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Tesina sulla donna

Il problema della differenza nella cultura nel XX sec

Le teorie filosofiche di Marx ed Engels furono le prime a mettere in luce il nesso inscindibile tra
l’emancipazione della donna ed il superamento della famiglia monogamica-borghese. Infatti, i due
sostenevano che il dominio dell’uomo sulla donna nella famiglia moderna era uno degli elementi
costitutivi di un assetto gerarchico ed autoritario. Il punto di vista femminile nella storia e nella
storia del pensiero filosofico del XX sec è una delle più importanti conseguenze dello sviluppo delle
idee socialiste nelle società capitalistiche avanzate e della riflessione sulla vita promossa
dall’esistenzialismo. L’esistenzialismo il cui termine è stato coniato nel 1930 indica quel complesso
di filosofie e di riflessioni contemporanee anche politiche, letterarie e pittoriche, che assumono la
concreta esistenza individuale come caratteristica fondamentale dell’uomo contro ogni sua
riduzione positivistica (o scientistica o logicistica di matrice hegeliana) tipica delle culture del
capitalismo maturo della seconda rivoluzione industriale. La nascita del ruolo politico della donna
(femminismo) nella società contemporanea e del pensiero femminile nel campo della filosofia
occidentale hanno comportato alcuni importanti eventi:
a) L’ingresso delle donne nei parlamenti e nelle carriere un tempo riservate agli uomini.
b) La presenza femminile nel campo della produzione filosofica e, in senso lato, nel mondo
scientifico e tecnologico.
In questo senso sono principalmente da ricordare come protagoniste la filosofa tedesca Anna
Arenat (1906-1975) che nel suo saggio del 1958 Vita Activa, la condizione umana ha ripensato la
tradizione politica dell’Occidente alla luce dell’Olocausto, e la filosofa francese Simone Weil
(1909-1943) il cui forte impegno politico-sociale (combatté contro il nazismo e il franchismo e
volle condividere la vita della classe operaia facendosi assumere in fabbrica) si coniuga ad una
riflessione mistico-religiosa originale nel panorama del pensiero occidentale. La scesa in campo
delle filosofie con il loro portato particolare ha prodotto.
L’approfondimento dello specifico tema relativo al genere / “differenza” smascherando così
l’equivoco secondo il quale l’uomo è identificato come genere che continua il maschile ed il
femminile. Si rinnovava così il tema dell’esistenza di una diversità sessuale (nel mondo antico,
aristotelicamente, la donna era un maschio non ben riuscito: identità sessuale e, biblicamente, la
femmina era nata da una costola di Adamo dando luogo così ad una interpretazione regressiva
dell’identità sessuale, aristotelica, come superiorità gerarchica del maschio). Engels nella seconda
metà dell’800 affermava: ”Nella famiglia l’uomo è un borghese, la donna il proletario”,
indicandone così la sottomissione della donna all’uomo-proprietario. La filosofa e psicoanalista
belga Luce Irigaray, nata a Blanton nel 1930, sostiene in opere come Speculum, l’altra donna
(1974) e Questo sesso che non è un sesso (1977), che la rivendicazione in positivo della diversità
sessuale implica un ripensamento di tutta la storia filosofica dell’Occidente, nata non per caso solo
dopo la fine del più arcaico culto della Dea Madre. Secondo lo storico del XIXsec. J.Bachofen,
nell’opera Il Matriarcato nel 1861, la prima forma di organizzazione sociale dell’umanità del
periodo pre-storico (dal 700 al 2500 a.C. circa) sarebbe stata una sinocrazia, governo delle donne,
centrata appunto sul culto della Dea Madre. L’autore considera la società patriarcale come una fase
selvaggia, uno stato ancora “animale” della società. La stessa successione matrilineare che la
caratterizzava sarebbe stata, a suo parere, una conseguenza del disordine (promiscuità sessuale)
regnante nell’orda primitiva, tale da impedire ogni certezza sull’identità del padre (vedi
Ecclesizuse di Aristofane). La studiosa belga che attualmente è ricercatrice al CNRS di Parigi, pur
criticando la rozzezza dell’analisi di Bachofen, sostiene che alcune delle analisi del ricercatore
tedesco non vanno sottovalutate, perché, secondo lei: “La differenza sessuale rappresenta uno dei
problemi o il problema che la nostra epoca ha da pensare…[…]La cosa del nostro tempo che,
pensata, ci darebbe la salvezza? Ma, che io mi rivolga alla filosofia, alle scienze, alla religione,
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continuamente questo problema si trova occultato, sottostante, sempre più insistente…” (Speculum
pag.39). Luce Irigaray, dal suo primo già citato lavoro teorico, sostiene che i fondamenti della
razionalità occidentale e della stessa psicoanalisi freudiana vengano messi in crisi, vi si considera
prioritario il punto di vista di un discorso che vuole svelare la rimozione organica su cui questi
stessi fondamenti si legano. Il linguaggio delle origini, il cui modello è costituito dall’immaginario e
dal simbolico della vita intrauterina e da quello gestuale tra la madre ed il bambino, secondo
l’autrice è il discorso del corpo, la cui soppressione ha costituito il punto di partenza del pensiero
logocentrico. Compito di questo linguaggio è di riuscire a manifestare la differenza, spezzando il
silenzio a cui è stata relegata la parola, fluida e passionale, del femminile. Ma perché l’opera della
differenza sessuale abbia luogo, è necessaria una reinterpretazione dell’intero pensiero e delle
relazioni tra il soggetto ed il discorso, tra il soggetto ed il cosmo. È in questo senso che si muove
l’attraversamento della cultura tradizionale compiuto dalla Irigaray nel suo confronto con Platone,
Cartesio, Nietzsche, Heidegger.
Secondo il pensiero della differenza persino i primi movimenti del femminismo, nei quali
esistevano solo differenze di cultura e di opportunità sociale (come per il movimento inglese delle
suffragette che rivendicheranno per le donne il diritto di voto etc.), ma non naturali (a parte il ciclo
gestazione-allattamento), dimostrarono una forte subalternità ai ruoli sociali convenzionali, in
quanto solo in una società di schiavi l’uomo e la donna sono uguali.
La Irigaray al contrario non si propone di rivendicare un’inesistente uguaglianza tra uomo e donna,
ma al contrario di sottolineare in positivo la diversità, la differenza, l’incommensurabilità
dell’altro sesso. Da questo punto di vista, l’io, il soggetto, l’uomo, ossia i tradizionali concetti della
filosofia, non possono più essere pensati come un’unità, ma devono essere posti come una dualità.
Il pensiero femminile, in definitiva, possiede una propria specificità, un’essenza diversa dal
maschile. In questo modo il femminile si accosta a quelle correnti del pensiero contemporanee (per
esempio il post-moderno) che negano la possibilità di un discorso filosofico unitario, affermando
che la pluralità dei soggetti e dei punti di vista non può essere in alcun modo rimossa. Infatti, il
pensiero filosofico postmoderno sostiene che non esista alcun fondamento ultimo della realtà e della
conoscenza. All’idea di un pensiero forte (hegelismo, marxismo, psicanalisi) contrappongono un
pensiero debole che accetti il carattere problematico di ogni conoscenza. Alla ragione assoluta il
postmoderno contrappone una più che realistica ragionevolezza. Chiaramente neppure la filosofia
ha saputo dare risposte definitive sui rapporti uomo-donna e sul loro ruolo sociale, anche quando,
posta la diversità uomo-donna, era necessario avanzare una ipotesi dialettica di spessore morale e
giuridico che supportasse che la necessità che la donna avesse pari opportunità anche nella sua
diversità. Lungo questo problema ancora da risolvere corre la mia ricerca intesa a cogliere uno
sviluppo nella concezione della donna e del ruolo che ella è stata chiamata a svolgere nelle varie
civiltà.

La misoginia greca e la figura della donna nell’età(periodo) ellenistico/a

In un lungo frammento giambico Simonide di Amorgo dice:

“…Χωρισ γυναιχοσ θεοσ εποιεησεν νοον τα πωτα... ”…per prima cosa la divinità fece
l’indole della donna del tutto particolare definendola “…γυναικα παντων ιδριν…”una donna
informata di tutto.

Da questi versi la misoginia greca appare chiara e lampante: la donna informata di tutto e con
un’indole del tutto particolare è un essere a cui fanno capo tutti i malanni della vita. La divinità l’
ha creata diversa dagli uomini e votata al pettegolezzo. Simonide di Amorgo riprende questa visione
dagli autori precedenti come Esiodo che fu l ’iniziatore della poesia misogina . Egli attraverso il

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mito di Pandora descrive la donna come causa dell’ingresso di ogni vizio e di ogni sofferenza sulla
terra, come strumento della punizione e della degradazione degli uomini(nel mito Pandora
rappresenta l’inganno di Zeus nei confronti degli uomini che facendo uscire dal suo vaso tutti i vizi
sconvolgerà la vita dei mortali). Forte di una antica tradizione misogina la società greca relegò la
donna in ambiti puramente domestici e restrittivi di libertà che si andarono affievolendo solo dopo
la caduta del regno macedone e la nascita dei regni ellenistici. Solamente nel periodo ellenistico la
figura femminile venne rivalutata in tutti i campi: in filosofia le fu attribuita dignità d’individuo; in
politica ci furono, oltre alle regine, donne magistrato; in ambito culturale si conobbero anche
poetesse. In effetti la misoginia ellenistica andò distaccandosi da quella arcaica e classica, no ne
sottolineò più la materialità, ma ne teorizzò l’inferiorità trasformando gli antichi pregiudizi in una
sorta di “saggezza popolare” poiché “per la prima volta nella loro storia, i greci dovevano fare i
conti con la presenza della donna”.(E.Cantarella, L’ambiguo malanno. Condizione e immagine
della donna nell’antichità greca e romana, Roma, Editori Riuniti, 1985, p.134).
La risposta a tale concezione si può ritrovare nei miti matriarcali delle Amazzoni e delle Lemnie, i
quali secondo una critica condotta da Eva Cantarella, anziché rappresentare un momento di potere
matriarcale, sembrano volere esorcizzare l’idea di un eventuale potere femminile. La mia opinione
si distacca da questo giudizio poiché ritengo che in un tempo passato vi fosse una società
matriarcale, facilmente rilevabile anche dalle prime forme di arte nelle quali ritroviamo solo ed
esclusivamente delle figure femminili. In seguito l’uomo, vistosi messo da parte, stabilì il suo
“potere” sostituendo all’ “utilità” femminile la forza fisica, creando col tempo una società chiusa
nella quale la donna avesse compiti puramente domestici. Con queste peculiarità si sviluppò
un’antica cultura che diede vita ad una società che esaltasse solo le imprese dell’uomo e in cui vi
fosse una netta predominanza dell’individuo di sesso maschile, nella quale la donna era considerata
solo uno strumento o merce di scambio, nel migliore dei casi, invece, un trofeo da esibire in segno
del proprio valore. Partendo da questa concezione e da questo periodo storico, è mia volontà, sia
pure per grosse tappe storiche, seguire, attraverso l’opera di alcuni autori tra i più significativi,
naturalmente dal mio punto di vista, come la donna abbia acquistato gradualmente non solo una sua
precisa connotazione psicologica ma anche una sua funzione sociale che progressivamente l’ ha
emancipata, almeno in parte. Cercherò nel contempo di tratteggiare passando da un autore all’altro
la sua dimensione caratteriale e l’importanza a lei assegnata nei contesti letterari. Naturalmente
tenterò di mettere bene in risalto come la donna sia stata, quasi costantemente, fonte di desiderio e
di amore, ma, proprio per questo anche motivo di dolore, di disinganno, di invettiva, di angoscia
nella trama delle relazioni affettive. Una prima caratterizzazione della donna, secondo me, è
possibile coglierla in Simonide di Amorgo, autore di frammenti melici e di treni(canti funebri),
vissuto nel V sec. e quindi in un periodo pre-ellenistico. In questo autore si può cogliere infatti una
duplice visione della donna: …una deriva dalla scrofa irta di setole… thn men ex uos tanutricos
…un’altra, il dio la creò dall’astuta volpe… fgh thn d’ex alitrhs qeos eqhk ’ alwpekos . E’ da
notare come l’una e l’altra si richiamino a degli animali, la scrofa e la volpe, la sozzura e l’astuzia.
Un essere dunque pronto ad impicciarsi di tutto, a “cibarsi” di tutto e a stravolgere il bene in male e
il male in bene. A crearla così secondo Simonide è stato un dio il cui intento risulta anche a noi
incomprensibile. Risulta comunque attraverso i versi di Simonide che questa donna scrofa-volpe
non possa avere una funzione positiva: non appare degna di essere amata, né di essere stimata e
tanto meno considerata se non perché venga rifiutata e materializzata. Mentre questo tipo di donna
sembra appartenere al popolo, non si può dire lo stesso delle figure “eccellenti” per bellezza o per
compostezza di carattere del periodo arcaico quali sono Elena, bellissima principessa del
Peloponneso, per la quale scoppia perfino una guerra, ed Ecuba, madre di Ettore, che si angoscia
come solo una madre può per la triste fine del “figlioletto”. E’ questa la concezione di donna che
arriva fino al periodo ellenistico: una donna astuta e “setolosa” che sembra priva di ogni attributo di
umana tenerezza. Negli autori ellenistici le figure femminili non sono necessariamente dei
personaggi negativi a causa della loro “femminilità”, intesa come peculiarità caratteriale, ma
specialmente negli autori del periodo ellenistico esistono delle donne capaci di nobili sentimenti. E’

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il caso della citarista Abrotono, che nell’Arbitrato di Menandro, non rappresenta più l’etera
corrotta e avida, ma un personaggio sensibile e di animo gentile. Lo dimostra quando si commuove
al pianto del bambino e fa trasparire della pietà per il dolore che la madre provava, così decide di
adoperarsi per la riconciliazione, rinunciando ai suoi interessi per salvarle il matrimonio. Abrotono
era una donna la cui nobiltà consisteva nella dedizione e nel sacrificio, il cui amore è devozione che
nulla chiede per sé, che vuole solo la felicità dell’uomo. Donne ideali in un’ottica pur sempre
maschile, insomma: ma tuttavia descritte con accenti delicati, con qualche considerazione delle loro
sensazioni: sono delle donne umanizzate, capaci di sentimenti umani.
Un'altra “innovazione” la troviamo nel Fragmentum Grenfellianum o Esclusa (un
paraklausithuron, tipico motivo dell’ellenismo) nel quale è una fanciulla(di solito il protagonista è
un uomo) che canta, con accenti di grande sincerità, la sua passione e lamenta il tradimento
dell’amante che l’ ha cacciata di casa(da qui il titolo di Esclusa o anche di Lamento della donna
abbandonata). Uomo e donna, quindi, uguali di fronte all’amore, capaci, entrambi, di far soffrire e
di soffrire. Tuttavia questo piccolo passo avanti non basta per il riconoscimento della donna come
persona poiché il motivo della misoginia classica non è scomparso ma solo attenuato. La donna
continua ad essere un essere dotato di scarse qualità: lo stesso Menandro sostiene che “la donna
dotata di intelligenza è un tesoro di virtù, ma è un caso raro”( Comicorum Atticorum Fragmenta,
III, p.1691, fr.1109 ).

La condizione femminile tra principato e impero.

Nell’antica Roma la condizione femminile ha avuto fasi alterne. La donna romana del periodo più
antico era totalmente subordinata al potere patriarcale, mentre nei secoli tra principato ed impero,
ella poté godere di maggior libertà e di nuovi diritti(esclusi quelli politici). Anche se veniva relegata
nei posti più remoti nelle manifestazioni del Colosseo. Così, con l’avanzare dei secoli, incontriamo
donne sempre più libere, più indipendenti: una categoria sociale dopo essere stata repressa per
tantissimi anni, inizia ad avere una sua coscienza sociale e una voglia di parità che solo adesso
trova la giusta considerazione ed una concreta emancipazione. Il periodo di transizione tra il
principato e l’impero è un dei più delicati della storia romana, poiché si riscontrano in questi anni i
primi segni di una lunga ed inarrestabile decadenza. Alla base di questa decadenza vi è, secondo
molti autori del periodo, la corruzione dei costumi, il disinteresse per lo Stato, l’immoralità senza
freni, quest’ultima dovuta, come sostengono tanti, ai nuovi diritti concessi alle donne. E’ in questo
clima che si sviluppa una nuova tendenza misogina simile a quella greca. Giovenale esprime nella
VI satira, che possiamo considerare come lo specchio del tempo, la sua profonda avversione per il
sesso femminile che si connota di un tono tanto aspro che rasenta i limiti del patologico: per lui
nessuna donna si salva. “Le donne, quando la rabbia accende la loro bile, si lasciano trascinare a
precipizio…Nei teatri vedono Alcesti, che si sostituisce al marito per morire in suo luogo: eppure,
se fosse mai possibile un simile scambio, esse lascerebbero volentieri morire il marito per salvar la
cagnetta". In poche righe ecco tracciato un quadro indicativo non solo di una funzione negativa
svolta dalla donna ma anche di una natura femminile di per sé votata all’inganno, anche quando si
muovono in maniera disinvolta nella società. Ma esse personificano agli occhi del poeta lo scempio
del pudore, e gli ispirano per l’appunto la sesta satira, uno dei più feroci documenti di misoginismo
di tutti i tempi, dove campeggia la cupa grandezza di Messalina, la prostituta imperiale. Egli non
solo le considera effetto della decadenza ma le descrive come figure false e dall’animo ignobile,
capaci di mentire anche nel letto “Il letto in cui giace una moglie vede continuamente litigi e
reciproche baruffe: e pochissimo vi si dorme. Mai essa è così odiosa al marito e più perfida di una
tigre privata dei suoi piccoli, di quando dissimula sotto falsi gemiti la coscienza di un segreto
misfatto”.
Troviamo tuttavia degli autori che si discostano dal pensiero di Giovenale e che ritengono che ci
siano anche delle donne con qualità positive, questo è il caso di Marziale. Egli stimava alcune

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donne dell’altro sesso: Negrina era amatissima dal marito, Teofila, donna colta e poetessa, era una
moglie devota; anche tra le donne bersaglio di Giovenale, ci potevano essere, per Marziale, donne
degne di essere rispettate. Anche Marziale però subì come patrimonio del senso comune dell’epoca
gli stessi temi dell’altro poeta, anche se con meno violenza, segno comune di una tendenza
misogina derivata dalla perdita, per dirla alla Catone, del mos maiorum.

Le figure femminili nella letteratura tra ‘800 e ‘900.

Per un quadro esaustivo di tipi umani femminili visti in una diacronia storico-civile sarebbe stato
necessario esaminare l’intero quadro della civiltà dell’uomo. Naturalmente ciò non può essere
oggetto di considerazione della mia tesi la quale intende soffermarsi più a lungo sui tipi femminili
dell’Ottocento e del Novecento letterario italiano senza per altro soffermarsi sul vasto quadro che di
essi offrono i due secoli. Il mio intento è quello di cogliere un processo evolutivo e di giungere ad
una compiuta parità di diritti e di opportunità tra uomo e donna. Se l’intento sarà questo non potrò,
sia pure per sintesi strettissima, non cercare di dar vita ad un catalogo significativo dei tipi umani
femminili quali sono stati tracciati dai più importanti, a parer mio, scrittori dell’Ottocento e del
Novecento. Il primo tipo umano femminile che mi ha colpito è quello di Teresa tracciato da Ugo
Foscolo nel romanzo epistolare “Le ultime lettere di Jacopo Ortis”. Mi ha colpito perché Teresa
rappresenta la donna ideale, un po’ distaccata dalla realtà, chiusa nei suoi pensieri e nei suoi sogni,
intenta a ricamare il suo stesso ritratto. Una figura di stampo romantico che il Foscolo definisce
“Fanciulla divina” che però non sa ribellarsi alla volontà del padre che per lei ha preparato un
tranquillo matrimonio borghese: “- Non posso essere vostra mai!… - ella pronunciò queste parole
dal cuore profondo e con un’occhiata con cui parea rimproverarmi e compiangermi (Lettera del 14
maggio, a sera); “se dovessi scolpire o dipingere la beltà, io sdegnando ogni modello terreno la
troverei nella mia immaginazione…Illusioni! Grida il filosofo: e non è tutto illusione? Tutto! Beati
gli antichi… che trovano il Bello ed il Vero accarezzando gli ideali della lor fantasia! Illusioni! ma
intanto senza di esse non sentirei la vita che nel dolore…”(Lettera del 15 maggio). Ma la
sottomissione di Teresa non ingabbia la libertà del suo cuore e dei suoi sentimenti: “ La definirei
una donna vittima: “Ho baciata e ribaciata quella mano… e Teresa mi abbracciava tutta tremante,
e trasfondea i suoi sapori nella mia bocca”(Lettera del 14 maggio,a sera). Vittima della torbida
realtà che gira intorno a sé ma anche dall’enorme personalità tormentata espressa da Jacopo che
consapevole di non poterle garantire un futuro sereno, la lascia senza darle alcuna spiegazione
costringendola a sposare Odoardo. A me interessa la tensione morale di questa creatura che mi
appare come un sospiro di libertà lanciato nel futuro. Un seme di nuova umanità che germoglierà in
tempi successivi. Il Foscolo tracciando questo tipo umano è andato al di là della Carlotta de “I
dolori del giovane Werter” del Goethe. Quanto di quotidiano e di concreto c’è in Carlotta altrettanto
di ideale e spirituale c’è in Teresa. E’ un prototipo femminile che troverà il suo sviluppo psicologico
nella monaca di Monza di Alessandro Manzoni e la sua compiutezza nella Pisana de “Le
confessioni di un italiano” di Ippolito Nievo. La Pisana è un tipo femminile complesso nel quale le
caratteristiche dell’animo femminile si esprimo tutte quante in maniera forte e coerente. Scrive
Ippolito Nievo: “La Pisana era una bimba vispa, irrequieta, permalosetta…che a tre anni
conosceva già certe sue arti da donnetta per invaghire di sé, e avrebbe dato ragione a coloro che
sostengono le donne non essere mai bambini, ma nascer donne belle e fatte, col germe in corpo di
tutto i vezzi e di tutte le malizie possibili”. Tipo umano istintivo appassionato “facile ai tradimenti, e
insieme ai pentimenti e ai ritorni amorosissimi…poco scrupolosa…orgogliosa, egoistica nei suoi
capricci ma pronta a ogni sacrificio per bontà e per affetto; capace di amare non solo da amante
ma da amica, e da sorella, e di morire per l’uomo amato”(Benedetto Croce). E’ facile capire che
siamo ad una svolta della letteratura perché possiamo cogliere il passaggio dal romanzo storico al
romanzo psicologico, il quale, sia pure da lontano, lascia ad intuire il romanzo del Novecento. In

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questo tipo umano, inoltre, è possibile cogliere l’esplosione dell’umanità femminile che va accettata
per la sua peculiarità. Non può darsi, infatti, secondo me, una reale emancipazione della donna
senza l’accettazione integrale del suo essere femmina e donna. Il Manzoni stesso nella tragedia
“Adelchi” aveva forzato il cuore della regina Ermengarda facendo esplodere in lei le ragioni
umane della donna nella loro interezza. Ermengarda non è soltanto vittima delle ragioni storiche,
ma dei suoi stessi sentimenti. “Sempre al pensier tornavano gli irrevocati dì”: le ragioni della sua
tristezza e della sua morte sono dentro la donna innamorata, incapace di dimenticare. Ma negli anni
Settanta dell’Ottocento nuovi registri letterari, dettati anche dalle circostanze storiche e dalla
situazione della civiltà umana( il positivismo, il progresso, il concetto di classe sociale, di libertà, di
diritti ecc.) danno vita a tipi umani femminili nei quali si svincola con grande intensità un’ umanità
minore, ma non per questo meno richiamante e indicativa del cammino della civiltà. E’ Verga che ci
offre una gamma di tipi femminili da interpretare come punti di riferimento per una più sensibile
attenzione degli autori verso una realtà più concreta e più quotidiana. Nedda è creatura femminile
afflitta e succube di una sorta di misoginia folklorica e paesana. Mena de “I Malavoglia” è una
creatura elegiaca ma nel contempo eroica. Il suo idillio amoroso con compare Alfio è tutto intonato
sul ritmo dell’assenza e della privazione ma tutto vissuto interiormente e per questo intenso e
sublime quanto altro mai: “Se voi mi volete ancora, comare Mena, disse finalmente(Alfio Mosca);
io per me son qua. La povera Mena non si fece neppure rossa, sentendo che compare Alfio aveva
indovinato che ella lo voleva…- ora sono vecchia compare Alfio e non mi marito più. –Se voi siete
vecchia anch’io sono vecchio… quando sarà maritato vostro fratello Alessi voi resterete in mezzo
alla strada. Mena si strinse nelle spalle…”(Malavoglia cap. XV). La povertà della sua famiglia è la
causa della rinuncia ad un amore a lungo nutrito dentro e poi detto e manifestato con drammatica
semplicità e con chiarezza dei limiti inamovibili imposti dalla condizione dei poveri. Diodota del
“Mastro don Gesualdo” ama il suo padrone senza limite e senza condizionamenti, in modo
continuato come accade ad ogni amore che sia totale donazione di se stessi e libero da ogni pretesa.
Quanto questa figura è lontana dalla Bianca Trao, nobile decaduta, che sposa il mastro diventato
don senza riuscire a sentire neppure pietà per l’intraprendente Gesualdo! Verso la fine
dell’Ottocento, in clima decadente, i tipi umani femminili recano in sé un’interiorità più complessa
e più difficile da leggere e capire. Sono però le figure del Fogazzaro quelle del D’Annunzio, quelle
di Svevo e di Moravia, a consentirci di cogliere un’evoluzione più complessa ma anche più
demarcata. Si tratta di tipi umani che racchiudono in sé le contraddizioni dell’animo umano, i
sussulti dell’inconscio, la voce di una contemporaneità che tende ad esprimersi in ogni suo aspetto.
Siamo nel periodo in cui in Europa trionfa l’ammirazione per le epoche di decadenza quale la
grecità alessandrina, la latinità imperiale e l’età bizantina. Il fascino di ciò che muore era per i
decadenti più voluttuoso di quello che invece si esprime pienamente e classicamente. Nei libri e
negli autori di questo periodo si possono cogliere il culto di una raffinatezza estenuata e morente e il
vagheggiamento di una lussuria perversa e crudele. Siamo infatti negli anni in cui la borghesia si
oppone alle forze sociali emergenti (Partito Socialista, seconda rivoluzione industriale, guerre
imperialistiche, rivendicazioni sociali). Tra i tipi femminili di questo periodo non va dimenticata
Madame Bovary di Flaubert e tutto il catalogo femminile del D’Annunzio (da Elena Muti a
Basiliola Falera, a Ippolita Sanzi a Foscarina Perdita) nei quali si costruisce il concetto della donna
nemica e fatale. Tali sono appunto Elena Muti de “Il piacere” di D’Annunzio che incarna in sé
l’erotismo lussurioso “Ella portava quindi, nella comedia umana elementi pericolosissimi; ed era
occasion di ruina e di disordine più che s’ella facesse publica professione di impudicizia. Sotto
l’ardore della imaginazione ogni suo capriccio prendeva un’apparenza patetica. Ella era la donna
delle passioni fulminee, degli incendii improvvisi. Ella copriva di fiamme eteree i bisogni erotici
della sua carne e sapeva trasformare in alto sentimento un basso appetito…” ; Basiliola Falera
della tragedia “La nave” che in un empito di sadica ferocia con compiacimento saetta i prigionieri
rinchiusi in una fossa; Ippolita Sanzio del “Trionfo della morte” che è la nemica dichiarata in
quanto rappresenta le forze oscure della psiche di Giorgio Aurispa, il protagonista del romanzo, in
cui prevalgono le forze della morte su quelle della vita. Ecco qualche tratto di Ippolita Sanzio: “Ella

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aveva disciolto i suoi capelli perché si asciugassero; e le ciocche ammassate dall’umidità le
cadevano sugli omeri così cupe che sembravano quasi di viola. Il suo corpo svelto ed eretto,come
avvolto nelle pieghe di un peplo, si disegnava metà sul campo glauco del mare e metà su la
chiarissima trasparenza celeste…Ella era tutta assorta in un suo piacere alterno: - metteva i piedi
nudi sulla ghiaia scottante mantenendoveli sin che fosse per lei sostenibile l’ardore; e poi così caldi
li tuffava nell’acqua blanda che lambiva la ghiaia. E in quella duplice sensazione ella pareva
gustare una voluttà infinita, obbliosamente… come mai ella poteva essere, nel tempo medesimo
così inferma e così valida? Come mai poteva ella conciliare nella sua sostanza tante contrarietà e
assumere tanti diversi aspetti in un giorno, in un’ora sola? La donna taciturna e triste che covava
dentro di sé il male sacro, il morbo astrale (epilessia); l’amante cupida e convulsa il cui ardore era
talvolta quasi spaventevole, la cui lussuria aveva talvolta apparenze quasi cupide d’agonia…”. Nel
romanzo Ippolita appare come la potenza femminile distruttrice delle energie vitali del maschio. Da
qui il forte senso di angoscia che accompagna Giorgio Aurispa. Foscarina Perdita del romanzo “Il
fuoco” che con il suo amore nevrotico e possessivo ostacola il protagonista Stelio Effrena nel
conseguimento dei suoi progetti. Pur nella loro morbosità questi personaggi contribuiscono alla
decifrazione della psiche femminile e del ruolo della donna nei rapporti sociali e privati. Si tratta di
tipi umani in cui Eros e Thanathos hanno un ruolo determinante. La letteratura di inizio secolo non
ci consegna figure femminili globali, libere e protagoniste, tuttavia sembra voler volontariamente
dare loro un ruolo di subordinazione. Non ci sono donne vere protagoniste di romanzi. Tutto al più
le figure femminili di rilievo nelle opere si connotano come antagoniste o, volendo esagerare, come
coprotagoniste. Non vi è un vero rifiuto della donna ma un’analisi esasperata ma nel contempo vera
della psiche femminile. Ciò non significa che ci sia stata una scarsa considerazione della donna,
anche quando il suo ruolo appare puramente legato alla lussuria, a luoghi onirici e talvolta anche a
realtà paesane estranianti. In effetti sono apparse tante figure femminili ora fortemente legate alla
realtà, ora sorgenti da una psiche contorta e profonda, tesa a chiarire la vera natura femminile. Si
potrebbe evincere che il primo vero riconoscimento della donna, inserita in un ambito sociale, possa
anche derivare da un maggior realismo letterario, da una più chiara comprensione della sua natura e
soprattutto dalla coscienza della “classe” femminile che in quel periodo ricerca, con maggior
ostinatezza, una rivalsa per la propria libertà.

Una piccola parentesi storica.

Come abbiamo potuto notare lungo l’arco dei secoli il ruolo della donna è stato pressoché
completamente subordinato al privilegio maschile, anche quando non solo mancate figure eroiche
femminili che per la loro forte personalità hanno saputo imporsi e porsi come protagoniste. Ma
questi fatti episodici non hanno mai raggiunto una valenza storica e sociale. E’ nel Novecento che
incominciano a farsi sentire le prime rivendicazioni femministe. La prima vera grande femminista,
che ha meritato tra l’altro due Nobel, fu Marie Curie, che, come scienziato, non ha voluto mai
essere un surrogato d’uomo. Fu una donna affascinante e come tale amava i fiori e la natura. A suo
modo e suo tempo visse la sua battaglia e si pose come chiaro simbolo dell’emancipazione
femminile. A questa stupenda figura possiamo accostare Maria Montessori, dottoressa in medicina
e insigne pedagogista, che ha saputo creare un mondo a misura di bambini; Rosa Luxemburg,
antimilitarista convinta e socialista fervida, che morì a Berlino uccisa dai militari; Virginia Woolf,
scrittrice di grosso spessore, che si batté per difendere il diritto della donna a conquistare la parità e
prima ancora all’indipendenza economica.
Ma, spesso, oltre alle grandi personalità sono i fatti che determinano le prese di posizione e danno
vita a forti ideologie. L’incendio in una fabbrica a New York l’8 marzo 1908 coagula su di sé
l’attenzione mondiale e la morte di quelle operaie alimenta l’ideale di emancipazione femminile
tanto che quella data divenne la data per la celebrazione della festa delle donne. Storicamente è vero
che le donne hanno avuto riconosciuto il diritto a votare per la prima volta il 6 settembre del 1870

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nel Wyomining (USA), ma è altrettanto vero, come sostiene Radius, che il momento di frattura per
la rivoluzione femminile debba essere identificato nel 1925, quando con forte consapevolezza le
donne cominciarono a tagliarsi i capelli “ à la garçone”. Di lì in poi il movimento femminile si è
mosso in maniera autonoma e consapevole fino all’attuale emancipazione della donna e al pieno
riconoscimento, almeno sotto il profilo giuridico, della parità di diritti e delle pari opportunità tra
uomo e donna. Oggi il movimento femminile si è integrato con le moderne tecnologie e con le
“tendenze” del tempo cosicché attualmente in Internet vi è la presenza di un movimento femminista
denominato G.URL. Questa mia tesina ha percorso velocemente i tempi con l’intento di evidenziare
una linea progressiva di affermazione dell’autonomia della donna cogliendone alcuni tratti in campi
diversi del sapere umano.

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