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Costituzionale - Appunti libro "Barbera-Fusaro: Corso di diritto pubblico"

Capitolo 1: L'ordinamento giuridico e il diritto costituzionale

Per ordinamento giuridico si intende un insieme di regole di una determinata organizzazione. Le


regole sono appunto il diritto. Tali appartengono al linguaggio prescrittivo del "dover essere". Ma
come distinguiamo regole giuridiche da regole etiche o da precetti religiosi? Appare evidente
come questi ultimi tipi di regole mirino alla perfezione individuale o alla salvezza dell'anima; le
regole giuridiche disciplinano le azioni rilevanti fra i soggetti affinché l'organizzazione sociale sia
"normale" ("squadra", ovvero funzioni nel suo insieme, a norma). Ovvero la salvaguardi con
doveri e diritti, con patti, con vincoli posti da altri (eteronoma) o dalle parti (autonoma),
determinati su una regola comune (diritto oggettivo).
Tali vincoli (posti sulla base di una regola comune, ricordiamo) danno luogo a situazioni
giuridiche favorevoli (diritto soggettivo) o sfavorevoli (obblighi). Noi ci occupiamo del diritto dello
Stato, l'organizzazione giuridica più complessa che tende a porsi sovrana sulle altre.
Ma è il diritto che fa l'organizzazione, o viceversa? Secondo le teorie normativiste (promosse da
Kelsen) l'ordinamento giuridico viene ritenuto parte a sè, slegata dall'organizzazione sociale,
autonoma; per le teorie istituzionaliste (cui si deve grande merito all'italiano Santi Romano) le
norme sono frutto dell'organizzazione sociale, che attraverso esse, preserva se stessa. Società
che è frutto di molteplici forme di organizzazione, che danno vita ad altrettanti ordinamenti.
Capiamo bene dunque la teoria della "pluralità degli ordinamenti giuridici", e di come il diritto non
sia monopolio dello Stato. Ancora, le norme sono il risultato di un processo normativo (atto a
rendere a norma, ad rendere funzionale l'insieme, la squadra) storico. Lo si nota bene nei paesi
di "Common Law"(GB, India,ecc), dove i giudici fanno le norme tenendo conto dei casi
precedenti; ma anche nei paesi di "Civil Law", dove, applicando la legge, l'interpretazione dei
giudici si rifà all'organizzazione sociale. La teoria normativista gode comunque di rilevanza
poichè tende a rendere il diritto una scienza oggettiva nel suo essere, valida perchè "posta" (da
"positum", comando), come "diritto positivo". Tuttavia non risponde a certi quesiti come la
provenienza dell'ordinamento.
Per meglio definire l'espressione "ordinamento", indichiamo lo stesso come l'insieme di elementi
quali prescrizioni (affermazioni), consuetudini (cioè il disciplinare quella regolarità rilevata; la
regolarità precettiva), fatti normativi, tutti espressioni dell'organizzazione sociale. Ma vi è un
"diritto naturale" al di sopra di questo diritto espressione della comunità? Sì (che sia mutevole nel
tempo è una caratteristica del nuovo giusnaturalismo; la teoria giusnaturalistica è risorta dopo gli
orrori della seconda guerra mondiale), al punto che il peso giuridico delle norme viene negato
qualora queste non possano essere liberamente conosciute, per esempio, o ancora, "richiedano
l'impossibile".
L'ordinamento giuridico è quindi un sistema, cioè è unitario, coerente (non vi devono essere
contraddizioni), completo. Tale sistema viene salvaguardato tale nell'essere pensato come tale,
sia dal legislatore che dal giudice. All'interpretazione letteraria viene infatti affiancata quella
logico-sistematica, poichè l'ordinamento non è semplice somma di norme, ma anche relazioni
complesse tra le norme. Quindi si suole distinguere tra disposizioni, le formulazioni linguistiche, e
norme, che più propriamente sono l'interpretazione delle disposizioni alla luce dei rapporti che
intercorrono tra le varie formulazioni, cosìcché l'agire dell'interprete possa essere lecito secondo
il volere del sistema tutto. E per essere un sistema anzitutto unitario l'ordinamento deve basarsi e
assicurarsi su di una serie di principi e norme fondamentali. Per l'ordinamento giuridico statale
(proprio cioè, dell'organo istituzionale che si pone sovrano sugli altri, ricordiamo; è la teoria della
pluralità degli ordinamenti giuridici) questa è la Costituzione, che può essere scritta (o meno), e
se lo è, rigida (prevede cioè procedimenti aggravati per la sua modifica, tale da rendere la
modifica stessa un processo complesso e controllato; vedi art. 138) o flessibile. Le costituzioni
(dette anche "carte", o "statuti") hanno quindi principi fondamentali, ma anche norme relative ai
pubblici poteri e procedure relative alle norme destinate a rinnovare l'ordinamento. Ecco perchè
vi sono diversi tipi di costituzione (che possono essere anche non scritte, ricordiamo), perchè più
propriamente si parla di "Ordinamento costituzionale" o "diritto costituzionale" che ogni
ordinamento statale possiede. E' appunto quell'insieme di norme fondamentali scritte
("costituzione" come documento) o non scritte che rappresenta il "codice genetico"
dell'ordinamento statale giuridico stesso. E' importante notare che la Costituzione come
documento scritto non esaurisce tutti gli elementi dell'ordinamento costituzionale, in quanto lo
stesso viene espresso non solo dalle norme fondamentali costituzionali, ma anzi sussitono norme
materialmente costituzionali che incidono a fondo sul sistema politico seppur non riportate nel
documento costituzionale (un esempio sono le leggi elettoriali). Inoltre sussistono norme
costituzionali il cui contenuto non conferisce identità all'ordinamento. Si riallaccia a questo
discorso la distinzione tra "organi costituzionali" e "organi di rilevanza costituzionale": solo i primi
(Parlamento, Governo, Presidente della Repubblica, Corte Costituzionale) delineano l'identità
dell'ordinamento costituzionale, mentre i secondi, pur previsti dalla costituzione, non lo sono. Il
concetto di ordinamento costituzionale serve per una migliore interpretazione alla luce delle
trasformazioni sociali storiche, per limitare il potere di revisione, che è quindi un "potere di
revisione costituito", previsto e disciplinato dalla costituzione stessa. Inoltre, tale concetto serve a
comprendere se nella realtà dei fatti la costituzione è in vigore oppure no, e se non vi sia una
continua violazione di essa e delle sue disposizioni o invece una desuetudine, ovvero una
consuetudine abrogatrice. Anche intorno alla costituzione sussiste lo scontro tra normativisti e
istituzionalisti, dove i primi vedono la costituzione come documento, presupposto ma non posto,
mentre i secondi contrappongono alla teoria di Kelsen quella di Schmitt, dove la costituzione è
decisione fondamentale, decisione dei consociati sulla loro "unità politica", che determina
l'orientamento. Da questa posizione nasce la teoria del teorico Mortati, quella di Costituzione
materiale, intesa come insieme di fini e valori su cui convergono le forze politiche prevalenti, e
Costituzione formale, ovvero il documento. Una distinzione che tende in verità a screditare la
carta, giacchè si suole più genericamente fermarsi a quella precedente di Costituzione e
Ordinamento costituzionale. In una visione gerarchia, il diritto costituzionale si pone in cima alla
piramide, primo nel definire e distinguere il diritto pubblico (diramato in molte parti) dal diritto
privato (dove i rapporti fra i singoli sono diretti dagli stessi in autonomia su concessione dello
Stato, che comunque vigila nell'interesse generale. In un certo senso tutto è diritto pubblico), tra i
quali il confine didattico è delineato dall'agire dello Stato o da parte dei singoli.

Capitolo 2: Lo Stato

Definiamo lo Stato come l'Ordinamento al quale il popolo si sottopone nel suo interesse
(nell'interesse generale cioè), legittimando quell'organo politico sovrano sugli altri ordinamenti (si
ricordi la teoria degli ordinamenti). Lo Stato è comunque sottoposto a dei limiti, detti "di fatto"
quando questi sono determinati dall'impossibilità materiale di un pieno controllo, e "giuridici"
quando, sulla scia giusnaturalistica e da art.2 della Costituzione, vengono riconosciuti diritti
naturali puntualmente sanciti dagli ordinamenti internazionali (ai quali la costituzione prevede un
certo rapporto di dipendenza, seppur la CC non sposi la teoria monista in relazione ai rapporti tra
ordinamento internazionale ed ordinamento statale, ma maggiormente quella pluralista. Di tali
teorie si dirà più sotto).
In sintesi, gli elementi che caratterizzano generalmente lo Stato sono:
- il Popolo, l'elettorato composto da cittadini (coloro che godono della cittadinanza e quindi dei
diritti politici, ovvero il voto), che, con azione prevista e delineata dalla Costituzione, legittimano
(senza per adesso tenere conto chi o cosa, che sono temi più specifici delle Forme di Stato);
- il Territorio, necessario perchè uno Stato possa definirsi tale, tipico di una specifica Nazione ma
esteso, in senso moderno, a tutto il Popolo;
- la Sovranità, concetto secondo il quale e grazie alla legittimazione del popolo, lo Stato gestisce
il monopolio della forza sulle altre istituzioni sociali;
- la Politicità, ovvero l'interesse generale ("per il popolo") dello Stato;
In particolare, gli ultimi due concetti sono strettamente connessi, anche se in realtà sono tutti
fondamentali per la definizione di Stato.
La particolarità dello "Stato Federale" viene risolta in un unico ordinamento complesso nella
prassi, dove gli "Stati interni" si rifanno all'unico Stato, che è sempre uno solo, tale quando
legittimato di un popolo e suo rappresentante, definito in un territorio preciso e dotato di
caratteristiche quali la sovranità e la politicità.

Per Forme di Stato (da non confondersi con Forme di Governo, ovvero i modi in cui il potere si
distribuisce fra i vari organi dello Stato, di cui si dirà più sotto) intendiamo il modo concreto in cui
lo Stato esprime i concetti di Sovranità e Politicità, ovvero il rapporto tra "governanti e governati".

Sullo Stato, organo istituzionale, abbiamo teorie contrattualistiche promosse sia da Locke che da
Hobbes, come un patto tra i cittadini, seppur il primo filosofo vede il patto come forma di garanzia
a diritti naturali come libertà, sicurezza, proprietà, mentre il secondo sostiene il patto come unica
via di ordine sociale e fuoriuscita dallo stato di natura dell'homo homini lupus, della guerra di tutti
contro tutti, con conseguente concezione dello stato come leviatano che non dipende dai
cittadini;
Per quanto concerne le dottrine statolatre, cui ci si rifà ad Hegel, lo Stato è espressione dello
Spirito, che soppianta gli individui, razionale perchè è, ed etico se gli si attribuisce una missione
di compimento di un sistema unico di valori; Secondo le teorie marxiste lo Stato è strumento della
classe dominante, sovrastruttura espressa dalla società fondata sull'economia e in particolare sul
capitalismo. In particolare, considerando lo Stato come elemento borghese della società, e lo
sviluppo storico come scontro fra le classi, lo Stato stesso è destinato a far parte
temporaneamente della società socialista guidata dal prolettariato dittatore, prima di giungere alla
vera società comunista secondo la quale "ciascuno secondo le proprie capacità, a ciascuno
secondo le proprie necessità", dove lo Stato non è nemmeno contemplato, non deve esserci
(Engels).

Tra le varie Forme di Stato, detto propriamente tale solo dopo la fine della guerra dei trent'anni e
la pace di Vestfalia del 1648, distinguiamo, in maniera cronologica verso uno sviluppo più
democratico:
Stato Assoluto, contraddistinto dalla presenza di un monarca. In qualche modo si fa vivo il
concetto di politicità per la ricerca della legittimazione e della sicurezza del proprio ruolo di
comando;
Stato Liberale, detto anche monoclasse, per via della riservatezza dei diritti civili e politici ai quali
si giunge dopo la rivoluzione francese, riservati, appunto, alla classe borghese escludendo il
cosiddetto "quarto stato" (il proletariato). Lo Stato liberale viene anche detto stato di diritto per
l'approdo di diritti più o meno riconosciuti quali la libertà, la proprietà.
Stato liberaldemocratico: è un ulteriore sviluppo dello Stato liberale, che guarda alla diversità
della società ed estende il concetto di politicità alle classi minori (detto per questo anche "stato
pluriclasse"). Più propriamente si tende a parlare di Stato sociale quando ai cittadini viengono
riconosciuti diritti sociali, ovvero ulteriori garanzie sulla scia giusnaturalistica.
Uno Stato viene detto Costituzionale quando fissa la tutela dei diritti in una costituzione, al fine di
garantire le forme di coesione sociale. Lo Stato fascista invece, prendeva la propria
legittimazione dallo sviluppo filosofico della destra hegeliana, presentandosi appunto come stato
etico. Quello socialista, al contrario, muoveva il suo essere dalla sinistra hegeliana e da Marx. Lo
Stato confessionale è invece un particolare tipo di Stato basato sulla religione.
L'Italia è appunto uno Stato sociale che si ispira al costituzionalismo liberaldemocratico,
riconoscendo i diritti dell'uomo (spesso della persona, prima che del cittadino), sancendo
l'eguaglianza tra l'individui, dichiarandosi laico, poggiandosi sul principio di maggioranza e sulla
divisione dei poteri tra gli organi di stato come misura di autocontrollo, ecc.

Capitolo 3: Lo Stato e gli altri ordinamenti - L'ordinamento internazionale

Con la pace di Vestfalia del 1648 (in cui gli Stati rivendicarono la loro autonomia da Papato ed
Impero) si inizia a parlare, inoltre, di "Diritto Internazionale", cioè dell'ordinamento della comunità
degli Stati. Sussitono notevoli differenze con l'impostazione interna di uno Stato: vengono
rappresentate, nell'ordinamento internazionale, entità collettive molto diverse fra loro; non sussite
un organo legislativo che imponga norme ai membri, e non vi è un ente supremo che faccia da
paciere alle controversie internazionali; vi sono comunque consuetudini, o fatti spontanei,
propriamente detti "norme di diritto internazionale generale", che segnano in profondità
l'ordinamento, tanto che la loro accettazione risulta obbligatoria per la partecipazione stessa alla
comunità. Altre norme sono invece di natura pattizia, ovvero norme di diritto internazionale
pattizio, riguardanti solo i soggetti che le sottoscrivono.
Il problema che si viene a creare è il rapporto tra ordinamento internazionale ed ordinamento
interno dello Stato: secondo la teoria monista, propria di un pacifista Kelsen, vi è un rapporto di
unità-dipendenza risolto nella supremazia dell'ordinamento internazionale. La concezione
pluralista tende a riconoscere invece l'indipendenza di entrambi gli ordinamenti, ed è questa oggi
quella in cui si riconosce la Corte Costituzionale, pur prevedendo obblighi di natura pattizia, quali
trattati i quali richiedono firma e ratifica (istituto secondo il quale il soggetto partecipante, lo Stato,
conferma il negozio con la terza parte, scambiandosi i documenti di ratifica o depositando gli
stessi presso una delle parti; a cura del Ministro degli esteri, che per gli affari più importanti come
"variazione territorio", "oneri finanziari", "trattati di natura politica", ovvero che vincolano la politica
estera della Repubblica, necessita di legge parlamentare) o "semplici" accordi (non è richiesta la
ratifica). L'adattamento alle norme vincolanti per la partecipazione alla comunità degli Stati, cioè
quelle consuetudini di diritto internazionale generale, dette anche "fontifatto", o agli
obblighi/trattati di natura pattizia, è previsto dalla Costituzione, che esprime in particolari tre modi
operandi:
- Procedimento ordinario (si riferisce ai trattati di natura pattizia): il legislatore introduce o
modifica, o estingue leggi (provvedimenti) al fine di rispettare il trattato pattuito.
- Procedimento speciale (si riferisce ai trattati di natura pattizia): mediante ordine di esecuzione
(un documento) viene introdotto il trattato stesso in forma materiale, così da risultare vincolante
per l'ordinamento interno. Nella prassi è la forma più utilizzata.
- Adattamento in forma automatica (per le fontifatto): La Costituzione prevede norme
internazionali generali e ne riconosce immediatamente il valore vincolante per l'ordinamento
interno e con volontaria accettazione, sottomissione, espressa nell'articolo 10.
Bisogna dunque meglio definire quali siano queste norme del diritto internazionale generalmente
riconosciute. Alcuni esempi sono "l'uguale sovranità degli Stati", "l'azione disciplinata sui mari
degli Stati", ecc. E' dopo la seconda guerra mondiale, con la rinascita del giusnaturalismo, che
nascono istituti atti a riconoscere i diritti fondamentali dell'uomo che gli stati riconoscono e ai quali
si sottomettono. Alcuni esempi sono la dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, o istituzioni
che oltre a riconoscere gli stessi, li preservano, come la Corte penale internazionale, tribunale
permanente, o la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'Uomo, o più
semplicemente CEDU, tendenti a valorizzare il singolo individuo a livello internazionale come
soggetto dell'ordinamento internazionale.
L'ONU (Organizzazione Nazioni Unite) è forse la principale tra le organizzazioni internazionali.
Sorta nel 1945 subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, per rilanciare il progetto fallito
della "Società delle Nazioni", oggi vanta un'organizzazione complessa, divisa in più organi:
- Assemblea Generale: vanta 192 membri (quasi la totalità degli Stati), si esprime a maggioranza
semplice o, per le questioni più delicate, a maggioranza di 2/3.
- Consiglio di sicurezza: ne fanno parte solo 15 stati, tra cui solo 5 rimangono in forma
permanente (non vengono cioè eletti). Sono i vincitori della 2WW: Russia, Cina, Francia, Regno
Unito, Stati Uniti. E' importante notare che questi 5 stati hanno un potere di veto tale da bloccare
ogni provvedimento del Consiglio, anche se nella prassi si accetta un astensione senza
modificare gli interventi. Il consiglio si occupa di decisioni militari (ulteriori dettagli sotto).
- Consiglio economico e sociale
- Corte internazionale di giustizia
- Segretario generale, molto importante per la sua funzione mediatrice.

La forza, accennavamo, è prevista e disciplinata dall'Onu, ma riservata al consiglio di sicurezza,


che ne fa uso con il consenso degli stati permanenti (questo fa capire come non di rado nascano
controversie tra gli uni o gli altri Stati). Tutti gli altri stati sono comunque autorizzati a difendersi in
caso di attacco, prima che venga approvato un piano dall'Onu.
Non vi sono solo missioni a sfondo militare, bensì altre, denominate "dei caschi blu", si occupano
più propriamente del mantenimento della pace. L'Italia entra nell'Onu nel '55, dopo aver ripudiato
la guerra come strumento d'offesa o di mediazione con altri Stati (ma non come strumento di
difesa, come previsto dall'art.78 della Costituzione), e promesso l'impegno nell'incentivare la pace
nel mondo (da cui le controversie intorno all'art.11 della Costituzione, dove è comunemente
accettato l'impegno con iniziativa dell'Onu, mentre lo è molto meno quello dove l'intervento è
causato da patti con organi diversi, come la Nato).
Altre organizzazione dette di tipo internazionale regionale vedono patteggiare stati non per forza
di cose membri dell'Onu o neutrali. Un esempio è l'Organizzazione del Trattato Nord Atlantico,
più comunemente conosciuta come NATO, nata in funzione antisovietica, conta 26 Stati, dei quali
gli Stati Uniti giocano il ruolo fondamentale. In sostanza è un patto militare secondo il quale è un
membro sotto attacco viene obbligatoriamente difeso dai suoi alleati. L'italia ne fa parte (come
testimoniato dalla partecipazione alle operazioni in Kosovo nel '99), ma è difficile negare una
certa competizione con l'Onu.
Oltre alla nato, segnaliamo il Consiglio d'Europa, la cui funzione, non militare, è di sostengno alla
Cedu. Ma ve ne sono altri ancora.
Di diverso tipo sono invece le organizzazioni sovranazionali, che prevedono una forte
integrazione tra gli Stati membri fino a condizionare direttamente i cittadini. E' il caso dell'Unione
Europea.

Capitolo 4: L'ordinamento dell'Unione europea

Il processo che porta alla formazione dell'Ue è lungo e complesso, ma sentito come necessario
dalla situazione scaturita nel secondo dopoguerra, con l'Europa messa in ginocchio dai conflitti
tra "europei contro europei". In particolare, una collaborazione internazionale (sostenuta a gran
voce a livello politico prima che economico da personaggi quali Ernesto Rossi e Altiero Spinelli)
viene avviata nel '51, con la formazione della Comunità europea del carbone e dell'acciaio
(Ceca), sottoscritta da sei paesi quali Belgio, Germania, Francia, Italia, Lussemburgo, Paesi
Bassi. Gli stessi paesi daranno vita ad altre due istituzioni a seguito del Trattato di Roma del '57:
L'Euratom (per lo sviluppo del nucleare) e la Comunità economica europea (Cee). Venivano
previste collaborazioni di natura economica, come la cooperazione nella politica per agricolture e
trasporti, o l'instaurazione di un'area di libero scambio con tariffe doganali standard, o ancora un
fondo e una banca "europea", ecc. I tre trattati furono sin dall'inizio una costruzione originale
perchè dotati di istituzioni comuni, tali a far parlare di "Comuità europee" al plurale. Dotate di un
potere normativo legislativo con Assemblea parlamentare e Corte di Giustizia, presto si
aggiunsero gli esecutivi, quali la Commissione ed il Consiglio. Le istituzioni si andranno
rafforzando col tempo, anche grazie a delle risorse (limitate) proprie (e non solo frutto della
collaborazione occasionale degli Stati) a partire dal 1970. Viene approfondito uno studio sulla
giurisprudenza dalla Corte di Giustizia, le decisioni sono più spesso prese per maggioranza non
unanime, e finalmente nel '73 la comunità (anche se non è ancora lecito parlare di una sola
comunità) inizia ad allargarsi. Nell'86 viene firmato l'Atto unico europeo, importante perchè fissa
l'obiettivo del mercato unico interno e rafforza ulteriormente i suoi organi. E' nel 1992, col Trattato
di Maastricht (Olanda) che viene sancito un nuovo trattato sull'Unione Europea, vengono poste le
basi per la moneta unica, si inizia a parlare di un'unica struttura a "tre pilastri":
Uno riguarda le prime tre comunità di CE (Comunità economica), Ceca, Euratom, integrate ora in
un contesto più ampio e gestite secondo il diritto comunitario;
Il secondo pilastro riguarda la Politica estera e di sicurezza comune;
Il terzo invece la cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale;

Tutto ciò che rientra negli ultimi due pilastri è affidato, più cautamente, ad una cooperazione
intergovernativa fra stati, sia pure integrata dal coinvolgimento degli organi comunitari secondo le
regole del diritto internazionale.
Questo assetto è stato reso tale dopo il trattato di Nizza del 2001, con ulteriore allargamento
dell'Unione Europea, ma potrebbe ulteriormente essere modificato grazie al trattato di Lisbona
stipulato nel 2007, ora accettato anche dalla Repubblica Ceca; I membri dell'UE sono 27, mentre
saranno effettuate importanti modifiche dei ruoli istituzionali.

Accennavamo alle istituzioni e agli organi intergovernativi dell'Unione Europea; vediamoli più
nello specifico:
- Consiglio Europeo: è un organo intergovernativo che decide all'unanimità su importanti
questioni politiche. Non per niente è detto organo di "indirizzo politico", volto a dare all'Unione
"l'impulso necessario al suo sviluppo, definendone gli orientamenti politici generali". Presieduto
dai capi di Stato assistiti dai rispettivi ministri degli esteri.
- il Consiglio: nella prassi è definito il "Consiglio dei Ministri", il consiglio esercita funzioni
decisionali cruciali a livello internazionale. A seconda dei temi affrontati viene presieduto dai
ministri interessati (Ministro dell'agricoltura per temi sull'agricoltura, ecc.). Le riunioni sono
preparate dall'importante comitato costituito dai rappresentanti permanenti degli stati membri, o
più semplciemente Co.re.per. Ruolo fondamentale è anche svolto dal Segretario Generale, che è
anche Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune. Proprio in materia di
sicurezza, il consiglio opera come organismo intergovernativo.
- il Parlamento Europeo è composto da 736 componenti direttamente eletti dai cittadini per 5
anni, sebbene sia comune solo il metodo proporzionale e susstinono differenze di legge elettorale
da paese a paese, mentre sono comuni i diritti e doveri per i rappresentanti eletti (es. Indennità).
Il parlamento è organizzato in maniera moderna secondo gruppi politici, costituiti da un minimo di
20 deputati eletti in almeno un quinto degli stati membri. Tali gruppi lavorano suddivisi in 20
commissioni. Il parlamento ha un proprio regolamento, ma non una sede stabile (si divide fra la
sede ufficiale Strasburgo, ma anche Bruxelles e Lussemburgo). I principali poteri del Parlamento:
- Approvare trattati di adesione di nuovi stati, gli accordi internazionali che comportano spese, le
sanzioni contro uno stato membro che violi principi fondamentali dell'Unione, secondo obblighi
vincolanti detti pareri conformi (mentre sono detti "consultivi" quelli non vincolanti);
- Il potere di concorrere alla funzione legislativa;
- Il potere di partecipare alla procedura di bilancio insieme al Consiglio;
- Il potere di Controllo sulla Commissione (organo di cui diremo adesso), con l'istituzione di
commissioni d'inchiesta e interrogazioni sia alla Commissione che al Consiglio;

- La Commissione è appunto l'esecutivo del parlamento, composta di 27 commissari (uno per


stato), agisce in piena indipendenza dai governi (che rispettano tale indipendenza e s'impegnano
a non influenzare l'azione della Commissione). Il parlamento, dicevamo, ha importanti poteri su di
essa sin dalla sua formazione: in carica 5 anni, può essere sfiduciata dallo stesso con una
mozione di censura. Inoltre il presidente della commissione (che influenza le decisioni prese a
maggioranza dai componenti della commissione da lui e dai governi scelti, nominati poi dal
consiglio, ma sotto la necessaria approvazione del parlamento) deve essere anch'esso accettato
dal parlamento quando viene proposto dai governi. In particolare i poteri della commissione
riguardano:
- una serie di poteri di iniziativa (tanto che si parla di "monopolio dell'iniziativa), come la materia
"esclusiva" che nessun'altro organo possiede in materia legislativa.
- il potere di vigilanza sull'applicazione del diritto comunitario, con la possibilità di intimare a
provvedere di rimediare alle violazioni, per i trasgressori, fino a rivolgersi alla Corte di Giustizia.
- la gestione del bilancio comunitario;
- l'applicazione delle regole sulla concorrenza, con la limitazione degli aiuti che gli stati possono
dare alle imprese; in caso di violazione, la Commissione può insistere nell'intimare a rivedere le
posizioni degli Stati prima di rivolgersi alla Corte di Giustizia;

- La Corte di Giustizia è formata da 27 giudici, assistiti da 8 avvocati generali che studiano le


cause e sottopongono alla corte proposte di conclusione delle stesse. La corte dura in caria 6
anni, composta da membri indipendenti e competenti, diretti da un presidente e con un proprio
statuto e regolamento. Il compito è di assicurare il rispetto del diritto e risolvere le controversie
che riguardano Stati e/o Istituzioni comunitarie, o anche semplicemente tra persone fisiche e la
Comunità. Molto importante il rinvio in via pregiudiziale, secondo il quale gli stati, intorno alle
controversie interpretative delle norme comunitarie, devono rivolgersi direttamente alla Corte di
giustizia, per un'uniforme interpretazione del diritto comunitario. La corte diventa così una specie
di "Corte di Cassazione" della Comunità. La corte è affiancata da un Tribunale di primo grado che
svolge compiti minori al suo posto.
Altro istituzione che si fa al Parlamento, è la Bce, la Banca centrale europea. Dotata di forte
autonomia ed indipendenza, è fondamentale per il controllo della politica economica della
comunità, grazie ai contatti diretti con le banche centrali nazionali, e l'esercizio diretto sul
controllo dei prezzi e della moneta unica.
Ma vi sono ancora: la corte dei conti, il Comitato economico e sociale, il Comitato delle regioni, il
Mediatore europeo, una sorta di difensore civico nominato dal parlamento europeo al quale
chiunque può rivolgersi per casi di cattiva amministrazione da parte degli organi della Comunità,
esclusa la Corte di giustizia.

L'ordinamento dell'Unione Europea si fonda prima di tutto sui trattati conclusi per una "durata
illimitata". Sono questi a costituire le fonti originarie del diritto comunitario,mentre le norme che su
di essi si basano sono le fonti derivate. I trattati sono un pò intesi come la carta costituzionale
dell'Ue.
Nei trattati sono espressi principi fondamentali per l'Ue, quali la necessità di trasparenza, la parità
tra uomini e donne, il principio di sussidarietà ("il più vicino possibile al cittadino"), ecc. Proprio
quest'ultimo è importante perchè parte dell'ordinamento italiano, fino a diventare oggetto di
revisione costituzionale. In particolare gli obiettivi non perseguibili dallo stato membro sono
raggiunti dalla comunità, mentre là dove lo stato membro può fare meglio di essa, la comunità
deve astenersi dalle competenze dello stato.
Vi è poi l'importante concetto di cittadinanza europea che va ad integrare la cittadinanza
nazionale, concedendo una serie di diritti propri anche del rapporto stretto che l'Ue vuole avere
coi cittadini di tutti gli stati membri.
La carta dei diritti fondamentali dell'Unione riconosce invece diritti a prescindere, anche ai non
cittadini, ma sul valore giuridico di essa si discute, perchè formalmente non è entrata a far parte
dei trattati (cioè delle fonti originarie). Per le politiche dell'Ue (per sapere "cosa fa") rimandiamo ai
già citati pilastri, rendendo chiaro che l'obiettivo è la sicurezza e l'ordine, oltre al riconoscimento
di diritti e doveri.
Le fonti del diritto comunitario derivato sono invece Regolamenti (vere e proprie "leggi"
direttamente applicabili agli stati membri, anche qualora l'ordinamento interno sia incompatibile e
viene perciò trascurato quest'ultimo) o Direttive (atti vincolanti in vista di un "risultato" da
raggiungere entro certi termini, anche se talora la Corte di Giustizia può stabilire il loro carattere
"autoapplicativo" tale da doversi attuare comunque all'interno degli stati membri quelli disposizioni
in vista di quei risultati, o i risultati stessi), o ancora Decisioni rivolte verso specifici soggetti
individuati, o semplici Raccomandazioni e Pareri che non comportano obblighi o diritti (da non
confondere coi Pareri conformi di cui si è già detto).
Altre fondi dell'ordinamento dell'Ue non sono scritte, come i principi generali del diritto
comunitario.

Le procedure d'attuazione del diritto comunitario derivato, a prescindere dal tipo di norma/forma,
sono tre, previste in base alla "materia" d'argomento che esse trattano:
Queste sono le procedure comunitarie:
- Codecisione: Il procedimento più utilizzato, con proposta che parte dalla Commissione per
passare poi da consiglio e parlamento;
- Cooperazione: processo limitato all'ambito della politica economica e monetaria, i protagonisti
per l'attuazione secondo tale metodo sono Commissione e consiglio (il parlamento può essere
"superato" da quest'ultimo);
- Consultazione: temi delicati come fisco, politica industriale, ecc vengono affrontati dal consiglio
su parere obbligatorio ma non vincolante del parlamento (eccezione è fatta per questioni sul
"bilancio").
Abbiamo poi "procedure intergovernative" che lasciano il pieno controllo del procedimento
d'attuazione agli stati membri, dove le istituzioni comunitarie sono coinvolte a livello consultivo
(con eccezioni). La Cooperazione rafforzata è prevista come strumento istituzionale per forme
d'integrazione maggiori tra gli stati. E' la cosiddetta "Europa a due (o tre o quattro) velocità".

Ma cos'è l'Ue? Molti la definiscono come comunità sovranazionali; altri, guardando al suo
carattere mutevole ed in trasformazione, la chiamano ordinamento pre-federale, anche se
federale non lo è ancora del tutto; altri ancora, per conciliare queste due visioni, parlano di
federazione di stati nazione, per preservare anche l'identità nazionale di ogni stato membro. Ma è
già dubbio oggi che sia una comunità politica: l'Ue non ha un suo territorio, non ha potere
coercitivo, ed è difficile considerare che i cittadini che rappresenta siano un unico popolo.

Un progetto di Costituzione dell'Ue è stato portato avanti da un organo speciale preciso, quale la
Convenzione sul futuro dell'Unione Europea. il 29 ottobre del 2004 veniva ratificato un trattato
costituzionale da 22 paesi su 27, anche se tra i contrari, vi erano due "originali" come Francia e
Paesi Bassi (che a referendum popolare videro prevalere i "no"). Così il trattato di Lisbona del
2007 limita le pretese costituzionali del 2004, ponendo l'attenzione anche su un processo che
rischia di sfuggire di mano in virtù del "superstato europa", con un apparato che deve essere
rinsaldato alla luce della velocità dell'integrazione vista. Si concentra cioè maggiormente sulla
sostanza, sulla necessità di sicurezza e trasparenza del processo di funzionamento dell'Ue, e
trascura un pò la forma. Con il trattato di Lisbona: cade la struttura a pilastri, il trattato della Ce
viene rinominato Tfue, ovvero Trattato sul funzionamento dell'Unione europea; viene istituito il
principio di attribuzione, secondo il quale l'Ue agisce nell'ambito delle competenze ad essa
attribuite dagli stati membri; viene istituita la figura del Presidente del Consiglio, ma allo stesso
tempo rafforzata la funzione legislativa del Parlamento e quella del segretario generale,ecc.

Capitolo 7: L'organizzazione e l'esercizio del potere politico

Iniziamo a comprendere cosa si intenda per Forma di governo: Quei modi in cui tra gli organi di
una comunità politica organizzata si distribuisce il potere di indirizzarla verso determinati fini
generali (detti "indirizzi politici"), indicando anche gli aspetti funzionali e il contesto sotteso
dell'assetto creato, ovvero il sistema politico. E' cosi che viene a crearsi quella teoria di
separazione dei poteri cara a Locke e a Montesquieu, tale da evitare l'eccessiva concentrazione
del potere nelle mani di un solo organo, caratteristica tipica degli Stati assoluti.
Delineermo quindi tre tipi di organo: legislativo, esecutivo (anche se questi primi due sono
strettamente connessi negli Stati Costituzionali moderni, volti a darne un'immagine unica e
compatta al fine di meglio gestire le politiche pubbliche, cioè il volere della comunità politica), e
giudiziario (di quest'ultimo invece si può parlare tranquillamente di "terzietà", tale è la sua
autonomia e indipendenza).
Per tracciare uno sviluppo storico della separazione dei poteri, si pensi all'Inghilterra che tra
Seicento e Settecento, con la "glorious revolution", diventava una monarchia costituzionale
(seppur una carta non l'ha mai avuta, e tuttora non l'ha) contraddistinta dalla separazione
Parlamento (il legislativo, diviso a sua volta in camera dei Lords, e la camera elettiva e
rappresentativa dei Comuni) e Re (che incarnava a sua volta il potere amministrativo esecutivo),
mentre il governo passava in secondo piano. Tuttavia, gli sviluppi storici come l'emergere della
figura del primo ministro (i ministri erano i consiglieri del re), e la formazione di un rapporto
fiduciario tra il parlamento e il re, video l'inghilterra sposare un governo di tipo parlamentare, detto
in versione monista, cioè in cui è fondamentale il rapporto tra Assemblea parlamentare e governo
che ad essa risponde, mentre il re cessa di essere una figura cardine come lo è stata in passato,
nella versione dualista cui accennavamo. Anzi, è propro il primo ministro ad avere un potere
chiave, tale da poter sciogliere la camera dei comuni, andata questa dividendosi così in due
blocchi contrapposti, secondo l'essere favorevoli al governo di sua maestà o meno.
Parlando invece di chi una Carta Costituzionale ce l'ha, non possiamo non nominare quella più
antica, risalente al 1787, ovvero quella degli Stati Uniti (a carattere rigido): sentendo l'eco di
Locke e Montesquieu, ma al contempo essendo lontani dall'organizzazione parlamentare tipica
degli ex colonizzatori, e desiderando più non avere un re, la separazione qui fu più rigida, con un
governo presidenziale contraddistinto da un Congresso bicamerale (il legislativo) e appunto un
Presidente (l'esecutivo-amministrativo), tale che la loro coesistenza sia doverosa per entrambi, e
che abbiano funzioni specifiche separate.
L'europa continentale si mosse ispirandosi all'Inghilterra ma male interpretando il suo sviluppo,
tant'è che il governo doveva rispondere sia al parlamento che al re, oltre a considerare il
parlamento di tipo dualista, fondato doversamente (si credeva) sui due pilastri: rappresentanza e
corona. Una prima razionalizzazione di tale rapporto venne fatta dopo la seconda guerra
mondiale, con una riscrizione delle costituzioni, un parlamento e un capo dello stato direttamente
eletto. Venivano cioè profilandosi i caratteri di quello che sarà definito governo semi-
presidenziale, sviluppata poi nel secondo dopoguerra in Francia, sotto il volere di De Gaulle,
anche se contraddistinta da una concezione dualista che vedeva l'esecutivo spartito tra Primo
Ministro e Presidente. Gli altri paesi si svilupparono più propriamente in senso monista.
Ricordiamo: dualista=importanza della figura del capo dello stato (o re) con quella del primo
ministro del governo; monista=rapporto fiduciario tra parlamento e primo ministro del governo,
con capo dello stato in secondo piano.
Analizziamo le forme di governo nella loro struttura formale, appunto:

- Governo Presidenziale: detto tale ed anche "a direzione monocratica" (perchè un organo è
costituito da una sola persona), vede appunto l'esecutivo nelle mani di un solo Presidente, eletto
direttamente dal corpo elettorale, così com'è eletto il Congresso (il parlamento diviso in deputati e
senato), tra i quali tuttavia non sussiste un rapporto fiduciario, benchè il parlamento possa, con la
messa in stato di accusa detta "impeachment", far conseguire la perdita dell'ufficio presidenziale
dello stesso (sebbene le conseguenze dovrebbero essere più di tipo penale che politico nel caso
fosse attuato tale provvedimento). Il Presidente, dal canto suo, può rinviare le leggi approvate dal
Congresso, così che siano ridiscusse e approvate solo a maggioranza di 2/3 (un potere limitato
nel campo legislativo, in verità, da parte del Presidente). Inoltre il Presidente deve esercitare il
suo alto potere di nomina (ministri, giudici, funzionari, ecc) sotto parere favorevole del senato. E'
la cosiddetta politica dei "pesi e contrappesi" (checks and balances, un potere controlla l'altro).
Va quindi sempre cercato un compromesso tra Congresso e Presidente, non solo quando questo
è l'esponente di un partito che non ha la maggioranza in una o in entrambe le camere del
Parlamento, ma anche quando il partito di maggiornanza coincida con quello d'appartenenza del
Presidente.

- Governo Parlamentare: ovvero, là dove l'esecutivo è espressione del Parlamento legislativo. Le


possibilità e le varianti sono molte, ma basti sapere che sussite sia un rapporto fiduciario tale che
sia possibile far cadere il governo, sia comunque una forma di scioglimento anticipato del
parlamento, qualora questo diviso troppo profondamente all'interno, non sia in grado di sostenere
lo stesso governo. Il capo di stato di solito partecipa a funzioni cerimoniali o simboliche, ma può
anche avere compiti più propriamente politici come l'elezione del primo ministro. Si parla di Primo
Ministro, o di Cancelliere, o Presidente del Consiglio, perchè appunto l'esecutivo si suole
contraddistinguere con una direzione a tendenza "monocratica", ma non mancano casi di
direzione "collegiale" in cui i ministri contano tutti egualmente nell'influenzare l'azione di governo,
là dove comunque è designato un primo ministro, ma che è frutto di alleanze tra i partiti nella
formazione di governo post-elezioni. Il sistema parlamentare risente appunto del sistema politico
dei partiti, a differenza degli Stati Uniti.

- Governo Semi-presidenziale: è il caso della Francia, dove si tende a sintetizzare caratteristiche


proprie del governo presidenziale con altre tipiche di quello parlamentare. Il presidente è infatti
eletto direttamente dal corpo elettorale, ingloba tutti i poteri dei capi di stato dei governi
parlamentari più altri importanti facoltà in politica estera o nella possibilità di scioglimento
anticipato del Parlamento, o ancora può chiamare l'elettorato alle elezioni prima del termine delle
cariche, oltre a presiedere direttamente il governo come Presidente del Consiglio dei ministri (ma
la figura del Primo Ministro c'è, ed è di rilevanza tale tanto che si parla di "esecutivo a due teste",
che è poi la grande differenza rispetto al sistema presidenziale americano). Sussiste però il
rapporto fiduciario tale da garantire al parlamento il potere di sfiducia nei confronti del governo.
Nei casi in cui il Presidente sia di schieramento opposto al parlamento, si parla di coabitazione tra
il presidente e Primo ministro da lui scelto (obbligatoriamente facente parte dello schieramente
opposto che ha ottenuto la maggioranza in parlamento). Si suole oggi tentare di evitare simili
situazioni, con elezioni di Parlamento e Presidente vicine nel tempo, tale che l'elettorato
probabilmente si esprimerà alla stessa maniera.

- Governo direttoriale: è il caso della svizzera, dove un'Assemblea federale elegge un consiglio
federale che è a capo del governo e dell'esecutivo. Si parla appunto di direzione "collegiale", di
Direttorio (riprendendo gli sviluppi della rivoluzione in Francia), cioè di un organo composto da più
persone che sono equamente pari nella loro funzione politica. Non sussiste rapporto fiduciario e
nemmeno possibilità di scioglimento.

Altri forme di governo sono state formulate ed ipotizzate in base alla figura più o meno forte del
Primo Ministro.
L'esperienza italiana si contraddistingue di un voler avvicinarsi alle forme di governo
parlamentare sin dagli inizi, quando era costituito come monarchia costituzionale. Ma, come
andava in voga, ritenendo che non si poteva fare a meno della figura regia, fu più che altro un
governo parlamentare dualista, contraddistintosi tale per la crescita a dismisura del potere regio,
del capo dello stato, in particolari situazioni politiche storiche. Restano alcuni elementi tipici del
capo dello stato, presidente della repubblica, come la nomina del Presidente del Consiglio (non
espressa dalla costituzione nei modi in cui debba avvenire, ma nella prassi attraverso la
consultazione dei maggiori rappresentanti delle forze politiche parlamentari). Il governo necessita
della fiducia di entrambe le camere, e la sfiducia può essere presentata solo se volere di almeno
un decimo dei componenti, e votata attendendo almeno 3 giorni. La mozione di sfiducia comporta
la responsabilità pubblica da parte del singolo parlamentare, ed avviene a maggioranza semplice.
Particolari casi in cui mancava una direzione monocratica ed in cui il governo viveva su coalizioni
instabili era il governo a direzione plurima dissociata, là dove ogni ministro faceva gli interessi del
proprio partito, prima che del volere generale. Il caso della DC è eloquente, ma anche dei governi
successivi fino agli anni settanta-ottanta.
Per superare tali problemi, si è pensato di riformare le leggi elettorali in funzione di una
competizione politica bipolare, tale da semplificare il funzionamento del governo, con l'emergere
della figura del Presidente del Consiglio in nome di una stabilità necessaria.
L'ordinamento si rivolge quindi verso un governo di legislatura a direzione monocratica, fondato
su coalizioni legittimate dal voto.

Capitolo 5: Le fonti del diritto

Le fonti del diritto sono il cuore dell'ordinamento: i fatti (eventi naturali e comportamenti umani
anche non voluti) e gli atti (comportamenti umani volontari e consapevoli, ma ricorda "volontà"
per avere più chiaro lo schema) ai quali l'ordinamento giuridico attribuisce l'attitudine a produrre
norme giuridiche che appartengono all'ordinamento stesso. I caratteri delle norme devono essere
per forza di cose la generalità (devono cioè rivolgersi a tutti i soggetti indistintamente) e
l'astrattezza (prevedono regole ripetibili nel tempo a prescindere dal caso concreto).
Facciamo però una distinzione tra fonti di produzione, che sono i fatti e gli atti ai quali
l'ordinamento attribuisce la capacità di produrre gli imperativi che riconosce propri (come
dicevamo prima, appunto), e fonti sulla produzione, che sono i modi e le regole, le norme che
disciplinano la produzione del diritto oggettivo (individuando soggetti titolari del potere normativo,
i procedimenti di formazione, gli atti prodotti). Le fonti di produzione sono perciò gli atti normativi
posti nel rispetto delle norme sulla produzione dell'ordinamento italiano.
Parlando della teoria delle fonti sulla produzione, quando questi individuano tra i soggetti titolari
del potere normativo il corpo sociale od una parte di esso non meglio specificata, con mancanza
di istituzioni e di procedure per produrre la norma, si parla di fonti fatto.
Quando invece il soggetto che ha il potere normativo è ben individuato in un'istituzione, e la
stessa deve attenersi ad un preciso procedimento per produrre la propria volontà, si parla di fonti
atto.
Vi sono poi atti che non hanno valore normativo, ma che mirano alla conoscenza del diritto
oggettivo, e tali sono le fonti cognitive. Queste nascono in virtù della necessità d'avere un ordine
nei modi di diffusione e pubblicazione: avremo quindi la pubblicazione in via ufficiale;
l'applicazione del principio "iura novit curia" (il giudice è tenuto a conoscere la legge); o quello
secondo il quale l'ignoranza della legge non è una scusa accettabile, del "legis non excusat", ecc.

Ma quali sono quei soggetti che la teoria delle fonti sulla produzione individua e ai quali riconosce
il potere normativo? Facendo un pò di storia, nell'800, fino a parte del '900, con lo stato liberale il
sistema delle fonti poteva dirsi semplice: i principali soggetti individuati ed ai quali era attribuito il
potere di produrre norme erano il re, ma ancor prima il parlamento. Tant'è che le leggi
parlamentari venivano dette "fonti primarie". Il governo aveva un ruolo nell'emanare atti in forma
di regolamenti, ma sempre in concordanza con le leggi parlamentari, perciò veniva definito come
"fonte secondaria". Con l'avvento dello stato liberaldemocratico e costituzionale, le fonti hanno
subito una vera e propria rivoluzione in più sensi. Non solo un ordine gerarchio verticale dettato
dalla Costituzione e dai suoi principi, secondo cui segue lo schema "Costituzione, leggi
costituzionali, leggi ordinarie ed atti equiparati (parlamento), regolamenti dell'esecutivo (del
governo cioè)", ma anche una distribuzione orizzontale in virtù del principio della competenza,
che si manifesta con poteri specifici attribuiti ai soggetti in questione, ovvero alle regioni o enti
locali (e non allo Stato, s'intende), o all'ordinamento internazionale (art.10 e 11).

Parlando dell'importanza della Costituzione, essa costituisce una fonte del diritto importantissima
(che vedevamo, sta in alto alla gerarchia verticale "interna dello Stato"), ma è allo stesso tempo
"fonte sulle fonti", nel senso che regola i processi di produzione delle norme (come fosse parte
integrante di quella teoria delle fonti sulla produzione) individuando la disciplina essenziale da
seguire nel produrre norme di rango costituzionale (le leggi costituzionali e di revisione
costituzionale, art.138), e le norme di rango primario (si veda l'art.117, ma in breve sono leggi
ordinarie dello Stato ad opera parlamentare, decreti legislativi e decreti legge che vedono anche il
coinvolgimento del Governo, i regolamenti parlamentari stessi, ecc.).
Attraverso questa impostazione si parla di "carattere chiuso delle fonti primarie" (in riferimento
anche agli atti costituzionali,naturalmente, oltre agli atti primari), ovvero:
- non vi sono atti di produzione delle suddette norme al di fuori di quelli previsti dalla Costituzione
(sebbene le "linee guida" del processo produttivo dettate dalla Carta possano essere integrate e
completate da altri atti fonte);
- ciascun atto normativo non può disporre di una forza maggiore di quella attribuita ad esso dalla
Costituzione;
E' importante adesso discutere sul concetto di forza di legge degli atti fonte primari, in virtù non
tanto del contenuto di un atto (l'idoneità a porre norme generali ed astratte) ma bensì della loro
forma. La costituzione appunto, attribuisce forza di legge agli atti attribuendo loro il potere di
produrre diritto oggettivo. I requisiti formali degli atti sono delineati dal soggetto titolare del potere
normativo, dal procedimento di formazione dell'atto, dalla veste estrinseca dell'atto medesimo.
Ad ogni forma la sua forza, ma con ogni forma vi sono due profili degli atti, che sono poi la
definizione di "forza di legge": Profilo attivo: la capacità di innovare, subordinandosi alla
Costituzione, abrogando o modificando gli atti fonte equiparati o subordinati all'atto preso in
considerazione; Profilo passivo: la capacità di resistere all'abrogazione voluta da un nuovo atto
fonte cronologicamente più recente dell'atto preso in questione.
Tutto il resto, ovvero il sistema delle fonti secondari (quelle subordinate alle primarie), si
considera avere carattere aperto, ovvero per l'individuazione degli atti fonte secondari è lasciata
disponibilità ai soggetti titolari di potestà normative primarie, nel rispetto dei limiti costituzionali e
del "principio di legalità" secondo il quale tutti gli atti secondari devono essere deliberati sulla
base di una previa norma di legge.

Ripetiamo il discorso dell'ordinamento come sistema:


- unitario, perchè ogni norma si rifà alla Costituzione;
- coerente, poiché non ammette contraddizioni, anche là dove nascano contrasti tra le norme,
dette antinomie, poiché sono previsti modi, criteri e meccanismi tali che l'interprete si rifaccia
all'unica norma che deve essere applicata in concreto nel caso;
- completo, perché non si ammettono lacune anche là dove sembrino mancare discipline
giuridiche, poiché sono previsti modi per rinviare a determinate norme sul caso in questione;

Appunto, i criteri per la correzione di eventuali antinomie tra le norme che sono il risultato delle
fonti sono dettati dalla Costituzione stessa e da alcune disposizioni contenute nelle preleggi del
codice civile.
Vi sono tre criteri in base al quale si applicano queste "correzioni", non in sede di produzione di
diritto, ma in sede di attuazione, da parte dell'interprete stesso:
- Criterio Cronologico: in caso di contrasto tra fonti appartenenti allo stesso rango gerarchio e
medesima competenza (un esempio è una legge ordinaria con un'altra legge ordinaria, ma anche
un regolamento governativo con altro regolamento; ma non tra legge ordinaria e regolamento),
ovvero, nel caso di fonti equiparate, interviene a sostegno dell'interprete il criterio cronologico,
secondo il quale viene regolata la successione degli atti normativi nel tempo, facendo prevalere
le disposizioni più recenti su quelle precedenti nel tempo, che vengono abrogate secondo tale
criterio. Gli atti, completato il processo di formazione, entrano in vigore ed iniziano a produrre una
propria efficacia. E' anche possibile, tuttavia, che taluni abbiano efficacia retroattiva, qualora la
loro efficacia si eserciti anche in casi specifici avvenuti anteriormente la loro entrata (per i
"rapporti pendenti", ovvero suscettibili di essere ancora regolati, a differenza dei "rapporti
esauriti"). Vi è tuttavia un limite a questa efficacia retroattiva, in virtù dei diritti quesiti, secondo i
quali non è legittimo in materia penale (come da art.25.2 della Costituzione) punire qualcuno con
una legge entrata in vigore dopo il fatto commesso, perché alla sua commissione il fatto non
costituiva reato.
Con l'abrogazione, dunque, l'efficacia dell'atto normativo che viene abrogato viene circoscritta nel
tempo dalla sua entrata in vigore all'abrogazione stessa (la norma in questione non viene
eliminata, importante). La deroga è invece qualcosa di diverso, che mantiene una data disciplina,
ma ne circoscrive l'efficacia nel tempo o nei destinatari. Esistono tre tipi di abrogazione:
"abrogazione espressa", secondo cui il legislatore indica nel testo le disposizioni abrogate ed
all'interprete non resta che prendere atto di ciò; "abrogazione per incompatibilità", quando
l'interprete individua il contrasto tra due norme in cui rileva incompatibilità, e deve scegliere tra
l'una o l'altra; "abrogazione per nuova disciplina dell'intera materia", per cui una nuova disciplina
si sostituisce alla precedente. Vi sono alcune clausole di abrogazione espressa che impediscono
l'abrogazione se non attraverso il procedimento di abrogazione espressa, appunto, ovvero
attraverso l'intervento del legislatore. Questo perchè si preferisce razionalizzare e stabilizzare il
processo di produzione del diritto in una determinata materia. Qualora l'interprete rilevi norme in
contrasto con precedenti, ma anche che le precedenti siano "garantite" da clausole di
abrogazione espressa, non gli resta che attuare una deroga delle disposizioni successive, che
non possono essere applicate (rovesciando il criterio cronologico).
- Criterio della gerarchia: quando si trattano fonti non equiparate, dove prevale la norma che è
espressione della fonte gerarchicamente superiore o sovraordinata. E' importante rilevare che la
norma che nel contrasto individuato risultava "inferiore", non viene abrogata, bensì ritenuta
invalida, e quindi annullata dagli organi di competenza (dipende dal "contrasto" tra le diverse
fonti: se è rilevato tra Costituzione e legge ordinaria, si esprime la Corte Costituzionale; se vi è un
contrasto tra legge e regolamento, può esprimersi il giudice amministrativo nell'annullamento). E'
importante rilevare come l'annullamento comporti l'eliminazione dall'ordinamento dell'atto e la
caducazione (annullamento di efficacia giuridica, appunto) di ogni sua efficacia, sia in futuro ma
anche degli effetti passati.
- Criterio della competenza: qui il contrasto tra le norme non sussiste applicando il criterio
secondo il quale le fonti hanno diverse competenze per materia o soggetti ai quali ci si riferisce, e
si deve fare riferimento alla norma posta dalla fonte atta a disciplinare la fattispecie concreta (si
vedano gli art. 64 in merito ai regolamenti parlamentari, e il 117 in merito alle competenze
regionali e competenze statali).

Abbiamo parlato di interpretazione. Quali sono i criteri che guidano le interpretazioni, dato che
nella costituzione non sono espressi, e ci si riferisce alle preleggi? Ve ne sono di tre tipi:
- interpretazione letterale o testuale: secondo la quale l'interprete si attiene al senso "fatto palese
dal significato proprio delle parole";
- interpretazione teleologica: quando l'interprete fa riferimento al fine o intenzione del legislatore,
sia nel raggiungere il suo scopo soggettivo, sia nello scopo oggettivo ricavato dal tenore dell'atto
normativo;
- interpretazione logico-sistematica: secondo le connessioni interne tra le disposizioni dell'atto
normativo in questione, ma anche nel contesto di tutto l'ordinamento giuridico.
Quando vi sono vuoti normativi, ossia lacune, l'interprete può intervenire con lo strumento
dell'analogia, secondo il quale ad un caso non previsto si può applicare una disciplina prevista
per casi simili (così avvenne quando la navigazione aerea "prendeva piede" e si utilizzò la
disciplina della navigazione marittima. Quanto sono spiritoso, ah. Ah.). Più propriamente si parla
di analogia legis. Poiché là dove manchino anche discipline di casi simili, si fa riferimento ai
principi generali dell'ordinamento ricavabili, ed in questo caso si parla di analogia iuris. Allo
strumento dell'analogia sono comunque imposti dei limiti, ovvero il divieto di analogia, sia per i
casi penali o per le leggi speciali, sia per le disposizioni della Costituzione sui diritti fondamentali,
ai quali ci si deve attenere al criterio di stretta interpretazione, scongiurando limitazione ai diritti
fondamentali derivati da qualche dubbio di qualche interprete.
L'interpretazione autentica è invece una cosa diversa, dove l'interpretazione è effettuata dal
legislatore stesso con una legge, che chiaramente è una legge retroattiva. Intorno alla "legge di
interpretazione autentica" nascono dei dubbi, se oltre ad interpretare non sia una vera e propria
produzione di nuovo diritto. La CC tende a considerare tale legge solo come interpretazione di
testi legislativi precedenti, così da dichiarare incostituzionali quelle leggi di interpretazione
legislativa che hanno la pretesa di innovare l'ordinamento.

Una descrizione "verticale" delle fonti nel sistema costituzionale italiano:

- Costituzione e fonti costituzionali


- fonti comunitarie

"Fonti Statali":
- fonti legislative ordinarie e fonti legislative equiparate
- fonti espressione di autonomia degli organi costituzionali
- fonti regolamentari

"Fonti delle autonomie territoriali":


- fonti del diritto regionale
- fonti degli enti locali

- fonti espressione di autonomia collettiva


- fonti "esterne" riconosciute
- fonti fatto

Lo schema in orizzontale:

Fonti Comunitarie Fonti Statali Fonti Regionali Fonti Locali


- Trattati - Costituzione - Statuto regionale - Statuto comunale
- Regolamenti e - Leggi ed atti - Legge regionale o provinciale
direttive aventi forza di - Regolamenti - Regolamenti
legge regionali comunali o provinciali
- Regolamenti
governativi e
ministeriali

Dopo questa panoramica sulle fonti, passiamo ad analizzarle, con calma, una ad una.
Il libro parte naturalmente dall'atto fonte supremo dell'ordinamento posto dal potere costituente,
ovvero la Costituzione (gli altri atti fonte sono posti da poteri costituiti, previsti e disciplinati dalla
costituzione stessa). La caratteristica della Costituzione, lo sappiamo, è la rigidità, secondo la
quale è previsto un procedimento aggravato di modifica (art.138) per le leggi frutto delle fonti di
rango costituzionale (per i quali il procedimento di modifica è lo stesso), ovvero le leggi di
revisione costituzionale, quelle atte cioè a modificare la costituzione, e le leggi costituzionali,
ovvero quelle che si rifanno espressamente a disposizioni della Costituzione, o che il parlamento
tende ad affiancare alla Carta seppur le stesse non ne fanno parte.
Il procedimento aggravato prevede una duplice lettura della legge da parte di entrambe le
camere: la prima, dove il procedimento è comunque simile a quello che concerne le leggi
ordinarie, eccetto per il divieto di approvazione in commissione in sede legislativa, vede
approvare il progetto con votazione da entrambe le camere; In seconda lettura, effettuata non
prima di tre mesi (pausa di riflessione), viene pubblicato il progetto di legge sulla Gazzetta
Ufficiale in via notiziale, con attesa di tre mesi. In questo lasso di tempo tra diffusione ed effettiva
promulgazione, le minoranze possono ricorrere allo strumento del referendum costituzionale se a
richiederlo è almeno 1/5 dei membri di una camera, o 5 consigli regionali, o ancora 500mila
elettori. Vi sono tuttavia limiti di revisione costituzionali, dettati esplicitamente dalla Costituzione
all'art.139, dove "la forma Repubblicana non è oggetto di revisione costituzionale", anche se si
tendono ad assumere ulteriori limiti impliciti nella costituzione, nella fattispecie nei principi
fondamentali, che danno identità all'ordinamento, e della quale l'eliminazione comporterebbe un
mutamento costituzionale. Ancora, l'art.138 è ritenuto un limite logico di modifica a se stesso,
mentre secondo alcuni la modifica sarebbe possibile purchè non si infrangano principi all'articolo
sottesi, come il coinvolgimento di entrambe le camere nel processo di modifica, o la possibilità
d'intervento del popolo, o ancora il porre un consenso al di là della maggioranza semplice,ecc. Vi
è poi una legge costituzionale rinforzata, quella prevista dall'art.132 in caso di formazione di una
nuova regione o la fusione delle preesistenti. E' previsto un processo rigido.

Ma come si rapporta il nostro sistema giuridico con le fonti comunitarie, ovvero coi regolamenti
("leggi") e le direttive (atti vincolanti in vista di un obiettivo comune) che fonti nazionali non sono?
Viene sancito un primato delle fonti comunitarie, grazie all'art.11 della Costituzione, dove viene
recitato che "l'Italia consente alle limitazioni di sovranità necessarie per la pace e la giustizia tra le
nazioni". In realtà la costituente si riferiva all'Onu, e non poteva pensare agli sviluppi dell'Unione
Europea, ma l'art. in questione è sufficiente affinché si promuovi l'ordinamento comunitario con
immediato adeguamento (o eliminazione delle parti in contrasto) dell'ordinamento interno. I limiti
stabiliti all'ordinamento comunitario coincidono con quei limiti di revisione costituzionale, ovvero i
principi supremi e i diritti inviolabili espressi tra i primi articoli della nostra carta (anche se
l'ordinamento comunitario stesso tende a incentivare tali principi, rendendo il vincolo un fatto
formale, giursprudenziale). Il processo di supremazia dell'ordinamento comunitario è stato lento e
contrastante, poiché talora la Corte Costituzionale non accettava la supremazia dello stesso
dettata dalla Corte di giustizia dell'Unione europea, equiparando l'ordinamento comunitario alle
leggi ordinarie e dettando la prevalenza dell'uno o delle altre secondo il criterio cronologico. Nel
'78 la CC dichiara la supremazia dell'ordinamento comunitario, secondo il principio di necessaria
applicazione del regolamento comunitario da parte del giudice comune. Questo significa che con
i regolamenti comunitari, gli atti fonte interni (che non vengono comunque abrogati o annullati)
vengono sospesi per il tempo in cui vige l'atto normativo dell'Unione Europea.
La prof. riporta la sentenza 170 del 1984 dove la CC si espresse alla stessa maniera, e nel caso
di contrasto con fonte interna, prevale sempre il regolamento comunitario con la non applicazione
delle fonti interne (nucleo intangibile della costituzione escluso, secondo la teoria dei controlimiti).
Da sapere comunque.
Per quanto riguarda le direttive, esse vengono assorbite con una collocazione nel sistema degli
atti fonte interni (leggi o regolamenti, con legge comunque). In passato vi era una legge di
recepimento per ogni direttiva, rendendo il processo di recepimento lento e macchinoso. Con la
legge "La Pergola" nell'89, si è passato ad una nuova formula di "legge comunitaria", secondo la
quale a marzo di ogni anno viene approvata la legge comunitaria in questione, assorbendo anche
tutte le direttive. La legge 11 del 2005 modifica la forma, ma non la sostanza di quella che fu una
brillante intuizione del giudice Antonio La Pergola.
In merito al rapporto con le regioni, lo Stato lascia alla regioni la facoltà di recepire le direttive
comunitarie, secondo il principio di competenza. Ma poiché lo stesso Stato ha delle
responsabilità in rango internazionale comunitario, subentra un "Potere sostitutivo" tale che lo
Stato possa comunque controllare le regioni in caso di ritardo di recepimento, o mancate
comunicazioni,ecc., per evitare sanzioni. Il sistema di divisione delle competenze non viene
comunque intaccato.

Per quanto riguarda la Legge ordinaria dello Stato, essa può definirsi come la fonte a
competenza generale, ovvero che si riferisce al popolo italiano nella sua totalità (non c'è
contraddizione col principio di competenza), pur rispettando i limiti che la Costituzione ad essa
impone (lo stesso principio di competenza, i vincoli comunitari, gli obblighi internazionali, le
competenze regionali). La legge è cioè l'atto fonte abilitato a produrre norme primarie e dotato di
forza di legge. Alla legge la Costituzione, mediante precise disposizioni, attribuisce una riserva di
legge, tale che certe materie e casi siano trattati dalla sola legge, e non siano rinviabili ad atti
fonte subordinati. Si sottoindende l'aspetto negativo della riserva di legge, secondo il quale vi è il
divieto di intervenire per altri atti fonte diversi dalla legge (come ad esempio il regolamento del
legislativo), e l'aspetto positivo della riserva, secondo il quale sussiste l'obbligo d'intervento della
legge, che non può affidare il caso della materia ad essa riservata a terzi. La riserva di legge
garantisce il principio democratico, in quanto la legge è espressione popolare in quanto prodotto
del dibattito pubblico, e dovrebbe contenere norme generali ed astratte. I tipi di riserva di legge:
- riserva assoluta: la materia è oggetto della sola legge, fatti salvi regolamenti di stretta
esecuzione (come ad esempio quelli inerenti elenchi di sostanze stupefacenti);
- riserva relativa: quando la legge si occupa della linea essenziale della disciplina in questione,
circoscrivendo così l'azione del regolamento dell'esecutivo;
- riserva rinforzata: quando la costituzione detta certi criteri d'intervento alla legge;
Come dicevamo prima, le leggi dovrebbero promuovere norme generali ed astratte atte ad
innovare l'ordinamento giuridico, ma non sempre è così. Alcune leggi, come la "legge di
bilancio"(con cui il Parlamento esercita una funzione di controllo sul governo) o le "leggi di
autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali" sono "leggi in senso (solo) formale", nel
senso che vi è una dissociazione tra la "forma" (legge) ed i suoi contenuti, tali da non innovare
l'ordinamento. Altra cosa sono le leggi che contengono veri e propri atti amministrativi, che non
prevedono comportamenti da permettere o vietare, ma "provvedono", come fossero un esecutivo:
sono le leggi provvedimento. Tuttavia queste leggi debbono ritenersi escluse dai casi in cui la
Costituzione (come fonte sulla produzione) richieda leggi generali, dove l'interesse è nella totalità.

La costituzione attribuisce, secondo il principio di separazione dei poteri, poteri normativi di rango
primario anche al governo, ovvero i decreti legislativi e i decreti legge. Tali decreti hanno la
medesima forza di legge della legge ordinaria, ma il Parlamento esercita comunque una funzione
di controllo sul governo. Vediamo come.
I decreti legislativi sono atti aventi forza di legge che risultano essere il prodotto di un
procedimento che vede il coinvolgimento sia del governo, ma anche del
parlamento("procedimento duale" di produzione del diritto). Infatti, se l'iniziativa di presentare la
delega (con la quale il governo intende assumere potere normativo) l'avanza il governo, è
necessaria una legge di delegazione, ad opera del Parlamento (con divieto di approvazione della
legge di delegazione in commissione. Per il discorso sulla formulazione di leggi in Parlamento e
commissioni, si rimanda all'art.72), che conferisca al governo stesso il potere di adottare l'atto, il
potere normativo. Il parlamento quindi, con tale legge:
- individua l'oggetto specifico della delega (che non è una materia generica, è un oggetto
specifico, o al massimo più oggetti distinti);
- stabilisce i principi (le norme generali di carattere sostanziale che regolano la materia) e i criteri
direttivi (le regole procedurali per l'esercizio in concreto del potere normativo delegato);
- indica il termine di validità entro la quale la delega deve essere esercitata;
Fatto ciò, il governo adotta quello che può essere ora propriamente definito decreto legislativo,
anche se le leggi di delegazione prevedono che lo stesso Governo debba avere il consenso di
entrambe le camere. Il governo allora presenta uno schema di quello che sarà il decreto
legislativo seguendo la legge di delegazione; il parlamento eventualmente si esprime, e
successivamente il decreto viene effettivamente adottato dal Governo.

Il decreto legge è un atto fonte di rango primario individuato dalla Costituzione e proprio del
Governo, che può dunque adottarli. La forza di legge di un decreto legge è equiparabile alla
legge ordinaria del parlamento, ed i decreti sono deliberati dal Consiglio dei ministri ed emanati
dal presidente della Repubblica. Vi sono tuttavia dei limiti imposti all'iniziativa governativa sui
decreti legge, come da art.77 della Costituzione, secondo cui il decreto:
- deve essere adottato solo in casi straordinari di necessità ed urgenza, sebbene nella prassi
l'interpretazione a questo punto sia ampia, e non si attenga a singoli eventi, ma anche a
situazioni generali. Al punto che nella prassi la legislazione governativa concorre con quella
parlamentare;
- deve essere presentato alle Camere per la conversione in legge;
- ha efficacia provvisoria di 60 giorni, e se non è convertito in legge decade;
Il procedimento di produzione normativa per decreto legge avviene attraverso iniziativa del
governo quindi, che ha un decreto (un progetto di legge) che presenta alle camere sotto forma di
disegno di legge di conversione, in un unico articolo, affinché il decreto venga appunto convertito
in legge dal Parlamento. Lo stesso parlamento deve approvare il decreto con legge di
conversione, che è l'atto secondo il quale il Parlamento si riappropria del potere legislativo (ma i
60 giorni? Eh, eh.), dove si riserva il diritto di attuare delle modifiche, ovvero emendamenti, validi
però solo "pro futuro", dopo essere stati apportati al decreto (non prima, durante quei giorni in cui
il decreto viene preparato ed è valido e il Parlamento deve esprimersi, ma mai più di 60). Il
problema che si venne a creare era che là dove i decreti legge non erano convertiti, se ne
presentavano altri del tutto simili nelle norme contenute, cosicché vi era una reiterazione dei
decreti legge (dove per "reiterazione" intendiamo "riproduzione"). La Corte Costituzionale si
espresse in virtù dello stesso art.77, sui limiti dettati ai decreti, accettabili solo in casi di
straordinaria urgenza e con efficacia provvisoria. I decreti legge quindi non possono riprodurre
disposizioni di decreti non convertiti, regolare rapporti giuridici sulla base di decreti legge passati
non convertiti, o ancora non possono ripristinare disposizioni dichiarate illegittime, non possono
conferire deleghe legislative o provvedere alle materie di cui all'art.72.4 riserva all'approvazione
dell'assemblea (riserva di legge), ecc.
Il parlamento, durante il periodo in cui venga presentato un decreto che poi non verrà convertito,
può comunque adottare una legge regolatrice dei rapporti e delle situazioni che si sono
determinate durante la vigenza dell'atto normativo del governo (il decreto legge, appunto). Ciò al
fine di garantire un ordine tra il periodo di valenza del decreto, e quello successivo in cui
perde/perderà il suo potere.

Tra le fonti del diritto includiamo anche il referendum abrogativo popolare per l'abrogazione,
totale o parziale, di leggi ed atti aventi forza di legge, dove il referendum non è visto come un
"non disporre", ma come un "disporre diversamente", e quindi come vero esercizio di potestà
normativa attribuita al popolo.

Esitono, comunque, fonti che prevedono procedure di formazione particolari, o nelle quali vi è
una dissociazione tra forma e forza dell'atto, o ancora richiamano a disciplinare materie
specifiche particolari, determinate: sono le fonti legislative "specializzate", dette anche "fonti
atipiche". Esempi sono i patti lateranensi coi quali si disciplinano i rapporti tra Stato e Chiesa
Cattolica, e dei quali le modifiche, senza il consenso di entrambi, non potrebbe avvenire se non
con revisione costituzionale (art.7); leggi che disciplinano il rapporto fra lo Stato e le altre
confessioni religiose, approvate sulla base di intese tra Governo e la rappresentanza di ciascuna
religione (art.8); leggi che staccano una provincia o un comune da un regione per aggregarli ad
un'altra, approvate secondo referendum a maggioranza delle popolazioni coinvolte nello
"scambio"; leggi di amnistia (estinzione reato) o indulto (annullamento pena), dove le camere
votano a maggioranza dei due terzi ogni singolo articolo di legge; altre leggi in merito alle
competenze regionali, ecc.

Anche i regolamenti degli organi costituzionali sono inclusi tra le fonti, non tanto perché da essi
siano ricavabili i modi con cui gli stessi organi disciplinano la loro organizzazione (o sono
disciplinati), ma perché i regolamenti contengono previsioni che incidono sugli altri soggetti
costituzionali, che determinano quindi i rapporti. I regolamenti parlamentari saranno quindi atti
fonte di rango primario a competenza materiale riservata, ovvero vi è riserva di regolamento
parlamentare, dove la costituzione lascia spazio ad una certa libertà di organizzazione.
Sembra valgano gli stessi principi per la Corte Costituzionale, mentre il presidente della
repubblica ha la possibilità di adottare regolamenti interni nei limiti ed in relazione
all'organizzazione e funzionamento dell'apparato amministrativo servente, e non per l'esercizio
delle funzioni presidenziali (privilegio di cui la CC può invece disporre). Diverso è invece il
discorso per il governo, dove i regolamenti sembrano assumere carattere secondario, anche in
virtù della riserva di legge presente. Tuttavia il presidente del Consiglio sembra godere di una
certa autonomia contabile, nel bilancio, in qualche modo simile ai regolamenti delle Camere e
della Corte.
I regolamenti (da non confondere coi regolamenti comunitari o coi regolamenti parlamentari) sono
le fonti secondarie del diritto, ovvero subordinate alle fonti primarie. Atti normativi di competenza
del governo, dei ministri, degli organi centrali e periferici della pubblica amministrazione, nonché
delle regioni e degli enti locali. Questi atti devono trovare legittimazione, secondo il principio di
legalità, con una norma di legge, ed eventuali contrasti tra norme di legge e norme dei
regolamenti vengono risolte a favore della prima dal giudice (preferenza di legge, secondo la
gerarchia delle fonti), mentre il giudice amministrativo dichiarerà invalido il regolamento
contrastante la legge, annullandolo con sentenza.
L'art.17 della l.400/1988 individua tre tipi di regolamento: regolamenti governativi, regolamenti
ministeriali, regolamenti interministeriali.
Per quanto riguarda i "regolamenti governativi", approvati dal Consiglio dei Ministri, ve ne sono di
diversi tipi, fatto salvo che la potestà regolamentare dell'esecutivo non ha bisogno di ulteriori
permessi proprià in virtù dell'art.17 della l.400/1988:
- regolamenti di esecuzione, secondo i quali viene resa più agevole l'applicazione di leggi, decreti
legislativi e regolamenti comunitari (che sono fonti primarie);
- regolamenti di attuazione e di integrazione, per attuare ed integrare leggi, decreti legislativi
recanti norme di principio, esclusi quelli relativi a materie di competenza regionale;
- regolamenti indipendenti (da qui si segna un certo distacco dal "controllo parlamentare", con
una maggiore autonomia), per disciplinare materie sulle quali manchino normative di rango
legislativo, escluse quelle riservate alla legge;
- regolamenti di organizzzione, per disciplinare organizzazione e funzionamento delle
amministrazioni pubbliche sulla base della legge;
- regolamenti di delegificazione: questi regolamenti sono gli unici che possono determinare
l'abrogazione di vigenti norme di legge, al fine di disciplinare, semplificare e razionalizzare il
processo di produzione di diritto (da "de legificare"), limitando l'area delle materie disciplinate
dalla legge. Questo regolamento si compone di tre parti: deliberazione della legge di
autorizzazione del potere regolamentare (indicante anche le norme regolatrici della materia
oggetto di delegificazione); emanazione del regolamento di delegificazione (con un ipotetico
parere parlamentare); abrogazione della norma legislativa vigente, ad opera della legge
d'autorizzazione, ma il cui effetto è rimandato dopo l'entrata in vigore del regolamento (legge
abroga altra legge, per rispettare l'ordine gerarchio delle fonti: è una scappatoia formale, alla
fine).
Per quanto riguarda i regolamenti ministeriali ed interministeriali (adottati nelle materie di
competenza dei ministri o più ministri), essi hanno sempre bisogno di autorizzazione legislativa
con apposita disposizione per esercitare il loro potere regolamentare. Si devono rifare, per altro,
ai regolamenti governativi e devono essere comunicati prima della loro emanazione al presidente
del Consiglio.
Altri regolamenti possono essere attribuite ad altre autorità (come quelle portuali, o prefetti, ad
esempio), come previsto dall'ordinamento.

Per quanto riguarda le fonti del diritto regionale, esse si distinguono in:
- Statuti delle regioni ordinarie (e non gli "statuti delle regioni speciali" che sono fonti di rango
costituzionale);
- Leggi regionali;
- Regolamenti regionali;
Per quanto riguarda gli Statuti delle regioni ordinarie, la loro produzione si distingue in due fasi,
una necessaria ad opera del Consiglio regionale e divisa in due deliberazioni a distanza di tempo
non inferiore a 2 mesi (dove è richiesta la maggioranza assoluta come da art. 123.2, anche se
l'art.138 prevede la maggioranza qualificata, ma solo nella seconda deliberazione), mentre la
seconda fase è eventuale, con referendum (non là dove si sia espressa una maggioranza pari o
superiore ai due terzi). I contenuti e la procedura di formazione dello statuto regionale ne fanno
un atto fonte a competenza specializzata e sovraordinato alle leggi regionali. Problemi di
incostituzionalità o incompatibilità tra legge e Statuto sono rivolti alla Costituzione, con lo Statuto
che si pone norma interposta tra legge e Costituzione stessa.
Per quanto riguarda la legge regionale, essa è approvata nelle forme e nei modi previsti dallo
Statuto regionale, ed ha gli stessi limiti che sono proprio della legge ordinaria (art.117). La legge
regionale è risultato di potestà legislativa residuale, dove cioè le materie trattate non sono di
competenza dello Stato, ma di interesse esclusivo delle regioni. Non sono espressi limiti
particolari a tale legge, tanto che è equiparabile alla legge ordinaria. Là dove però, la materia sia
competenza di Stato e regioni, ovvero vi è una "potestà legislativa concorrente", la potestà
legislativa spetta alle regioni salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservati
allo Stato.
I regolamenti regionali sono invece fonti subordinati sia alla legge statale che alla legge
regionale, di competenza dello stato nelle materie legislative, anche se non è escluso un
intervento dell'esecutivo regionale, mentre il presidente della regione si occupa di promulgare le
leggi ed emanare i regolamenti regionali.
Per quanto riguarda gli statuti speciali, essi sono adottati con legge costituzionale per quelle
regioni come Friuli venezia giulia, Sardegna, Sicilia, Alto adige, Valle d'Aosta alle quali si lascia
particolare autonomia, dove l'assemblea regionale può esprimersi su eventuali revisioni, o
promuoverne altre senza coinvolgere l'intero corpo elettorale, richiamando il discorso al
Parlamento.

Sono fonti degli enti locali, espresse e disciplinate nel testo unico sull'ordinamento degli enti
locali, e come da art.4 della l.131/2003:
- Gli Statuti, visti come "atto fondamentale" dell'organizzazione dell'ente, di comuni o provincie,
deliberati dai rispettivi consigli a maggioranza di due terzi, ove là dove non venisse raggiunta si
passa ad una votazione entro i 30 giorni successivi. Lo Statuto degli enti locali è fonte secondaria
in quanto incontra i limiti dettati dalla legge statale.
- I regolamenti degli enti locali per l'esercizio delle proprie funzioni (polizia municipale,
urbanistica, ecc), di potestà del Consiglio dell'ente interessato, anche se sull'ordinamento degli
uffici e dei servizi si esprime la giunta (comunque in conformità). A differenza degli statuti, i
regolamenti locali devono attenersi sia alla legge statale, sia alla legge regionale competente
nella materia trattata.

L'art.39 della costituzione prevede anche la possibilità di iniziative "private" nel processo
normativo. Si tratterebbe di fonti espressione di autonomia collettiva, anche se la questione è
ancora aperta. L'art.39 parla infatti di contratti collettivi di lavoro secondo i quali viene disciplinato
il rapporto fra datori e lavoratori con sindacati registrati che stipulano contratti con efficacia
obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie cui il contratto si riferisce. Nella prassi il
suddetto articolo non è stato mai utilizzato per divergenze dei piccoli sindacati coi più grandi, o
perché la rigidità delle norme (che devono essere norme generali ed astratte, assistite da
apparati dello Stato quali il giudice, ed altri criteri vari nella produzione delle norme) non è stata
vista conforme alla dinamicità dei contratti. Altre tecniche sono state utilizzate, equiparabili
all'art.39, ma non possono essere considerate vere e proprie fonti. Rimane aperto il discorso
anche su quei contratti collettivi per la disciplina del lavoro nelle pubbliche amministrazioni.

Sono sicuramente fonti accertate invece, quelle fonti esterne riconosciute dall'ordinamento
giuridico italiano (come può essere un altro ordinamento, diverso da quello italiano), ed alle quali
si riconosca l'attitudine a produrre norme valide anche per il nostro ordinamento. A tal proposito
si parla di rinvio alla fonte quando si richiamino le norme che la fonte esterna in questione può
produrre nel tempo, come sono quelle dell'ordinamento giuridico nazionale in virtù
dell'adattamento automatico delle sue norme, riconosciute da art.10.1 Cost., mentre discorso
diverso si apre per il rinvio alla disposizione, quando vi è un rinvio nei confronti di una
determinata disciplina storicamente individuabile, aldilà delle vicende che la riguardano, come è
ad esempio l'ordine di esecuzione, attraverso il quale vengono recepite le norme dettate dai
trattati e accordi internazionali. Come avvenga questa apertura dell'ordinamento costituzionale (le
fonti esterne non sono fonti fatto, sono vere fonti di produzione) ce lo spiegano la costituzione e
le norme interne di riconoscimento, vere e proprie fonti sulla produzione per individuare le fonti di
produzione esterne riconosciute. Esempi di tali norme sono le norme di diritto internazionale
privato, con la quale vengono disciplinati elementi di estraneità con l'ordinamento italiano,
rinviando all'ordinamento distinto ("straniero") stesso nella sua generalità e nel suo
funzionamento. Esistono tuttavia limiti di applicazione dell'ordinamento esterno, dettato da norme
italiane di necessaria applicazione, in virtù di quel concetto di ordine pubblico che le norme di altri
ordinamenti non possono intaccare nel suo funzionamento per la convivenza sociale (come
l'eventuale divieto di matrimonio), oltre che non poter essere in contrasto con la costituzione.

Per quanto riguarda le fonti fatto, quella per eccellenza rimane la consuetudine, fonte di due
elementi necessari:
- Un comportamento ripetuto nel tempo;
- La convinzione che quel comportamento sia giuridicamente dovuto da parte di chi lo attua;
Ovvero emerge, per le consuetudini di diritto privato, una subordinazione alle fonti atto, ovvero
alle norme statali formalmente riconosciute. La consuetudine non deve perciò andare contro la
legge, ma semmai deve essere in concordanza con essa, o esprimere comportamenti al di fuori
di qualsiasi norma (cosa che con lo strumento dell'analogia viene prevista rara se non addirittura
non possibile). La consuetidine ha quindi un valore ridimensionato nei paesi di Civil Law rispetto
a quelli di Common Law (dove è al di sopra invece, delle norme statuite formalmente). Questo si
spiega attraverso il processo di codificazione che hanno subito i paesi continentali europei, voluto
fortemente da Napoleone, col suo codice nel 1804, che ridusse la rilevanza della fonte
consuetudinaria. Per quanto concerne invece le consuetudini che definiscono le posizioni e
regolano i rapporti fra gli organi costituzionali, si parla di consuetudini costituzionali, e fanno parte
delle fonti di rango costituzionale, perciò hanno una certa rilevanza giuridica.
Altre fonti fatto possono essere le "convenzioni costituzionali", del tutto simili alle consuetudini, su
ispirazione di una categoria dell'ordinamento anglosassone;
Mentre le "norme di correttezza costituzionale" sono una specie di "galateo" dei rapporti fra gli
organi costituzionali e non sono classificabili come fonti, ovvero non hanno natura giuridica.

Vi sono poi fonti cognitive, che hanno il solo scopo di diffondere e far conoscere il diritto oggettivo
senza avere forza normativa, in via semplicemente "notiziale", o aventi valore conoscitivo legale
o privilegiato (come la Gazzetta Ufficiale).
I testi unici sono qualcosa di diverso: essi raccolgono le norme lontane nel tempo di una
determinata disciplina, avendo semplice funzione ordinatrice legislativa, dove si parla di testi unici
di mera compilazione (redatti secondo autorizzazione del parlamento o autonoma iniziativa
dell'esecutivo), o rinnovando il diritto nell'opera di armonizzazione legislativa, come testi unici
normativi, dove non ci si rifà più alla fonte corrispondente alla norma in questione, ma al solo
testo unico, come unica fonte. I testi unici innovati vengono preparati secondo la procedura del
decreto legislativo (delega, legge di delegazione del parlamento,ecc.), anche se si tratta di una
delega anomala.
Per quanto riguarda la pubblicazione degli atti, essa è disciplinata a chiare lettere dal nostro
ordinamento, sia nella promulgazione delle leggi costituzionali e delle leggi ordinarie dello stato,
sia nell'emanazione dei decreti legislativi, dei decreti legge, e dei regolamenti adottati mediante
decreto del presidente della Repubblica. Tutti gli atti normativi vengono quindi riportati sulla
Gazzetta Ufficiale della Repubblica, ad opera del Ministro della Giustizia, il "guardasigilli", anche
se per le leggi ed i regolamenti regionali è prevista la pubblicazione nel bollettino ufficiale della
regione, mentre per i regolamenti locali sugli "albi pretori". In questo processo rientra anche la
"denominazione delle fonti normative", dove la costituzione o il presidente della repubblica
denominano appunto le fonti per gli organi di competenza (es. La "legge" per il Parlamento). A
partire dalla pubblicazione sulla Gazzetta (ed è alla pubblicazione che ci si rifà per la
numerazione degli atti, escluse le leggi costituzionali che in questo senso godono di maggior
autonomia) devono trascorre 15 giorni prima dell'effettiva entrata in vigore, a meno che l'atto non
esplici un termine diverso (i decreti legge di solito valgono dal giorno di pubblicazione stesso, o
dal giorno dopo). Per le fonti comunitarie si consulta invece la Gazzetta Ufficiale dell'Unione
Europea, dove i regolamenti e le direttive entrano in vigore nella data stabilita, o se non indicata,
a 20 giorni dalla data di pubblicazione.

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