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L'eredità degli antenati. Il lascito ancestrale di Italici, Romani e Longobardi nel Folklore di Salerno tra religiosità popolare e sopravvivenze pagane
L'eredità degli antenati. Il lascito ancestrale di Italici, Romani e Longobardi nel Folklore di Salerno tra religiosità popolare e sopravvivenze pagane
L'eredità degli antenati. Il lascito ancestrale di Italici, Romani e Longobardi nel Folklore di Salerno tra religiosità popolare e sopravvivenze pagane
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L'eredità degli antenati. Il lascito ancestrale di Italici, Romani e Longobardi nel Folklore di Salerno tra religiosità popolare e sopravvivenze pagane

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About this ebook

I nostri Antenati sono ancora tra noi. Vivono in noi. Le loro credenze, i loro riti, le loro usanze, la loro religiosità, il loro linguaggio sopravvivono ancora oggi, dopo millenni, nelle nostre tradizioni popolari.
Il Folklore della città di Salerno e dei suoi territori, con il suo carattere marinaresco che si fonde con quello tipicamente delle campagne e delle montagne, è un chiaro esempio di come il lascito ancestrale dei nostri predecessori sia ancora vivo e vitale in Italia ed in generale in tutta Europa.
Le popolazioni italiche prima, i Romani poi e, successivamente il popolo germanico dei Longobardi, hanno plasmato il nostro modo di essere odierno: il loro tributo, sia a Salerno che in tutta la Penisola, è ancora fortemente tangibile e continua ad essere tramandato nonostante esso sia occultato da una coltre che questo libro si prefigge coraggiosamente di dipanare.
Le feste dell’anno, il ciclo della vita, le superstizioni, la credenza nel malocchio, nelle fatture, negli amuleti, in esseri soprannaturali come janare (streghe), diavoli, spiriti, munacielli e mazzamurelli (gnomi e folletti) costituiscono quel “Mondo Magico” delle tradizioni popolari nel quale confluiscono e si confondono elementi precristiani e religiosità popolare.
L’eredità dei nostri Antenati è ancora viva in noi: scorre nelle nostre vene. L’augurio è che questo testo possa ridestare nel lettore il nobile spirito degli antichi Italici, dei Romani e dei Longobardi che in lui ancora alberga.
LanguageItaliano
Release dateMar 27, 2019
ISBN9788868227838
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    L'eredità degli antenati. Il lascito ancestrale di Italici, Romani e Longobardi nel Folklore di Salerno tra religiosità popolare e sopravvivenze pagane - Francesco Maria Morese

    Biblioteca di «Voci» / 9

    Collana diretta da Luigi M. Lombardi Satriani

    Francesco Maria Morese

    L’Eredità degli Antenati

    Il lascito ancestrale di Italici, Romani e Longobardi

    nel Folklore di Salerno tra religiosità popolare

    e sopravvivenze pagane

    Proprietà letteraria riservata

    © by Pellegrini Editore – Cosenza – Italy

    Stampato in Italia nel mese di marzo 2019 per conto di Pellegrini Editore

    Via Camposano, 41 (ex via De Rada) – 87100 Cosenza

    Tel. (0984) 795065 – Fax (0984) 792672

    Sito internet: www.pellegrinieditore.com – www.pellegrinilibri.it

    E-mail: info@pellegrinieditore.it

    I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

    A mia madre

    Prefazione

    Un affascinante viaggio nella cultura folklorica salernitana

    Negli anni trascorsi ho insegnato a lungo con ampi intervalli nelle università napoletane, la Federico II e l’Università Suor Orsola Benincasa. Ho avuto modo, così, di svolgere ricerche e sopralluoghi conoscitivi coinvolgendo colleghi e studenti sui diversi aspetti della cultura di tradizione orale.

    I risultati di essi si sono concretati in scritti, quali, ad esempio, il contributo a un volume sulla Campania curato da Maria Donzelli per l’editore Teti di Milano, e nell’impegnativo lavoro sul campo relativo a Guardia Sanframondi e i riti settennali in onore dell’Assunta, che confluì in cinque puntate realizzate per conto della RAI e da essa mai trasmesse, oltre che in numerosi altri saggi e articoli, pubblicati in particolare su Il Mattino. In queste mie peregrinazioni scientifico-didattiche, ho incrociato e apprezzato i lavori di Lello Mazzacane, Gianfranca Ranisio, Goffredo Fofi, Gino Provitera, Gabriella Pazzanese, Marino Niola, Elisabetta Moro, Enzo Esposito, Dina Gallo e ancora altri.

    In questo rilevante panorama scientifico, si inserisce ora, con la sua carica di tendenziale completezza, questa monografia di Francesco Maria Morese, volta a indagare tutti gli aspetti della cultura folklorica relativa a Salerno e al suo territorio. In essa vengono utilizzati, in una felice commistione, la letteratura sull’argomento, i ricordi personali dell’autore, le sue indagini sul campo. Tra gli schemi da lui utilizzati per riportare i dati della ricerca ci sono quelli relativi a Il ciclo dell’anno e Il ciclo della vita o, come è stato detto, dalla culla alla bara, che hanno una nobilissima tradizione da Paolo Toschi a Giovanni Battista Bronzini, Giuseppe Profeta e altri illustri demologi del Novecento. Nel tempo altre modalità e altre prospettive di rilevazione-interpretazione hanno animato il dibattito contemporaneo. Il metodo più tradizionale dei cicli, prima indicato, è quello secondo il quale sono stati raccolti numerosi dati che Morese utilizza e quindi egli fa bene ad assumerli secondo la stessa strumentazione metodologica con la quale sono stati raccolti.

    Oltre a queste rilevazioni folkloriche, distribuite secondo gli schemi di cui ho detto, lo studioso si intrattiene a lungo sul mondo magico salernitano; anche per esso egli utilizza un termine che ha sempre suscitato la mia diffidenza: quello di superstizione. Certo, viene individuata esattamente la sua etimologia, il fatto che con essa si intende indicare ciò che sopravvive. Sappiamo che il termine sopravvivenza (survival) è stato ampiamente utilizzato dal fondatore dell’antropologia moderna, Edward B. Tylor, ma sappiamo anche che a esso il nostro Raffaele Corso ha affiancato persuasivamente quello di reminiscenza, per indicare ciò che di un’antica credenza emerge nella memoria, irrorata da una nuova linfa, per una rinnovata vita.

    Di grandissimo interesse, infine, tutta la parte nella quale viene riportata una serie di dati relativi a settori che solo di recente sono entrati nell’ambito della riflessione demoantropologica: l’alimentazione, sino ai liquori caratteristici del territorio indagato.

    Queste considerazioni intendono sottolineare il mio pieno apprezzamento di questo lavoro; auguro a esso, perciò, il più ampio, meritato successo e il più convinto accoglimento da parte di studiosi e di quanti altri si interessino al nostro passato, indispensabile per il mantenimento della nostra stessa identità e per la proiezione di essa nel futuro.

    Luigi M. Lombardi Satriani

    Cenni Storici: Salerno dalle Origini al Medioevo

    Il territorio dove successivamente sarebbe sorto il primo nucleo della città risulta essere abitato sin dal periodo eneolitico (2300 a.C.). Dal 1000 a.c. la zona vide l’insediarsi di varie popolazioni italiche di origine indoeuropea come gli Ausonii, i Campani, gli Osci e i Sanniti. La località corrispondente all’odierna Fratte fu invece, dal IV sec. a.C., probabile sede dell’antica città di Irna, avamposto commerciale etrusco, che dal V sec. a.C. passò sotto il controllo sannita, il quale proseguì fino al III sec.

    Le frequenti ribellioni dei Piceni, popolo originario di una zona approssimativamente corrispondente alle attuali Marche, deportati dal 268 a.C. nella zona della Piana del Sele, e le mire di Roma volte alla conquista del predominio marittimo, commerciale e militare del Tirreno, fecero sì che il Senato, con la Lex Atinia del 197 a.C., fondasse cinque nuove colonie marittime, tra cui Salernum, nel luogo dove già dal 199 a.C. era presente un castrum, un avamposto militare fortificato. Nel 194 a.C. i coloni romani vi si stabilirono capeggiati dalla famiglia patrizia che governerà la nuova città: la Gens Menenia.

    Il longobardo Erchemperto, nella sua Historia Langobardorum Beneventanorum, fornisce la prima etimologia del nome Salerno: "… è chiamata Salerno dal mare, che le è vicino e che è detto anche Sale, e dal fiume Lirino: due nomi in uno." La dizione Salernum potrebbe però anche derivare dalla fusione del nome del fiume Sele con quello del fiume Lirino, odierno Irno.

    Secondo alcune Fonti il primissimo insediamento sembra fosse situato in cima al colle Bonadies ed in seguito si espanse alle sue pendici: l’attuale piazza Abate Conforti era quasi certamente il luogo di ubicazione del Foro, il centro politico e commerciale della città. Oltre al tempio dedicato alla dea Pomona, patrona dei frutti, dell’olivo e della vite, erano presenti a Salerno diversi luoghi di culto in onore di Bacco, Venere, Giunone e Priapo: la città ricevette infatti il titolo di Collegio degli Augustali a dimostrazione della sua importanza anche relativamente al culto pubblico.

    Nel periodo della decadenza di Roma, Salerno subirà il saccheggio ed il dominio di diversi popoli germanici: i primi furono i Visigoti di Alarico nel 410 d.C., poi i Vandali di Genserico nel 456, mentre, a seguito della caduta dell’Impero Romano d’Occidente, nel 476 fu la volta delle orde erule di Odoacre e degli Ostrogoti di Teoderico il Grande nel 493. Con La sconfitta dei Goti di Re Totila nel 552, a seguito della battaglia combattuta contro i Bizantini del generale Narsete sui Monti Lattari, Salerno entrò sotto l’orbita dell’Impero di Bisanzio. In base ai ritrovamenti archeologici la città a quei tempi appare un importante centro costiero dove convivevano famiglie di origine romana, greco-bizantina e germanica.[1] La scoperta di una tomba di una bambina gota o probabilmente longobarda di nome Theodenanda, risalente al 566 d.C., dimostra come nuclei di elementi germanici fossero già presenti in città già da prima dell’arrivo dei Longobardi in Italia, avvenuto nel 568-569 sotto la guida di Re Alboino.

    Nel 570-571 il longobardo Zottone, il quale, con molta probabilità, era il capo del contingente di mercenari presenti a Benevento, spronato dalle imprese del suo popolo che in breve tempo si era impadronito di tutto il Nord Italia, conquistò il Sannio dando vita alla Langobardìa Minor (la Longobardìa del Sud), la quale si estenderà dall’Abruzzo al nord della Calabria, raggiungendo Brindisi e Taranto e che durerà circa tre secoli in più della Langobardia Maior del Nord con capitale Pavia. Salerno probabilmente entrò quasi subito sotto l’orbita dei longobardi beneventani, ma la scarsità di fonti storiche in merito propende per indicare il 639-641 come il periodo in cui i Longobardi con a capo il duca Arechi conquistarono la città (mentre per alcuni in quegli anni Salerno fu soltanto riordinata, essendo già sotto il controllo longobardo) e il 646 d.C. l’anno in cui si diede inizio a costruzioni e opere maggiori sotto Radoaldo prima (642-647) e Grimoaldo poi (647-671). Per un centinaio di anni Salerno fu una residenza minore del ducato di Benevento, molto probabilmente sede di un gastaldato, avente il compito di controllare la fascia costiera. Le prospettive ed il ruolo della città mutarono radicalmente con la caduta del Regno dei Longobardi del Nord ad opera dei Franchi di Carlo Magno: nel 774 il duca Arechi II accolse i profughi del nord e si proclamò Princeps Langobardorum, Principe di tutti i Longobardi. Egli decise di stabilire la sua residenza principale nella ben protetta Salerno (strategicamente situata in una posizione migliore di quella di Benevento, in caso di attacco da parte dei Franchi) facendo erigere un palazzo per sé e la sua corte[2], rinnovando le vie di accesso alla città, fortificandone le mura difensive e ripristinando e rafforzando il castello che da lui prese il nome. Il Principe dei Longobardi Arechi II è considerato il vero fondatore di Salerno, il padre della città: alla sua morte, oltre a trovarsi dotata di una nuova cinta muraria, di strade e di costruzioni, Salerno aveva ormai assunto il rinnovato ruolo di cerniera e punto d’ingresso e controllo del territorio dell’Italia meridionale ed era stata rivitalizzata e trasformata in un centro fiorente in ambito culturale, commerciale e strategico. Molti Longobardi si trasferirono dalla capitale Benevento a Salerno, incrementando in questo modo il commercio e le attività economiche, finanziarie e culturali.

    Nel 847 nacque il Principato Autonomo di Salerno sotto la guida del primo Principe longobardo salernitano Siconolfo. Per oltre 200 anni la città conoscerà il suo più grande periodo di splendore, tanto che il tarì d’oro immesso sul mercato recherà l’iscrizione Opulenta Salernum. Nel 946 sotto il Principe Gisulfo sarà istituito il Collegio Ippocratico Salernitano, anticipatore dell’importante Scuola Medica che nascerà pochi anni dopo.

    Il luminoso periodo longobardo terminerà solo nel 1077, quando il normanno Roberto il Guiscardo, già marito della principessa Sighelgaita (sorella dell’ultimo Principe longobardo di Salerno Gisulfo II) dopo un anno di assedio conquisterà Salerno. I Normanni, gli uomini del Nord, discendenti dei vichinghi norvegesi e danesi, regneranno a Salerno fino al 1194, rendendola capitale del dominio normanno del Meridione.[3] Il biondo gigante nordico, Roberto d’Hauteville, detto il Guiscardo, darà una forte impronta alla città edificando il prestigioso Duomo e la sua residenza, Castel Terracena. La città continuerà dunque a vivere un periodo di fulgore, rappresentando il centro politico, commerciale e culturale più importante dell’Italia Meridionale. La Scuola Medica Salernitana raggiungerà un’indiscutibile importanza divenendo famosa in tutta Europa ed in grado di rilasciare diplomi universitari.[4]

    In seguito allo spostamento della capitale da Salerno a Palermo, la città entrò lentamente nell’ombra fino ad assumere un ruolo relativamente secondario sotto il dominio svevo (1191-1266) che predilesse Napoli. In seguito, sarà controllata da varie famiglie feudatarie, di cui la più importante sarà quella dei Sanseverino, durante i regni Angioini e Aragonesi.

    Le popolazioni italiche, in particolar modo gli Osci e i Sanniti, i Romani, gli invasori barbarici come le tribù gote, i Longobardi che dominarono la città per circa 500 anni ed in fine i Normanni, impressero tutte un segno indelebile a Salerno e ai suoi abitanti. Il loro sangue scorre ancora vivo e ribollente nelle vene dei loro discendenti salernitani e le loro antiche usanze, tradizioni, religiosità, credenze, modi di parlare e addirittura alcune abitudini gastronomiche sono ancora oggi presenti e sopravvivono nelle tradizioni popolari. In special modo l’imprinting dato dal popolo dalle lunghe barbe, rinominato in tal guisa dal dio Wotan in persona, loro (e nostro) patrono, deve essere tenuto nella giusta considerazione affrontando la lettura di questo libro: le peculiarità dei salernitani e le specificità delle loro tradizioni affondano le loro radici nell’incontro della cultura italica e romana con quella germanica dei Longobardi. Se non ci si dimenticherà del radioso passato che i nostri antenati hanno donato alla città, il futuro non potrà che essere ancora più luminoso.

    [1] A Salerno sembra fossero presenti diverse popolazioni germaniche, sia gote che longobarde. I Longobardi erano presenti in forte numero essendo stati assoldati dai Bizantini come mercenari al servizio dell’esercito di Narsete durante le guerre greco-gotiche.

    [2] Della Reggia di Arechi II resta oggi la bellissima cappella palatina, la chiesa di San Pietro a Corte, unico esempio presente in Italia di architettura civile longobarda.

    [3] Salerno resterà capitale fino al 1127, quando, esauritasi la dinastia del Guiscardo, la capitale divenne Palermo.

    [4] La Scuola Medica Salernitana insieme alla facoltà di Giurisprudenza di Bologna sarà considerata una delle prime università europee.

    IL CICLO DELL’ANNO

    Le feste, le usanze popolari e le antiche radici della devozione popolare

    Inverno

    à Periodo natalizio à

    L’Immacolata

    Presso molte famiglie salernitane, nei giorni precedenti la celebrazione, vi era l’usanza di recitare il rosario: ciò avveniva molto spesso avendo in sottofondo la musica degli zampognari proveniente dalle strade vicine. Nel giorno della vigilia dell’Immacolata si evitavano i cibi a base di carne e ci si asteneva dal mangiare al di fuori dei due pasti principali.

    Il giorno dell’8 di Dicembre era una data importante per diverse culture pre-cristiane. Gli Egizi onoravano in questo giorno la dea guerriera Nieth di Sais, raffigurata con arco e frecce. Il corrispondente di questa dea era rappresentato da Atena presso i Greci e da Diana presso i Romani. Nell’antica Grecia si tenevano in questa data i festeggiamenti che celebravano la dea Dike (Astrea), vergine (come la Madonna) protettrice della giustizia e dei tribunali, punitrice dei delitti. I nostri antenati Romani l’8 Dicembre celebravano sia la dea Tellus (Terra), la dea Madre (anch’essa facilmente assimilabile alla Madonna, la madre di Dio), sia l’anniversario della costruzione del tempio dedicato a Tiberius sull’Isola Tiberina. Virgilio descrive Tiberius, figlio del dio Giano e di Giuturna, come un vecchio dio canuto provvisto di corna, il quale cadde rovinosamente nel Tevere e vi annegò, dando appunto il suo nome al fiume. Lo spirito del dio si trasferì così nelle acque stesse: le Tiberinalia fungevano dunque da cerimonie relative alla purificazione e benedizione delle acque e delle sorgenti al fine di mantenere rapporti pacifici con lo spirito che le abitava.

    Un’altra festività antichissima italica pre-romana era quella del Fauni Igni (il Fuoco di Fauno) durante la quale venivano accesi diversi falò per onorare il dio e rischiarare le lunghe giornate buie. Questo rituale rimanda al mondo contadino pagano collegato alla successiva festa dell’Immacolata Concezione. In numerose culture la festa più importante dell’Avvento rievoca il rito dell’accensione dei falò in quanto il fuoco rappresentava la rigenerazione periodica della natura ed esorcizzava la paura dell’inverno oltre che a donare fertilità alla terra. La festa era caratterizzata da una forte dimensione collettiva legata al carattere purificatorio del fuoco che allontanava gli spiriti maligni in un periodo dell’anno cruciale per la semina dei campi. In molte località della Basilicata, della Puglia e della Campania (in generale in tutta Italia) è ancora viva la tradizione di accendere grandi falò in questo giorno, di solito dinanzi alle chiese (molto spesso edificate nello stesso luogo dei templi pagani e costruite con marmi, colonne ed altri elementi di quegli stessi templi).

    Questa bella tradizione è rimasta ancora oggi viva alle porte di Salerno, dove a Marina di Vietri, nella notte della vigilia dell’Immacolata, un grande falò viene acceso ed attira la partecipazione di tanti salernitani.

    Santa Barbara

    Durante i temporali e le tempeste, i salernitani invocavano Santa Barbara e, ad ogni fulmine o lampo, si passavano il pollice dalla fronte al naso e dalla bocca al mento. Nell’iconografia cristiana la santa fu decapitata dal suo stesso padre (di religione pagana) per non aver voluto rinnegare la sua fede cristiana: immediatamente dopo la sua decapitazione un fulmine incenerì lo sciagurato genitore.

    I nostri antenati, prima dell’avvento del cristianesimo, il 4 Dicembre davano inizio alle Faunalia, celebrazioni in onore di Fauno, dio agreste che proteggeva i pastori e difendeva le greggi dalle insidie rappresentate dai lupi e dalle intemperie (per l’appunto i fulmini).

    Nelle campagne salernitane, durante i temporali, vigeva l’usanza di recitare brevi preghiere invocando la protezione di Santa Barbara per scongiurare che la casa o la stalla fossero colpite dai fulmini.

    San Nicola

    Il Santo di Bari è ancora oggi molto venerato nelle nostre campagne. Quando un bambino perdeva un dentino da latte, gli si faceva dire una preghierina a San Nicola affinché il dente nuovo potesse crescere sano e diritto.

    Santa Lucia e Sant’Aniello

    Le origini delle celebrazioni dedicate a Santa Lucia sono connesse naturalmente al Solstizio d’inverno e al ritorno della luce.

    In antichità la festa di Santa Lucia segnava l’inizio del periodo solstiziale invernale e la festa di Sant’Antonio Abate (Sant’Antuono) marcava la fine di questa fase dell’anno. I riti solstiziali avevano una durata piuttosto ampia che cominciava nei primi giorni di Dicembre per terminare intorno alla metà del mese successivo. Lo stesso nome di Lucia viene appunto da luce e la santa assume in sé diverse caratteristiche solari: la luce, il fuoco, gli occhi, la corona luminosa in testa (in Svezia viene rappresentata con la testa ornata da una corona con candele). È molto probabile che l’antenata pagana di Santa Lucia fosse Giunone Lucina, anch’essa celebrata nello stesso periodo.

    A Salerno, in questo periodo di freddo intenso e di giornate più brevi, vi era l’usanza di decorare le strade e le botteghe con delle luminarie. Nei tre giorni che precedevano la festa i salernitani partecipavano alle funzioni che si tenevano nella chiesetta dedicata alla santa. Nelle campagne, tra le donne, la tradizione voleva che non ci si dovesse pettinare. La notte di Santa Lucia era considerata la più lunga dell’anno (prima delle modifiche introdotte dal calendario gregoriano infatti il Solstizio d’Inverno cadeva una decina di giorni prima). Ciò è confermato dal seguente detto popolare che ci fa comprendere come già il giorno dopo la luce fosse leggermente maggiore:

    "A Santa Lucia nu pass ‘e gallina,

    A Sant’Aniello nu pass ‘e pecuriell"

    Il 14 Dicembre si celebrava Sant’Aniello, molto amato dai salernitani: l’adorazione per il cosiddetto santo vendicatore rasentava il fanatismo. Egli era considerato, oltre che il protettore della gobba (Sant’Aniello ‘o padrone d’o’ scartiell), il patrono delle donne incinte. Come riporta Dentoni Litta[1] nel suo fondamentale ed oramai introvabile Tradizioni Popolari Salernitane, il 14 Dicembre la chiesa si riempiva all’inverosimile di donne incinte accompagnate dai mariti e di madri che intendevano mettere le proprie bimbe in fasce sotto la protezione del santo. Spesso accadeva che la calca, la lunga attesa prima di entrare in chiesa e la ristrettezza stessa dell’edificio provocassero nei fedeli frequenti svenimenti durante le funzioni, interpretati dai più come estasi mistica dovuta alla presenza del santo. La venerazione per Sant’Aniello senza dubbio pervadeva i credenti di un forte misticismo. Nella piazzetta antistante la chiesa trovavano posto numerose bancarelle che vendevano oggetti religiosi e souvenirs con l’immagine dei due santi, dolciumi e giocattoli.

    Altra tradizione che testimonia la forte religiosità popolare connessa a Sant’Aniello era quella in base alla quale le donne non dovessero assolutamente toccare in quel giorno oggetti da taglio o da punta (a Sant’Aniello nun tuccà né forbice né curtiello): se il santo avesse sorpreso una donna a maneggiare tali arnesi avrebbe, per punizione, fatto nascere il bimbo mutilato di un arto.

    Gli Zampognari

    In passato, già dalla fine di Novembre, gli zampognari, provenienti soprattutto dall’avellinese e dal Vallo di Diano, giungevano in città per allietare con le loro sonate il periodo natalizio. Pastori e montanari vestivano con gilet di pelle di capra, portavano il mantello a campana, calzavano gli zampritti di cuoio (simili alle ciocie della Ciociaria) e indossavano un cappello rustico a punta. Suonavano le novene natalizie sia nelle case dei salernitani, dinanzi al presepe, sia in strada, di fronte alle edicole votive dedicate alla Madonna o ai santi. Ricordo personalmente questa tradizione che è andata spegnendosi nel tempo fino quasi a scomparire negli anni ’90 del secolo scorso: per fortuna c’è da segnalare negli ultimi anni, un timido recupero di questa usanza, la quale rimanda agli antichi pifferai che abitavano le montagne del Lazio, dell’Abruzzo e della Campania, da parte di qualche giovane animato dall’amore per le tradizioni dei propri antenati. La figura dello zampognaro ricorda indubbiamente i pastori-pifferai che nei tempi antichi glorificavano il loro dio patrono Pan/Fauno/Silvano.

    I Botti

    Altra manifestazione di allegria natalizia era, ed è ancora oggi, quella rappresentata dai cosiddetti botti o spari di petardi e mortaretti. Man mano che si cresceva aumentava proporzionalmente anche la potenza del botto con il quale era consentito giocare. Quando si era molto piccoli, i genitori consentivano ai propri figli di tenere in mano soltanto le stelle di natale, le quali sprigionavano innocue scintille. Nel momento in cui si diventava più grandicelli era concesso dar fuoco alla miccia dei tric-trac, piccole batterie di candelotti rossi e verdi. Intorno all’età di dodici anni si cominciava ad armeggiare con raudi, minerve, girandole e siscarielli (fischietti), fino ad arrivare alle temibili cipolle: queste ultime venivano sempre attivate dalla mano di un adulto, di solito il papà o lo zio.

    Il Presepe e l’Albero di Natale

    La tradizione vuole che nel giorno dell’Immacolata si allestisca il presepe e si decori l’albero di Natale. Anticamente le statuine erano esclusivamente di terracotta, vestite in abiti settecenteschi. Dentoni Litta ci narra di un vecchietto fabbricante di pasturielli che operava in un laboratorio situato in Vicolo di San Bonosio e di un’anziana signora che modellava a mano le statuine di creta nel Vicolo della Giudaica[2]. Ricordo che durante la mia infanzia non mancava mai una visita al bellissimo presepe del maestro Carotenuto, allestito nei locali adiacenti al Duomo, e tappa fissa era la bottega di Peppe Natella per l’acquisto di pastori finemente lavorati. La tradizione dell’albero, giunta successivamente dai paesi del Nord Europa, ben presto fu adottata anche a Salerno. L’albero di Natale è una rappresentazione dell’albero della vita, l’asse cosmico che gli antichi Scandinavi chiamavano Yggdrasill ed i Germani Irminsul. I nostri antenati Longobardi, originari della Scandinavia, i quali così fortemente hanno influenzato la nostra storia, la nostra cultura e le nostre tradizioni, si saranno senza dubbio rallegrati, sorvegliandoci dal Valhalla (dimora ultraterrena dei guerrieri nordici morti in battaglia), nel costatare che la loro antica tradizione di decorare l’albero fosse stata adottata anche dai loro discendenti salernitani. Sembra che uno dei primi alberi di Natale fosse stato allestito nel 1914 al Circolo Sociale.

    Un’altra usanza natalizia di origine nordica, già in uso presso i nostri predecessori Longobardi era quella relativa all’uso del vischio e dell’agrifoglio per decorare la casa. La tradizione, viva ancora attualmente, voleva che alcuni rametti di vischio, tenuti insieme da un nastro rosso, fossero appesi in prossimità della porta di casa. Ed ancora è vivo l’antichissimo uso, da parte degli innamorati, di baciarsi sotto il vischio al fine di propiziarsi l’amore e la fortuna per tutto l’anno a venire. La pianta dell’agrifoglio è anch’essa utilizzata come decorazione natalizia della casa. Nell’Edda, la maggiore fonte di mitologia norrena, la morte del dio Balder, figlio di Odino, il "Padre del Tutto" (Allfather), è strettamente connessa al vischio e all’agrifoglio. La dea Frigga (detta anche Frea), moglie di Odino, sognò la morte del suo bellissimo figlio Balder: essa fu talmente scossa da questo sogno che chiese a tutto il creato di giurare che nessuno avrebbe mai arrecato del male a suo figlio. Giurarono tutti al di fuori del piccolo vischio che venne considerato troppo giovane ed innocuo per costituire una minaccia. Ma il dio ingannatore Loki, il quale provava immenso piacere nel provocare sofferenza agli dei, costruì una freccia con il vischio. Un giorno gli dei erano tutti riuniti e si rallegravano del fatto che Balder non sarebbe più potuto essere ucciso. Per puro divertimento alcuni di loro gli tiravano pietre, altri giavellotti, altri ancora lo colpivano con la spada, ma egli non subiva alcun danno né pativa alcun dolore. Anche il dio cieco Hoedr volle scagliare una freccia contro Balder ma purtroppo quel dardo lo colpì e lo uccise in quanto il malvagio Loki aveva appositamente messo la freccia assemblata con il vischio nella faretra di Hoedr. Nel cadere ferito a morte, tra lo sgomento e la disperazione di tutti, una pianta di agrifoglio tentò di attenuare la caduta di Balder. Le gocce di sangue del dio morente divennero così le bacche rosse della pianta. Tutti gli dei piansero attorno al cadavere del dio e le lacrime di sua moglie Nanna, cadendo sull’incolpevole piantina di vischio, si trasformarono in perle[3]. Da quel momento in poi il vischio divenne il simbolo degli innamorati. Questa è una delle tante storie che i nostri antenati Longobardi raccontavano, a famiglia riunita, dinanzi al focolare. In questo modo essi tramandavano le tradizioni, le leggende e la spiritualità dei loro antenati scandinavi: infatti, in special modo tra gli strati della popolazione non appartenenti alla nobiltà, la conversione al cristianesimo fu piuttosto superficiale e comunque non intaccò mai la memoria degli antenati e della loro religiosità, delle loro credenze e delle loro tradizioni[4].

    I Dolci della Tradizione Natalizia

    Amedeo Moscati[5] nel suo fondamentale testo Salerno e salernitani dell’ultimo ottocento evidenzia come le pasticcerie fossero denominate spezierie manuali al fine di distinguerle dalle spezierie, termine riferito alle farmacie. I dolci che nel periodo di Natale facevano bella mostra nelle vetrine delle spezierie manuali e che ancora oggi ritroviamo nelle pasticcerie (specialmente in quelle storiche) di Salerno erano sostanzialmente questi:

    Il Mustacciolo: a forma di rombo ricoperto di cioccolato, insaporito da cannella;

    Il Susamiello: biscotto a forma di S, composto da farina, melassa, mandorle, nocciole e scorze d’arancia;

    Il Raffaiolo: ovale ricoperto di glassa bianca reso gustoso dal limone grattugiato;

    La pasta di mandorla: lavorata a forma di frutta e verdura ma a volte assumeva anche la forma di animali e pesci;

    I dolci fatti in casa, i quali non dovevano mai mancare sulle tavole dei salernitani, erano invece questi:

    Le Zeppole (‘e zeppl’ ‘i Natal): deliziose frittelle di forma ovale con buco al centro passate nello zucchero appena tolte dall’olio. Decorate spesso con riavulilli (diavoletti, confettini colorati) e frutta candita. Una credenza popolare voleva che, in caso in cui durante la cottura, qualche zeppola scoppiasse, ciò avrebbe significato che si era sotto l’influsso del malocchio. Al fine di neutralizzarlo si effettuava un rituale che prevedeva lo sputare nel fuoco ed il pronunciare lo scongiuro "Puzzat jttà ‘u sang!";

    I Calzoncelli (‘i cazunciell’): anche questi fritti e ripieni di cacao o di castagne e frutta candita con una spolverata di riavulilli;

    Gli Struffoli (‘i Struffl’): il termine di chiara origine longobarda deriva dalla radice medio-alto tedesca STROUPF da cui il verbo STROUFEN: Strufonare, strofinare. Infatti la pasta che forma gli struffoli va strofinata al fine di far prendere al dolce la caratteristica forma. L’impasto è composto da farina, uova, zucchero, burro, limoncello, sale e olio; vengono poi fritti e ricoperti di miele, riavulilli, scorze d’arancia e cedro candite, limoncello.

    La Vendita del Pesce (i pisciaiuoli)

    Anticamente la via Porta di Mare era il punto

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