fino al Pacifico, Hitler non avrebbe certo avuto difficolt a riprendere i piani considerati a suo tempo per la deportazione degli ebrei polacchi ed europei in qualche colonia isolata, sigillata, piani che ora poteva realizzare con comodo, al momento pi opportuno.

Ma cos non avvenne. N. 16. Sull'enunciato omicida di Himmler, in un discorso pubblico, confronta la testimonianza del generale delle S.S. Erich von dem BachZelewski, I.M.T., vol. 4, p. 482. Una rassegna generale dei piani omicidi dei tedeschi per l'Europa orientale in Ihor Kamenetsky, "Secret Nazi Plans for Eastern Europe: A Study of Lebensraum Policies", New York, Bookman Associates, 1961; e Robert Gibbons, "Allgemeine Richtlinien fr die politische und wirtschaftliche Verwaltung der besetzen Ostgebiete", V.f.Z. 24, 1977, pagine 252-61. N. 17. Werner Jochmann, "Adolf Hitler" cit., p. 229. N. 18. Vi furono rare eccezioni, come il generale Franz von Rocques. Nei primi giorni del massacro degli ebrei sovietici, comunic al generale Wilhelm von Leeb (che registr la proposta nel suo diario senza segnali di dissenso) che le fucilazioni in massa non sarebbero bastate. Il modo pi sicuro per risolvere [la "Judenfrage"] azzardava sarebbe la sterilizzazione di tutti gli ebrei maschi. Ecco un esempio in cui, pur in assenza del minimo dissenso con l'interpretazione della "Judenfrage", si aspirava a una soluzione funzionalmente equivalente, ma migliore sul piano pragmatico ed estetico (ai loro occhi). Confronta Helmut Krausnick e Hans-Heinrich Wilhelm, "Die Truppe des Weltanschauungskrieges" cit., pagine 207-08. N. 19. Reginald H. Phelps, "Hitlers Grundlegende Rede ber den Antisemitismus" cit., p. 412. Hitler aggiunse che gli ebrei erano contrari alla pena di morte perch sapevano che sarebbe stata usata contro di loro. N. 20. Ibid, p. 418. N. 21. La media mensile approssimativa dei lavoratori stranieri fuggiti tra il febbraio e l'agosto, e nel dicembre 1943, di 33 mila, con un incremento costante che li porta dai poco pi di 20 mila di febbraio ai 46 mila di dicembre. Quasi tutti furono subito ripresi. Confronta Ulrich Herbert, Der "Auslandereinsatz" cit.

N. 22. Confronta Falk Pingel, "Haftlinge unter S.S.-Herrschaft" cit., pagine 11879; e Ulrich Herbert, Arbeit und Vernichtung cit., pagine 198-236. N. 23. Come valutare, quanto meno in questo caso, la forza dell'antisemitismo eliminazionista tedesco quando agiva in concomitanza con altre aspirazioni e altri vincoli? Tenendo conto di tutto l'insieme contraddittorio dei loro obiettivi, tra i quali la produzione economica occupava un posto di second'ordine, possiamo ritenere che i tedeschi agissero in modo pi o meno razionale, nell'accezione pi strumentale della razionalit. Riuscirono ad ammazzare milioni di ebrei; riuscirono a estorcere loro un minimo di produttivit senza che questo interferisse con l'obiettivo prioritario dello sterminio; e nel farlo riuscirono a infliggere loro sofferenze sino ad allora inimmaginabili. Fu una politica incoerente, che anche dal loro punto di vista avrebbe potuto essere formulata e applicata in modo assai pi intelligente; ma tutto sommato, alla luce dei valori e delle istanze incompatibili che li guidavano, non se la cavarono troppo male. Loro stessi, in genere, lo consideravano un buon successo: erano riusciti ad aggiogare il lavoro al carro della morte, un'impresa straordinaria, l'attestazione definitiva della loro visione del mondo, del loro antisemitismo, e della sua forza pervertitrice. N. 24. K.D., Hoffmann, p. 2677. N. 25. Questi casi sono discussi in Wolfgang Benz, berleben im Untergrund 1943-1945 cit., pagine 660-700. N. 26. Era il famoso grido antisemita coniato da Heinrich von Treitschke, il pi importante intellettuale liberale che abbracci l'antisemitismo. Scriveva nel 1879, ma esprimeva il fascino trascendente che l'antisemitismo avrebbe esercitato per quasi tre quarti di secolo sulla Germania quando affermava che dalla bocca di uomini che rifiuterebbero con disprezzo ogni idea di intolleranza clericale o di arroganza nazionale, si leva oggi unanime il grido "Gli ebrei sono la nostra disgrazia!" (citato in Alfred D. Low, "Jews in the Eyes of Germans" cit., p 372). N. 27. Robert Gellately, "The Gestapo and German Society" cit., pagine 205206, 58.

Non tutte queste rare osservazioni critiche contestavano comunque la concezione prevalente degli ebrei o la giustizia del programma eliminazionista, mettendo invece in discussione l'opportunit dei provvedimenti, dato che molti temevano che la vendetta degli ebrei sarebbe ricaduta sulla Germania (confronta pagine 208-09). Altre possono essere considerate critiche solo volendo essere molto generosi. La met quasi delle incriminazioni di Monaco non pass in giudicato, evidentemente per l'inconsistenza delle accuse (p. 206). Secondo Gellately l'assenza di critiche alla politica antiebraica della Germania indica in quale misura i cittadini si adattassero alla linea ufficiale. Non vedo alcun motivo per concludere che si limitassero a adattarsi, nel senso di rassegnarsi a circostanze sulle quali, in questo caso, avevano ben poco controllo; anche perch la critica fu assente nell'intera storia della persecuzione eliminazionista, indipendentemente dalle politiche perseguite nei diversi momenti, e dal mutare delle circostanze e delle fortune della Germania. Come sostengo fin dall'inizio, i fatti dimostrano che l'accettazione e l'adesione dei tedeschi all'impresa eliminazionista non derivano dall'adattamento bens dalla loro congruit ideologica. Se si fosse trattato di mero adattamento, perch mai - ed questo un interrogativo che viene posto troppo di rado - i tedeschi si adattarono in questo contesto, e non in altri a esso analoghi? N. 28. Manfred Messerschmidt, Harte Shne am Judentum: Befehlslage und Wissen in der deutschen Wehrmacht, in "Niemand war dabei und keiner hat's gewusst: Die deutsche Offentlichkeit und die Judenzverfolgung 19331945", Mnchen, Piper, 1989, p. 123. N. 29. Kunrat von Hammerstein, "Sphtrupp", Stuttgart, Henry Goverts Verlag, 1963, p.192. N. 30. Citato in Wolfgang Gerlach, "Als die Zeugen schwiegen" cit., pagine 372-73. N. 31. Citato in Friedrich Heer, "God's First Love" cit., p. 272. N. 32. Citato in Wolfgang Gerlach, "Als die Zeugen schwiegen" cit., p. 244. N. 33. Citato da ibid., p. 376.

N. 34. "Kirchliches Jahrbuch Fr die Evangelische Kirche in Deutschland 1933-1944", Gtersloh, C. Bertelsmann Verlag, 1948, p. 481. N. 35. Citato in Wolfgang Gerlach, "Als die Zeugen schwiegen" cit., p. 372. N. 36. William Shakespeare, "Il mercante di Venezia", 5, 1, 90-91. N. 37. Gnter Lewy, "The Catholic Church and Nazi Germany" cit., p. 308. N. 38. Citato in Wolfgang Gerlach, "Als die Zeugen schzwiegen" cit., p. 31. N. 39. Citato da ibid., p. 29. N. 40. Citato da ibid. Questo giudizio sull'onnipresenza dell'antisemitismo nelle chiese protestanti riflette la conclusione dell'autore. N. 41. Citato da ibid., p. 153. N. 42. Confronta, per esempio, "Prophetien wider das Dritte Reich", a cura di Johannes Steiner, Mnchen, Verlag Dr. Schell und Dr. Steiner, 1946. N. 43. Confronta Otto Dov Kulka e Aron Rodrigue, "The German Population and the Jews in the Third Reich" cit., pagine 421-35; e Ian Kershaw, German Popular Opinion and the "Jewish Question" cit., pagine 365-86; David Bankier, "The Germans and the Final Solution" cit., p. 137; Hans Mommsen e Dieter Obst, Die Reaktion der deutschen Bevlkerung auf die Verfolgung der Juden cit., pagine 374-421, specialmente p. 406, dove parlano persino di diffusa indifferenza morale. N. 44. Un'interpretazione diversa dell'indifferenza in Michael Herzfeld, "The Social Production of Indifference: Exploring the Symbolic Roots of Western Bureaucracy", New York, Berg Publishers, 1992. N. 45. Wystan Hugh Auden, In Memory of W.B. Yeats, in "Another Time: Poems", New York, Random House, 1940. N. 46. La parola tedesca usata dai contemporanei per definire l'atteggiamento del popolo verso la persecuzione degli ebrei teilnahmslos, tradotto in genere con indifferente o apatico.

Ian Kershaw, "The Persecution of the Jews and German Popular Opinion" cit., p. 330, per esempio, dice del Baden, citando un rapporto in "Sopade": Sebbene alcuni rifiutassero "nettamente" la persecuzione, la maggioranza della popolazione rimase "assolutamente apatica" ["absolut teilnahmslos"]. Ma questa traduzione non rende bene il senso del tedesco: "teilnahmslos" significa piuttosto non solidale: i tedeschi erano assolutamente privi di solidariet, il che indica meglio le loro emozioni di fronte a quella grande sofferenza. L'essere privi di solidariet fu l'origine e il meccanismo della loro apparente apatia o indifferenza. "Teilnahmslos" non significa indifferente nell'accezione di "gleichgltig", disinteressato: si pu essere "teilnahmslos", cio privi di partecipazione, di fronte alle sofferenze altrui, non all'altrui successo. E' un termine che indica insensibilit, e per diventare insensibili occorre un motivo, perch non questa la reazione naturale a orrori di quella portata. N. 47. Wolfgang Wippermann, "Das Leben in Frankfurt zur N.S.-Zeit: Die nationalsozialistische Judenverfolgung", Frankfurt am Main, Kramer, 1986, p. 104. N. 48. Thomas Hobbes, Of the Passions of the Mind, in "The Elements of Law: Natural an Politic", London, Frank Cass & Co., 1969, p. 40. N. 49. Come ho gi detto, l'onere della prova ricade giustamente su chi sostiene che gran parte dei tedeschi non aderiva all'antisemitismo di stampo nazista, e a quello che abbiamo qui definito il modello cognitivo culturale degli ebrei. Leggendo gli studi che si basano su questa convinzione, si rimane colpiti invece dalla scarsit o dall'assenza di prove a dimostrazione dell'ipotesi che le idee dei tedeschi sugli ebrei fossero diverse da quella costantemente propagandata dai nazisti. N. 50. E.C., Z.S.t.L. 204 A.R.-Z 269/60, vol. 2, p. 471. Quest'uomo era stato talmente devoto alla visione nazificata del mondo da poter dichiarare, nella deposizione resa nel l962, che la loro idea degli ebrei aveva trovato conferma in tanta parte delle nostre esperienze in Russia (e nel Piano Morgenthau). N. 51. "Why I Left Germany" cit., p. 214. N. 52.

Citato in Harmut Ludwig, "Die Opfer unter dem Rad Verbinden" cit., p. 76, nota 208. N. 53. Un'indagine condotta dalle autorit di occupazione americane alla fine del 1946 rivela che un buon 61 per cento dei tedeschi tendeva a esprimere opinioni classificabili come razziste o antisemite. Un altro 19 per cento rientrava nella categoria dei nazionalisti. La relazione cos descrive quel deprimente stato di cose: Riassumendo: 4 tedeschi su 10 sono tanto impregnati di antisemitismo da rendere estremamente incerta una loro opposizione a eventuali aggressioni esplicite contro gli ebrei, anche se non tutti vi prenderebbero parte di persona ... E' probabile che meno di 2 su 10 opporrebbero resistenza a quel genere di condotta. Ed era passato un anno e mezzo dalla sconfitta del nazismo! Sono comunque cifre che certo sottovalutano le dimensioni dell'antisemitismo in Germania. Sappiamo bene che i sondaggi tendono a sottovalutare la portata dei pregiudizi degli intervistati; nel caso specifico questo genere di opinioni avrebbe potuto mettere nei guai chi le dichiarava, poich il paese era governato dagli Alleati e proclamarsi antisemita poteva essere pericoloso. E inoltre il sondaggio veniva condotto direttamente da americani del Governo militare, il che sicuramente riduceva ulteriormente la disponibilit dei tedeschi a rivelare sentimenti razzisti o antisemiti. (Un esperimento dimostra anzi che, quando gli intervistatori erano tedeschi, la percentuale di persone che esprimevano opinioni favorevoli al nazismo aumentava del 10 per cento, rispetto alle risposte date alle stesse domande quando a formularle erano gli americani.) Confronta Frank Stern, "The Whitewashing of the Yellow Badge: Antisemitism and Philosemitism in Postwar Germany", Oxford, Pergamon Press, 1992, pagine 106-157, qui p. 124; Anna J. Merritt e Richard L. Merritt, "Public Opinion in Occupied Germany: The OMGUS Surveys, 1945-1949", Urbana, University of Illinois Press, 1970, pagine 5-8, 146-48. Non si vuol dire con questo che l'antisemitismo tedesco non si sia modificato, e in parte dissolto, con la Repubblica federale (sebbene ancor oggi la Germania ne sia infetta), e questo per una serie di motivi. In sostanza, dopo la guerra i tedeschi furono rieducati: la conversazione pubblica cessa di essere antisemita, e anche le espressioni di antisemitismo divennero illegali. Si diffondevano delle contro-immagini dell'ebreo, prima con l'occupazione alleata, poi nella riconquistata sovranit tedesca.

I giovani non venivano pi allevati e istruiti in una cultura antisemita. Proprio perch in contrasto con la realt, l'idea nazificata degli ebrei era molto fragile; ed era difficile coltivarne le componenti allucinatorie senza un appoggio istituzionale. I tedeschi divennero democratici, si reintegrarono nel mondo occidentale e cominciarono a vedere la persecuzione degli ebrei con gli occhi di quel mondo, a considerare l'Olocausto il maggior crimine della storia d'Europa: era sempre pi difficile in quelle condizioni conservare l'immagine demonizzata, anche se a molti tedeschi gli ebrei continuavano a non piacere. E' nota la rapidit con la quale si possono dissolvere le convinzioni pi assurde. Nel Sud degli Stati Uniti l'idea che i bianchi avevano dei neri e del loro posto nella societ sub una trasformazione travolgente negli anni compresi all'incirca tra il 1960 e il 1980. Cos come nessuno sarebbe disposto a indicare le odierne convinzioni dei bianchi non razzisti quale dimostrazione del fatto che i loro omologhi negli anni Cinquanta non erano stati razzisti, nessuno pu usare la diffusione e la natura dell'antisemitismo nella Germania degli anni Sessanta o Settanta a riprova del fatto che i tedeschi non fossero stati antisemiti eliminazionisti nel 1940. N. 54. Reginald H. Phelps, "Hitlers Grundlegende Rede ber den Antisemitismus" cit., p. 417. N. 55. Citato in Wolfgang Gerlach, "Als die Zeugen schwiegen" cit., p. 46. N. 56. Va per sottolineato che in nessun senso i nazisti sottoposero il popolo tedesco a un lavaggio del cervello; nonostante i massicci sforzi in questo senso, non riuscirono a indottrinarlo in tutta una serie di altri contesti, sicch l'idea che su due piedi potessero indurre i tedeschi ad accettare un'immagine allucinata e demonizzata degli ebrei, contraria a ci che avevano creduto fino a quel momento, semplicemente assurda. Le loro precedenti convinzioni furono determinanti per stabilire quali elementi dell'escatologia nazista essi avrebbero accettato e adottato. N. 57. Confronta Robert P. Ericksen, "Theologians under Hitler" cit., pagine 5556. N. 58. Confronta la tabella all'ultima pagina (non numerata) di Klemens Felden, "Die bernahme des antisemitischen Stereotyps" cit.

N. 59. Theodor Haecker, "Zur Europischen Judenfrage", Hochland, 24, n. 2, aprile-settembre 1927, p. 618. E aggiungeva: Non dobbiamo nascondere a noi stessi questo dato di fatto. N. 60. Che Hitler potesse farlo per lo sterminio degli ebrei, ma non per il cosiddetto programma di eutanasia, dimostra che i tedeschi non erano disposti a seguirlo quando violava i loro imperativi morali pi profondi, il senso di ci che per loro era desiderabile e auspicabile. Per una discussione sulla costanza differenziata della devozione del popolo tedesco alle diverse cause propugnate da Hitler confronta Ian Kershaw, "Der Hitler Mythos" cit. N. 61. Anche Werner Jochmann lo sostiene in Die deutsche Bevlkerung und die nationalsozialistische Judenpolitik bis zur Verkundung der Nrnberger Gesetze, in "Gesellschaftskrise und Judenfeindschaft in Deutschland" cit., p. 237. Esisteva dunque un consenso di base ["Grundkonsens"] tra il popolo e chi lo guidava, che fu la condizione necessaria perch Hitler potesse procedere rapidamente nella persecuzione degli ebrei senza incontrare opposizione. N. 62. Norimberga, Doc. 1816-P.S., I.M.T., vol. 28, p. 534. Lo sostiene anche Ursula Bttner, Die deutsche Bevlkerung und die Juden Verfolgung, 1933-1945 cit., p. 77. N. 63. Citato in Georg Denzler e Volker Fabricius, "Die Kirchen in Dritten Reich: Christen und Nazis Hand in Hand?", Frankfurt am Main, Fischer, 1985, vol. 1, p. 95. N. 64. David Bankier, "The Germans and the Final Solution" cit., p. 156, scrive: ... La maggioranza dei tedeschi appoggiava la politica antisemita nella piena consapevolezza del fatto che non si poteva arrivare a una comunit razzialmente pura facendosi troppi scrupoli morali. Nonostante l'eufemismo sul non farsi troppi scrupoli morali, evidente a tutti che la morale vigente nei rapporti tra tedeschi era del tutto sospesa in quelli con gli ebrei. N. 65. Lo sostengono anche Konrad Kwiet e Helmut Eschwege, "Selbstbehauptung und Widerstand" cit., p. 34.

N. 66. Facendo eccezione, in qualche misura, per le S.S., membri di un'organizzazione ossessivamente antisemita. Per un esame del ruolo centrale dell'antisemitismo per le S.S., confronta Bernd Wegner, "The Waffen-S.S." cit., specialmente le pagine 48-53. N. 67. Citato in Konrad Kwiet, Nach dem Pogrom: Stufen der Ausgrenzung, in "Die Juden in Deutschland", a cura di Wolfgang Benz, cit., p. 627. N. 68. L'impulso allo sterminio, organico a questo tipo di antisemitismo, fu rilevato da Lothrop Stoddard, un giornalista americano che durante una visita in Germania alla fine del 1939 fu testimone delle sue frequenti espressioni: "Nella Germania nazista la determinazione a eliminare gli ebrei ulteriormente esacerbata dalle teorie sulla razza. Ne risulta, negli ambienti nazisti, un atteggiamento di assoluta inflessibilit. Se anche non viene enunciata pi spesso, la questione gi decisa in linea di principio: l'eliminazione degli ebrei verr portata a termine in tempi relativamente brevi. Per questo, di regola, l'argomento non si pone nemmeno. Ma spunta fuori nei momenti pi inaspettati. Per esempio, sono rimasto esterrefatto a un pranzo o una cena con dei nazisti, nel corso del quale la 'Judenfrage' non era stata mai menzionata, quando qualcuno ha alzato il bicchiere al brindisi 'Tod den Juden!', Morte agli ebrei!". Pi volte, e con grande disinvoltura, quei tedeschi pronunciarono frasi da assassini di fronte al giornalista americano; per loro l'imminente sorte degli ebrei era questione di senso comune, evidente, condivisa e accettata da tutti, una cosa alla quale si poteva brindare senza averne nemmeno parlato prima. Nel 1939 (ma anche in precedenza) nell'atmosfera antisemita della Germania c'era gi tanfo di genocidio. Confronta Lothorp Stoddard, "Into ther Darkness: Nazi Germany Today", New York, Duell, Sloan & Pearce, 1940, pagine 287-88. N. 69. Oskar Pinkus, "The House of Ashes" cit., p. 36. N. 70. Chaim A. Kaplan, "The Warsaw Diary of Chaim A. Kaplan" cit., p. 120. N. 71. Ibid., pagine 129-30.

Se pure esprimono le sue considerazioni personali, le idee di Kaplan erano tutt'altro che balzane. Il suo diario era considerato un documento storico di tale importanza che Emmanuel Ringelblum, il cronista del ghetto di Varsavia, lo implor di lasciarlo custodire a lui. Confronta l'introduzione di Abraham Katsch all'edizione del diario, pagine 14-15. N. 72. "Verfgung", Z.S.t.L., 202 A.R. l65/61, pagine 401-02. N. 73. Ludwig Eiber, "... ein kisschen die Wahrheit: Briefe eines Bremer Kaufmanns von seinem Einsatz beim Reserve-Polizeibattaillon 105 in der Sowjetunion 1941", 1999,1/91,1991, pagine 73, 75. N. 74. Citato in Alf Ldtke, The Appeal of Exterminating "Others": German Workers and the Limits of Resistance, in "Resistance Agninst the Third Reich 1933-1990", a cura di Michael Geyer e John W. Boyer, Chicago, University of Chicago Press, 1994, p. 73. Questa lettera, con l'esplicito riferimento allo sterminio totale degli ebrei, indica che in Germania le informazioni in proposito erano ormai di pubblico dominio. Halbermalz dava per scontato che i suoi corrispondenti in patria sapessero gi del genocidio, come risulta dal fatto che non ritiene di dover spiegare il contesto della distruzione del ghetto, indispensabile se chi legge deve cogliere il senso dell'evento in s, e comprendere (e condividere) la soddisfazione che ne deriva. N. 75. Capi d'accusa contro Hans Krger, 208 A.R.-Z 498/59, pagine 255-56. N. 76. Sentenza contro Br. e altri, Dortmund 10c K.s. 1/53, in "Justiz und N.SVerbrechen Sammlung Deutscher Straturteile Wegen Nationalsozialistischer Ttungsungsverbrechen, 1945-1966", Amsterdam, University Press Amsterdam, 1974, vol. 12, p. 332; confronta anche Christopher R. Browning, "Ordinary Men" cit., p. 41. N. 77. J.U., Hoffmann, p. 2665; W.H., ibid, p. 2213; e K.S., "H.G.", p. 659. N. 78. Per un resoconto della riunione del 16 dicembre 1941, durante la quale importanti dirigenti tedeschi applaudirono all'ordine di sparare a vista, confronta Hans Frank, "Das Diensttagebuch des deutschen Generalgouverneurs in Polen 1939-1945", a cura di Werner Prag e

Wolfgang Jacobmeyer, Stuttgart, Deutsche Verlags-Anstalt, 1975, pagine 452-58. N. 79. J.S., Z.S.t.L., 208 A.R.-Z 24/63, p. 1371. N. 80. W.G., Buchs, p. 1384. N. 81. Esempi in Capi d'accusa contro Paul Raebel e altri, S.t.A. Stuttgart 12 Js 1403/61- due eccidi a Tarnopol in occasione dello Yom Kippur (pagine 129-30); Sentenza contro Hans Krger e altri, Mnster 5 K.s. 4/65 - un eccidio a Nadvornaja nel primo giorno di Sukkot (pagine 137-94). N. 82. Z.S.t.L. 213 A.R. 1900/66, doc. vol. 4, pagine 668-77. Il poeta accenna anche ai Krimciaki, un gruppo di ebrei della Crimea con duemila anni di storia che i tedeschi avevano massacrato. Gli uomini dell'"Einsatzkommando" 11a - comprendendo anche quelli del Battaglione di Polizia 9 - erano tanto antisemiti che tutti si prendevano gioco di uno del battaglione che aveva un cognome dal suono ebraico e i capelli scuri, chiamandolo Einstein ebreo. Minacciarono persino di ucciderlo, per quelle sue caratteristiche (O.E., ibid., p. 1822). Che probabilit c'era che disapprovassero l'eccidio degli ebrei? N. 83. Adalbert Rckerl, "Nationalsozialistische Verninchtungslager im Spiegel deutscher Strafprozesse" cit., pagine 281, 292. I tedeschi avrebbero poi riaperto Chelmno nel 1944, riprendendo le eliminazioni. N. 84. Capi d'accusa contro Hans Krger e altri, Z.S.t. Dortmund 45 Js 53/61, p. 189. N. 85. Capi d'accusa contro A. B., S.t.A. Lubecca 2 Js 394/70, p. 148. N. 86. Confronta Klaus Scholder, "Ein Requiem fur Hitler: Kardinal Bertram und der deutsche Episkopat im Dritten Reich", Frankfurt Allgemeine Zeitung, 25 ottobre 1980. Scholder si sofferma sul significato particolare della messa da requiem solenne: Stando alla legge della chiesa cattolica una messa da requiem solenne pu essere celebrata soltanto per un membro credente della chiesa, solo in occasioni importanti, e solo se nell'interesse pubblico della chiesa....

Da una lettera del gennaio 1944 risulta per implicazione che Bertram aveva dato l'avallo proprio e - dichiarandosi suo portavoce - del popolo tedesco allo sterminio degli ebrei, una sorte dalla quale per escludeva i cristiani battezzati. Pur opponendosi a che questi fratelli cristiani debbano ora andare incontro a un destino simile a quello degli ebrei, indicato esplicitamente come sterminio, Bertram non si oppose n allora n prima alla sorte degli ebrei. Confronta Gnter Lewy, "The Catholic Church and Nazi Germany" cit., p. 291. Come ha dimostrato l'analisi del profondo antisemitismo della gerarchia della chiesa, le idee di Bertram riflettevano la norma dominante. N. 87. Migliaia di preti cattolici e di pastori protestanti provvedevano alle esigenze spirituali dei milioni di tedeschi arruolati nell'esercito, nelle unit di polizia e nelle strutture della morte. I cattolici tra i realizzatori confessavano forse come un peccato l'assassinio degli ebrei? E i milioni di uomini che furono testimoni della strage (soprattutto in Unione Sovietica, dove gli eccidi avvenivano sotto gli occhi di tutti) cercarono forse il consiglio delle loro guide spirituali? Che cosa rispondevano, gli uomini di Dio? E perch, a quanto sappiamo, quasi nessuno di loro lev mai la voce contro lo sterminio degli ebrei?

Epilogo LA RIVOLUZIONE NAZISTA IN GERMANIA

Questo studio dell'Olocausto e dei suoi realizzatori attribuisce importanza prioritaria alle loro idee: invertendo la massima marxiana, esso sostiene che fu la coscienza a determinare l'essere. La conclusione che la cultura politica dell'antisemitismo eliminazionista tedesco, la cui genesi deve essere ed storicamente ricostruibile, fu ci che indusse sia il vertice nazista sia i tedeschi comuni alla persecuzione e allo sterminio degli ebrei, e costitu dunque la causa principale dell'Olocausto, pu risultare inconcepibile per alcuni, mentre per altri mero buonsenso. Che tanta gente comune ponesse davvero al centro della propria visione del mondo delle convinzioni palesemente assurde sugli ebrei, analoghe a quelle formulate da Hitler in "Mein Kampf", dimostrato in modo irrefutabile; i dati che lo confermano sono disponibili da anni, e anzi erano gi disponibili per chiunque osservasse la Germania durante gli anni Trenta. Poich per quelle convinzioni ci appaiono tanto ridicole, come le farneticazioni di un pazzo, stato e continuer probabilmente a essere difficile, per chi troppo legato al senso comune della nostra visione del mondo o trova troppo inquietanti le implicazioni di questa verit, accettare che esse fossero davvero il patrimonio comune del popolo tedesco. Nel periodo nazista la Germania era abitata da persone le cui convinzioni sugli ebrei le rendevano disponibili a trasformarsi in consenzienti carnefici di massa. Lo studio dei realizzatori, in particolare dei battaglioni di polizia in quanto spaccato rappresentativo della popolazione maschile e dunque indicativo dell'atteggiamento verso gli ebrei dei tedeschi comuni, proprio per la loro rappresentativit ci costringe a questa conclusione generale. Essere comuni nella Germania votata al nazismo significava aderire a una cultura politica tutt'altro che ordinaria nella sua letalit. Una cultura capace di produrre quei volonterosi assassini induce a sua volta a ipotizzare che la societ tedesca avesse subto altre modificazioni di rilievo fondamentale, specie sul piano cognitivo e morale. Lo studio dei realizzatori dell'Olocausto apre dunque una finestra che getta su quella societ una nuova luce, imponendoci di riconsiderare alcuni dei suoi aspetti pi importanti.

Ci fa capire poi che i nazisti furono i rivoluzionari pi radicali dell'epoca moderna, e che nel pur breve periodo in cui dominarono la Germania la loro fu la rivoluzione pi radicalmente estrema negli annali della civilt occidentale. Fu soprattutto una rivoluzione cognitivo-morale, che ribalt processi consolidati in secoli di storia europea.In definitiva, questo libro non riguarda soltanto i realizzatori dell'Olocausto: poich essi erano cittadini rappresentativi dell'intera popolazione, questo libro parla della Germania prima e durante il periodo nazista, del suo popolo e della sua cultura (1). Come in tutte le rivoluzioni, anche in quella nazista interagivano due componenti fondamentali: una distruttiva, di viscerale rivolta contro la civilt, e una costruttiva, un originale tentativo di creare un nuovo uomo, un nuovo corpo sociale e un nuovo ordine nazificati in Europa e nel mondo. Fu una rivoluzione atipica, perch sul piano interno avvenne senza ricorsi massicci alla coercizione e alla violenza (a parte, nei primi anni, la repressione dei movimenti di sinistra). Si tratt essenzialmente di una trasformazione della coscienza, che inculc nei tedeschi un nuovo ethos. In linea di massima fu una rivoluzione pacifica, accolta con favore dal popolo; a conti fatti, sul piano interno fu una rivoluzione consensuale. Alla consensualit interna la rivoluzione nazista fece corrispondere la pi brutale barbarie nei rapporti con chi sarebbe stato escluso dalla nuova Germania e dalla nuova Europa, le decine di milioni di persone che i tedeschi avevano destinato alla soggezione, alla schiavit, allo sterminio. La sua natura essenziale - il modo in cui andava trasformando la materia mentale e morale del popolo tedesco, distruggendo, per citare Himmler, la sostanza umana dei non tedeschi - si coglie appieno nella struttura emblematica della Germania in epoca nazista: il campo. Il campo non fu soltanto la struttura paradigmatica dell'asservimento violento, dello sfruttamento e del massacro di coloro che venivano designati come nemici, delle pi disinibite manifestazioni di supremazia, della trasformazione delle vittime a somiglianza dell'immagine subumana che i tedeschi avevano di loro. L'essenza del campo non riducibile a questi aspetti particolari (di cui si detto nel capitolo 5), perch prima di ogni altra cosa quella era una struttura rivoluzionaria, attivamente e consapevolmente indirizzata a conseguire trasformazioni radicali. Fu una rivoluzione "di sensibilit e di prassi". Universo della crudelt e degli impulsi sfrenati, il sistema dei campi lasciava libera espressione al nuovo credo morale nazista, nei suoi tratti

essenziali l'antitesi della morale cristiana e dell'umanesimo illuminato quegli stupidi, falsi e malsani ideali di umanit, li chiamava Gring (2). Il sistema dei campi negava nella pratica il principio cristiano e illuminista dell'uguaglianza morale degli esseri umani. Nella cosmologia nazista dei tedeschi, c'erano esseri umani che per motivi biologici andavano uccisi; altri erano destinati alla schiavit, e anche loro sarebbero potuti essere uccisi, se fossero diventati superflui. Il sistema dei campi era fondato sull'esistenza del superiore e dell'inferiore, del padrone e dello schiavo; nella teoria e nella prassi si faceva beffe dell'invito cristiano ad amare il prossimo, a provare piet per gli oppressi, a lasciarsi guidare dalla solidariet. L'etica del campo invece predicava e imponeva l'odio per gli altri, bandiva la piet dal proprio orizzonte linguistico e pratico e inculcava non la capacit di reagire con simpatia emotiva alle sofferenze altrui, bens un gelido disprezzo, quando non era vero e proprio godimento nell'infliggerle. Nel mondo dei campi tedeschi la sofferenza e la tortura non erano quindi fatti accidentali, episodici, o violazioni delle regole, ma elementi centrali, costanti e normativi. La vista di un ebreo sofferente, o di un cadavere appena massacrato quanto a questo, poteva trattarsi anche di un russo o di un polacco - non suscitava, e in base all'etica del campo non doveva suscitare, alcuna solidariet; come voleva la morale nazista, veniva invece percepita con fredda soddisfazione come un contributo alla distruttiva ricostruzione della nuova Germania, e del nuovo ordine tedesco in Europa. L'ideale che ispirava il trattamento dei pi odiati tra i detenuti dei campi, gli ebrei, esigeva per loro un mondo di sofferenza infinita, che si sarebbe conclusa soltanto con la morte. La vita dell'ebreo doveva essere l'inferno in terra, il tormento, il dolore fisico continuo, senza alcuna consolazione. Si tratt, vale la pena di sottolinearlo, di un'alterazione profonda, rivoluzionaria, della sensibilit, avvenuta in Europa in pieno Novecento. La prassi rivoluzionaria dei tedeschi era talmente brutale che Chaim Kaplan ne rimase colpito gi sul finire del 1939, prima dell'avvio formale del programma di sterminio: "Le orrende persecuzioni del Medioevo sono nulla a fronte delle spaventose disgrazie in cui ci precipitano i nazisti. A tempi primitivi corrispondono metodi di tortura primitivi. Gli oppressori del Medioevo non conoscevano che due alternative: la vita o la morte.

Finch un uomo viveva, anche se era ebreo, lo lasciavano vivere; e gli davano anche la possibilit di arrivare alla fine dei suoi giorni scegliendo la conversione o l'esilio. L'inquisizione nazista, invece, diversa. Toglie la vita all'ebreo strangolando le sue fonti di sostentamento, imponendogli restrizioni giuridiche, editti feroci, torture tanto sadiche che anche un tiranno medioevale si sarebbe vergognato di renderle pubbliche. A quell'epoca rientrava nella mentalit comune l'idea di mandare al rogo un'anima peccatrice, ma non era loro abitudine torturare un uomo solo perch, a giudizio del carnefice, era nato nel peccato" (3). Le regressione nella barbarie, la logica dell'antisemitismo tedesco moderno e le mete verso le quali esso veniva manovrato dai vertici nazisti furono tali che Kaplan, e probabilmente tanti altri ebrei, avrebbero preferito vivere non nella Germania di un Novecento la cui struttura esemplare era il campo, ma piuttosto sotto il pi oscurantista dei tiranni medioevali. Il secondo obiettivo dell'universo dei campi era una "trasformazione rivoluzionaria della societ" su basi che negavano le premesse fondamentali della civilt europea. La rivoluzione nazista in Germania si proponeva di ricostituire il paesaggio sociale d'Europa conformandolo ai principi del suo razzismo biologico, uccidendo milioni di persone che le sue fantasie razziali consideravano pericolose o superflue, per incrementare la proporzione delle razze superiori rafforzando il ceppo biologico dell'intera umanit e riducendo di conseguenza il pericolo rappresentato per i superiori dai ben pi numerosi inferiori. L'ethos dell'immensa e regressiva opera di ricostruzione progettata dal nazismo per un'Europa dominata dalla Germania fu ripetutamente proclamato da Himmler, punta di diamante della rivoluzione: Che le nazioni vivano nella prosperit o muoiano di fame mi interessa soltanto nella misura in cui noi abbiamo bisogno di loro come schiavi per la nostra "Kultur"; altrimenti mi del tutto indifferente (4). L'Europa dell'Est sarebbe divenuta un territorio popolato da coloni tedeschi e schiavi slavi (5). L'universo dei campi fu rivoluzionario perch fu lo strumento principale utilizzato dai tedeschi per quella radicale trasformazione del paesaggio sociale e umano d'Europa. Il "sistema" della societ tedesca che esso rappresentava era consapevolmente governato da princpi che rovesciavano le precedenti regole della moralit pubblica e (nonostante le molte eccezioni) della condotta della societ tedesca ed europea.

Se questo nuovo mondo si fosse realizzato, sarebbe stata la fine della civilt europea cos come la conosciamo, e avrebbe portato con s facendone anzi un simbolo - la distruzione del cristianesimo stesso (6). Il sistema dei campi era rivoluzionario anche perch era gi un microcosmo di quel mondo, il modello sociale da imporre a gran parte dell'Europa, il modello morale alla base della societ europea che i tedeschi volevano rifondare. Nella sua crescita continua, esso fu l'embrione della nuova Europa germanica, un immenso campo di concentramento con i tedeschi nel ruolo delle guardie e gli altri popoli (con l'eccezione dei privilegiati razziali) nei ruoli dei cadaveri, degli schiavi, degli internati. Gi nell'autunno 1940 Hans Frank, governatore tedesco della Polonia, delineava con chiarezza quella visione generale, pur riferendosi direttamente solo ai territori di sua giurisdizione: Qui noi ragioniamo in termini imperiali, i pi grandiosi di ogni tempo. Il nostro imperialismo non commisurabile ai miserevoli tentativi africani dei deboli governi tedeschi che ci hanno preceduto. Frank riferiva agli ascoltatori che il Fhrer ha inoltre dichiarato esplicitamente che la Polonia era destinata (per usare la parafrasi di Frank) a diventare un immenso campo di lavoro, dove tutto ci che comporta potere e autonomia sar nelle mani dei tedeschi. Nessun polacco potr avere un'istruzione superiore, e nessuno potr salire oltre il grado di capomastro. Nelle intenzioni di Frank e di Hitler lo stato polacco non sarebbe mai rinato; i polacchi sarebbero rimasti soggiogati per sempre alla razza padrona. Queste elucubrazioni di Frank sul campo di concentramento quale modello per la Polonia non furono da lui escogitate in gran segreto, bens comunicate in due discorsi che tenne ai responsabili dei dipartimenti della sua amministrazione: descriveva cio a chi governava quel paese l'etica alla quale ci si doveva conformare (7). Il sistema dei campi fu un aspetto caratterizzante della societ tedesca nel periodo nazista, e il "Lager" ne fu la struttura emblematica. Fu questa struttura a distinguere nel modo pi netto la Germania dagli altri paesi, quella che in larga misura contribu a delinearne la particolare fisionomia letale. E fu anche la pi grande e importante innovazione istituzionale introdotta dal nazismo, un sottosistema sociale affatto nuovo. I primissimi campi istituiti nel 1933, poco dopo l'ascesa di Hitler al potere, posero le basi di quel nuovo tipo di societ, che andava

continuamente espandendosi per numero di impianti (oltre diecimila) e dimensioni della popolazione. Il sistema dei campi fu il settore istituzionale in maggiore crescita di questo periodo della storia tedesca, e sarebbe continuato a crescere se la Germania non fosse stata sconfitta. E infine, ebbe valore qualificante ed emblematico perch per moltissimi versi rappresentava e simboleggiava taluni aspetti centrali della Germania di allora: era il sito in cui la creazione del mondo nazista procedeva nel modo pi libero e incondizionato. Qui l'ideologia nazista, che al di l di ogni dubbio fu origine e forza motrice delle sempre pi sanguinarie scelte politiche tedesche sotto Hitler, poteva esprimersi appieno. Il tipo di societ e di valori cui aspirava quell'ideologia, che il sistema educativo andava inculcando nei giovani tedeschi e che Hitler e Himmler avevano indicato chiaramente come loro obiettivo finale, fu realizzato preliminarmente nell'universo dei campi e in esso trov il proprio referente empirico pi calzante. E' dunque nei campi che si delineano pi chiaramente i tratti essenziali della rivoluzione nazista in Germania e del nuovo uomo che ne doveva nascere, le caratteristiche del ricostituito corpo sociale e la natura dell'ordine europeo che si veniva prospettando. L'universo dei "Lager" impartiva direttamente alle vittime, e indirettamente a noi, precise lezioni sull'essenza della Germania in epoca nazista; esso espone il vero volto non soltanto del nazismo, ma dell'intera nazione. L'idea che quella tedesca fosse una societ comune, normale, che ebbe la sventura di essere governata da gente malvagia e senza scrupoli, capace di utilizzare le istituzioni delle societ moderne per indurre il popolo a compiere azioni che esso aborriva, assolutamente falsa. Fu invece una societ per molti e fondamentali aspetti diversa da quella in cui viviamo oggi, mossa da un'altra ontologia, un'altra cosmologia, popolata da gente la cui percezione complessiva di alcune dimensioni importanti dell'esistenza sociale non aveva nulla di comune nel senso che noi diamo al termine. L'idea, per esempio, che gli aspetti caratterizzanti di un individuo derivassero dalla sua razza e che il mondo fosse diviso in razze distinte ognuna con qualit intellettuali e morali determinate con estrema variabilit dai fattori biologici - se non fu un assioma fu quanto meno una convinzione capillarmente diffusa.

Che il mondo dovesse essere organizzato o riorganizzato sulla base di questa immutabile gerarchia razziale era una convinzione con valore normativo. La possibilit della coesistenza pacifica delle razze non aveva alcun posto di rilievo nel paesaggio cognitivo della societ: poteva darsi soltanto la competizione, una guerra inesorabile fino al trionfo di una di esse sull'altra. La vita nel sistema dei campi dimostrava con quale determinazione i tedeschi comuni fossero disposti a tradurre nella pratica l'insieme delle convinzioni e dei valori razzisti e distruttivi che costituivano formalmente e informalmente l'ideologia pubblica del loro paese. Il "Lager" - la struttura caratteristica, distintiva, forse anche centrale, di quella societ fu il terreno di addestramento alla prepotenza del nuovo superuomo tedesco, e ne rivel la vera natura. Il campo dimostra in quale misura la "Kultur" di Himmler fosse gi diventata la "Kultur" della Germania. Con la sua costante espansione, l'universo dei campi fu il sito per eccellenza degli aspetti portanti della rivoluzione nazista in Germania. L'omicidio in massa, la reintroduzione della schiavit nel continente europeo, la licenza di trattare i subumani a proprio capriccio, senza alcuna inibizione: in questo il "Lager" fu la struttura emblematica della Germania in epoca nazista, e il paradigma del Reich millenario. L'universo dei campi rivela l'essenza della Germania votata al nazismo non meno di quanto non rivelino le vicende dei singoli esecutori sulla disponibilit al massacro e alla barbarie dei tedeschi comuni, quando si trattava di salvare la Germania e il suo "Volk" dalla minaccia assoluta: DER JUDE.

NOTE ALL'EPILOGO N. 1. Non sorprende che la generazione socializzata durante il periodo nazista divenisse ancor pi rabbiosamente antisemita di quella dei suoi padri. Da tutti i punti di vista la giovent tedesca era imbevuta di razzismo e antisemitismo, e viveva in un mondo strutturato da importanti presupposti cognitivi fantasticamente diversi dai nostri. Un ex giovane hitleriano, Alfons Heck ("The Burden of Hitler's Legacy" cit.), parla del diffuso antisemitismo, condiviso da milioni di tedeschi, che veniva loro inculcato a scuola durante le lezioni settimanali di scienza razziale.

Lui e i suoi compagni assorbivano le dementi opinioni dell'insegnante come dati di fatto, come se fosse una lezione di aritmetica (pagine 49-50). Rifacendosi alla propria esperienza, Heck accusa giustamente i suoi compatrioti: Tutti i bambini sono ricettacoli senza difese, pronti a lasciarsi riempire di saggezza o di veleno dai genitori e dagli educatori. Noi che nascemmo nel nazismo non avevamo alternative, a meno di non avere genitori abbastanza coraggiosi da opporsi alla corrente, trasmettendo quell'opposizione ai figli. Ma erano pochi. La maggioranza dei tedeschi si schier compatta con Hitler, una volta che egli si fu dimostrato davvero capace di produrre un cambiamento radicale (p. 44). Secondo Heck, i tedeschi comuni furono responsabili almeno quanto gli educatori delle opinioni dei loro figli. Due importanti studi sulla giovent tedesca nel periodo nazista - uno del 1941, l'altro del dopoguerra - giungono alla medesima conclusione, che esprimono nei rispettivi titoli: Gregor Athalwin Ziemer, "Education for Death" cit.; "Schule im Dritten Reich: Erziehung zum Tod", a cura di Geert Platner e allievi della Gerhart-Hauptmann-Schule in Kassel, Kln, PahlRugenstein, 1988. Per le idee antisemite di cui venivano subissati gli studenti tedeschi, confronta J. Remold, "Handhuch fr die HitlerJugend", Mnchen, 1933, il libro di testo per sette milioni di giovani hitleriani in et compresa tra i quattordici e i diciotto anni, che presenta gli ebrei in termini esplicitamente eliminazionisti. Gilmer W. Blackburn, "Education in the Third Reich: Race and History in Nazi Textbooks", Albany, State University of New York Press, 1985, e KurtIngo Flessau, "Schule der Diktatur: Lehrplane und Schulbcher des Nationalsozialismus", Mnchen, Fischer Verlag, 1977. N. 2. Citato in Erich Goldhagen, "Obsession and Realpolitik in the Final Solution" cit., p. 9. N. 3. Chaim A. Kaplan, "The Warsaw Diary of Chaim A. Kaplan" cit., p. 64. N. 4. Discorso dell'ottobre 1943, Norimberga, doc. No-5001. N. 5. Forse i tedeschi comuni pensavano di restituire i territori dell'Europa dell'Est, per vivere in pace con una Polonia e una Russia indipendenti da

loro stessi resuscitate? Da quanto sappiamo miravano soltanto a essere i signori di un impero. Jacob Perel, il protagonista del film "Europa, Europa", a chi gli domandava quali fossero le sue previsioni nel caso di una vittoria della Germania (nella quale credeva fermamente) rispose che immaginava di ereditare la tenuta dell'uomo delle S.S. che l'aveva adottato, diventando un piccolo Fhrer per gli slavi alle sue dipendenze. N. 6. Erich Goldhagen, "Obsession and Realpolitik in the Final Solution" cit., p. 9. N. 7. "Das Dritte Reich und seine Denker", a cura di Lon Poliakov e Joseph Wulf, Frankfurt am Main, Ullstein, 1983, pagine 503-04. Anche il generale delle S.S. Friedrich Jeckeln, H.S.S.P.F. Russia-Sud, parlando nell'estate del 1941 con uno dei suoi sottoposti, R.R., dello sterminio degli ebrei, accenn che in una conversazione Himmler aveva detto, per citare R., che gli ucraini dovranno diventare un popolo di iloti ["ein Helotenvolk"] che lavorer solo per noi (Capi d'accusa contro R.R., M.B. e E.K., S.t.A. Ratisbona I 4 Js 1495/65, p. 36). Non erano discorsi a vanvera: i tedeschi li stavano davvero mettendo in pratica.

Appendice 1 NOTA METODOLOGICA

Al di l delle indispensabili considerazioni teoriche generali che indirizzano questa ricerca, altrettanto necessario indicare altre considerazioni metodologiche da cui informata la nostra indagine sui realizzatori. Troppe sono le cose che non sappiamo dell'Olocausto e dei suoi realizzatori, e dobbiamo quindi essere selettivi. Questo libro tratta perci soltanto di alcune delle strutture della morte, e non ha la pretesa di fornire una storia esauriente dell'Olocausto. I casi non sono stati scelti pensando alla fluidit narrativa o all'esaustivit, ma per la loro capacit di rispondere a certi quesiti, di verificare certe ipotesi. E' un libro soprattutto interpretativo, teorico. La narrazione e la descrizione, che pure sono importanti per definire adeguatamente le azioni dei realizzatori e i loro contesti, sono qui subordinate a obiettivi esplicativi. Quando ho intrapreso la ricerca empirica che sta alla base di questo studio, ho ritenuto di poter dimostrare l'ipotesi secondo la quale i realizzatori furono motivati a prender parte alla micidiale persecuzione degli ebrei dalle loro convinzioni riguardo alle vittime e per questo, una volta che Hitler ebbe impartito l'ordine dello sterminio, le diverse istituzioni tedesche non faticarono a utilizzare a proprio vantaggio l'antisemitsmo preesistente. Ho quindi scelto di studiare le strutture, e i casi particolari nell'ambito di ciascuna, che in diverso modo consentissero di isolare l'influenza dell'antisemitismo onde verificarne l'efficacia causale. Se l'ipotesi fosse stata errata, i casi prescelti l'avrebbero indubbiamente demolita. Le tre strutture analizzate in profondit sono i battaglioni di polizia, i campi di lavoro e le marce della morte; tre ambiti di ricerca peraltro gravemente trascurati dagli studiosi. La scelta dei casi e dei campioni si informata a un'ulteriore considerazione.

Questa analisi si svolge su due diversi livelli della popolazione: quello dei realizzatori dell'Olocausto e quello pi generale dell'intero popolo tedesco, della Germania nazista e della sua cultura politica. Le strutture esaminate devono dunque rispondere a una duplice funzione analitica: dovrebbero aiutarci a scoprire le motivazioni dei realizzatori nei rispettivi contesti, e insieme consentirci di generalizzare sia sui realizzatori in quanto categoria, sia sul secondo gruppo oggetto di studio, il popolo tedesco. Le considerazioni metodologiche che seguono sono quindi in buona parte valide per entrambi i livelli. Questo studio sottopone a verifica empirica le ipotesi contrastanti di cui si detto, rifacendosi a una variet di casi e senza trascurare, se necessario, il confronto con documenti relativi ad agenti non tedeschi e ad altri casi di genocidio. Si basa sulle mie ricerche su un gran numero di unit e strutture diverse che presero parte all'Olocausto: pi di 354 battaglioni di polizia impegnati nelle stragi; i 18 "Einsatzkommandos", le squadre della morte costituite per lo sterminio degli ebrei sovietici; diversi esempi di ghetti e campi di concentramento; i campi di lavoro; Auschwitz e gli altri campi di sterminio; una dozzina di marce della morte avvenute negli ultimissimi giorni di guerra (1). Sebbene dunque i capitoli tematici trattino soltanto pochi casi di battaglioni di polizia, di campi di lavoro e di marce della morte, le mie conclusioni si fondano su un patrimonio di conoscenze pi vasto. I capitoli della Parte sesta, che riassumono le lezioni apprese dai singoli esempi, fanno riferimento selettivo anche ad altre situazioni. Mi sono per sforzato di non attingere troppo a questi altri casi, perch non si devono pregiudicare le conclusioni cedendo alla tentazione di pescare il materiale pi propizio in una gamma troppo vasta di esempi. Mi sono fatto guidare dalla convinzione che l'esame degli uomini (e delle donne) che operavano in diversi tipi di strutture con diversi compiti potesse fornire una prospettiva comparata dei realizzatori, e dunque indicazioni impossibili per uno studio concentrato su un'unica tipologia (2). Tra le molte unit oggetto della mia ricerca, quelli ai quali ho deciso di dedicare maggiore attenzione condividono in genere una serie di caratteristiche, che non compaiono per tutte in tutti i casi. Il criterio principale costituito dalla possibilit di dimostrare al di l di ogni dubbio che gli uomini delle unit in questione sapevano di non essere costretti a uccidere; dove si dava la minaccia della coercizione diventa difficile stabilire se agissero o no altre motivazioni.

Ho scelto inoltre di concentrarmi sui reparti a lungo e ripetutamente impegnati in eccidi in cui il contatto con le vittime era diretto, e chi vi prendeva parte si rendeva protagonista di scene di indicibile raccapricciosangue, schegge d'ossa, materia cerebrale - in quanto, per una serie di motivi, le azioni di "questo tipo" di assassini di mestiere pongono problemi interpretativi maggiori di quelle degli assassini occasionali. Tra i reparti che corrispondevano a questi due criteri, mi sono concentrato su quelli costituiti da uomini la cui provenienza pareva renderli i candidati meno adatti al ruolo di assassini volontari. Anche a questo si deve l'enfasi sui battaglioni di polizia, molti dei quali costituiti da tedeschi comuni; sono le azioni di queste persone, non quelle dei seguaci pi fanatici di Hitler, le pi difficili da spiegare e che dunque impongono la verifica pi severa. Ogni interpretazione deve quindi dar conto della loro partecipazione; se sar in grado di farlo, assai probabile che possa spiegare anche le azioni dei pi zelanti accoliti di Hitler, certo assai pi disposti dei seguaci meno entusiasti a mettere in pratica ogni sua decisione, qualunque fosse. Diversi battaglioni di polizia corrispondono ai criteri esposti. Sorprende rilevare che, fino alla recente pubblicazione di due libri in proposito (3), questi reparti vengono a malapena menzionati nella letteratura sul genocidio nazista. Prima di dare inizio alla mia ricerca (e prima dell'uscita di quei libri) io stesso non conoscevo la portata delle loro azioni, e dunque la rilevanza che esse dovevano assumere per la comprensione di quel periodo della societ e della politica tedesca. Molti battaglioni erano costituiti da uomini raccolti a caso (coscritti), privi di un addestramento ideologico particolare, senza precedenti militari, spesso pi anziani (sui trentacinque anni), con tanto di famiglia a carico: ben diversi dai malleabili diciottenni che sono cos cari agli eserciti. E fu sempre il caso, non un disegno preciso, a portarli all'eccidio: affidando a questi uomini le esecuzioni in massa, il regime si comportava come se qualsiasi tedesco si prestasse a trasformarsi in un assassino genocida. Di tutto questo si parlato dettagliatamente nella Parte terza.Lo studio dei campi di lavoro partito dall'intenzione di sottoporre l'ipotesi operativa alla verifica pi difficile. Le strutture dedicate alla produzione economica, che per definizione fanno della razionalit la loro bandiera, sarebbero dovute essere meno sensibili all'influenza di un'ideologia preesistente, in questo caso l'antisemitismo.

Se il funzionamento dei campi avesse potuto essere spiegato solo con l'antisemitismo del personale responsabile, ci avrebbe provato in modo convincente l'incidenza dell'antisemitismo sulla condotta dei tedeschi. Ovviamente, se l'ipotesi non avesse retto alla verifica l'avrei dovuta invece scartare, o riformulare, o integrare con altri apporti interpretativi. I campi esaminati pi a fondo sono quelli della zona di Lublino in una fase avanzata dell'Olocausto, quando, ufficialmente, gli ebrei erano ancora vivi in Polonia soltanto perch i tedeschi potessero sfruttare la loro forza lavoro. Erano l'epoca e le circostanze in cui i campi di lavoro si sarebbero davvero dovuti dedicare esclusivamente alla produzione, e dunque doveva risultare ancor pi facile isolare l'eventuale capacit dell'antisemitismo tedesco di minare la razionalit della struttura. Le marce della morte del 1945, gli ebrei trascinati per le campagne d'Europa dai tedeschi incalzati dagli eserciti alleati, consentono, tra le altre cose, di esaminare le azioni dei realizzatori in un momento in cui, virtualmente privi di ogni forma di controllo, potevano scegliere liberamente come e quando fare ci che desideravano, e per di pi, con la Germania sul punto di diventare un paese sconfitto, occupato e forse anche punito, uccidendo e brutalizzando gli ebrei le guardie si esponevano a gravi rischi. Le marce della morte consentono di valutare la condotta e le motivazioni dei realizzatori, e dunque la misura della loro dedizione all'eccidio, in condizioni di quasi assoluta autonomia; condizioni in cui chi non fosse stato irrimediabilmente votato alla missione di torturare e uccidere gli ebrei se ne sarebbe per forza di cose astenuto. Le marce della morte sottopongono dunque l'ipotesi che i realizzatori fossero motivati dal proprio antisemitismo personale, e dalla conseguente convinzione che fosse giusto massacrare gli ebrei, a un altro tipo di verifica, altrettanto difficile. Quelli prescelti possono essere considerati casi cruciali, che cio presentano le variabili interpretative tendenzialmente pi pericolose per la solidit dell'ipotesi proposta. Ma sono anche i casi da cui la mia ipotesi pu uscire rafforzata mettendo in atto la sua forza esplicativa (4). Oltre a questo, hanno il merito di consentire l'isolamento dei diversi plausibili fattori delle azioni dei realizzatori, e dunque una certa e necessaria misura di chiarezza analitica. Ho deciso di studiare nei rispettivi quadri d'insieme alcune specifiche strutture e il loro personale, invece di effettuare la campionatura scientifica

di un numero maggiore di soggetti (nella definizione della provenienza dei realizzatori, comunque, i campioni r iguardano anche altre strutture). I realizzatori, pensavo, non potevano essere compresi, non si potevano spiegare le loro azioni, se astratti dai loro contesti istituzionali; e non ha molto senso considerarli come individui se non si tiene conto delle loro relazioni sociali immediate. Se non si studiano le unit nell'ambito delle quali essi operavano, si finisce per sapere troppo poco sul carattere della loro vita per poterne valutare correttamente le motivazioni. Le strutture della morte (i battaglioni di polizia, gli "Einsatzkommandos", i vari tipi di campi, le marce) erano diverse l'una dall'altra, com'erano diverse tra loro, in una serie di aspetti, le unit all'interno di ciascuna struttura. Studiando una campionatura scientifica di individui inseriti in molte unit si sarebbero cancellate le circostanze istituzionali, materiali e sociopsicologiche nelle quali fu perpetrato l'Olocausto. Il secondo motivo che mi ha indotto a optare per le singole unit considerate nel loro insieme che ci che sappiamo circa le azioni della maggioranza degli individui non sufficiente a giustificare uno studio basato su quella metodologia. Possiamo scoprire parecchio sul carattere complessivo e il "modello di condotta" di una data struttura della morte, ma non acquisire una conoscenza altrettanto solida sulla stragrande maggioranza degli individui che costituirebbero i campioni di questa strategia di ricerca. I realizzatori di cui sappiamo molto sono un gruppo poco rappresentativo di persone che le autorit giudiziarie della Repubblica federale sottoposero a indagini serrate perch, in linea generale, avevano occupato posizioni di responsabilit, o perch si erano distinte per la loro condotta particolarmente brutale. Si tratta di personaggi sicuramente interessanti, e non ho esitato a far uso di questi materiali, ma proprio perch il gruppo poco rappresentativo non pu costituire la base di una risposta ai quesiti empirici e teorici "generali" posti da questo libro. La scelta dei casi particolari nell'ambito di ciascuna struttura stata determinata dai criteri di cui si detto, oltre che dalla disponibilit di dati adeguati. Uno dei problemi nello studio dei realizzatori dell'Olocausto deriva dalla disomogeneit dei materiali esistenti. Sono pochissimi i documenti contemporanei che chiariscono dettagliatamente le loro azioni e motivazioni; per certe strutture della morte,

compresi alcuni dei casi qui discussi, non esiste in pratica alcun documento contemporaneo, di nessun tipo. Le nostre fonti primarie sono quindi i materiali ammassati nel dopoguerra durante le indagini sui crimini nazisti, conservati negli archivi giudiziari della Repubblica federale. Gli atti di queste indagini sono la fonte principale, anzi indispensabile se non unica, per lo studio dei carnefici, eppure sono ancora troppo poco utilizzati. Contengono i documenti pi importanti che si potessero reperire all'epoca, e soprattutto i verbali degli interrogatori dei realizzatori stessi, delle vittime sopravvissute, dei testimoni oculari (5). Interrogatori e testimonianze consentono spesso di ricostruire un quadro dettagliato della vita in una struttura della morte e della storia di chi vi appartenne. Poich accade di frequente che diverse persone, talvolta collocate in posizioni ben diverse rispetto alla fossa comune, rendessero testimonianza sui medesimi episodi, esiste la possibilit di un controllo incrociato, che pu portare chiarezza e conferma reciproca delle versioni, ma anche contraddizioni risolubili solo sul piano della logica e del giudizio di chi le interpreta (6). Peraltro, quando pure si verificano queste discrepanze inconciliabili, soprattutto per quanto riguarda il numero degli ebrei deportati o uccisi dai tedeschi in una data operazione, in genere esse non hanno particolare rilevanza a fini analitici (7). Le abbondanti e significative testimonianze del dopoguerra vanno esaminate con cautela: oltre ai naturali vuoti di memoria, trattandosi spesso di eventi di oltre vent'anni prima (8), i realizzatori avevano ottimi motivi per tacere, sfuggire, dissimulare, mentire. Le deposizioni sono piene di omissioni, mezze verit e menzogne. Non dobbiamo mai dimenticare che si tratta di risposte a interrogatori della polizia o di altre autorit giudiziarie in merito a delitti che la nuova societ, la Repubblica federale di Germania, e tutto il resto del mondo consideravano tra i pi gravi nella storia dell'umanit. Molti di loro avevano passato gli ultimi venti o trent'anni negando, con il silenzio o la menzogna la misura della propria partecipazione al genocidio. Anche quando non potevano nascondere del tutto di aver preso parte all'eccidio, tendevano a negare di avervi aderito con l'anima, la volont interiore, l'assenso morale.

Non farlo avrebbe significato dichiarare alla famiglia, agli amici, ai figli, a una societ che ora lo disapprovava: S, sono stato un carnefice autore di stragi e ne vado (o ne andavo) fiero. Dopo anni di abitudine alla repressione e al diniego, si trovavano ora di fronte alle autorit giudiziarie, costretti a fare i conti con le proprie azioni, da tanto tempo rimosse dalla conversazione di ogni giorno. Deve forse sorprenderci che non tenessero troppo a dichiarare a chi li interrogava di avere compiuto stragi, di aver approvato quelle azioni, di averne persino tratto piacere? E come potevano essere sicuri di non essere chiamati a render conto dei propri delitti? L'incentivo a mentire, a non proclamarsi nel numero dei pi grandi criminali della storia, era davvero forte. E' facile, infatti, dimostrare che hanno mentito spudoratamente, con le parole e con le omissioni, per minimizzare il proprio coinvolgimento fisico e cognitivo negli eccidi. Per questo, l'unica posizione metodologica possibile consiste nel non tener conto di "tutte" le testimonianze autoassolutorie che non trovino riscontro in altre fonti (9). Tentare di spiegare le azioni dei tedeschi, o anche soltanto di scrivere una storia di quel periodo basandosi su quelle autoassoluzioni sarebbe un po' come scrivere una storia della criminalit in America sulla base delle dichiarazioni rese dai criminali alla polizia, all'accusa o al tribunale. Quasi sempre i criminali si proclamano ingiustamente accusati, e senza dubbio tendono a non fornire di propria spontanea volont informazioni sui reati da loro eventualmente commessi di cui le autorit non siano al corrente. Se poi si trovano nell'impossibilit di negare la colpa materiale, cercano in ogni modo di riversare la responsabilit su altri. Alle domande del tribunale, o dei mezzi di informazione, rispondono in genere, anche con convinzione e passione, di provare orrore per i delitti che pure, nonostante tutte le loro proteste, hanno commesso. Posti di fronte all'autorit, e alla societ in generale, i criminali mentono sulle proprie azioni e sui propri motivi. Anche dopo la condanna, anche dopo la presentazione di prove sufficienti a convincere al di l di ogni ragionevole dubbio una giuria della loro colpevolezza, i criminali tendono a proclamarsi innocenti. Perch mai i complici di uno dei maggiori delitti della storia dovrebbero essere pi autolesionisticamente onesti degli altri? Accettare le autoassoluzioni dei realizzatori senza controprove significa entrare in un

labirinto di falsi sentieri, nel quale diventa impossibile ritrovare la strada della verit. Se fossero veritiere, peraltro, sarebbero inevitabilmente emerse le pi diverse testimonianze a loro conferma; ma ci accade di rado. Come dimostrano nel dettaglio i capitoli di questo libro, se i realizzatori avessero davvero disapprovato l'omicidio in massa, se davvero non avessero voluto prendervi parte, si sarebbero potuti servire di molti modi per esprimerlo - dal rifiuto di uccidere alla dichiarazione simbolica di dissenso, alla protesta nella conversazione con i camerati (10) - che avrebbero provocato conseguenze personali di poco o nessun conto (11).

NOTE ALL'APPENDICE 1 N. 1. Il mio studio su queste strutture, oltre che sulla bibliografia esistente, si basa sui documenti relativi alle indagini e ai processi promossi dalla Repubblica federale di Germania conservati in Z.S.t.L., che comprendono interrogatori dei realizzatori, dichiarazioni di sopravvissuti e osservatori, e tutti i documenti che gli inquirenti riuscirono a trovare. Ovviamente, anche per casi siffatti, la quantit e la qualit di questi materiali sono varie. Alcuni casi coprono decine di volumi dattiloscritti, migliaia di pagine con centinaia di interviste e interrogatori. Sul Battaglione di Polizia 101, per esempio, vi furono due indagini giudiziarie separate, Hoffmann e H.G. I verbali dell'indagine Hoffmann occupano 27 volumi (due per le testimonianze al processo), per 4517 pagine; altri 12 volumi contengono i materiali, in genere poco interessanti, relativi al processo d'appello. Esistono inoltre i Capi d'accusa e un'estesa Sentenza per il primo processo, corposi documenti che ne riassumono gli eventi e gli argomenti principali. Nell'inchiesta c' anche un volume di documenti. L'inchiesta H.G. in 13 volumi, per 2284 pagine. Non arriv mai al processo, e non furono compilati i Capi d'accusa. L'inchiesta Hoffmann comprende anche una raccolta di fotografie (qualche altra immagine si trova in Z.S.t.L.). L'inchiesta sulla marcia della morte di Helmbrechts comprende 25 volumi, 10 "Beiakten" aggiuntivi (A-J), una serie di volumi di "Zeugen"

(che riproducono in modo pi ordinato buona parte delle testimonianze degli altri volumi), e la Sentenza contro il comandante, Drr, nel volume 25. Altre inchieste si riducono invece a un magro volume unico. Va inoltre detto che non ho studiato con eguale approfondimento ognuno dei casi menzionati. A volte ho letto solo quanto mi parso necessario per delineare i tratti essenziali del caso (trascurando certo molti episodi, fatti e valutazioni). N. 2. Per diverse considerazioni sull'efficacia analitica del metodo comparativo, confronta "Comparative Methods in Sociology: Essays on Trends and Applications", a cura di Ivan Vallier, Berkeley, University of California Press, 1973; confronta anche Arend Lijphart, "Comparative Politics and the Comparative Method", American Political Science Review 65,1971, pagine 682-83; e Gary King, Robert O. Keohane e Sidney Verba, "Designing Social Inquiry: Scientific Inference in Qualitative Research", Princeton, Princeton University Press, 1994. N. 3. Christopher R. Browning, "Ordinary Men" cit.; Heiner Lichtenstein, "Himmler's grne Helfer: Die Schutz- und Ordnungspolizei im Dritten Reich", Kln, Bund Verlag, 1990. N. 4. Sui casi cruciali e i criteri per individuarli, confronta Harry Eckstein, Case Study and Theory in Political Science, in "Strategies of Inquiry", a cura di Fred I. Greenstein e Nelson W. Polsby, vol. 7 di "Handbook of Political Science", Reading (Mass.), Addison-Wesley, 1975, pagine 79-138. Una critica al concetto di caso cruciale in Gary King, Robert O. Keohane e Sidney Verba, "Designing Social Inquiry" cit., pagine 209-12. Poich il mio studio si rif a numerosi casi, ognuno dei quali a suo modo pu essere considerato tra quelli con minori probabilit di confermare la spiegazione proposta, la critica di King, Keohane e Verba al metodo del caso cruciale non applicabile. Anzi, poich i diversi casi sono stati scelti in base a variabili indipendenti, la selezione corrisponde ai loro criteri. N. 5. Di regola, quando si indagava su un eccidio, una localit o una struttura, gli investigatori costruivano sulla base dei documenti e degli interrogatori un elenco dei sospettati dei crimini in questione, che venivano pertanto rintracciati e interrogati. Si mettevano quindi in contatto con i sopravvissuti, e a volte con i testimoni oculari, raccogliendone le deposizioni.

In alcune indagini riuscirono a scovare e interrogare centinaia di realizzatori. I verbali potevano essere brevi, una pagina dattiloscritta, oppure occupare venti e pi pagine. Molti realizzatori furono interrogati in pi occasioni, con il procedere del caso e la scoperta di nuove informazioni. Gli interrogatori si concentravano in genere sulla storia della struttura inquisita (spesso chi faceva le domande sapeva poco o nulla di ci che era avvenuto), sugli aspetti logistici degli eccidi (in particolare, sull'identit dei presenti, sulle azioni di ciascuno e su chi dava gli ordini) e sulla condotta di chi era gi imputato, o rischiava di esserlo. L'unico reato di cui esse si occupavano - con l'eccezione delle prime indagini, peraltro poche e poco significative - era l'omicidio, perch tutti gli altri erano gi caduti in prescrizione. Gli inquirenti erano dunque interessati agli atti di crudelt solo nella misura in cui erano stati commessi dalla minuscola minoranza di realizzatori che essi incriminarono o intendevano incriminare, perch utili a stabilire le motivazioni; in genere quindi non facevano domande sulle crudelt commesse dalla stragrande maggioranza dei realizzatori. Inoltre, agli inquirenti non interessava nemmeno di indagare sulla vita dei realizzatori nel periodo in cui erano all'interno di una struttura della morte, ma non impegnati a uccidere; un disinteresse che si estendeva alla natura dei loro rapporti sociali. Anche se quindi i materiali relativi alle inchieste, e soprattutto gli interrogatori, sono la fonte pi ricca e significativa per lo studio dei realizzatori, il loro contenuto esclude sistematicamente tutta una serie di elementi che rivestirebbero grande interesse per lo storico come per lo scienziato sociale, e che avrebbero utilmente integrato questo studio. N. 6. Le discrepanze risultano particolarmente ovvie quando si tratta di stimare il numero delle persone uccise o deportate dai tedeschi nel corso di una determinata operazione. Sono cifre di grande importanza storica, ma che servono poco all'analisi in questo contesto. Che in una data citt i tedeschi uccidessero 1200, 1500 o 2000 ebrei non incideva sulla natura dell'operazione, sulla fenomenologia dell'eccidio, n sulla psicologia dei realizzatori. Le discrepanze numeriche sono in genere di quest'ordine. Nell'analisi presento le versioni alternative o le discrepanze solo quando esse assumono rilievo analitico o storico.

Quanto al numero degli ebrei uccisi o deportati in ciascuna operazione, presento la cifra, o l'insieme di cifre, che mi pare pi ragionevole. Sono soltanto stime, e sebbene siano a volte imprecise, questa imprecisione non incide mai in modo significativo sull'analisi dei temi trattati. Ho deciso di non comprendere o citare nel testo o nelle note tutti i riferimenti esistenti a queste cifre, perch sebbene ammirevoli di per s, questi sfoggi di erudizione servono ben poco a fini analitici. N. 7. Le leggi della Repubblica federale che tutelano il diritto alla riservatezza vietano ai ricercatori di rivelare i nomi che compaiono nelle inchieste giudiziarie, a meno che le persone non siano morte, o il loro nome sia divenuto di dominio pubblico. Per questo si usano a volte degli pseudonimi per le persone citate nel testo, e iniziali per quelle nelle note. N. 8. Sulle carenze delle ricostruzioni del dopoguerra, confronta i saggi in "Probing the Limits of Representation: Nazism and the Final Solution", a cura di Saul Friedlander, Cambridge, Harvard University Press, 1992. N. 9. Chi dichiara Tutti lo disapprovavamo in realt assolve se stesso. Se invece dicesse Io approvavo gli eccidi ma gli altri no, la dichiarazione assumerebbe ben altro peso. N. 10. James C. Scott ("Domination and the Art of Resistance" cit.) ha influito molto sulle mie opinioni in materia: uno studio sugli infiniti modi in cui gli uomini soggetti a un'autorit tirannica esprimono la propria opposizione a quello stato di cose. I diversi argomenti vengono ripresi nei capitoli tematici. N. 11. Dare per veritiere le autoassoluzioni dei realizzatori sarebbe dunque assai fuorviante. Rifiutarle non comporta grosse implicazioni, perch se fossero sincere la necessaria verifica risulterebbe in linea di massima evidente. Indubbiamente questa posizione metodologica ci porter a rifiutare qualche deposizione veritiera, il che potrebbe in parte pregiudicare l'immagine dei realizzatori che intendiamo proporre. Comunque sia, per, per i motivi detti sopra - motivi che risultano perfettamente chiari, e che sono suffragati da abbondanti argomentazioni

nel corso del libro - sono convinto che le dichiarazioni veritiere non confermate siano poche, e che dunque il danno sia trascurabile. In poche parole, non esiste un'alternativa metodologica ragionevole alla decisione di scartarle. Se altri non concordano, spetta a loro elaborare un approccio pi efficace a questo materiale cos spinoso.

Appendice 2 SCHEMA DELLE TEORIE DOMINANTI IN GERMANIA SUGLI EBREI, I MALATI DI MENTE E GLI SLAVI

Fonte delle loro caratteristiche 1. Ebrei: razza/biologia 2. Malati di mente: biologia 3. Slavi: razza/biologia Loro qualit essenziale 1. Ebrei: male/minaccia 2. Malati di mente: infermit 3. Slavi: inferiorit Misura della loro perniciosit 1. Ebrei: incalcolabile, estrema 2. Malati di mente: cronica, paragonabile a quella di una piaga, debilitante 3. Slavi: potenzialmente grande, ma controllabile Motivazioni e responsabilit 1. Ebrei: vogliono distruggere la Germania, sono responsabili della loro malvagit. 2. Malati di mente: sono vittime della sorte, senza cattiva volont, del tutto irresponsabili della propria condizione e della minaccia che rappresentano per l'igiene biologica della Germania. 3. Slavi: nessuna intenzione maligna, n responsabilit della propria condizione inferiore. Conseguenze logiche e metaforiche 1. Ebrei: eliminazione; definitiva attraverso l'uccisione. 2. Malati di mente: sradicamento o isolamento. 3. Slavi: ilotizzazione (cio asservimento e decimazione nella misura considerata pi opportuna).

Promozione istituzionale dell'immagine 1. Ebrei: stato - fuoco di sbarramento intenso e incessante; chiesa ratifica delle teorie correnti, assenza di un'immagine alternativa; scuola: come lo stato; esercito - nessuna differenza. 2. Malati di mente: stato - diffusione meno diretta, ma continua e intensa delle idee biologiche, nessun divieto per le immagini alternative; chiesa opposizione diretta alle idee naziste in materia; scuola - tendenza a favorire quelle idee; esercito - non si pronuncia in proposito. 3. Slavi: stato - diffusione sistematica dell'idea della loro subumanit, ma senza l'intensit, il vituperio e la virulenza delle convinzioni sugli ebrei; chiesa - relativo silenzio in proposito, predica una morale universale (con l'esclusione degli ebrei), li considera cristiani; scuola: come lo stato; esercito - tende a concordare con lo stato, ma con opinioni dissenzienti in tutti i ranghi. Grado di penetrazione delle convinzioni (Due dimensioni: diffusione e profondit) 1. Ebrei: pressoch universale/profonda. 2. Malati di mente: limitata a determinati gruppi/in quel contesto, profonda. 3. Slavi: molto diffusa/variabile, in genere meno radicata di quelle sugli ebrei. Reazione estetica 1. Ebrei: offendono il senso dell'ordine, del bene. 2. Malati di mente: offendono il senso dell'ordine, ma non del bene. 3. Slavi: non sono particolarmente offensivi se tenuti al loro posto di utili bestie; non sono una peste morale. Posizione etica 1. Ebrei: in quanto non umani, sono al di l della legge morale. 2. Malati di mente: mista - sospensione della morale tradizionale per quanto riguarda l'inviolabilit della vita umana, ma senza crudelt e inutili sofferenze. 3. Slavi: applicazione non sistematica (con frequenti violazioni) di una morale tradizionale alquanto annacquata.

Interazione delle convinzioni, della morale tradizionale e del grado di penetrazione nella societ 1. Ebrei: non c' spazio per la morale tradizionale, in quanto la loro natura ne sospende l'applicazione; le convinzioni sugli ebrei sono talmente diffuse da rendere pressoch universale il consenso in proposito. 2. Malati di mente: la metafora biologica meno diffusa, sicch molti sono influenzati dalla morale tradizionale; ai malati di mente, per di pi, non si attribuiscono colpe morali. 3. Slavi: l'idea della loro inferiorit diffusa, ma la morale tradizionale pu ancora influenzare, spesso debolmente, le azioni della gente; le convinzioni sugli slavi sono meno importanti nella visione del mondo che non quelle sugli ebrei, sicch i problemi che ne derivano non sono considerati urgenti. Risultato 1. Ebrei: il genocidio, al quale si oppone una piccola minoranza, in genere per motivi etici o estetici (con riferimento alla sorpassata e inapplicabile morale tradizionale); nessun problema nel reperimento di assassini volonterosi e zelanti. 2. Malati di mente: blocco formale del programma di eutanasia provocato da una vigorosa opposizione; disponibilit di un gruppo di medici ideologicamente allineati a realizzare il programma omicida. 3. Slavi: politica non sistematica, con ogni sorta di cospicue eccezioni; non genocidio, ma brutale eliminazione di tutte le opposizioni; assassini probabilmente meno entusiasti della loro missione; considerazioni politiche (alleanze) sufficienti a modificare l'immagine di determinati gruppi di slavi, data la relativa superficialit delle convinzioni, e anche perch gli slavi non sono considerati fondamentalmente pericolosi (purch tenuti a bada), n portatori di intenzioni maligne; destinati a costituire un'immensa riserva di manodopera servile - sorte in cui milioni di loro sono gi incappati.

RINGRAZIAMENTI

La ricerca di gran parte delle fonti primarie di questo libro ha richiesto pi di un anno di lavoro presso la Zentrale Stelle des Landesjustizverwaltung di Ludwigsburg, i cui componenti, i procuratori e il personale tutto, hanno fatto il possibile per aiutarmi e per farmi sentire a mio agio. Sono stato fortunato a ritrovarmi in un clima cos ospitale pur lavorando in un paese straniero e su un tema tanto spinoso. Ringrazio in particolare Alfred Streim, direttore della Zentrale Stelle, che d il tono a quell'ambiente pi che disponibile alla collaborazione, e Willi Drelssen, che mi ha generosamente offerto il suo aiuto e le sue conoscenze. Tra gli assistenti molti, e in particolare Herta Doms, Herr Fritschle e Ute Bhler, hanno dato prova di grande pazienza e partecipazione nell'aiutarmi a trovare il materiale che cercavo e nell'offrirmi quel sostegno impalpabile di cui si ha cos grande bisogno nel condurre questo tipo di lavoro. Bettina Birn e Volker Reiss, pur impegnati nelle loro ricerche, sono stati compagni e consiglieri preziosi per tutto il tempo della mia permanenza. Ringrazio inoltre Eberhard Jackel, che mi ha aiutato durante il soggiorno a Stoccarda. Helge Grabitz, dell'Ufficio della Procura di stato di Amburgo, Hermann Weiss dell'Institut fr Zeitgeschichte di Monaco, e Genya Markon e Sharon Muller dell'archivio fotografico dell'United States Holocaust Memorial Museum mi hanno offerto tutta la loro collaborazione. La ricerca stata finanziata con borse di studio del programma Fulbright, della Fondazione Krupp, del Minda de Gunzburg Center for European Studies dell'Universit di Harvard, e del suo programma per lo studio della Germania e dell'Europa. Anche la Fondazione Whiting, la Fondazione Littauer e il Centro Simon Wiesenthal di Los Angeles hanno partecipato al finanziamento. A tutte queste istituzioni esprimo la mia gratitudine. Ringrazio in particolare tutto il gruppo del Center for European Studies, l'istituzione pi adatta a diventare la dimora intellettuale di uno studioso; oltre all'aiuto, molti nel Centro mi hanno offerto la loro amicizia. Sono particolarmente grato a Stanley Hoffmann, Guido Goldman e Abby Collins, che mi hanno fatto davvero sentire a casa mia.

Stanley Hoffmann, Peter Hall e Sidney Verba, relatori della tesi dalla quale questo libro deriva, mi hanno consigliato e incoraggiato, offrendomi quella giusta misura di assistenza e di libert di movimento di cui avevo bisogno. Gentili e affettuosi quanto rigorosi nell'erudizione, sono i migliori modelli possibili per un giovane studioso. A Richard Breitman, Mustafa Emirbaver, Saul Friedlander e Paul Pierson, e a Norma Goldhagen, mia madre, va un ringraziamento speciale per i loro utili commenti sul manoscritto. Desidero ringraziare tutti i collaboratori della Alfred A. Knopf, e in particolare Stephanie Koven, Barbara de Wilde, Max Franke, Amy Robbins, Mark Stein e Brooke Zimmer, che hanno cooperato alla pubblicazione del libro e con i quali lavorare stato un piacere. Sono grato soprattutto a Carol Janeway, che con fantasia, dedizione e allegria ha fatto tutto ci che un autore possa sperare da un editor, e a Simon Schama, che me l'ha fatta conoscere. Sono grato pi che a ogni altro a mio padre, un uomo di grande levatura intellettuale e personale. Senza la sua conversazione stimolante e continua, senza le acute intuizioni che lascia cadere come fossero osservazioni di poco conto, senza il suo modello di sobriet e probit intellettuale, non mi sarebbe stato possibile ottenere dai miei talenti nemmeno quel poco che ho ottenuto. La mia interpretazione del nazismo e dell'Olocausto deriva direttamente dalla sua, e la sostanza di questo lavoro ha guadagnato moltissimo dalla sua impareggiata conoscenza degli uomini e degli eventi di quel periodo cos difficile. Per questi e altri motivi il mio libro dedicato a lui.

PSEUDONIMI [Le leggi della Repubblica federale che tutelano il diritto alla riservatezza vietano ai ricercatori di rivelare i nomi che compaiono nelle inchieste giudiziarie, a meno che le persone non siano morte, o il loro nome sia divenuto di dominio pubblico Per questo si usano a volte degli pseudonimi per le persone citate nel testo, e iniziali per quelle nelle note]. Bekemeier, Heinrich. Bentheim, Anton. Brand, Lucia.

Brand, Paul. Buchmann, Heinz. Dietrich, Max. Dressler, Alfred. Eisenstein, Oscar. Fischer, Alfred. Grafmann, Erwin. Hahn, Irena. Hauer, Gerhard. Hergert, Ernst. Jensen, Walter. Kammer, Arthur. Kemnitz, Simon. Koch, Johann. Koslowski, Wilhelm. Mehler, Conrad. Metzger, Paul. Moering, Hermann. Nehring, Erwin. Papen, Georg. Peters, Oscar. Raeder, Karl. Reich, Hartmuth. Reitsch, Viktoria. Riedl, Sigfried. Ritter, Michael. Rust, Willi. Schfer, Rita. Schmidt, Irena. Schneider, Emma. Schoenfelder, Dott. Steinmetz, Heinrich. Vogel, Eberhard. Wagner, Karl. Weber, Alois. Wirth, Martin.

ABBREVIAZIONI

BAK: Bundesarchiv Koblenz. Buch: Z.S.t.L. 205 A.R.-Z 20/60. Drr: Indagini e processo ad Alois Drr, S.t.A. Hof 2 Js 1325/62. Grnberg: S.t.L. 410 A.R. 1750/61. "H.G.": Processo a H.G. e altri, S.t.A. Hamburg 141 Js 128/65. H.G.S: Holocaust and Genocide Studies. Hoffmann: Indagini e processo a W. H. e altri, S.t.A. Hamburg 141 Js 1957/62. H.S.S.P.F.: Hherer S.S.- und Polizeifhrer (alto grado delle S.S. e della Polizia). I.M.G.: "Der Prozess gegen die Hauptkriegszwerbrecher vor dem Internationalen Militargerichtshof, Nrnberg, 20 November 1945 - 1 Oktober 1946" (Il processo ai principali criminali di guerra difronte al tribunale militare internazionale, Norimberga, 20 novembre - primo ottobre 1946), 42 volumi. J.K.: Z.S.t.L. 206 A.R.-Z 6/62. K.d.O.: Kommandeur der Ordnungspolizei (comandante della Polizia di pubblica sicurezza) K.R.: Z.S.t.L. 208 A.R.-Z 967/69. "Nazism": "Nazism: a History in Documents and Eyewitness Accounts, 1919-1945", a cura di Jeremy Noakes e G. Pridham, New York, Schocken Books, 1988. S.S.P.F.: S.S.- und Polizeifhrer (capi delle S.S. e della Polizia). S.S.P.F. Lublin: Indagini sugli S.S.P.F. di Lublino. S.t.A.: Staatsanwaltschaft (Procura della Repubblica). S.t.A.H.: Staatsarchiv Hamburg (Archivio di Stato Amburgo) Streckenbach: Accusa contro Streckenbach, Z.S.t.L. 201 A.R.-Z 76-59. T.W.C.: "Trials of War Criminals before the Nuernberg Military Tribunals under Control Low No. 10, Nuernberg, October 1946 - April 1949" (Processi a criminali di guerra di fronte ai tribunali militari di Norimberga in base alla legge n. 10, Norimberga, ottobre 1946 - aprile 1949),15 volumi. V.f.Z.: Vierteljahrshefte fr Zeitgeschichte. Y.V.S.: Yad Vashem Studies. Z.S.t.L.:Zentral Stelle der Landesjustizverwaltungen zur Aufklrung nationalistischer Verbrechen in Ludwigsburg (Ufficio centrale

amministrativo della giustizia regionale per l'indagine sui crimini del nazionalsocialismo a L.).

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