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Parte I: i modelli
L’approccio sistemico relazionale, la psicologia dei gruppi e la leadership nelle
professioni di aiuto
La teoria generale dei sistemi nasce dalla crisi del modello meccanicistico classico della
fisica e della chimica, cioè dalla crisi di un rigido modello causa-effetto che procede da un
lato attraverso la suddivisione analitica degli oggetti in esame nelle loro componenti
costitutive e dall’altro attraverso la successiva ricerca, tra questi, di rapporti di causalità
lineare (causa→effetto, secondo il quale A causa B).
Il modello di casualità lineare entra in crisi in quanto non soddisfa le nuove esigenze di
comprensione di una realtà che appare più complessa in quanto ci si propone di connettere più
elementi tra loro interagenti. Il concetto di sistema come un insieme di elementi in interazione
reciproca, diventa cosi’ un punto di riferimento estremamente importante su cui le diverse
discipline si trovano a riflettere, a confrontarsi ed a costruire nuovi progetti.
All’interno del sistema, dove ogni elemento è nel contempo causa ed effetto nell’ambito
della rete di relazioni in equilibrio dinamico, tali elementi sono quindi legati tra di loro da
relazioni di causalità circolare. Quindi da un modello di causalità lineare si passa ad un
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modello di causalità circolare secondo il quale il “tutto” è differente dalla somma delle sue
parti e deve essere studiato nell’insieme. Sostanzialmente il modello di casualità circolare
afferma che la relazione causale non procede lungo una catena progressiva lineare per la
quale:
considerare anche i parametri esterni all’individuo (presenza o meno di altre figure che fanno
sentire il soggetto in competizione, ambiente fisico in cui avviene l’apprendimento, etc.) e
come quei parametri individuali ed esterni si organizzano per raggiungere quell’obiettivo.
La terza caratteristica fondamentale di un sistema interattivo è la retroazione. Un
sistema tende cioè a conservare entro certi limiti un equilibrio interno. Questa tendenza del
sistema alla stabilità, al mantenimento di uno stato stabilito entro determinati parametri
prende il nome di “omeostasi”. Ciascun comportamento provoca delle reazioni che hanno
delle ripercussioni sul sistema. Le regole interne del sistema (gruppo o famiglia) garantiscono
la coesione e gli consentono di resistere alle tensioni o ai tentativi di cambiamento imposti
dall’ambiente o dai singoli membri, tentativi che spingono verso la disgregazione del sistema.
I meccanismi che mantengono lo stato di coesione del sistema prendono il nome di
“meccanismi di autoregolazione” o “meccanismi di feedback” (o di retroazione). Vi sono due
tipi di feedback: negativo e positivo; un feedback negativo tende a minimizzare il
cambiamento e quindi a mantenere lo “status quo”, l’omeostasi nel sistema. Un feedback
positivo spinge, al contrario, verso il cambiamento o verso nuovi equilibri del sistema
(concetto di omeostasi dinamica).
Le famiglie sono state studiate sia secondo il principio omeostatico, cioè come sistemi
che tendono a mantenere, attraverso meccanismi di retroazione negativa, il proprio stato quasi
stazionario (in senso lato potremo dire la propria identità) che come sistemi evolutivi, cioè
capaci di cambiare e trasformarsi sotto la pressione della crescita dei suoi membri o delle
vicende di vita, attraverso meccanismi di retroazione positiva che determinano una
morfogenesi del sistema stesso.
Entrambi i principi, omeostatico e morfogenetico sono indispensabili. Un sistema
governato solo da retroazione negativa, cioè un sistema perfettamente omeostatico, sarebbe
anche un sistema rigido entro il quale i suoi membri non avrebbero alcun margine di
autonomia individuale, di crescita.
E’ ovvio che, perché il sistema (gruppo di lavoro o singolo individuo inteso come
insieme di più componenti interagenti tra di loro) possa cambiare e organizzarsi intorno a
livelli di equilibrio sempre più maturi, è indispensabile una flessibilità delle regole del
sistema. Le regole di gestione del gruppo o dell’individuo devono cioè essere valide anche per
nuovi equilibri del gruppo o dell’individuo. Se invece esiste una particolare rigidità delle
regole, sarà ostacolato il cambiamento verso un nuovo equilibrio più evoluto.
L’ottica sistemica dà infine particolare rilievo al contesto in cui si svolge un
comportamento, cioè alle circostanze e situazioni in cui esso ha luogo. Qualunque
informazione può restare inspiegabile fino a quando il contesto all’interno del quale è inclusa
non è abbastanza ampio da comprendere tutti gli elementi necessari a dargli un significato. In
altre parole, lo stesso comportamento può assumere significati differenti se accade in contesti
differenti.
La comunicazione umana
La comunicazione analogica (intonazione, postura, mimica, ritmo della voce, etc.) è più
vicina alla realtà che si rappresenta e pertanto ha una validità generale che è maggiore rispetto
alla comunicazione verbale. Il linguaggio non verbale si pone in relazione con quello verbale
e può: accompagnarlo, commentarlo, sostituirlo o contraddirlo. Nei primi tre casi non sorgono
conflitti; invece nel quarto caso vi è discordanza o incongruenza tra linguaggio verbale e non
verbale e, secondo Bateson, in questo caso la comunicazione più “fedele” alla reale natura dei
sentimenti e delle intenzioni della persona sia quella trasmessa dalla parte non verbale.
Una regola sempre valida è che se si può mentire attraverso il messaggio
numerico/verbale, non lo si può fare con quello analogico/non verbale. Infatti il linguaggio
non verbale, il linguaggio del corpo, è organizzato dal sistema nervoso autonomo simpatico e
parasimpatico e non può essere controllato dalla coscienza. Non si può decidere di rallentare il
battito cardiaco o di non arrossire, né si può controllare la sudorazione o la tensione
muscolare. Pertanto Bateson attribuisce alla comunicazione analogica una posizione più
elevata (definita “metaposizione”) rispetto alla comunicazione digitale; la comunicazione
analogica definisce, cioè, e commenta la comunicazione digitale.
Una prospettiva più utile alla comprensione della realtà della comunicazione è quella
proposta da Bandler e Grinder (1981). Il soggetto presenta una serie di messaggi, uno per ogni
canale di uscita (messaggio-postura del corpo, messaggio-tono della voce, messaggio-verbale,
messaggio-movimento del corpo, messaggio-gesto, messaggio-mimica del volto, etc.). Tali
messaggi vengono chiamati “paramessaggi”. Nessuno di questi messaggi presentati
simultaneamente ha un valore superiore rispetto ad un altro messaggio presentato.
Quando la comunicazione è incongrua, quando cioè esiste discordanza tra i diversi tipi
di messaggio presentati, i paramessaggi in conflitto vengono considerati comunque indicativi
delle risorse di cui il soggetto dispone per comunicare in quel momento con il mondo. Ciò
vuol dire che, in quel momento, quella è l’unica possibilità esistente per comunicare con il
mondo, pur con i paramessaggi in conflitto tra di loro. Scompare in tal caso il problema di
stabilire quale tra i messaggi in conflitto presentatici simultaneamente sia quello reale, quello
vero o valido. Tale modello offre, rispetto a quello succitato di Bateson, maggiori possibilità
esplicative, soprattutto nel cambio del cambiamento dell’organizzazione delle esperienze di
un soggetto.
Analizzando i legami che caratterizzano la comunicazione umana, gli psicologi
sistemici spiegano il comportamento umano patologico attraverso le relazioni del sistema che
avrebbero determinato questo comportamento. Ovvero il sintomo psichiatrico sarebbe la
risultante di una relazione tra membri di un sistema (coppia, famiglia, gruppo, comunità) le
cui relazioni complementari rafforzano la natura delle varie interazioni. In un tale sistema i
sintomi sono funzionali alla stabilità del sistema stesso.
I maggiori contributi allo studio della patologia dell’integrazione familiare si devono
agli studi della Scuola di Palo Alto (Bateson, Jackson, Haley, Watzlawick), che confermano
che il disagio, la patologia si manifestano là dove esiste confusione a livello comunicativo e di
conseguenza nell’organizzazione delle regole del sistema. E’ quindi l’impossibilità di ricevere
messaggi chiari che rende confusa e quindi patologica l’interazione tra i diversi componenti
del gruppo familiare. Nelle famiglie in cui vi è una comunicazione disconfermante, il
messaggio verbale ha un significato, mentre il messaggio gestuale ha un significato opposto;
questo è un messaggio doppio, ambivalente, che nel bambino determina dei comportamenti
patologici di cui peraltro non è in grado di accorgersi.
Questo modello relazionale definito “doppio legame” andava molto in voga negli anni
’70, quando si pensava che questo tipo di modalità comunicativa familiare potesse predisporre
a malattie gravi e soprattutto alla schizofrenia. Sono state effettuate numerose ricerche con lo
scopo di dimostrare l’importanza che l’interazione familiare ha nella genesi della
schizofrenia, ma nessuna di esse si è dimostrata valida scientificamente; infatti, se è vero che
alcune famiglie di schizofrenici comunicano “male”, ve ne sono altre che comunicano “bene”.
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Tuttavia questi studi sono serviti ad evidenziare il ruolo che l’interazione familiare ha
nel decorso della psicosi schizofrenica; infatti si è osservato che nelle famiglie ad Alta
Emotività Espressa sotto forma di manifestazioni di ostilità, distruttività, iperprotezione,
commenti critici, ipercoinvolgimento emotivo nei confronti del membro psicotico, si assiste
statisticamente ad un maggior rischio di recidive di episodi psicotici.
Definizione di gruppo
Il termine “gruppo”, derivato dalla parola germanica kruppa, traducibile come nodo,
groviglio o rete, indica una condizione fatta di interazioni fra più individui fra loro collegati
(P.Cabras et al.,1995).
Da sempre l’uomo si è interrogato e ha formulato ipotesi riguardo ai fenomeni sociali; i
rapporti, i flussi tra l’individuo e il gruppo e tra i gruppi sono stati oggetto di particolare
curiosità ed attenzione nella storia del pensiero. Alcuni autori antichi hanno di fatto anticipato
i contributi della moderna psicologia scientifica.
Aristotele pose l’accento sullo stretto legame esistente tra la famiglia e la polis. Egli
colse nella complessa dinamica che caratterizzava la gestione del potere politico delle
analogie con le dinamiche proprie del gruppo familiare, come se questo gruppo “interno”
estendesse la sua ombra pulsionale sul gruppo “esterno” (Codispoti et al., 2000).
Nel corso dei secoli si sono sedimentate svariate osservazioni storiche, letterarie,
filosofiche, sull’intreccio tra polarità gruppale e individuale della soggettività umana.
Dobbiamo però attendere gli inizi del xx secolo e lo sviluppo di una psicologia scientifica
moderna capace di esplorare e decodificare la complessità dei processi di comunicazione intra
ed interpsichici.
Dalle numerose ricerche effettuate dalle varie scuole e dagli studi di ciascun autore sono
nate tante proposte di definizione di gruppo. Può essere utile però fare prima qualche ulteriore
distinzione.
Una prima distinzione riguarda il numero dei componenti del gruppo. Se la coppia non è
ancora gruppo perché le relazioni sono ancora di tipo individuale, anche il gruppo di tre
persone, pur avendo fenomeni di maggioranza, minoranza, coalizione, etc., non può essere
considerato gruppo a tutti gli effetti. Perché un gruppo possa essere denominato tale, è
indispensabile la presenza di almeno quattro membri, in quanto il numero delle possibili
relazioni a due supera il numero dei membri (Pettigiani e Sica, 1990).
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Tra gli autori che si sono occupati di psicologia di gruppo, Lewin occupa certamente un
ruolo di primo piano. L’idea di gruppo di Lewin discende dalla sua teoria di campo (Lewin,
1972) del comportamento sociale, secondo la quale gli individui e le loro relazioni sono
concepite in termini topologici come “spazi di vita” che subiscono l’influenza o danno origine
a “vettori di forza”.
Senza approfondire i particolari di questa teoria abbastanza astratta e formale, che
peraltro non è mai stata oggetto di ricerche sistematiche, c’interessano invece due concetti
molto importanti per comprendere i processi elementari di gruppo: l’interdipendenza dal
destino e l’interdipendenza dal compito. Questi sono, secondo Lewin, i due elementi
fondamentali che ci permettono di definire un insieme di persone come gruppo.
a) Il destino.
Il gruppo esiste nel momento in cui i membri che lo compongono hanno la
consapevolezza che il loro destino dipende da quello del gruppo nel suo complesso. I
passeggeri di un aereo di linea hanno tra loro un grado di interdipendenza minimo, tuttavia se
comparissero dei dirottatori o se un guasto obbligasse l’aereo ad un atterraggio di emergenza
in un deserto il loro destino diventerebbe altamente collegato.
b) Il compito.
Ancora più importante del destino è il compito: l’obiettivo di ciascun membro ha delle
implicazioni per i risultati dei suoi compagni e del gruppo. Questo è da intendersi sia in senso
positivo che negativo; il successo di ogni membro facilita quello degli altri e viceversa
l’insuccesso.
Dopo Lewin diversi ricercatori hanno dimostrato che dove l’obiettivo fa sì che il
compito venga realizzato con una struttura collaborativa del gruppo, ne risulta un aumento
della cooperazione e della coesione ed un miglioramento della prestazione.
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Gruppi di lavoro:
Dal gruppo al gruppo di lavoro
Le difese di gruppo
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Le difese di gruppo sono delle dinamiche che vengono utilizzate per non prendere
coscienza di situazioni di tensione emotiva presenti nel gruppo, che possono costituire una
minaccia alla coesione e all’unità del gruppo. Esse sono:
1) Capro espiatorio: è una difesa per cui si tende a canalizzare su un solo membro
le tensioni dell’intero gruppo.
2) Lamento per opporsi all’aiuto: l’intero gruppo o alcuni membri si lamentano di
tutto per impedire al leader di gestire il gruppo o per non cambiare nulla.
3) Accoppiamento: scambio molto stretto di comunicazione tra due membri che
mira ad evitare la presa di coscienza di un disagio emotivo del gruppo. Anziché discuterne
tutti insieme, si privilegia il rapporto di coppia che, in pratica, escludendo il gruppo dalla
discussione, impedisce di fatto la discussione stessa.
4) Fuga: allontanamento per depistare dal tema centrale di discussione; può essere
una fuga nel passato quando si propongono emozioni o ricordi di avvenimenti passati o una
fuga esterna quando si propongono discussioni su problemi esterni al gruppo.
5) Provocazione protettiva: consiste nel provocare un membro o un gruppo di
membri che si esprimono poco per far sì che intervengano. Lo scopo è quello di proteggere la
situazione presente e di impedire la progressione della dinamica che si stava attuando.
6) Spostamento del conflitto: le discussioni e le conflittualità tra i vari membri del
gruppo di lavoro vengono spostate ed incanalate in ambiti diversi, anche di tipo immaginario,
in modo da abbassare la tensione.
7) Personalizzazione dei conflitti: si manifesta nella convinzione che le
conflittualità che avvengono all’interno dei gruppi siano dovute a rapporti personali. Non
essendo quindi patrimonio del gruppo, il gruppo non è il luogo adatto per trattarle. Come si
può osservare l’obiettivo è sempre l’attenuazione della tensione di gruppo.
La psicologia di comunità considera il gruppo di lavoro come setting ambientali da
studiare e su cui attuare le proprie strategie di intervento.
L’assunto di base degli psicologi di comunità che operano in questa direzione è che i
gruppi di lavoro possano essere dei setting potenzialmente positivi ma anche negativi per le
persone che vi partecipano.
Tutti noi abbiamo avuto esperienze di riunioni di gruppi di lavoro da cui siamo usciti
stanchi, tesi, annoiati, con la sensazione di aver perso tempo, di non aver concluso nulla. Altri
hanno subito vere e proprie violenze psicologiche, umiliazioni, disconferme in setting di
lavori di gruppo e hanno sviluppato una vera avversione al lavoro di gruppo. Altri ancora
invece mitizzano il lavoro di gruppo.
In una ricerca effettuata in 105 consultori italiani (Tancredi et al., 1985) è emerso che la
maggior parte delle équipe era poco capace di lavorare in gruppo. In una certa misura ciò era
dovuto a difficoltà gestionali e organizzative. Infatti più della metà degli operatori affermano
di non dover rispondere a nessuno del proprio operato e di non ricevere né controlli né
direttive sul proprio operato. Questo è risultato un grosso limite, infatti dalla stessa ricerca
emerge che un consultorio funziona meglio quando si riceve dall’alto un controllo di gestione
efficiente.
Un altro tipo di difficoltà era di carattere ideologico e teorico, infatti, se da una parte il
termine lavoro d’equipe veniva menzionato in tutti i progetti di lavoro, dall’altra il concetto
era molto vago: da alcuni veniva interpretato come “è obbligatorio decidere e fare tutto
insieme”, altri come “ciascuno decide come e cosa fare per poi comunicarlo agli altri in
occasionali riunioni”.
Il terzo problema era di carattere tecnico in quanto molti operatori non avevano nessuna
esperienza pratica di lavoro di gruppo.
Dai dati emersi in questa ricerca è evidente la necessità favorire dei corsi di formazione
per educare gli operatori delle “professioni d’aiuto” ad acquisire conoscenze e competenze
per poter lavorare quotidianamente in équipe. Infatti i gruppi di lavoro possono essere dei
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setting ambientali che migliorano la qualità della vita di lavoro e dunque la qualità della vita
solo quando esistono alcune condizioni: innanzitutto gli obiettivi prefissati devono richiedere
un lavoro di gruppo, per cui è necessario il contributo di più persone per raggiungere un certo
risultato e quindi il riunirsi in gruppo non sia una necessità giuridica o un’abitudine; in
secondo luogo è necessario che i partecipanti abbiano ruoli e competenze specifiche; in ultima
analisi è importante addestrare le persone a gestire o a partecipare efficacemente a dei gruppi
di lavoro, in quanto lavorare in gruppo non è una capacità spontanea, ma è soprattutto una
capacità acquisita.
E’ risaputo che le professioni che hanno per obiettivo quello di aiutare persone in stato
di bisogno siano particolarmente stressanti. D’altro canto chi va dal medico di solito ha un
problema e il non ricevere una buona assistenza può aumentare il suo disagio, la sua
sofferenza. Pertanto diventa fondamentale far rendere al loro meglio i professionisti della
salute, aumentando le loro competenze, ma anche dando spazio ai loro bisogni. La psicologia
di comunità dedica particolare attenzione all’elaborazione di programmi di addestramento e
aggiornamento del personale sociosanitario.
Le tecniche di gruppo
Si tratta di una serie di tecniche specifiche, utili per intervenire sulle dinamiche di
gruppo secondo una logica esterna al gruppo stesso. Possono essere di tipo direttivo o di tipo
non direttivo. Nel primo tipo il conduttore guiderà il gruppo verso un obiettivo specifico,
previsto e deciso da lui stesso. Nel secondo tipo affiderà direttamente al gruppo la possibilità
di ricercare autonomamente la direzione del proprio percorso. La scelta di un tipo o dell’altro
dipenderà ovviamente dai tempi e dagli obiettivi che ci si propone e pertanto potranno
intrecciarsi e susseguirsi a seconda della situazione.
Le più importanti tecniche di gruppo sono:
• il T-Group (Training Group = gruppo di addestramento). Il T-Group puòessere
definito, secondo Badolato, Di Iullo (1979): <<un’esperienza di apprendimento per
implicazione diretta, attraverso la quale i partecipanti acquisiscono una maggiore
sensibilità ai fenomeni di gruppo e una più accurata percezione di se e degli altri>>. Il
T-Group è una tecnica di sensibilizzazione che consente di rendere i componenti di un
gruppo più consapevoli dei propri comportamenti, delle motivazioni e delle emozioni
soggiacenti a tali comportamenti. E’ una tecnica molto utile per modificare le relazioni
all’interno di un gruppo di lavoro, ridurre atteggiamenti d’intolleranza e di scarsa
comunicazione. Il T-Group è costituito da un conduttore e da un numero ridotto di
partecipanti (da 6 fino a 30). Gli incontri possono avvenire in una molteplicità di
modi, da incontri di fine settimana a incontri periodici della durata di 3-7 giorni. Può
essere associato ottimamente al Training Autogeno.
• Le tecniche di drammatizzazione (sociodramma e role playing). Queste tecniche
create e sperimentate dallo psichiatra Jacob Moreno, sono particolarmente utili per
migliorare la coesione e le dinamiche di gruppo in un gruppo di lavoro. Con queste
tecniche vengono esplorati, attraverso speciali metodi drammatici, la struttura della
personalità, le relazioni interpersonali, i conflitti e i problemi emozionali. Il gruppo,
rappresentando in un’azione scenica qualche particolare situazione, può rivivere in
maniera più consapevole motivazioni e conflittualità inconsce per arrivare ad una
maggiore integrazione dei suoi membri.
• Il Training Autogeno di gruppo. Il Training Autogeno è uno strumento
psicoterapeutico che agisce provocando una deconnessione globale dell’organismo, e
in tal modo, una serie di cambiamenti riequilibrativi del soggetto. Il metodo, inventato
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Il Mobbing
Con il termine mobbing s’intendono tutti quei comportamenti violenti che si verificano
sul luogo di lavoro attraverso azioni, parole, atteggiamenti e gesti intenzionalmente
persecutori che ledono la dignità sia umana che professionale di una persona con conseguente
compromissione del suo equilibrio psicofisico.
Il mobbing è sempre esistito nel mondo del lavoro, tuttavia la teorizzazione e lo studio
di questo fenomeno sono relativamente recenti, infatti, le prime ricerche sono state effettuate
in Svezia da Heinz Leyman negli anni ’80 e successivamente in Italia, negli anni ’90, da
Harald Ege.
Secondo alcuni Autori (Menelao et al.,2001; Hirigoyen,2000) è possibile distinguere tre
forme di mobbing sulla base dei soggetti che attuano i comportamenti vessatori:
1) forma “discendente o dall’alto” che ha come obiettivo quello di costringere i
dipendenti a licenziarsi. Di solito si verifica soprattutto in quei Paesi in cui il tasso di
disoccupazione è molto elevato e il lavoratore, pur vivendo una situazione di estremo
disagio, preferisce sopportarla piuttosto che perdere quel posto di lavoro, essendo poi
difficile trovarne uno nuovo (Ege,1996). Il mobbing discendente è a sua volta distinto in
due sottotipi:
a) tipo strategico o organizzativo dove sono i vertici aziendali che, per risolvere
problematiche organizzative o economiche (tagli del budget, fusioni aziendali, etc.),
pianificano strategie mobizzanti nei confronti dei dipendenti che si vogliono
eliminare;
b) tipo corporativo in cui è il datore di lavoro ad esercitare azioni vessatorie sui
dipendenti come per esempio: negazione delle ferie, trasferimenti in sedi periferiche,
aumento delle ore lavorative, incarichi lavorativi umilianti o per i quali è richiesta una
minore qualifica professionale. Talvolta le strategie mobizzanti assumono
caratteristiche paradossali: le vittime designate vengono obbligate a svolgere compiti
molto al di sopra delle loro competenze professionali mettendoli nelle condizioni di
sbagliare.
2) Forma “ascendente o dal basso” che si verifica quando alcuni dipendenti con
qualifica inferiore prendono di mira un dirigente con l’obiettivo di nuocere al suo prestigio
e di fargli perdere autorità. Anche in questo caso possono essere messe in atto molteplici
strategie subdole: spargere voci infondate sul suo conto, ridicolizzarlo, criticare e sabotare
il suo lavoro, minacciarlo in forma anonima, comportarsi come se non esistesse.
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3) Forma “orizzontale” che si verifica tra dipendenti con la stessa qualifica. La vittima
viene isolata dai colleghi, quando parla la si interrompe o le si rivolgono sguardi di
disprezzo, viene ridicolizzata. Spesso la vittima ha caratteristiche che possono suscitare
sentimenti di invidia nei suoi confronti: è particolarmente creativa e brava nel lavoro, ha
capacità relazionali, bellezza e ricchezza. Altre volte le vessazioni sono determinate dal
fatto che in un gruppo omogeneo e ben consolidato si inserisce un elemento estraneo.
Ege (1996) individua sei fasi nello sviluppo del mobbing, precedute da una pre-fase:
- durante la pre-fase non si è ancora consolidata l’intenzione di distruggere la vittima,
ma sono già presenti discussioni, ripicche, divergenze di opinioni.
- Nella prima fase le accuse diventano mirate e hanno lo scopo di distruggere la vittima.
- Nella seconda fase inizia il mobbing: la vittima inizia a provare una sensazione di
disagio.
- Durante la terza fase la vittima avverte i primi sintomi fisici e psichici.
- Nella quarta e nella quinta fase si aggravano progressivamente le condizioni psico-
fisiche del mobizzato che è costretto ad assentarsi dal lavoro per malattia.
- Infine, nella sesta fase la vittima o viene trasferita d’autorità, o dà le dimissioni.
Alcuni Autori (Menelao et al., 2001) identificano nel meccanismo del mobbing tre
figure fondamentali: i mobbers, i mobbizzati, i co-mobbers.
-I mobbers sono coloro che esercitano il mobbing, gli aggressori. Secondo molti
Autori, il mobber ha evidenti tratti narcisistici di personalità: ha eccessivo senso di
grandiosità personale, intenso bisogno di ammirazione da parte degli altri, sostanziale
mancanza di empatia verso gli altri, egocentrismo, coltiva enormi fantasie di successo, è
assolutamente impermeabile alla critica e reagisce con particolare conflittualità di fronte alle
frustrazioni che derivano da giudizi non positivi nei suoi confronti, infine è eccessivamente
critico nei confronti degli altri e ha la tendenza a manipolare e strumentalizzare le persone per
raggiungere i propri fini.
Secondo M.F. Hirigoyen (1998) il mobber è un narcisista perverso, intendendo per
perversione la tendenza a sfruttare e poi a distruggere gli altri senza provare alcun senso di
colpa. I narcisisti perversi sono considerati psicotici senza sintomi, che trovano il proprio
equilibrio scaricando sugli altri le contraddizioni interiori che rifiutano di percepire.
Secondo altri Autori il mobber può presentare tratti paranoidei di personalità con
eccessiva diffidenza e sospettosità nei confronti degli altri, interpreta significati
minacciosi anche in eventi benevoli, è facilmente irritabile, aggressivo ed estremamente
vendicativo nei confronti dei torti presunti o reali.
- I mobbizzati sono le vittime del mobbing. Sebbene chiunque possa essere vittima del
mobbing, tuttavia la vittima ideale è solitamente una persona propensa a colpevolizzarsi,
ipersensibile al giudizio altrui, molto precisa nel suo lavoro e nei rapporti con gli altri.
- I co-mobbers possono essere coloro che aiutano l’aggressore a distruggere
la sua vittima, oppure coloro che, per paura di diventare a loro volta delle vittime, non
prendano posizione contro il mobber (Menelao et al., 2001).
Le vittime del mobbing dapprima restano paralizzate dagli atteggiamenti del proprio
aggressore, poi, per evitare la rottura, scendono a compromessi, si sottomettono, si
attribuiscono colpe che non hanno e diventano sempre più depresse, insicure, irritabili e anche
aggressive, ma non con il loro persecutore (Hirigoyen, 2000).
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Il protrarsi nel tempo di questa situazione genera stress e le vittime possono accusare
sintomi somatici tipici dell’ansia come: senso di oppressione al torace, dispnea, palpitazioni,
disturbi gastroenterici, riduzione della libido. Possono insorgere patologie croniche come:
ipertensione arteriosa, ulcera peptica, riduzione delle difese immunitarie con minore
resistenza alle infezioni.
Riguardo alle patologie della sfera psichica, quelle di più frequente riscontro nelle
vittime del mobbing sono: il disturbo d’ansia generalizzato, il disturbo da attacchi di
panico, il disturbo depressivo maggiore.
Dopo che la vittima ha interrotto i rapporti di lavoro con il persecutore, con il passare
del tempo, il mobbizzato può conservare solo un brutto ricordo di questa esperienza; altre
volte invece può sviluppare una serie di sintomi compatibili con il disturbo post-traumatico
da stress (Leymann, 2000): rivive il trauma subito sia attraverso ricordi angosciati
dell’evento, sia con incubi ricorrenti.
Hirigoyen (2000) evidenzia che il mobbizzato può manifestare un’aggressività
incontrollabile, come reazione a tutto quel periodo di vessazioni in cui non aveva la possibilità
di difendersi.
Menelao et al. (2001) pongono l’accento sulle gravi ripercussioni che il mobbing può
avere sulla famiglia della vittima: mentre nelle fasi iniziali la famiglia può essere un valido
sostegno, invece, con il passare del tempo, spesso la famiglia non riesce più a dare un
sostegno psicologico alla vittima, che anzi diventa una minaccia per l’integrità ed il benessere
familiare. Questo determina maggiore sofferenza per la vittima e gravi problematiche
familiari che possono portare anche alla separazione o al divorzio.
La Leadership
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